L’INVERNO DEL GRAN SASSO
DAI RUGGENTI ANNI '80 AD OGGI
Testo di Massimo Marcheggiani – Le foto, se non diversamente indicato, sono di Massimo Marcheggiani
Ottimizzazione e grafica Alberto Rampini
La “Via da seguire”… Certo non esiste la via giusta, ogni scalatore sceglie la modalità a propria misura, sacrosanta e rispettabilissima a prescindere da gradi o difficoltà; la componente ludica delle scalate invernali, assolutamente soggettiva, non ha confini, rasentando a volte una quasi perversa forma di masochismo quando la fatica, il freddo, il disagio e lo stesso alto rischio vengono coscientemente accettati. Il piacere di quanto realizzato generalmente è successivo a quanto vissuto su una parete, quasi mai durante, estate o inverno che sia. Le invernali in Appennino Centrale e nello specifico nel gruppo del Gran Sasso sono state numerosissime, e anche qui come per le Alpi l’evoluzione ha avuto bisogno dei suoi tempi con un ovvio e scontato ritardo; a tempo debito le “vie seguite” hanno portato diversi alpinisti “Appenninici” al confronto con grandi scalate e, posso dirlo con cognizione di causa, a eccellenti risultati in molte parti del mondo.
La Prima Parte di questa storia dell’Alpinismo invernale sul Gran Sasso è stata pubblicata su questo sito nel febbraio 2024. Leggila qui.
Bini abbandona praticamente le scalate invernali e nel giro di poco tempo anche l’alpinismo, mentre i suoi compagni di allora M. Marcheggiani e G. Picone cinque giorni dopo la via Rosy sono ancora in montagna e salgono insieme a Fabio Delisi la via “Mario-Di Filippo” sulla Ovest della Prima Spalla trovando la parete tutt'altro che in condizione. Ancora nello stesso mese Marcheggiani e Picone salgono di nuovo il Monolito lungo la via “Aquilotti 73”: stesse caratteristiche della via Rosy, ossia verticalità assoluta della roccia e praticamente assenza di neve (tutte le salite erano sempre effettuate con scarponi rigidi. N.D. A.). Durante la salita i due videro una persona scendere dalla vetta Orientale e quando furono a portata di voce si salutarono urlando: “... Ciaooo, chi sei?” urlò Marcheggiani, “Gian Piero Di Federicooo” fu la lontana risposta. “...ciao Giampiè, e da dove vieni?” chiese il primo, “...dal terzo Pilastro del Paretone... da solo!”. Era una giornata di sole bella ma freddissima e con vento tagliente. I due sul Monolito erano partiti per provare a scalare il secondo dei pilastri sul Paretone ma il freddo glaciale li aveva spaventati e dirottati sulla assolata via degli Aquilotti; alla risposta di Gianpiero, Marcheggiani ebbe una vera e propria crisi: con tre prime invernali in poco più di un mese era convinto di aver fatto chissà quale impresa; la comparsa dell'alpinista chietino di ritorno dal terzo Pilastro gli spalancò gli occhi: “ … c...o, ecco dove si fa il grande alpinismo... altro che Corno Piccolo!” Il Paretone d'inverno era stato salito soltanto lungo la facile via Jannetta per due volte quasi 20 anni prima, dopo di che più nulla. Il vero problema ora erano i Pilastri o quanto meno le grandi pareti! Qualcuno nella SUCAI romana ogni tanto ipotizzava una prima salita, e nelle dissertazioni si scriveva pure di bivacchi e mezzi assedi... Di Federico, praticamente in silenzio e senza clamori, dopo un precedente tentativo con l'aquilano Roberto Mancini ed un secondo tentativo da solo naufragato ancora prima di attaccare, il 26 febbraio è di nuovo da solo alla base del Terzo Pilastro. Era ormai assodato che per raggiungere i pilastri era molto più logico scendere il canale Jannetta anziché salirlo da Casale San Nicola principalmente per logistica di rientro.
Di Federico a notte fonda affronta quindi la lunghissima salita da Prati di Tivo, all'alba tocca la vetta dell'anticima e sa già da dove scendere lungo lo Jannetta. Sono le 9 passate quando attacca la via di Alessandri al terzo Pilastro, inizialmente con i ramponi ai piedi e quando il pilastro si verticalizza li toglie scalando con gli scarponi. Scala in auto sicura e sale, poi riscende e risale smontando quanto infisso in parete; la scalata invernale in solitaria somiglia tanto alla “lotta con l'alpe” di Motti, un ingaggio faticoso nella più completa e fredda solitudine. Un comodo terrazzino accoglie il suo primo bivacco dopo quasi sette ore di scalata. Il 27 riprende a salire costantemente all'ombra; la parete è esposta ad est ma la via di salita è sul fianco destro del pilastro e quindi quasi niente sole. Supera fessure, un tetto giallo, altre fessure con e senza ghiaccio e le ore passano e fa di nuovo buio. Un secondo freddissimo bivacco è accompagnato da un forte vento. Il terzo giorno, 28 febbraio, Giampiero risale le corde fisse montate il giorno prima producendo calore per il corpo intorpidito dal gelo notturno, supera un pendio di neve, poi supera un lungo diedro camino poco sotto la vetta. L'attenzione qui aumenta ancora di più perché l'uscita dal terzo e il vicino quarto pilastro presenta roccia molto friabile ma poi, scrive: “…esco finalmente al sole! Abbandono il materiale, sono stanco e scendo rapidamente sui facili pendii. In alto sul Monolito sento richiami... sono Massimo e Gianpaolo che mi salutano...” op. cit. Si era voltata pagina, la frontiera delle invernali era stata grandemente superata dall'impresa, perché di questo si parlò, di Giampiero Di Federico.
Bruno Tribioli, dopo quattro anni dalla tragedia in cui perse la vita suo fratello Stefano, compie la prima solitaria della lunga Haas-Acitelli sulla vetta Orientale dedicando appunto al fratello Stefano la sua bella ascensione; è l'11 febbraio del 1981. Nei pochi giorni rimasti dell'inverno vengono compiute ben altre sei “prime”: il 15 Picone e Re salgono la Manuela al Monolito, stesso giorno per D. Amore e L. Gambini sulla via “Mario-Di Filippo” alla Seconda Spalla; due giorni dopo i fratelli Caruso sulla “Iskra” e M. Cotichelli e B. Anselmi sulla “via della Virgola” tutte al Corno Piccolo. Compare sulla scena Tiziano Cantalamessa, di cui si parlerà molto in seguito, che con P. Mazzanti sale la “Marsili-Gizzoni” al Pizzo Intermesoli e di nuovo D. Amore e M. Forcatura salgono i 300 metri della “Alessandri-Leone” alla Est della vetta Occidentale con due bivacchi. Come si evince dalle ultime cronache, la pratica invernale è ricca di iniziative. Numericamente sono molti di più gli scalatori che affrontano la grande montagna d'inverno e come vedremo in seguito ci sarà un proliferare di scalate fin quasi al termine del millennio. Poi lentamente una curiosa penuria di salite invernali che sarebbe bello saper analizzare.
Torniamo ai “ruggenti” anni 80!
La fine del dicembre '81 un primo tentativo di salire l’ancora inviolata Parete Est dell'Anticima Nord della Vetta Orientale (il lato destro del Paretone) vede protagonisti F. Delisi, M. Marcheggiani e S. Gozzano. I tre alpinisti raggiunta la base della Cresta Nord si legano. Arrampicano fino a raggiungere la Cengia dei Fiori e da qui “entrano” nella parete. Il ghiaccio ottimo e un paio di corde doppie facilitano il complicato su e giù del lungo avvicinamento. Alle 17 del pomeriggio improvvisano uno scomodissimo bivacco quando la base della parete non è stata ancora raggiunta. Il tempo è sereno e senza un alito di vento. Inaspettatamente questo arriva, prima con raffiche intermittenti ma verso la metà della notte si scatena una tempesta via via sempre più impressionante. Il forte vento fa turbinare la neve che in breve ricopre i tre scalatori. All'alba è pressoché impossibile solo pensare di continuare la salita, il vento è fortissimo e la visibilità molto scarsa. La ovvia decisione di battere in ritirata è messa in grave difficoltà dalla violenza inaudita del vento. La cordata percorre a ritroso e con enormi complicazioni il percorso del giorno precedente: diverse ore dopo, una volta giunti a poche centinaia di metri dalla stazione superiore della vecchia seggiovia, la potenza del vento solleva da terra come un fuscello Marcheggiani, che nella fortunata caduta terminata contro un masso prima del precipizio, si ferisce gravemente il labbro superiore che viene quasi reciso dalla piccozza. Delisi tampona alla meno peggio la brutta ferita con la sua sciarpa, si legano di nuovo benchè il percorso non presenti difficolta alcuna e con grande attenzione raggiungono la stazione della seggiovia. La porta in ferro è chiusa da un robusto lucchetto, a martellate viene fatto saltare e trovano finalmente rifugio all’interno dove grazie ad una piccola stufa elettrica asciugano vestiti e sacco a pelo. Scendono il giorno successivo senza un alito di vento ed appare loro, come per magia, lo splendido spettro di Broken. In ospedale a L'Aquila verrà ricucito il labbro del ferito con 25 punti di sutura e la diagnosi di due costole incrinate. Dopo cinque giorni, la Vigilia di Natale '81, Marcheggiani torna a casa.
È il 30 gennaio 1982, quindi a 35 giorni dall'incidente, quando Delisi e Marcheggiani provano di nuovo a salire la medesima parete. Nell'occasione, cambiando strategia di avvicinamento, aprono una difficile via di ghiaccio di circa 400 metri dalla base della Anticima fino a raggiungere la parete rocciosa per provare a compierne poi la prima invernale. Bivaccano comodamente all'interno di una piccola grotta alla base della parte rocciosa. Alle prime luci iniziano la salita ma dopo soli due tiri di corda, molto difficili per via delle condizioni della parete, rinunciano. Una lunga corda doppia li riporta alla grotta del bivacco e da qui puntano verso l'alto risalendo il canale Sivitilli che al suo vertice si raccorda con la via Jannetta e da qui in vetta. Con la salita del canale Sivitilli è la terza volta che la grande parete viene salita d'inverno dal basso, con uno sviluppo di oltre 1400 metri.
Passano solo cinque giorni: M. Marcheggiani, questa volta insieme a P. Caruso, parte da Roma a mezzanotte con una piccola A 112. Sul passo delle Capannelle un testa coda per via del ghiaccio sulla strada mette già a rischio il progetto dei due. Alle quattro, frontali in testa, lasciano i Prati di Tivo con obiettivo la via “Aquilotti 79” al Quarto Pilastro. Al momento risulta essere salito solo il terzo dei pilastri e fa gola l’idea di mettere le mani sugli altri pilastri dopo la performance di Di Federico. È giorno fatto quando i due alpinisti giungono in vetta all'anticima dell’Orientale; con il sole che inonda di luce dorata l'intera parete cercano e trovano ancora labili tracce lasciate in salita dallo stesso Marcheggiani e Delisi pochi giorni prima e per questo senza difficoltà imboccano la discesa con la massima cautela in quanto slegati. Le poche cordate che hanno affrontato i pilastri d'estate hanno appurato la validità della scelta di raggiungerli dall'alto anziché dal basso, così aveva fatto Di Federico e così farà negli anni a seguire chiunque li andrà a scalare. D'inverno è lo stesso: è solo necessaria più attenzione perché il canale Jannetta in discesa è più difficile che in salita, soprattutto su misto o ghiaccio duro. I due alpinisti hanno con loro una sola corda da 50 metri, chiodi e nuts e per scelta niente sacco a pelo. Un azzardo, considerato il pensiero comune dei quasi scontati bivacchi nelle salite invernali. Marcheggiani conosce la via avendone fatta la prima solitaria due anni prima e senza indugio trovano l'attacco. La salita si svolge come una normale salita, mettono i ramponi quando necessario e a comando alternato superano diedri, camini e pareti e i quattrocentocinquanta metri del quarto Pilastro. Con le ultime luci raggiungono la vetta. Al di là di una lecita apprensione qualora avessero dovuto affrontare un bivacco senza protezioni, la cordata dimostrò la validità della scelta. La velocità di esecuzione fu la chiave di volta e la prima invernale del quarto Pilastro in giornata fece il dovuto scalpore. Alla mezzanotte dello stesso giorno i due veloci alpinisti si infilarono di nuovo nei loro caldi letti delle rispettive case ma non si erano accorti però che non erano proprio soli quel giorno sul paretone; infatti, Andrea Gulli salì in solitaria il canale Jannetta, mentre altri due alpinisti, tra cui il finanziere Benvenuto Laritti, si aggiravano alla base dell’anticima per tentarne la salita, tentativo che naufragò nel giro di poche ore. Mentre i due del quarto Pilastro si infilavano nei loro letti, Tiziano Cantalamessa usciva dal suo di letto. Cantalamessa, tre anni prima, aveva lasciato il suo lavoro da metalmeccanico ed aveva intrapreso un’attività di allevatore con 24 mucche da latte. Queste vanno munte due volte al giorno, ogni santo giorno. Tiziano sbriga quindi prima la sua incombenza liberando le mammelle delle sue amate mucche dal latte, dopodiché preso un caffè sale sulla sua Panda e arriva ai Prati di Tivo che è quasi giorno. Trova tracce di salita e ne è ovviamente contento. Le tracce lo accompagnano fino all'imbocco del canale Jannetta, sono tracce recentissime e si chiede di chi possano essere. Queste terminano alla base del quarto Pilastro, che è il suo obiettivo. Guarda in alto, cerca di sentire qualche voce ma nulla; c'è lui e solo lui in quel grandioso ambiente. Inizia la sua scalata solitaria con la totale attenzione dovuta, ha una moglie e un bambino appena nato e lui non è tipo da fare scemenze: sa esattamente cosa sta facendo. Ha una corda nello zaino e li rimane. Cantalamessa mette sul tavolo tutta la sua classe e supera in meno di tre ore l'intera parete. In vetta fuma una delle sue tante sigarette e con la massima calma torna a casa, in anticipo sulla mungitura serale.
Quello che era successo nel giro di poco più di due anni sulla parete più ostica del Gran Sasso diede il via ad una nuova energia agli alpinisti del centro Italia. Anche in Appennino quindi e con le dovute cautele, ci si può confrontare con il “grande alpinismo”, prerogativa fino allora riservaata alle Alpi. Questo non significa che si vedrà la ressa sulle vie del Paretone, tutt'altro. Come vedremo in seguito i protagonisti di altre grandi scalate invernali saranno praticamente gli stessi nomi, mente le pareti del Corno Piccolo vedranno un incremento notevole di realizzazioni da parte di numerose cordate. La nota “negativa” sarà la quasi totale assenza della storica SUCAI romana. Non dimentichiamo che sta nascendo l'arrampicata sportiva e che tanti scalatori abbandonano la montagna proiettati verso le assolate falesie.
Poco prima del Natale 1982 Cantalamessa si ripete con la solitaria alla “via FIRST” sulla parete est del Corno Piccolo.
Su questa scia evolutiva, la cordata del quarto Pilastro nel gennaio del 1983 si rimette in gioco. Marcheggiani e Caruso, chieste le chiavi del rifugio Franchetti, vi passano la notte sotto una coltre di coperte. Con poco più di un’ora, spettatori di una magnifica alba sul mare, sono di nuovo all'imbocco del canale Jannetta. Lo scendono con i primi raggi del sole di una magnifica giornata con un chiaro e più ambizioso obiettivo: salire il secondo Pilastro in giornata. Questo, più corto del quarto e del terzo è però più lontano; per raggiungerlo i due devono superare, e prima di allora non era mai successo, la “Cengia obliqua” di oltre 150 metri. Questa si trova sopra gli strapiombi della “Farfalla” e il superamento prevede diversi tiri in arrampicata fino alla base del Pilastro. Va da sé che un’eventuale ritirata sarebbe stata piuttosto complicata visto il forte obliquo di questi tiri e il vuoto degli strapiombi sottostanti. I due alpinisti, anche questa volta senza nulla per un eventuale bivacco, scalano con la “sgradevole” sensazione di essersi chiusa una porta alle loro spalle, hanno l'abitudine di non dire a nessuno dove vanno e la percezione della loro potenziale vulnerabilità è forte, ma è forte anche la loro determinazione. Superano l'intero pilastro e la lunga, bellissima cresta terminale fino in vetta ai 2908 metri della Vetta Orientale in appena sette ore dal rifugio.
Questa era la logica prosecuzione di quell'alpinismo di ricerca già messo in pratica da Florio e Calibani nel '63, da Alessandri sulla Nord del Monte Camicia nel '74 e da Di Federico sul Terzo Pilastro solo tre anni prima. Il contorno a tutto ciò saranno le numerose invernali che verranno realizzate sul Pizzo Intermesoli e il Corno Piccolo. Infatti, B. Tribioli e A. Gulli salgono la “Via del Pulcino”, Cantalamessa e P. Mazzanti salgono la via “Amighetti”, P. Caruso e G. Bassanini la via “Simona” sulla est di Pizzo Intermesoli, mentre M. Baiocco e F. Colasi la via “Bachetti-Fanesi”, D. Amore e L. Grazini la via “De Filippo- Adamoli” al Corno Piccolo sono solo alcune delle salite portate a termine fino al dicembre 1983, mentre una parziale salita della Cresta Sud della Vetta Orientale vede protagonisti F. Delisi, G. Bassanini e M. Tacchi.
La vera natura alpinistica dell'ascolano Tiziano Cantalamessa esulava dalla “caccia” alla prima invernale. Il fatto che una qualsiasi salita già compiuta d'inverno venisse poi puntualmente ignorata era praticamente la norma, nessuno ripeteva cose già fatte in un meccanismo mentale quasi perverso, come a dire che compiere la seconda invernale non ha valore o addirittura è “più facile”! Ovviamente niente di più sbagliato, visto che un qualsiasi itinerario invernale non è assolutamente mai uguale al precedente. A differenza della stagione estiva l'inverno trasforma ogni volta in chiave diversa la montagna, che può essere più facile, più difficile o addirittura impossibile oppure più fredda o meno fredda. A conferma di quanto detto, Cantalamessa con G. Mazzanti negli ultimi giorni di marzo 1984, a 21 anni di distanza, affronta e supera con un bivacco i 1150 metri della già salita cresta nord della vetta Orientale compiendone appunto la seconda salita. Come già scritto, gli ascolani Florio e Calibani ne erano stati i primi salitori e nella bella e medioevale città non era un segreto l'antagonismo tra i vari alpinisti, e ripetere le gesta dei predecessori era quasi la norma. I conflitti che si erano creati all'interno del CAI cittadino avevano portato addirittura ad una scissione, ed alcuni soci, al seguito di Florio e Calibani, fondarono il GAP - Gruppo Alpinisti Piceni - che seguirà poi una strada culturale e alpinistica tutta propria.
Come si vedrà in seguito, Cantalamessa si ripeterà ancora con seconde salite invernali su grandi e difficili itinerari. Nello stesso '84 solo altre due salite di stampo classico si realizzano sul primo Scrimone del Corno Grande. Lo Scrimone è lo scosceso versante ovest della vetta massima che precipita ripidamente nella sottostante Valle Maone. Qui gli aquilani D. Alessandri e B. Romano e successivamente i marchigiani M. Cotichelli e B. Anselmi aprono due canali molto interessanti di ghiaccio e misto di circa 250 metri.
La curiosa cordata Marcheggiani-Caruso si riunisce ancora il 30 gennaio del 1985 con un ulteriore progetto che attende ormai soluzione: la ancora inviolata parete est dell'anticima Orientale. Cordata curiosa la loro dal momento che tra una invernale e l'altra i due forti scalatori non hanno abitudine di frequentarsi. Sicuramente non sono amici, ognuno scala per proprio conto, non hanno nulla in comune nella vita quotidiana e sono personalità diametralmente opposte. Perché abbiano dato vita ad una cordata senza dubbio efficiente ed intraprendente è quasi un mistero ma forse è lecito pensare ad un celato opportunismo per risolvere i problemi invernali. Pianificando la scalata che li aspetta si rendono conto che in giornata è pressoché impossibile. Marcheggiani sa quanto è complicato e quanto tempo richiede l'avvicinamento e portano quindi leggero materiale da bivacco: Caruso un sacco piuma, Marcheggiani un Douvet e un Pied d’Elephant.
Come la volta precedente passano la notte al rifugio Franchetti e di buon’ora giungono alla testata della via Jannetta. La novità è un avvicinamento dall'alto anziché dal basso. Mentre scendono il ripido pendio, il duro ghiaccio si colora prima d’argento e poi d'oro; il sole dell'Adriatico li illumina in pieno ed è un momento quasi sublime. Giunti alla base del terzo Pilastro deviano decisamente a sinistra e raggiungono lo sbocco del Canale Sivitilli. Superano brevi salti rocciosi e una corda doppia li deposita sul fondo. Ora è più facile scendere il pendio, ma giunti sotto la verticale della via che vogliono seguire la parete si impenna. Il ghiaccio perfetto permette loro di scalare oltre 150 metri slegati e li porta a fare sosta sotto un breve strapiombo. Lo superano con grosse difficoltà di misto, passaggi in artificiale e la progressione successiva risulta lentissima. L'idea iniziale di aprire una via nuova viene per forza accantonata e grazie all'aiuto di una foto in loro possesso scalano su terreno vergine continuamente in obliquo fino a raggiungere la via Mario-Alletto del 59. Intanto le poche ore diurne sono scivolate via e al tramonto raggiungono il nevaio pensile a metà parete. Qui il freddo bivacco e una luna immensa che sorge dal mare Adriatico sono gli unici elementi che li distraggono dal battito dei denti. Il bello di questa parete è all'alba, quando anche il sole esce dal mare e li inonda di luce e finalmente di un tiepido calore. La scalata continua con ritmo, mettendo e togliendo i ramponi, fino a che, verso le 14 del 31 gennaio, i due mettono fine alla lunga scalata e alla soluzione del grande problema in sospeso. La cordata in seguito non si legherà mai più insieme. Con questa salita ogni singola parete del Gran Sasso è stata salita d'inverno ma si apriranno, come vedremo più avanti, altri interessanti capitoli. Ancora una solitaria per Tiziano Cantalamessa quando il primo di febbraio sale la via “Bachetti- Fanesi” al Pizzo Intermesoli con il suo stile veloce e risolutivo. Per tutto l'inverno a seguire non si vedrà nessuna salita di stampo tecnico, mentre diversi canali verranno saliti sulle montagne minori come il Prena, L'Infornace, il Brancastello o il monte Aquila da parte di abruzzesi e marchigiani, tra cui i già noti Alessandri, Cotichelli o Anselmi.
Quattro giorni prima del Natale '85 Marcheggiani si trova di nuovo sotto il Paretone. È momentaneamente in compagnia del suo amico Roberto Landi che non scala ma lo accompagna fin sotto l'infinita cresta nord della Vetta Orientale. Salutato il suo amico che se ne torna a Frascati, Marcheggiani comincia la sua scalata. Sale inizialmente slegato i 250 metri iniziali di un angusto camino verticale, poi alterna tratti in autoassicurazione ad altri senza, con la corda penzoloni dall'imbrago e zaino in spalla. Una progressione relativamente veloce lo porta alla Cengia dei Fiori che taglia in due la lunga cresta. Da qui il terreno cambia, non più camini ma brevi pareti, risalti, goulottes e creste coperte di ottimo ghiaccio vengono superate con determinazione ma qualcosa si frappone tra la bella scalata e il suo prosieguo. Una forte e improvvisa febbre aggredisce l'alpinista di Frascati che si ritrova improvvisamente esausto (non è nuovo ad improvvise febbri molto alte) e si vede costretto al bivacco quando sarebbe potuto addirittura uscire in giornata visto il buon ritmo tenuto. Alle 14 si chiude nel sacco a pelo, non ha fornello e l'acqua è agli sgoccioli. In preda a violenti brividi e sudorazione fredda dorme un paio d'ore. Preoccupato quanto basta si scuote, lascia il bivacco pronto e scala il difficile muro che lo sovrasta. Lo supera, blocca la corda e quasi al buio torna al bivacco dove l'interminabile notte, dalle 17 fino alle 7 del mattino successivo passa con arsura e freddo. Al mattino la magia della febbre praticamente sparita lo rinfranca, si lega, riparte e benché provato, alle 13 arriva anche lui “...in vetta, finalmente al sole!”. La Cresta Nord è assolutamente all'ombra e il sole viene solo intravisto oltre la parete. Nella discesa, nel Vallone delle Cornacchie, incontra tre ascolani che stanno raggiungendo il bivacco Bafile. Sono P. Mazzanti, M. Ceci e G. Mozzoni che il giorno dopo, Vigilia di Natale, saliranno la via “Pinelli- Ramorino” sulla parete sud della Vetta Orientale. La loro sarà una bellissima realizzazione nello stile ascolano, alpinismo d'avventura con niente di scontato; la via salita è lontana e complicata da raggiungere con un isolamento tipico del Paretone dove cercare aiuto gridando è pressoché impossibile: come vediamo torna il discorso differenza Corno Piccolo/Corno Grande.
Nel mese di gennaio del 1986 sul Corno Piccolo troviamo due interessanti realizzazioni: due cordate romane viaggiano insieme dalla capitale per affrontare la fredda Parete Nord della seconda Spalla del Corno Piccolo. Il gruppetto, molto affiatato, si divide, come da programma, una volta raggiunta la parete: Donatello Amore e Paolo Camplani salgono infatti la lunga ed obliqua via “Antonio Benedetti”, mentre Luca Grazzini e Massimo Nardecchia salgono la verticale via “Amore-Gambini” tranquillamente in giornata. Ancora Grazzini e G. Bassanini il 19 marzo sul Pizzo Intermesoli salgono “Cosi è se vi pare” sul terzo Pilastro mentre il giorno dopo, e siamo di nuovo sul Corno Piccolo, Roberto Rosica e Pio Pompi salgono la difficile “Stefano Tribioli” a ovest della Prima Spalla. Le invernali, probabilmente smitizzate dalle precedenti salite sul Paretone, vengono sempre più sdoganate, si nota una maggiore frequentazione e cordate da mezza Italia si approcciano alle variegate montagne del Gran Sasso. Si hanno salite di ricerca sul Monte Corvo, sul Mozzone, sul Pizzo di Camarda oltre la grande costiera sud del Sentiero del Centenario che a sua volta verrà traversato nei suoi dieci chilometri di sviluppo da L. Di Carmine e G. Perini il 21 dicembre '86 da ovest a est mentre a marzo '87 M. Marcheggiani e Silvia Marone ne faranno la traversata est-ovest con due bivacchi in uno scenario a dir poco patagonico. Una settimana dopo la traversata, Marcheggiani, Silvia Marone e Lorenzo Brunelli tentano di nuovo la Cresta nord della Vetta Orientale ma dopo 200/300 metri di scalata rinunciano per un’improvvisa nevicata.
Sul Primo Scrimone i marchigiani B. Anselmi, M. Cotichelli e V. Rossetti il mese di aprile apriranno gli interessanti canalini di ghiaccio e misto “Top Gun” e successivamente “Il cane e il gatto”, arricchendo questo sconosciuto e molto poco frequentato risalto roccioso della Vetta Occidentale.
Torna alla grande sulle scene Tiziano Cantalamessa: a distanza di tredici anni dalla drammatica ascensione invernale del Monte Camicia del '74 dove P.G. De Paulis perse la vita e “Mimì” Alessandri fu costretto ad uscire in solitaria dalla cupa parete, il forte ascolano si decide a cancellare l'alone di “parete maledetta” che accompagna la Nord del Camicia. È il 22 dicembre quando Tiziano con F. Franceschi si ritrova sul Fondo della Salsa. Con assoluta decisione la cordata, con Cantalamessa costantemente in testa, comincia a macinare metri su metri della brutta e friabile parete. C'è poca neve soprattutto sulle sezioni più ripide e la scalata avviene con gli scarponi rigidi ai piedi, il ché complica ulteriormente la precaria arrampicata. Difficilissimo piantare chiodi che facciano stare tranquilli i due e per questo la loro attenzione è all'ennesima potenza. In una foto si vede Cantalamessa su un traverso con la corda libera per oltre 20 metri; soltanto il suo sangue freddo e la grande classe potevano tenere a bada una situazione così delicata e pericolosa. Proseguono con ritmo, respirano tranquillità quando raggiungono il primo e poi il secondo nevaio dove la progressione è indubbiamente più facile e garantita. Ma i nevai hanno poi termine e la brutta roccia torna ad acuire l'attenzione della cordata. Raggiungono il “Corridoio erboso”, tipica sezione della parete oltre la quale si entra nei canali soprastanti, e sistemano il loro stretto bivacco. Una ottima meteo permette di passare una tranquilla notte anche se fredda; al secondo giorno di ascensione, una volta entrati nei canali superiori, sentono di avere in pugno la intera parete. In vetta trovano un commosso Mimì Alessandri che li abbraccia calorosamente, ringraziandoli per aver finalmente cancellato l'alone di morte che aleggiava su questa grande parete di 1200 metri. Come vedremo in seguito, Tiziano Cantalamessa sarà l'indiscusso protagonista delle grandi scalate invernali. Sul Pizzo Intermesoli la via “Warm's Wall” viene salita da L. Grazzini, R. Vallesi e G. Fornari e ancora Grazzini, a distanza di pochi giorni, si ripete con un compagno sulla Nord del Corno Piccolo sulla via “Kon Tiki”.
Due alpinisti di Castelli, il piccolo e rinomato borgo ai piedi del Monte Camicia famosissimo per le sue ceramiche, affrontano il fianco ovest della montagna che sovrasta il loro paese: due giorni prima del Capodanno '88 D. Di Giosafatte e G. Benedetti trovano una combinazione di pendii e canali e riescono nella lunga salita, che avrà in seguito interesse esclusivamente invernale. Ad oggi non risulta che sia mai stata ripetuta al di là di un tentativo da parte dell'abruzzese di Sulmona Giancarlo Guzzardi con un suo amico. È lo stesso giorno dei castellani che Cantalamessa torna alla carica. In barba al fatto che la difficile Parete Est dell'anticima della vetta Orientale è già stata salita da Marcheggiani e Caruso due anni prima, insieme a F. Franceschi ne compie la seconda ascensione invernale: anche a loro è necessario un bivacco. Confermeranno in seguito la grande difficoltà della salita che, come già detto, comporta un difficile avvicinamento ed un isolamento assoluto oltre ad una conformazione molto diversa dai vicini quattro Pilastri. Questa parete, tendenzialmente concava, raccoglie molta più neve che altre ed ha inoltre una più difficile “lettura” delle vie da seguire e vi si trova una quantità di misto molto superiore ai vicini Pilastri.
Nei primi tre mesi dell'anno 1988 T. Cantalamessa e M. Marcheggiani tentano ripetutamente di salire la lunghissima “via Martina” sul fianco sinistro del Paretone. Non meno di quattro tentativi, attaccando la parete dal basso, naufragano sempre per il repentino cambiamento del tempo. Durante il quarto tentativo Marcheggiani per via di una caduta si distorce il ginocchio destro; impossibilitato a tornare con le sue gambe resta solo mentre Cantalamessa impiega ore per raggiungere Prati di Tivo per allertare il Soccorso Alpino. Torna con loro a notte fonda (elicotteri e cellulari zero) e all'alba Marcheggiani raggiunge finalmente l'ospedale di Teramo.
L'anno nuovo porta finalmente una prima presenza femminile nelle “maschie” salite invernali. Sulla fredda Parete Nord del Corno Piccolo Germana Maiolatesi e L. Grazzini salgono la via “Mairel”. Germana, romana di adozione ma umbra di nascita, troverà la sua giusta collocazione nel mondo ancora troppo maschile compiendo grandi ascensioni sull'intera catena alpina. Una salita per tutte, il Pilone Centrale del Freney a comando alternato, sancirà la figura di Germana tra le più forti in assoluto nell'intera Italia Centrale. Firmerà inoltre da capocordata l'apertura di numerose nuove vie di alta difficoltà. Persona tecnicamente ineccepibile, troverà anche nello sci estremo molte soddisfazioni scendendo da sola o in compagnia canali mai scesi prima. L'anno successivo si distinguerà di nuovo quando, a comando alternato, compirà la prima invernale della via “Le nebbie del Paretone” con un bivacco, insieme a L. Grazzini e P. Abbate. Questa via, della quale Germana aveva compiuta la prima solitaria, pur essendo la più facile (al massimo V° grado nell'ultimo tiro) dell'intera Anticima dell'Orientale, è, come le altre, molto difficile da raggiungere ed una volta usciti dalla via il ritorno passa necessariamente lungo la salita del terzo superiore della cresta nord. Si ha quindi uno sviluppo di 700 metri tutti su terreno misto. Sulla prima Spalla, intanto, Marco Marciano sale in solitaria e prima invernale lo Spigolo delle Guide, una via di quasi 300 metri, difficile e tutta in ombra.
Nei giorni a cavallo tra il Natale '88 e il Capodanno successivo succede quello che quasi nessuno avrebbe mai ipotizzato, e l'attore protagonista è ancora e soltanto Tiziano Cantalamessa. Insieme a Franceschi, Tiziano raggiunge il rifugio Franchetti di cui ha la disponibilità per passarvi la notte. Alle due di notte partono per la loro “Avventura”: salire tutti e quattro i pilastri, concatenandoli in una straordinaria prima assoluta invernale. È l'alba quando raggiungono la base del terzo Pilastro, già salito 8 anni prima da Di Federico. Tiziano, (a volte un po’ distratto) perde quasi subito una delle due scarpette da arrampicata. Forse, chissà, chiunque rinuncerebbe alla salita ma Tiziano Cantalamessa non è affatto chiunque: un piede in uno scarpone, l'altro nella rimanente scarpa da roccia e nel giro di sei ore, grazie anche alla poca neve in parete, raggiungono la vetta del Pilastro. Nello zaino hanno materiale da bivacco, si spostano quindi alla sommità del secondo Pilastro e qui bivaccano. Alle prime luci scendono in corda doppia lungo il Pilastro sottostante già salito da Marcheggiani e Caruso 5 anni prima, raggiungono la Cengia Obliqua e da qui salgono in prima invernale il primo dei Pilastri che è il più corto e più facile dei quattro. Con gli ancoraggi già precedentemente attrezzati scendono di nuovo fin sulla cengia e poco prima del tramonto ne raggiungono la vetta con Tiziano che scala costantemente con uno scarpone ed una scarpetta. Il freddo della notte precedente li aveva “morsi” a sufficienza, e con uno strappo all'etica decidono di raggiungere il rifugio dove passano una notte tranquilla. Una cena calda e una notte di assoluto riposo rimettono in sesto i due ascolani che all'alba sono di nuovo in marcia sulle tracce già marcate. Raggiunta la base del quarto Pilastro in cinque ore ne escono in vetta compiendone la terza salita invernale. Una performance formidabile quella dei due ascolani, dove determinazione e idee assolutamente all'avanguardia (in Centro Italia) hanno dimostrato la validità dell'alpinismo nostrano compiendo un “poker” di grande prestigio. Va da sé che la storia dell'alpinismo invernale al Gran Sasso ha due filoni paralleli. Come scritto in precedenza, qualsiasi salita al Corno Piccolo o sul Pizzo Intermesoli non può tenere il confronto con Il Paretone del Corno Grande. Il rispetto assoluto per qualsiasi forma di alpinismo è ovvio e scontato, ma in una fase di confronto il divario è certamente sotto gli occhi di tutti.
Nei primi 15 giorni del gennaio 1989 ben otto prime invernali vengono compiute tra Corno Piccolo, Torrione Cambi e la Vetta Occidentale: al Corno Piccolo Gino Di Sabatino sale da solo la via della Gola, lo stesso Di Sabatino con Grazzini sale la “ via del Bombardamento” alla Parete Nord, G. Cicconi e A. Gulli salgono “la notte delle streghe” a ovest della Seconda Spalla, R. Vallesi e M. Marciano la “ via delle due generazioni” a nord sempre della stessa spalla; sulla Parete Sud del Torrione Cambi la “ via Asterix” è salita da Luca Bucciarelli 2° (l' omonimo Luca Bucciarelli è la Guida Alpina) e Sandra Bonifazi mentre sulla parete est della Vetta Occidentale ancora Cicconi e Gulli salgono la via “Morandi-Pivetta” e D. Amore e M. Cotogno salgono la via “Graziosi-Alessandri”.
Una parentesi diversa è la salita della “via Martina” sull'estrema sinistra del Paretone. Il 16 e il 17 gennaio T. Cantalamessa e M. Marcheggiani, al loro quinto tentativo, questa volta insieme a Franceschi, finalmente vengono a capo dei 1600 metri di sviluppo della via. Questa sale dalla base lungo ripidi e labirintici pendii di ghiaccio, affronta poi grandi placconate di solida roccia scura sfiorando l'ala sinistra della Farfalla “...con il sedere sempre sospeso in aria per via del grande vuoto creato dagli strapiombi della Farfalla che con le sue ali dorate tiene sospesi tra cielo e terra il primo e il secondo pilastro...” (M. Marcheggiani: Gita al Paretone, Bollettino CAI L'Aquila ottobre 1989). Un successivo lungo traverso di 6° superiore porta ad una serie di fessure dove gli alpinisti nel tardo pomeriggio devono bivaccare. Di nuovo la distrazione di Cantalamessa fa cadere nel baratro sottostante il suo sacco piuma. La temperatura è bassissima; Cantalamessa prova a resistere con le gambe nello zaino e una leggera giacca in piumino ma dopo un paio d'ore il freddo è insopportabile e deve infilarsi alla meno peggio nel sacco piuma di Marcheggiani. Restano scoperti nella parte superiore del corpo, ma lo stretto contatto risolve in parte la situazione. (Furono percepiti 15 gradi sottozero quella notte a Prati di Tivo). Fa giorno, e il sole che spunta dal mare Adriatico scalda quanto basta la cordata dei tre alpinisti che riprendono la infinita salita e nel primo pomeriggio escono finalmente in vetta. La via Martina è probabilmente la salita con il maggior sviluppo dell'intera montagna, sfiorando i 1600 metri.
La straordinaria stabilità meteorologica di quel periodo è un richiamo troppo forte per quanti amano confrontarsi con la montagna invernale: infatti nei rimanenti giorni di gennaio e il mese successivo altre nove prime invernali vengono messe a segno, in una quasi spasmodica ricerca di “ritrovarsi” nella storia delle prime invernali. Tra le più importanti salite ricordiamo la “via del Trapezio” la “ben Hur” e la “Di Federico-De Luca” sulla est del Corno Piccolo; la via “ Bachetti- Calibani” e la via “Che Guevara” a nord del Corno Piccolo. Come sempre però si distingue Cantalamessa, che con M. Marziale e P. Sabbatini sale l'altra sua lunga via a sinistra della Farfalla: la via “Cantalamessa-Tosti” è un articolato dedalo di canalini, camini e fessure non particolarmente difficili d'estate con un andamento a volte discontinuo, ma d'inverno come ben sappiamo è un’altra storia. Chiude l'anno '89 Fabio Lattavo che con la sua compagna Luana Villani sale la difficile “Aficionados” sulla Parete Ovest della Prima Spalla.
L'anno che segue gli alpinisti lasciano a riposo il Paretone poiché non si registra nessuna salita né alcun tentativo. Invece si ha quasi una bagarre sulle pareti minori: sul Corno Piccolo viene salita la Aquilotti 74 da parte di E. De Luca e P. Sabbatini, al Torrione Cambi “Les freak sont Chic” viene salita da B. Vitale, G. Palazzini e R. Amigoni. Sul Pizzo Intermesoli la difficilissima via “Forza 17” viene superata brillantemente da A. Massini e L. Grazzini mentre lo stesso giorno R. Vallesi e M. Sprecacenere salgono “Le nubi di Magellano” ambedue sul secondo Pilastro. La Aquilotti 85 al C. Piccolo viene salita ancora da Vallesi e Sprecacenere. I marchigiani Anselmi, Lampa e Rossetti prendono d'assalto il Monte Corvo salendo la bellezza di quattro itinerari nuovi su canali e goulottes e gli stessi Anselmi e Lampa addirittura sei vie nuove tra la Cima delle Malecoste e il Pizzo di Camarda. Tutti itinerari dalle stesse caratteristiche: pendii, canali o brevi goulottes, ma va dato atto che la loro ricerca spazia su quelle montagne spesso, e a torto, ignorate.
Si chiudono gli Anni ‘80 e con essi una delle stagioni più prolifiche di scalate invernali, tra cui alcune tra le più importanti in assoluto. Complici alcuni inverni avari di neve, gli “invernalisti” hanno giustamente approfittato della situazione e, per esempio nel periodo tra i primi di gennaio e fine marzo 1989, ben 17 vie di roccia sono state salite. Gran parte di queste realizzazioni sono di alpinisti romani, visto che sono senza dubbio più numerosi, poi marchigiani e abruzzesi a seguire hanno dato il loro importante contributo.
Al tramonto sono a due terzi della parete, bivaccano comodamente in una nicchia dove Marcheggiani aveva passato la notte di febbre. È alle 7 e 30 del giorno successivo che riprende la scalata, superando inizialmente quello che è il tratto più verticale dell'intera salita. Sono le tredici quando sbucano al sole, intersecando la rampa della “via ferrata Ricci” che mette fine alla scalata. Poco prima del buio approdano a Prati di Tivo felici dell'apertura della più bella e moderna salita su ghiaccio dell'intera montagna che chiamano “Ice very nice”. Soltanto anni dopo scopriranno che la loro via era già stata salita d'estate ma mai ripetuta. Oggi essa mantiene il nome invernale.
Il primo aprile al Picco dei Caprai i marchigiani Anselmi e Cotichelli aprono la loro ennesima via esplorativa su pareti secondarie ma senza dubbio importanti.
Come la storia fin qui riportata dimostra, in quegli anni era sempre lo stesso manipolo di scalatori che si cimentava con la più grande parete appenninica dove a tutti gli effetti si praticava e si pratica un alpinismo di prim'ordine. Evidentemente il “banco di prova” del Paretone per chi ci si cimenta fu il viatico per imprese più importanti. Non è quindi un caso che gli stessi pochi nomi siano gli autori di importanti realizzazioni extraeuropee soprattutto negli anni '80 e 90: G. Di Federico sale l'inviolato Shia Shis di 7000 metri e successivamente apre una via nuova in solitaria sull'Hidden Peak in Karacorum. I trentini E. Salvaterra, M. Giarolli e A. Sarchi a cui si aggrega P. Caruso salgono in prima invernale il Cerro Torre in Patagonia. Sempre in Patagonia M. Marcheggiani e T. Cantalamessa salgono il Fitz Roy lungo la via “Franco-Argentina” in 26 ore non stop dopo un precedente tentativo sul Pilastro Casarotto e l'anno successivo sempre insieme salgono nell’Himalaya del Garwal l'inviolato Baghirati Karak di 6702 metri in sei giorni di dura scalata. Sono ancora insieme in un tentativo sulla via di Casarotto alla parete nord dell’Huascaran nelle Ande peruviane mentre l’anno successivo tentano la “via Polacca” sulla parete Rupal del Nanga Parbat. Cantalamessa in seguito scalerà la Torre Nord del Paine nella Patagonia cilena e il Monte Kenia per lavoro come Guida Alpina mentre Marcheggiani si dedicherà a numerose spedizioni nell'Himalaya indiano dove negli anni a seguire salirà sette difficili vette inviolate. Bisogna notare che il testimone lasciato dai vari Consiglio, Alletto, Cravino, Jovane e altri della SUCAI anni 50/60, a Roma non viene praticamente raccolto. Ad eccezione di Luca Grazzini, Donatello Amore e forse un altro paio di nomi, nessuno della odierna generazione si distinguerà per un alpinismo di avventura e ricerca.
Torniamo alla nostra montagna.
La penuria di salite del ‘91 viene presto colmata da un 1992 ricco di scalate invernali. Inizia l'anno con una delle salite più importanti e temute: il solito Cantalamessa con Franceschi realizza quella che in seguito dichiarerà essere stata la sua scalata più importante e difficile affrontata fino ad allora. È il 17 gennaio quando Cantalamessa e Franceschi, dopo aver sceso il solito canale Jannetta, attaccano il “Diedro di Mefisto”. Questo, incassato nell'antro che divide il quarto dal terzo Pilastro, non prende mai un raggio di sole. La prima metà è la più difficile con fessure e placche verticali ma di roccia molto buona. Il precedente tentativo era naufragato per via di una frana estiva che aveva depositato terriccio e polvere sulla parete; ora tra piogge estive e nevicate la parete è tornata intonsa. La cordata deve affrontare due bivacchi data la grande difficoltà d'insieme. La scalata si fa più insicura quando la cordata affronta gli ultimi cento metri di rocce molto friabili e poco proteggibili ma la classe di Cantalamessa ne viene a capo e il 19 gennaio i due escono felici in vetta. Dal punto di vista tecnico, molto probabilmente questa è stata la più grande scalata invernale dell'intero massiccio montuoso.
Lo stesso giorno che Cantalamessa e Franceschi escono in vetta, sulla opposta parete ovest della Vetta Orientale Romolo Vallesi e Luca Grazzini salgono i 300 metri della “via dell'Incontro” mentre P. De Laurentis e S. Momigliano superano “Incontro con Camelia” sulla assolata parete ovest della Prima Spalla. Questa via di 180 metri su roccia magnifica supera tratti di settimo grado protetti a spit e data la sua verticalità fu trovata praticamente senza neve in parete, come del resto su quasi tutte le strutture così verticali. Il Picco dei Caprai viene salito di nuovo su un’altra via nuova dai soliti Anselmi, Cotichelli con L. Genovese. Sulla verticale parete est del Corno Piccolo R. Vallesi e M. Sprecacenere salgono la “via del cinquantenario” superando diversi strapiombi in arrampicata mista libera e artificiale. Il torrione Cambi vede in azione P. De Fabis e Luciano Mastracci di cui parleremo molto più avanti. La cordata supera sulla Parete Sud la via “Musica nova” che presenta alcuni passaggi di ottavo grado su placca, protetti da spit messi dal basso. Gli infaticabili Cotichelli e Anselmi continuano la loro ricerca di canali e canalini al monte Corvo e montagne minori. T. Cantalamessa scopre e sale altre due cascate alla base del M. Camicia: la cascata “Valentina” e successivamente l'imponente “Bye Bye Canada”. Anche se non si può parlare di alpinismo classico, tuttavia ci somiglia molto
Il 1993 ha dell'incredibile! Vengono compiute 31 salite invernali. Riportiamo le più interessanti, tralasciando la salita di cascate fuori del Gran Sasso e pareti o itinerari non particolarmente significativi per non tediare con un mero elenco i lettori. Luciano Mastracci inizia il suo percorso di grandi ripetizioni invernali salendo il 16 gennaio “Arrivederci ragazzi” sulla Ovest della Terza Spalla insieme a P. De Fabiis e M. Marziale.
Si rimette in gioco il 23 dello stesso mese, ancora con Marziale, salendo la difficile “Narciso e Placcadoro” alla Seconda Spalla; parliamo ancora di vie tecnicamente molto difficili ma che poco differiscono dalle condizioni estive. Mastracci e Marziale come vedremo si proietteranno in seguito anche su itinerari ben più impegnativi. P. De Fabiis sale “Demetrio Stratos” sulla Parete Est della Vetta Occidentale insieme a G. De Rossi, C. Arbore sale in prima solitaria invernale la “Iskra”. Ancora il mese di gennaio vede L. Grazzini e P. Camplani impegnati sulla bellissima e difficile “Thorin scudo di quercia” alla Parete Sud del T. Cambi. È evidente che ci troviamo in un lungo periodo di alta pressione e quindi scarse precipitazioni nevose, visto l'arrembaggio di molte cordate sulla grande montagna appenninica. L'alpinismo invernale non sarà mai una moda, ma il '93 come vediamo è davvero un anno ricco di scalate. C. Arbore e A. Campanella trovano una bella linea di misto sulla parte alta della Cresta Nord della Vetta Orientale. La via, chiamata “Nunca mas”, svicola astutamente tra risalti rocciosi, pendii, belle goulottes e raggiunge la testata della cresta. È il giorno 31 dell’“estivo” mese di gennaio. L'alta pressione in corso non lascia spazio a perturbazioni, le giornate serene e assolate si susseguono giorno dopo giorno e infatti anche il mese di febbraio vede numerose ascensioni. P. De Laurentis, A. De Crescenzo e P. Sabbatini salgono le difficili placche de “L'olandese volante”. Di nuovo Mastracci e Marziale in grande forma affrontano e superano la strapiombante “Cavalcare la tigre” sulla Est del Corno Piccolo. Nonostante le condizioni quasi estive, la innegabile grande difficoltà della via trasforma la scalata in una bella e valida performance del duo Mastracci-Marziale. Infaticabili come sono, sette giorni dopo salgono la più abbordabile, più corta ma sempre difficile “Farabundo Marti” sulla Parete Sud del Torrione Cambi. Pochissimi giorni dopo la prima invernale, “Cavalcare la tigre” viene salita di nuovo da Roberto Ciato con P. Rocca in seconda invernale (cosa piuttosto rara).
Il Corno Piccolo è ovviamente il soggetto principale di numerose prime invernali: tra le tante si distingue la salita di De Fabiis e G. De Rossi che salgono “Odetamò”, via che svicola astutamente sulla grande placca monolitica della prima spalla tra le vie “Mario-De Filippo” e “Aficionados”. Protetta a spit distanti, presenta difficoltà di VII° grado. Si ripete l'ovvio cliché di questo genere di salite: piccozza e ramponi per l'avvicinamento, pedule da arrampicata su roccia e spesso discese sulla stessa via in corda doppia. D’altra parte, qualsiasi forma di alpinismo ha avuto nei decenni le sue evoluzioni: lo stampo dei decenni passati è prerogativa delle grandi salite dove il misto, l'ubicazione della parete e il suo sviluppo fanno la differenza e sempre meno ci saranno cordate sui grandi itinerari. Come si vedrà negli anni a seguire, le scalate invernali si diraderanno sempre più, fino a pochissime unità negli anni 2000.
Torniamo all'inverno del '93: sul Pizzo Intermesoli viene salita “Sindarin” da parte di M. Sprecacenere e E. Parisi. Gli “infaticabili” tornano di nuovo in azione: Mastracci e Marziale salgono “Senza orario, senza bandiera” sulla Parete Est della vetta Occidentale, mentre ben due cordate si rivolgono dopo anni di silenzio al Paretone: una, guarda caso, è composta da Mastracci e Marziale che dopo aver sceso il canale Jannetta, salgono il difficile quarto Pilastro superando la via “Mario-Caruso”. Questa via è in ambiente freddo, in totale assenza di sole e con un ostico camino-diedro che L. Mario superò con uso di strani chiodi e ganci artigianali. La determinazione e l'intraprendenza dei due romani è un'anomalia rispetto alla media, le loro scelte si rivolgono alle vie tra le più difficili di quegli anni senza badare troppo alle comodità di accesso o di eventuali ritirate. Era questo il testimone da raccogliere per il logico prosieguo dell'alpinismo di Di Federico, Cantalamessa, Marcheggiani o Caruso sul Paretone.
Gli aquilani Roberto Mancini, V. Brancadoro e il romano P. Abbate salgono la via “Alletto-Consiglio” alla Cresta Sud della Vetta Orientale; l'avvicinamento molto lungo e l'isolamento sono molto simili alle altre salite del Paretone, unica nota positiva è l'esposizione al sole che la rende più “umana”. Questa via comunque era già stata salita parzialmente da F. Delisi con due compagni anni prima: non avevano però seguito l'itinerario nella sua interezza, cosa completata da Mancini e compagni. Sempre Mancini con Abbate e Brancadoro sale due brevi ma belle vie, in giorni diversi, sulla Parete Sud della Vetta Centrale. Chiudono l'inverno P. De Fabiis e G. De Rossi con la salita de “Il filo di Arianna” sulla Ovest della Prima Spalla.
Forse la “corsa” alle prime invernali sta stancando gli alpinisti del Centro Italia: La grande e comprensibile crescita dell'arrampicata sportiva con la sua indubbia sicurezza, facilità di gestione, lo scarsissimo impegno mentale se non la dovuta attenzione alle poche manovre di corda, la ricerca esasperata del grado e la indubbia bellezza di giornate prive di ansia, “ruba” alla montagna invernale una grande quantità di scalatori.
Sarà una combinazione, ma guarda caso il 1994 vede un'unica realizzazione di grande impegno, e purtroppo anche una grande tragedia. Romolo Vallesi, Luca Grazzini e Paolo Camplani impiegano un giorno intero per raggiungere la base della parete rocciosa dell'Anticima Nord della Vetta Orientale. È loro intenzione salire in prima invernale la via “Riforma agraria” di T. Cantalamessa. La loro preparazione tecnica è fuori discussione, sono senza dubbio tra i migliori alpinisti della capitale con salite di ogni ordine e grado. Bivaccano probabilmente in una comoda nicchia usata già da Delisi e Marcheggiani durante la prima salita della parete nell'83 a pochi metri dall'attacco della via. Alle prime luci sono pronti: attrezzata una sosta, Vallesi apre la cordata e sale diversi metri della via mettendo alcune protezioni (la via è difficilmente proteggibile, ma loro non ne erano a conoscenza). Vallesi è un ragazzo robusto, alto e nella sfortuna di un suo volo le protezioni saltano, una dopo l'altra, e nella caduta anche la sosta viene strappata via. La tragedia si compie. I tre precipitano per decine di metri nel vuoto sottostante. Una delle due corde fortunosamente si impiglia su rocce affioranti e la rovinosa caduta si arresta. Romolo e Paolo muoiono per i colpi presi, mentre Grazzini è vivo, ferito, ha diverse costole rotte e ha perduto gli occhiali di cui non può fare a meno. Non fosse stato quel grande scalatore che è, Luca non sarebbe stato in grado di tornare indietro. Riesce a risalire fino alla Cengia dei Fiori, la traversa e scende la sottostante parte bassa della Cresta Nord. (non abbiamo informazioni precise, ma si immagina che forse abbia attrezzato corde doppie data la difficoltà del terreno invernale). Ai Prati di Tivo non può fare altro che allertare i soccorsi. Il giorno dopo è Enrico De Luca che coordina il soccorso e opera il recupero tramite elicottero dei corpi di Romolo e Paolo. È la prima volta che si ha un evento così drammatico sul Paretone.
La cordata Mastracci-Marziale molti giorni dopo il tragico evento affronta e risolve la salita di una delle vie tecnicamente più impegnative di quegli anni. La via “Di Federico-De Luca” al Secondo Pilastro del Pizzo Intermesoli fu salita dai due abruzzesi nel 1982 dopo diversi tentativi per venirne a soluzione del tratto chiave, successivamente classificato per la prima volta in Appennino Centrale di ottavo grado. Di Federico, che fu il risolutore del problema, si allenò a secco, costruendo in un garage un fac-simile dello strapiombo poi risolto. La parete del Pizzo Intermesoli come forse già detto, è comodamente raggiungibile dai Prati di Tivo con una camminata di un'ora- un'ora e mezza e l'attacco delle vie molto semplice così come la discesa, ma la salita della via in sé è stato senza dubbio un bell'ingaggio che la classe assodata dei due romani ha risolto brillantemente. Le cronache dell'inverno '94 riportano soltanto altre due salite, con tutto il rispetto, non particolarmente degne di nota e che per evitare un già forse noioso “sterile elenco” trascuriamo di riportare.
Nel 1995 il cliché si ripete: praticamente nessuna prima (e nemmeno seconda o terza) invernale. Si ripetono invece Mastracci e Marziale su “Sentieri grigi” aperta dal forte Sebastiano Labozzetta soltanto l'anno prima. La via, di soli quattro tiri di corda, è su roccia molto verticale con difficoltà di 6C; di invernale c'è solo l'avvicinamento, ma rimane pur sempre la conferma della grande preparazione del duo romano. L'anno seguente si hanno solo due salite: La “Direttissima” al Secondo Pilastro da parte di S. Momigliano e A. Bucciarelli e il “Canalone del Duomo” , che presenta degli impegnativi risalti rocciosi di quinto grado, salito da Silvia Marone, Leone di Vincenzo e Alberto Bettoli. Ambedue le salite si trovano sulla Parete Est del Pizzo Intermesoli e le cronache, abbastanza precise, non riportano assolutamente nient'altro. Le scalate invernali forse stanno perdendo il loro fascino, la penuria di scalatori sulla più bella montagna dell'Appennino Centrale è palese e gli scalatori stanno quasi sparendo quando, quasi come un colpo di coda, il 1997 rivede una discreta frequentazione con circa dieci salite. Delle dieci però è una soltanto che salta agli occhi ed è l'attesa prima salita invernale di cui si vociferava da tempo. Bene, chi poteva tentarla e realizzarla se non Mastracci e Marziale? Nell'orbita Centro Italia non ci sono alpinisti che si stiano distinguendo nelle scalate di grande impegno se non i due su citati romani. Dopo una ricognizione e salita estiva di “Il nagual e la farfalla” insieme a G. De Rossi i tre si portano alla base della Farfalla dove una nicchia si presta perfettamente per un bivacco. All'alba del 16 marzo la piccola nicchia viene invasa dal primo sole, l'esposizione in pieno est scalda subito i tre alpinisti e la strapiombante parete, per questo priva di neve o ghiaccio. Dopo la classica frugale colazione che ci si può permettere in montagna, Mastracci e Marziale a comando alternato attaccano i primi tiri già molto difficili. (Questi erano stati in parte disattrezzati in discesa da Caruso, il perché lo sa solo lui, al termine della sua scalata nell'87. Sono stati Massini e Grazzini durante la loro prima ripetizione della via a provvedere al riposizionamento delle piastrine spit tolte). Con continuità e bravura superano tiro dopo tiro i 270 metri della parete usando tecniche artificiali e tratti in arrampicata libera costantemente difficili, ormai in gran parte attrezzati. Raggiungono il culmine della parete da dove, come ormai consuetudine, scendono in corda doppia su ancoraggi già presenti. Un secondo bivacco è d'obbligo alla base della parete, dalla quale il giorno seguente risalendo il canale Jannetta e la comoda discesa dalla Vetta Orientale i tre se ne tornano a casa con un “bottino” di prim'ordine. Le altre nove salite non presentano segni di ricerca o evoluzione tecnica al di là del revival alpinistico sulla montagna.
L'alpinismo invernale cade nell'oblio, passano anni dove non viene neanche più nominato il termine “invernale”. Salite classicissime con decine di ripetizioni avvengono in sordina, ma qualcosa che faccia “rumore” non sta neanche nell'aria. Le numerosissime falesie laziali, abruzzesi, umbre e marchigiane pullulano di svariate centinaia di arrampicatori, il Gran Sasso d'estate è quasi preso d'assalto sulle sue più belle e classiche vie dalla magnifica roccia calcarea, a volte si creano “file” sulle vie più gettonate del Corno Piccolo, molto meno sul Corno Grande e praticamente mai, ovviamente, sul Paretone. L'inverno diventa di nuovo il padrone assoluto della grande montagna appenninica insieme alla presenza di cordate sui classici e ripetuti itinerari tipo la Direttissima, il Moriggia-Acitelli e canali similari. L'eccezione che conferma la regola è Tiziano Cantalamessa che, come guida, lavora tantissimo. Non compie più exploit perché è subissato di lavoro: è l'unica Guida Alpina che negli anni 90 lavora senza tregua. D'estate e d'inverno, autunno e primavera è frequente incontrarlo al Gran Sasso con i suoi clienti. Questo anche nell'aprile del 1999, quando dà appuntamento a sette suoi clienti per l'ultima uscita del suo corso invernale, dove non “porta” i clienti ma forma cordate autonome a cui insegna come si scalano le montagne da protagonisti. Il gruppo dei sette più Tiziano e un suo aiutante raggiunge il “Forcellino” alla base del Paretone. Salire la via Jannetta è la degna conclusione per quel genere di corso. Dopo il comodo bivacco si formano tre cordate ed inizia la lunga scalata su neve e ghiaccio, condizioni meteo ottime e freddo quanto basta. La comitiva supera brillantemente buona parte della lunga via. All'altezza del Terzo Pilastro, quindi molto in alto, Tiziano esorta i ragazzi ad aumentare l'andatura, la temperatura si è repentinamente alzata e il pendio di neve si sta allentando. È in un solo minuto che si compie una seconda tragedia su questa grande parete: una slavina si stacca dall'alto, le urla di Tiziano incitano i ragazzi a ripararsi e piantare in profondità la propria piccozza ma purtroppo per una cordata di tre non c'è niente da fare: viene travolta in pieno e precipita nel baratro sottostante. Immediatamente Cantalamessa chiede l'intervento del soccorso alpino e, non potendo fare nulla per i ragazzi travolti, si occupa di portare più in alto possibile e fuori tiro da eventuali altre slavine il rimanente gruppo di ragazzi fortemente impauriti e sotto shock. I soccorritori giunti in elicottero da Pescara non possono fare altro che constatare la morte dei tre ragazzi e ne recuperano le salme alla base della grande parete. Un’indagine della magistratura, che viene svolta tramite perizia tecnica dell'accaduto, scagiona Cantalamessa da qualsiasi colpa, ma chi non si scagiona da responsabilità morali e non si perdona è lo stesso Cantalamessa che smette immediatamente la professione di guida. Tredici mesi dopo, lavorando al posizionamento delle reti di protezione su strade, il più forte alpinista di sempre nell'intero Appennino Centrale, oltre la magnifica persona che era, moriva sul lavoro. “Centinaia di cittadini, insieme all'intera comunità di scalatori marchigiani, abruzzesi, laziali, stretti l'uno all'altro, gremiscono l'antica chiesa di Ascoli Piceno per un estremo saluto al nostro Bonatti”. Op. cit. M. Marcheggiani “Tu non conosci Tiziano” ed. Versante Sud.
Nei seguenti nove anni non succede niente che possa essere citato, poi come un fulmine a ciel sereno ecco che compare Andrea di Donato, giovane Guida Alpina, disincantato, allegro e forte scalatore nato a Castelli, ai piedi del Monte Camicia. Il fulmine non è altro che la notizia che rimbalza da ogni parte: Andrea, preparatosi come meglio non poteva, il 28 gennaio del 2008 sale in cinque ore e mezza e in solitaria la Parete Nord del Monte Camicia lungo la classica via di Marsili e Panza del 1934. Sulla parete del Camicia, dove tutto è aleatorio vista la pessima roccia e l'esposizione sfavorevole, Andrea ridà vita ad un alpinismo senza tempo, dove le innovazioni tecniche non servono un gran che quando si affronta la montagna senza trucchi, alla pari e dove non assicurandosi si mette in gioco tutto.
L'alpinismo invernale di punta ora parla solo abruzzese, il resto tace e guarda. A Teramo un giovanissimo Lorenzo Angelozzi già da tempo si distingue su notevoli scalate, amico di Di Donato e di un altro forte scalatore, Andrea Di Pascasio, romano ma teramano di adozione. I tre formano una cordata molto affiatata e di comune accordo decidono di tentare la salita invernale della via “Fulmini e saette” che risulta in quegli anni essere la più difficile dell'intera Parete Est della Anticima Nord della Vetta Orientale: per intenderci il Paretone ed il suo complicato accesso. Testualmente scrive Di Donato “...ventiquattro anni dopo l'apertura mancava ancora un tentativo su questa via. Tutti questi anni indicano il valore della difficoltà e complessità della via, ma anche le visioni di quegli alpinisti che l'hanno saputa vedere ed aprire: insomma, Fulmini e saette è una di quelle vie che lasciano il segno nel tempo...”. Il 10 febbraio 2011 i tre alpinisti superano scalando su misto i 200 metri per raggiungere la Cengia dei Fiori che rappresenta il lungo, difficile e complicato passaggio obbligato per arrivare all'attacco di Fulmini e saette. Nel tardo pomeriggio raggiungono l'attacco della via, attrezzano il primo tiro e poi bivaccano scomodamente alla base, praticamente appesi all'imbrago. Ripartono al mattino con tempo ottimo ma incontrano alte difficoltà, visto il tempo impiegato dai forti scalatori per salire i restanti 500 metri di via. La cordata non riesce ad uscire, sono quindi obbligati ad un secondo, ma questa volta comodo, bivacco a due tiri di corda dall'uscita. Il terzo giorno con un paio di ore escono strafelici in vetta. È la terza via che viene superata sull'intera parete e i tre giovani scalatori, in un articolo molto sentito, dedicano la salita al grande Tiziano Cantalamessa che, giovani come sono, non avevano mai conosciuto di persona ma il cui ricordo è sempre presente.
È passato un anno quando la cordata Di Donato-Di Pascasio è di nuovo in azione sulla stessa grande parete. Vogliono salire la “Riforma Agraria” ma qualcosa va storto e i due alpinisti per ripiego scalano in seconda invernale “Le nebbie del Paretone” già salita nel 1989.
Andrea con il suo disincanto in seguito si proietta su cose fino allora inimmaginabili. L'evoluzione, non solo tecnica ma soprattutto mentale e culturale lo porta a concepire la scalata che ancora oggi è il top raggiunto nell'insieme delle caratteristiche tipiche del Grande Alpinismo al Gran Sasso. Insieme al francese naturalizzato italiano Bertrand Lemaire, fortissimo scalatore su ogni terreno, concepisce appunto “l'inimmaginabile”: la seconda salita invernale della Farfalla, ma dal basso e non scendendo in corda doppia dalla fine via ma uscendo invece in vetta. Inoltre, al di là della salita integrale, il loro intento è salire in libera i tratti aperti in artificiale.
Scende il silenzio sulle pareti più importanti del Gran Sasso, chissà il motivo di fondo quale può essere, sta di fatto che di “eclatante” non si è registrato più nulla. Una nota di alpinismo di grande respiro è stato il concatenamento delle tre spalle ad inizio inverno del 2015: M. Marcheggiani e Lorenzo Trento con un bivacco nel mezzo salgono dalla Val Maone ed in successione superano la Terza, la Seconda e la Prima Spalla; raggiungono poi la vetta del Corno Piccolo dalla quale scendono con una serie di corde doppie dalla Parete Est, completando così la traversata della montagna. Un alpinismo “antico” dove la ricerca è soltanto emozionale e non più concentrata sull’ aspetto tecnico. Su questa linea di pensiero l'anno successivo gli stessi aprono una via nuova e con un bivacco, sul primo sperone ad ovest del Corno Piccolo. Nel gennaio 2023 ancora Marcheggiani, (a 71 anni e da capocordata) insieme a Marco Marrocco, Alessio Pagano e Damiano Fagiolo sale dalla Val Maone la via Sivitilli con un bivacco, trovando in alto condizioni di misto a volte molto impegnativo. I quattro erano convinti di fare una prima, ma così non era. La via, aperta negli anni 30, era stata salita poi in inverno da C. A. Pinelli. Bertrand è un fortissimo arrampicatore e boulderista, ed ha tutte le carte in regola per riuscire. E’ il 14 marzo del 2012 quando la forte cordata lascia il paese di Casale San Nicola, ai piedi del Paretone. Salgono il facile canale Jannetta e raggiunti gli strapiombi della Farfalla bivaccano nella comoda nicchia che ha ospitato le precedenti cordate. La meteo è perfetta, la via “Il Nagual e la Farfalla” è assolutamente asciutta, senza una piccola macchia di neve che tra strapiombi e sole diretto non trova modo di depositarsi. Bertrand riesce nel suo intento, scala in libera tutti i tiri più difficili e artificiali, denotando una potenza e una classe nettamente superiore alla media. La combinazione Lamaire-Di Donato fa faville superando brillantemente i 270 metri della via a cui Bertrand, come sua abitudine non darà il grado ma che possiamo immaginare molto ma molto alto. Una volta usciti dalla via del Nagual, continuano su terreno molto più facile ma con diversi tratti di misto e raggiungono, oltre il Primo Pilastro, la via della Cresta Sud di Alletto e Consiglio. Un secondo bivacco è d'obbligo, hanno sotto il sedere già oltre mille metri di parete molto impegnativa. Il 16 marzo in tarda mattinata i due fuoriclasse raggiungono la Vetta Orientale mettendo fine alla loro straordinaria performance. L'Abruzzo teramano sta sfornando alpinisti di prim'ordine, le performance di Di Donato, di Angelozzi e di Di Pascasio sono sulla bocca di tutti perché al di là delle invernali, ripetono o aprono itinerari di altissima difficoltà. Lorenzo Angelozzi, praticamente quasi un ragazzino, nell'agosto del 2012 ripete in solitaria la via “Orient Express”. Questa è la salita più diretta alla Anticima Est della Vetta Orientale, una via aperta nel 1983 dalla cordata Marcheggiani-Delisi e pochissimo ripetuta per via non solo della difficoltà generale e del difficile accesso, ma anche per l'ultimo tiro di 40 metri pressoché improteggibile e in grandissima esposizione, oggi dato di 6A. Con i suoi fidati amici e compagni di cordata teramani “Lorenzino” Angelozzi ne tenta in seguito la prima invernale, con l'intenzione di salire non-stop, quindi in giornata e senza bivacco. È il 30 dicembre dello stesso anno della “Farfalla” di Di Donato e Lemaire. I tre teramani come treni salgono slegati di notte i tratti più abbordabili dell'avvicinamento, poi si legano quando la via si verticalizza. E' la seconda metà del mattino quando, superato il nevaio pensile, si trovano sui tiri più impegnativi...”E' entusiasmante salire su questa via... dopo un tiro stupendo di ghiaccio e dopo aver visto il sole nascere dal mare, alle 11 di mattina arriviamo sotto il temuto tetto, veramente bastardo anche d'estate e che introduce alla parte finale della via... parte Lorenzino, mette un friend, poi un altro, poi un chiodaccio e un secondo piccolo friend sul quale si fa bloccare in resting per mettere un’altra protezione e... via, giù nell'abisso! In un istante, Lorenzo è caduto e le protezioni non erano protezioni e il volo è stato lungo e assurdo. Giù verso il fondo. L'importanza di saper fare bene le cose si palesa nella sosta che trattiene il volo di 30 metri e noi due in sosta! E la vita continua... scendiamo da Lorenzo, sta apparentemente bene... non chiamiamo il soccorso, proviamo ad uscire lungo la più facile via classica. Lorenzo se la sente anche se pieno di dolori, è un vero duro e dopo tiri ancora duri e pericolosi ci siamo, ecco la vetta!” Il racconto di Andrea Di Pascasio è sobrio e sincero, dice poi: “...siamo una famiglia, ci siamo confortati a vicenda e abbiamo scalato in piena fiducia: Vero calore umano!” Senza dubbio una grande avventura che sposta ancora più in alto l'asticella delle difficoltà ma non è certo questo che fa il grande alpinismo. Il rapporto assolutamente fraterno e di fiducia, di complicità e condivisione è la quinta essenza dell'andare in montagna, a prescindere da ciò che si conclude. Mi piace riportare come termina il racconto di Di Pascasio:”... la sera in ospedale è tutto divertente, il kebab è buono, la gente mi piace... Siamo vivi, e la vita è bella! Ed io, se solo sapessi amare, direi che vi amo.” Op. citata.
Passano meno di due mesi e a fine inverno, inaspettatamente, il Paretone torna il vero protagonista dell’alpinismo invernale. I teramani A. Di Pascasio, D. De Patre ed il romano E. Pontecorvo grazie alla loro classe e determinazione ripetono in giornata (terza ripetizione) i 500 metri di “Ice very nice” trovando condizioni di misto eccezionali. Raggiunta la Cengia dei Fiori dove la via termina, optano per il ritorno scendendo dalla Cresta Nord con alcune corde doppie. A valle sentono il “dovere” di scrivere un messaggio agli apritori della via ringraziandoli per la “perla” trovata 32 anni prima. Il loro entusiasmo è lo spaccato di un modo di vivere l’alpinismo con il dovuto disincanto, senza la ricerca esasperata della “prima” e dove l’ego conta molto, ma molto meno del puro piacere di vivere un’avventura fine a sé stessa.
Il Gran Sasso, muto spettatore di qualsiasi evento trascorso oppure in divenire, non fa altro che continuare ad essere sé stesso, benevolo nell’accogliere tra le sue meravigliose pareti chiunque voglia trascorrere sui suoi fianchi giornate memorabili che l’alpinismo sa regalare. A volte, purtroppo, pagando pedaggi molto cari, ma la vita è così: la vita non è bella in assoluto, è bello viverla!
Massimo Marcheggiani
Frascati 11 gennaio 2024
Giovedì 18 aprile 2024 Franco Ribetti ci ha lasciati. Era entrato giovanissimo nel nostro Club e per me, e per molti altri, oltre ad essere collega di scalate, è stato un grande amico. Non è nel mio carattere fare commemorazioni e tessere le lodi di un personaggio scomparso. Io amo raccontare storie e quella di Franco è una bella storia che merita di essere raccontata. Cercherò perciò di ripescarla nei miei ricordi per quanto ne sono capace. Oltre al dolore per la perdita dell’amico mi rattrista pensare al lungo periodo di malattia che lo ha accompagnato negli ultimi tempi.
Testo di Ugo Manera, foto da Archivio Manera
La prima volta che incontrai Franco Ribetti fu il 25 aprile 1959 alla Rocca Sbarua. Dopo poco più di un anno di scalate facili volevo alzare un po’ il tiro e misurarmi su arrampicate più impegnative, era la prima volta che mi recavo nella più celebre e severa palestra di roccia di allora dei torinesi. Quel giorno alla Sbarua vi erano diversi dei nomi noti della scalata torinese; sulla via Rossa al Bimbo, la più difficile tra quelle allora esistenti, vi erano impegnate due cordate: la prima era condotta da Giorgio Rossi legato con “Majulin” Turvani, la seconda era guidata da Ribetti con Maccagno. Turvani andava molto lento e Ribetti superò la cordata che lo precedeva scavalcandola mentre erano ancora sulle staffe dell’artificiale. Conoscevo già di fama Franco Ribetti ma i particolari della sua storia alpinistica li appresi molti anni dopo quando diventammo compagni di cordata.
La famiglia Ribetti era una famiglia numerosa: tre sorelle e due fratelli. Franco era il più giovane dei due fratelli e, probabilmente, il più viziato dalla mamma. In presenza di rappresentanti del “gentil sesso” Franco, scherzosamente, amava dire: << Per concepire mio fratello e me i miei genitori hanno dato il meglio di sé stessi dopo, completamente esauriti, non sono riusciti a far altro che femmine>>. Ad Ala di Stura trascorrevano le vacanze estive e dai genitori, e soprattutto dalla zia Adriana (sorella del padre e moglie di Giuseppe Dionisi) Franco e suo fratello Giorgio, avevano ereditato la voglia di andare in montagna. Fin da ragazzini scorrazzavano sui pendii della valle cacciandosi sovente in posti pericolosi.
Franco mi raccontò che lui, da ragazzo, era magrolino e cagionevole di salute. Riferendosi a quel tempo diceva di sé: <<Ero una “mezza sega”, sempre ammalato!>>. Lo zio, Giuseppe (Pino) Dionisi, sosteneva che bisognava fargli fare attività fisica per rinforzarlo così, tredicenne, lo portò in veste di allievo alla scuola di alpinismo Giusto Gervasutti. Non solo Franco si rinforzò ma si dimostrò eccezionalmente dotato nell’arrampicata e totalmente senza paura, tanto che spesso suo zio doveva intervenire per frenarlo. A 16 anni, nel 1955, divenne istruttore nella scuola. Scalava spesso con suo fratello Giorgio con il quale aveva uno stretto legame. Anche Giorgio divenne istruttore della Gervasutti.
Per come l’ho conosciuto io Franco era un tipo che non amava parlare troppo ma era sempre pronto alla battuta spiritosa. Credo sia sempre stato così: portato più all’azione che alle parole. Un loro problema a quel tempo era la cronica mancanza di soldi; Franco per guadagnare qualche cosa si mise a tracciare i sentieri a cottimo, vestito di un vecchio impermeabile, con i barattoli della vernice appesi a vita, su e giù di corsa per i sentieri della Valle. Sempre per racimolare qualche lira si mise anche a catturare le vipere che poi vendeva ai centri di raccolta per la preparazione del siero antiofidico. Non disponevano di mezzi di trasporto e le salite cominciavano quasi sempre a piedi da Ala con avvicinamenti infiniti.
In quegli anni l’arrampicata sui massi era quasi sconosciuta. Era noto che i parigini scalavano sui massi nella foresta di Fontainebleau e si conoscevano altri pochi esempi qua e là, ma da noi questa pratica non esisteva prima delle Courbassere e, sui quei massi vicino ad Ala, Franco fu il principale protagonista. Superò per primo dei passaggi molto difficili e rischiosi. Come è stata sempre sua abitudine, egli minimizzava le prestazioni in genere e soprattutto le proprie. Non gli è mai importato nulla di apparire per cui raramente dava notizia delle cose fatte così, anche alle Courbassere, molti passaggi attribuiti ad altri erano già stati saliti da lui come il passaggio “Casarotto”, che Franco aveva già superato molti anni prima che il celebre scalatore vicentino venisse condotto da Gian Carlo Grassi sui quei massi.
In valle d’Ala in quegli anni c’era un altro giovane destinato a lasciare traccia nell’alpinismo torinese: Alberto Marchionni. Aveva una casa a Balme e lì trascorreva le vacanze estive. Come Franco era un tipo trasgressivo, pronto a qualsiasi azione poco raccomandabile. Si dimostrò un ottimo arrampicatore e Franco lo portò alla Gervasutti dove divenne istruttore nel 1961. Viste le affinità, legò molto con i fratelli Ribetti ed insieme girarono in lungo ed in largo tra le pareti della valle, sempre senza quattrini e con avvicinamenti infiniti essendo privi di mezzi di trasporto. Mi pare che Alberto fu il primo a poter disporre di uno scooter per gli spostamenti.
Franco, divenuto istruttore della scuola Gervasutti, sviluppò la sua azione alpinistica con molti degli scalatori di punta dell’ambiente torinese di quel periodo. Si legò di grande amicizia con Guido Rossa, erano ambedue scalatori eccezionali, disincantati, senza paura e sovente trasgressivi. Insieme ne hanno combinate di tutti colori in quelle che Franco amava definire: “Stronzate Alpine”. Franco era il più giovane e con poche inibizioni e paure, spesso veniva mandato avanti come apripista in scherzi ed azioni ben fuori dalle righe. Nel curriculum alpinistico di Franco di quel periodo troviamo, oltre ad altre salite importanti, la cresta Sud e parete Ovest dell’Aiguille Noire de Peuterey, la via Bonatti-Ghigo al Grand Capucin, la prima invernale della parete Nord del Monviso. Una volta, mentre Rossa era militare alla Scuola Alpina, quindi soggetto a restrizioni e ciò malgrado voleva salire la cresta Sud della Noire slegato, Franco, in cordata con un altro amico, lo accompagnò e salirono la celebre cresta a passo di corsa. Per la sua cospicua attività alpinistica venne accolto giovanissimo nel Club Alpino Accademico e nel 1959 venne premiato a Roma per essere tra i migliori cinque giovani alpinisti d’Italia.
Franco era sempre più scatenato in montagna fino a quando, nel 1960, avvenne il grave incidente. All’inizio dell’estate la scuola Gervasutti aveva in programma una uscita nella abituale Valle d’Ala con, tra gli obiettivi, l’Uja di Mondrone. Il tempo non era bello e nella notte era piovuto, ciò malgrado Franco ed altri si diressero sotto la Nord per salire la via Rosenkranz. Franco attaccò la via per primo e, come era nelle sue abitudini, salì i primi 40 metri non difficili senza piazzare alcuna protezione. Forse gli scivolò un piede sulla roccia umida o forse l’allievo che era legato con lui lo sbilancio non dandogli con sufficiente rapidità la corda, fatto sta che cadde e rotolò fino alla base della parete. Per sua fortuna non si schiantò sulle pietre ma finì su una lingua di neve che ancora esisteva. Fu subito chiaro a tutti i presenti, istruttori ed allievi, che era gravissimo ed in pericolo di vita. Si trattava di trasportarlo a valle. Allora non esistevano elicotteri e, per operazioni di soccorso, bisognava trasportare l’infortunato a spalle. Qualcheduno si precipito alla ricerca di qualche cosa di idoneo al trasporto. Nelle grange più prossime venne rinvenuta una vecchia scala a pioli, fu trasportata fino alla base della parete e questa fu la barella per il trasporto di Franco fino alla strada carrozzabile.
Aveva riportato fratture ovunque oltre che gravi lesioni interne. Il professore che lo prese in cura fece miracoli ma ci vollero 2 anni per guarire completamente.
Quando fu in grado di riprendere l’attività motoria provò nuovamente a scalare ma intanto si era molto impegnato nella carriera lavorativa e stava per sposarsi; decise di chiudere con l’alpinismo. Cessare l’amata attività non significò smettere con lo sport, anzi. Si dedicò al ciclismo: aveva uno zio ex campione ciclista e con lui percorse tutti i colli più duri e celebri delle Alpi, compresa la traversata del Colle delle Traversette passando per il Buco di Viso con le biciclette a spalle. Continuò intensamente con lo sci alpinismo, spesso con il fratello. Praticò molto anche la corsa a piedi, attività per la quale era portato.
Passarono gli anni ed il nome di Ribetti nell’ambiente alpinistico torinese era sempre vivo, soprattutto quando qualcuno ripeteva le sue vie. Ma tutti pensavano che appartenesse ormai al passato.
Non molto tempo fa Marvi, la moglie di Franco, ci ha raccontato un aneddoto che mi ha fatto sorridere. Franco era spesso via di casa, un po’ per il suo lavoro ed un po’ per le sue attività sportive; Marvi, che doveva badare a due figli piccoli, si sentiva sola e qualche volta si lamentava. Una volta, credo all’inizio degli anni ’70, che la discussione su tale argomento si era fatta piuttosto accesa, Franco proferì una minaccia: <<Se non la smetti di lamentarti vado a cercare Ugo Manera così tu a casa non mi vedi più>>. Ho appreso così che in quegli anni, nell’ambiente torinese, godevo di ben sinistra fama.
Attorno alla metà degli anni ’70 Franco Ribetti ritornò all’alpinismo. Anche questa volta il promotore del ritorno fu suo zio. Dionisi stava organizzando una delle sue molte spedizioni nelle Ande Peruviane e convinse Franco a prendervi parte. La spedizione riaccese in lui la passione e riprese ad arrampicare. Una volta ci incontrammo casualmente, in una bella giornata di gennaio, ai Denti di Cumiana: Pino e Franco da una parte ed io con i soliti compagni dall’altra. Parlammo naturalmente di scalate poi Dionisi mi prese in disparte e mi disse: <<Franco scala di nuovo come una volta e ritornerebbe volentieri alla scuola>>. <<Magnifica notizia>>. Risposi. <<La porto subito in consiglio istruttori>>. Fu così che Ribetti rientrò alla Gervasutti.
Era entusiasta e subito divenne molto attivo nella scuola, era infaticabile e sembrava intenzionato a ricuperare le scalate non fatte negli anni lontano dall’alpinismo. In arrampicata era ritornato ad essere il Franco di prima dell’incidente: determinato, senza dubbi, silenzioso ed efficiente. Mi resi presto conto che poteva essere il compagno di cordata ideale per i miei innumerevoli progetti. Cercai di coinvolgerlo in uno di questi, un po’ pazzo direi: una nuova via sull’enorme parete Nord dell’Albaron di Sea in inverno nel vallone di Sea della Val Grande di Lanzo. Da tempo avevo in testa l’idea di salire quella parete in inverno. Pensavo di ripetere in prima invernale la via dei fratelli Berta ma poi, esaminando il problema da vicino, notai che vi era un possente sperone che risultava mai salito: una via nuova d’inverno su una parete Nord, cosa pretendere di più? Feci la proposta a Franco che, senza battere ciglio mi rispose: <<Ok, quando partiamo?>>. Ed io: <<Il primo fine settimana di bel tempo>>.
Era il mese di gennaio del 1982 e quella salita avrebbe sicuramente richiesto un bivacco in parete, bisognava sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione. Partimmo al venerdì sera dopo la giornata lavorativa. Al buio percorremmo il vallone fino alle Alpi di Sea, la neve era poca e non fu necessario l’uso degli sci. Ci sistemammo al meglio nelle grange e, al sabato, alle prime luci dell’alba, eravamo già alla base della parete. La roccia era sgombra da neve, c’erano solo delle colate di ghiaccio al fondo dei diedri e dei camini. Incontrammo difficoltà elevate ed un gran freddo per tutta la giornata: quella parete in inverno non vede mai il sole. Superammo qualche passaggio con l’uso delle staffe, delizia riservata a me stante lo scarso amore di Franco per l’uso dei chiodi.
Bivaccammo in un luogo scomodissimo, semi appesi ai chiodi in mezzo agli strapiombi. Non avendo trovato spazio per rannicchiarci vicini usammo un cordino teso per passarci, a guisa di teleferica, la poca acqua che riuscimmo a produrre fondendo il ghiaccio presente vicino a noi. Gran freddo, poche parole ma comunque improntate all’auto sarcasmo per la situazione in cui ci eravamo cacciati. Al mattino riprendemmo la scalata e dopo alcune lunghezze ancora impegnative, scalate sempre a mani nude tra una bollita e l’altra, le difficoltà diminuirono e progredimmo rapidamente lungo un vago crestone mentre in cielo si stavano addensando le nubi. Giungemmo in vetta avvolti dalla nebbia e durante la discesa, fatta a lume di naso ma fortunatamente facile, cominciò a nevischiare. La nostra impresa si concluse di notte lungo il sentiero del vallone di Sea, con le batterie delle pile ormai scariche e con il timore costante di prendere qualche “culata” a causa delle placche di ghiaccio presenti sul sentiero. Il collaudo reciproco era stato più che soddisfacente: la nuova “cordata” era pronta per ogni obiettivo.
Come ho già accennato Franco non è mai stato ciarliero, salendo ai rifugi nel corso delle numerosissime salite effettuate insieme, o nelle tante gite sci alpinistiche, spesso camminavamo ore senza proferire una parola. Non amava scrivere, rari sono i suoi articoli comparsi su riviste e bollettini. Ma anche a lui piaceva raccontare, nel suo modo disincantato, preciso, avvolto sempre da un velo di umorismo. Da lui ho appreso storie divertenti come quelle legate alla “Villa Pisolino” del campeggio UGET di Val Veni, grangia ceduta a titolo gratuito agli squattrinati membri del Gruppo Alta Montagna UGET. Tanti episodi che mi hanno divertito e che mi hanno fatto conoscere i lati meno noti dell’ambiente alpinistico torinese degli anni cinquanta, così diverso da quello mitico caratterizzato da personaggi come Boccalatte e Gervasutti.
Ascoltando racconti o leggendo scritti di alpinisti che raccontano le loro storie capita di notare quanto è facile scivolare, a volte involontariamente, nell’auto celebrazione. Non è mai stato il caso di Ribetti, egli ironizzava su tutto sminuendo anziché esaltare le imprese, soprattutto le sue.
Franco era disponibile per qualsiasi idea alpinistica pur di scalare. Da parte mia avevo più progetti che tempo per realizzarli; da anni cercavo un socio per tentare la parete Sud Est dell’Aiguille de l’Eveque, in Val Ferret, gli amici interpellati dopo uno sguardo alla parete declinavano l’invito. Franco no, fu una strana ed emozionante avventura.
Al di sopra dell’Aiguille si sviluppa la poderosa cresta di Tronchey delle Grandes Jorasses, non era mai stata salita percorrendo integralmente le tre grandi torri che la compongono. Avevo già fatto un tentativo nel 1976 interrotto dal sopraggiungere del maltempo. Franco si dimostro subito entusiasta del progetto che realizzammo nell’estate 1982 con altri due amici: Laura Ferrero e Giovanni Bosco. Fu una magnifica scalata conclusa con un bivacco in vetta alla Punta Walker delle Jorasses, allietato da un tramonto meraviglioso.
Innumerevoli le salite compiute in quegli anni da Franco, con me, con Claudio Sant’Unione, con Lino Castiglia e con altri, spesso erano prime ascensioni. Elencarle sarebbe monotono e non aggiungerebbe molto alla nostra storia. Oltre alla spedizione nelle Ande con lo zio Dionisi Franco Ha affrontato altre spedizioni lontano dalle Alpi, in due eravamo insieme nell’ Hindukusch Pakistano: 1984, 1986. La spedizione del 1984 si concluse con una splendida cavalcata lungo la cresta spartiacque dei Bindu Gol Zom fino in vetta al Bindu Gol Zom II toccando cinque punte che non risultavano scalate. In vetta Lino Castiglia, Ugo Manera, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione. Dopo preparazione di più giorni per raggiungere la prima cima, dove erano concentrate le maggiori difficoltà, il completamento della salita richiese 5 giorni di scalata con 4 bivacchi in parete.
Ben diversa fortuna ebbe la spedizione del 1986. Dalle creste dei Bindu Gol avevamo ammirato la formidabile parete del Tirich Est e ritornammo in Italia convinti che quello sarebbe stato il nostro prossimo obiettivo. Così due anni dopo eravamo nuovamente a Citral pronti a partire lungo l’emozionante pista che conduce nella valle del Tirich. Ai quattro che erano giunti in vetta al Bindu Gol Zom II si erano aggiunti Mario Pelizzaro ed il giovane medico Alessandro Naccamuli. Non giungemmo mai al fondo della pista, il mezzo che ci trasportava uscì di strada e ci scaraventò nel greto del fiume. Persero la vita Alessandro Naccamuli e l’ufficiale di collegamento pakistano. Franco uscì provato da questa tragedia, il padre di Alessandro, alla partenza dall’Italia, si era raccomandato proprio a lui per vigilare sulla sicurezza del giovane figlio.
In quegli anni ottanta si stava sempre di più affermando l’arrampicata sportiva con le sue regole ed anche noi, non più giovani, ne fummo coinvolti. L’arrampicata libera assumeva un significato diverso da quello da noi interpretato nel nostro passato alpinistico, non più soste di riposo appesi ai chiodi ma massimo impegno nell’usare gli ancoraggi solo per protezione e mai, nel limite delle nostre capacità, come aiuto per l’arrampicata. Nel gruppo di amici che aveva condiviso tante avventure, anche nelle spedizioni extra europee, a fare da apripista in questa nuova specialità fu Lino Castiglia seguito poi da Ribetti, Sant’Unione e da me.
Franco non aveva solo l’arrampicata in testa e non rifiutava l’impegno sociale. Assunse la Direzione della scuola Gervasutti per qualche anno e per vari anni operò come Presidente del Museo della Montagna. Quando ambedue entrammo nel prestigioso Group de Haute Montagne francese (GHM) egli, per qualche anno, ne assunse la Vicepresidenza.
A suo modo non era insensibile alla cultura alpinistica, divenne un agguerrito collezionista di libri a pubblicazioni alpinistiche. Come tutte le cose che ha intrapreso anche questa nuova mania venne portata avanti con determinazione competenza e professionalità; la sua collezione di libri divenne importante e di valore finché non decise di liberarsene a favore di un altro progetto: una casa a Briançon per sfruttare le enormi possibilità che questa località stava proponendo per l’arrampicata sportiva. Vendette la sua collezione di libri e con il ricavato acquistò casa a Briançon. Casa che per diversi anni divenne un punto di riferimento per chi desiderava scoprire le nuove possibilità offerte agli scalatori dal Briançonnais.
Anche nel campo lavorativo Franco ha collezionato successi. Era nel campo vendite, mi pare abbia iniziato con il padre curando l’importazione di un formaggio francese divenuto poi molto noto. Passo poi nel campo dei vini per approdare in seguito alla Perfetti. Decise ad un certo punto di mettersi in proprio nella distribuzione dei prodotti Perfetti, in società con il fratello Giorgio. Tutto filava liscio quando per qualche motivo il rapporto con la casa madre si interruppe. Franco allora decise di prendersi un anno di libertà per arrampicare. Era sempre in giro, dal Verdon alle Calanques e ad altri luoghi di arrampicata, sempre con giovani arrampicatori emergenti tra i quali Marco Bernardi. Ricordo molto bene quando, con sorriso sornione, mi descriveva qualche ritorno a casa: << Sai qualche volta vedo, negli sguardi di Erica e Marco (i figli), un po’di preoccupazione, sembrano dirmi “papà continuerai a portarci il pane a casa?”>>.
Di scalate così dette “moderne” ne abbiamo fatte tantissime alcune anche molto impegnative con amici sovente molto più giovani di noi, tra i quali: Fabrizio Ferrari, Maurizio Oviglia, Mario Ogliengo, Alessandro Gogna.
I lontani traumi dell’incidente del 1960 avevano lasciato il segno, negli ultimi anni di arrampicata capitava che Franco fosse soggetto a momenti di forte mal di schiena che superava facendo ricorso alla sua forte volontà. Ricordo con un po’ di rimorso una salita nel Massif de Cerces: Les Dents de Cyrielle alla terza Torre del Queirellin. Era una via appena aperte da due forti scalatori francesi, la relazione letta sul libro del rifugio Chardonnet ci aveva conquistato cosi decidemmo di provare. La scalata si dimostrò molto impegnativa, almeno per il nostro livello. Giunti a metà della via Franco fu assalito da un forte mal di schiena, la via mi stava venendo bene ed egoisticamente lo esortai a proseguire. Tra tante sofferenze per Franco giungemmo fino in vetta ma mai mi propose di scendere per non togliere a me la soddisfazione di una via così bella.
Poi i malanni presero gradatamente il sopravento, e Franco fu costretto, negli ultimi anni, a rinunciare anche a qualche periodo nell’amata casa di Briançon.
Mi sembra che la storia di Franco non sia finita, che continui ancora attraverso le parole che mi viene da scrivere, attraverso ricordi di scalate ed avventure, attraverso le tante battute scherzose rivolte un po’ al mondo alpinistico a volte troppo serioso ma spesso rivolte verso noi stessi con autoironia, arte in cui Franco era maestro.
SARCA CLIMBING MEET - Una positiva esperienza di confronto e collaborazione tra Accademici e giovani promettenti alpinisti
di Alberto Rampini
Più di 30 giovani alpinisti provenienti da ogni parte d’Italia si sono incontrati in Valle del Sarca il 10, 11 e 12 maggio per scalare assieme, condividere esperienze e magari programmare futura attività con nuovi amici.
L’evento è stato organizzato dal Club Alpino Accademico Italiano – Gruppo Orientale per offrire una opportunità di conoscenza e di crescita a giovani alpinisti motivati provenienti in genere dalle Scuole del CAI. Di età compresa tra i 18 e i 30 anni, molti erano istruttori o aspiranti istruttori, altri semplicemente giovani entusiasti e interessati ad entrare a pieno titolo e con grande consapevolezza nel mondo dell’alpinismo.
L’evento si inserisce nella più ampia programmazione di attività rivolte ai giovani alpinisti promossa negli ultimi tempi dal CAAI. Queste attività spaziano dal Progetto Eagle Team, in collaborazione con il CAI per la formazione di alpinisti al top, al più diffuso Eagle Meet, rivolto ad un target sempre di livello ma con obiettivi meno esclusivi, fino ai diversi Meeting di carattere più inclusivo organizzati in collaborazione con le Scuole di Alpinismo del CAI, come il Meeting di febbraio in Mercantour e quello di aprile in Valle dell’Orco.
Con queste iniziative l’Accademico si è posto l’obiettivo di promuovere i più importanti aspetti culturali e i valori storici dell’alpinismo ad integrazione della preparazione tecnica dei giovani, oggi generalmente molto alta. Si tratta in sostanza di un recupero della tradizione storica dell’Associazione, che è nata proprio per fare scuola e promuovere un alpinismo tecnicamente autonomo e culturalmente consapevole.
Sede del meeting è stata la Casa della Bellezza a Tenno, dove i ragazzi hanno incontrato tanti Accademici e seguito le due serate in programma.
Venerdì sera dopo il saluto del coordinatore dell’evento Guido Casarotto, Vicepresidente del Gruppo Orientale, il past president Alberto Rampini ha dato il benvenuto in Valle ai partecipanti, ricordando come oggi più che mai la pratica dell’arrampicata in zone fortemente antropizzate come la Valle del Sarca e tante altre, frequentate da un numero sempre maggiore di praticanti, richieda un approccio consapevole e una sensibilità particolarmente attenta. Il Presidente della CNSASA Mauro Loss ha portato il saluto della struttura didattica del CAI.
A seguire, Heinz Grill ha coinvolto i giovani negli aspetti più romantici, sentimentali ed estetici dell’arte di arrampicare dipingendo un mondo fatato che si colloca agli antipodi del tecnicismo imperante. Ha tracciato anche una breve storia “ideale” dello sviluppo dell’arrampicata in Valle negli ultimi decenni. L'atmosfera della serata è stata particolarmente suggestiva anche per l'accompagnamento musicale e canoro predisposto.
"Canto della Marmolada" testo Heinz Grill, compositore Stephan Wunderlich cantato da Claudia Zrenner e "Tocco la roccia" testo di Heinz Grill, compositore Stephan Wunderlich cantato da Lisa Quispe.
Alessandro Gogna e Marco Furlani, con la proiezione del film La Valle della Luce e la presentazione del libro omonimo, hanno approfondito alcuni aspetti della storia alpinistica della Valle del Sarca. L’organizzazione ha fornito una copia del volume a tutti i partecipanti, come stimolo a documentarsi e leggere per essere sempre ben informati su tutto quello che riguarda l’attualità e la storia alpinistica dei posti in cui si scala.
La serata di sabato si è aperta con un breve documentario presentato da Giuliano Bressan sulle attività del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI, organismo che svolge attività sperimentale sulle caratteristiche dei materiali per alpinismo e sul loro corretto utilizzo, fornendo un valido supporto all’attività didattica delle Scuole, oltre che un bagaglio importante di conoscenze per i singoli alpinisti.
Alessandro Beber, guida alpina, con la proiezione di un interessante film e un accattivante parlato ha voluto suscitare nei giovani l’interesse, e perché no? lo stimolo per l’apertura di vie nuove. Dall’idea allo studio, dalla realizzazione alla comunicazione, ponendo particolare attenzione sui diversi stili di apertura e sulla loro influenza sul “valore” della prestazione.
Le giornate di venerdì, sabato e domenica sono state dedicate all’arrampicata. I ragazzi hanno composto in autonomia le cordate, a volte tra di loro, a volte in compagnia degli Accademici presenti, per percorrere vie di diverso livello e carattere sulle pareti della Valle.
Non erano stati prefissati obiettivi, non si erano dati limiti di difficoltà né in basso né in alto, non si erano suggerite “le migliori vie...”. Tutto è stato lasciato all’iniziativa dei ragazzi, per stimolarne spirito di ricerca e programmazione autonoma, anche se i numerosi locals e Accademici presenti erano naturalmente a disposizione per informazioni. Si è chiesto solo di scrivere sul REGISTRO DEL MEETING la destinazione scelta e riportare poi al rientro le impressioni sull’itinerario percorso e l’esperienza vissuta.
Il registro testimonia l’intensa attività svolta e l’entusiasmo di chi ha partecipato a questa avventura.
Il meeting si è concluso domenica pomeriggio a Pietramurata con uno scambio di impressioni, una ricca lotteria, i saluti delle autorità e la proiezione del film MADRE ROCCIA, fresco dai successi al Trento Film Festival. Il film racconta con grande naturalezza e vena poetica l’apertura di una nuova difficilissima via sull’immensa parete Sud della Marmolada ad opera di una cordata ideale composta da alpinisti di 4 generazioni, tra i quali la giovanissima fuoriclasse Iris Bielli. Il film è stato presentato da uno dei protagonisti, Maurizio Giordani, Accademico e Guida Alpina, massimo conoscitore della Parete Sud della Marmolada, sulla quale ha aperto una cinquantina di vie nuove e fatto solitarie che hanno segnato la storia dell’alpinismo. La vicenda raccontata e le splendide immagini hanno creato un’atmosfera molto suggestiva. Un bel regalo, che i ragazzi hanno particolarmente gradito.
Il Club Alpino Accademico ringrazia i soci che si sono fatti carico dell’organizzazione e quelli che hanno preso parte all’evento, oltre ai relatori delle serate e Heinz Grill per aver messo a disposizione la Casa della Bellezza.
Il Comune di Tenno per il patrocinio e quello di Dro per il patrocinio e per aver messo a disposizione la sala di Pietramurata.
Gli sponsor, in primis Garda Trentino, e i numerosi altri menzionati sulla locandina ufficiale dell'evento.
CHIODO D’ORO 2024
Premiate le famiglie MAZZALAI e GENUIN/AVOSCAN
Testo e foto di A. Rampini
Nella prestigiosa cornice del Salone di Rappresentanza di Palazzo Geremia a Trento ieri 2 maggio è stato consegnato il Chiodo d’Oro 2024, nell’ambito delle manifestazioni collegate al Trentofilmfestival.
Il riconoscimento, da vent’anni tradizione importante dell’alpinismo trentino, si apre al futuro e, senza abbandonare il suo stretto legame con l’ambiente di origine, guarda ad un panorama alpinistico più ampio, con l’ambizione di diventare un riconoscimento di riferimento a livello nazionale.
Questa evoluzione del premio nasce dalla collaborazione tra Sosat e Club Alpino Accademico, che ha messo a disposizione della Commissione giudicatrice del Premio l’esperienza dei membri della propria Commissione Tecnica.
Premiate quest’anno una famiglia trentina, composta da Caterina Mazzalai, dal fratello Riccardo e dal figlio di questo Elio, e una famiglia veneta, composta da Sara Avoscan e Omar Genuin. I due gruppi famigliari si sono distinti per la pratica di un alpinismo in linea con i principi fondanti della SOSAT, amicizia, solidarietà, rispetto per l’ambiente e sono state considerate un esempio importante di come alpinismo e legami familiari possano convivere e arricchirsi reciprocamente.
La serata, condotta dalla giornalista Fausta Slanzi, ha visto l’intervento del Sindaco di Trento Franco Ianeselli, del Presidente del Trentofilmfestival Mauro Leveghi, del Presidente del CAAI Gruppo Orientale Francesco Leardi oltre che del Presidente della Sosat Luciano Ferrari.
L’attore Renzo Fracalossi ha declamato un originale ritratto delle due famiglie premiate.
SARA AVOSCAN di Falcade (BL) con un passato di forte arrampicatrice sportiva (ha vinto anche la Coppa Italia nel 2010) si dedica da anni ad un alpinismo di altissimo livello soprattutto in Dolomiti, spesso in cordata con il marito OMAR GENUIN, fortissimo alpinista e sciatore, allenatore e Accademico del CAI.
CATERINA MAZZALAI è una delle più forti alpiniste trentine in attività, istruttrice della Scuola Graffer e già Presidente della Sezione SAT di Ravina. RICCARDO MAZZALAI in tantissimi anni di alpinismo ad alto livello con grande entusiasmo ha avvicinato alla scalata molti giovani, a cominciare dalla sorella Caterina per finire poi con il figlio ELIO MAZZALAI, giovane promettente alpinista del gruppo familiare.
Un pubblico attento di appassionati ha gremito la sala e seguito con attenzione la manifestazione, allietata anche dagli interventi musicali del maestro Claudio Valdagnini e dalla soprano Victoria Burneo Sanchez.
Una serata ufficiale ma vissuta in amicizia e ottimamente organizzata dalla Sosat.
MIRANO 14 aprile 2024 – Convegno di primavera del Gruppo Orientale
Testo e foto di A. Rampini - Le foto della mostra sono dell'archivio F. Leardi, le panoramiche sono di S. Mazzani
Numerosa presenza di soci, ospiti e pubblico all’incontro organizzato dalla Presidenza di Gruppo in collaborazione con la Scuola di Alpinismo A. Leonardo del CAI di Mirano, che ha festeggiato con noi il quarantennale della sua fondazione con questo importante e ben riuscito impegno organizzativo.
Molto caratteristica la location, presso il Teatro di Villa Belvedere, al centro di un ampio parco cittadino.
La mattinata è stata dedicata all’incontro con i soci con una fitta scaletta di argomenti di interesse della nostra Sezione Nazionale e del Gruppo. E’ stato presentato il nuovo socio ammesso quest’anno, Nicolò Geremia, giovane bellunese dal brillante curriculum e dalle potenzialità di alto livello. Infine Silvio Agostini, con una narrazione estremamente coinvolgente, ha presentato il suo libro “Gli imprudenti”.
Dopo il pranzo sociale, il pomeriggio è stato dedicato ad un approfondimento culturale e storico sulla figura di Emilio Comici inquadrata nel periodo storico del “sesto grado”. Ricordiamo che Comici fu Accademico e segnò una svolta importante nell’evoluzione dell’arrampicata introducendo concetti per allora nuovi o comunque non diffusi, quali l’aspetto sportivo e l’allenamento sistematico. Rimase comunque una personalità dai sentimenti profondi e spesso tormentati, la cui complessa figura è stata indagata con l’aiuto di documentazione originale e mai pubblicata, fornita in buona parte da Livio Fabjan, figlio di Giordano Bruno Fabjan, Accademico e compagno di Comici in diverse scalate. Altri importanti contributi sono stati portati dal regista Marco Calabrese con il film “Sulla via della goccia d’acqua”, dagli studiosi/narratori Mirco Gasparetto, caporedattore della rivista “Le Alpi Venete”, e Mario Busana, docente di scienze naturali, e da Davide Melchiori, docente e divulgatore di cultura classica. Conclude l’intenso pomeriggio l’Accademico Stefano Zaleri “Calicetto” con una carrellata di foto e impressioni da una sua ripetizione di una delle vie più famose e meno ripetute di Comici, la Direttissima alla Nord-Ovest del Civetta. Numeroso il pubblico esterno presente a questa seconda parte del Convegno.
In occasione del Convegno è stata allestita una mostra su Comici con attrezzatura, abiti originali e altri cimeli del grande scalatore e bellissime foto ad opera di Manrico Dell’Agnola.
Il CAAI ringrazia i relatori, la Sezione di Mirano e la Scuola di Alpinismo A. Leonardi per l’ottima organizzazione logistica, il Comune di Mirano e la Città di Bassano del Grappa che ha patrocinato la manifestazione.
Convegno primaverile del Gruppo Orientale
MIRANO - 14 aprile 2024
Scarica qui la locandina in formato pdf
SARCA CLIMBING MEET 2024
Il Club Alpino Accademico Italiano Gruppo Orientale organizza un meeting alpinistico in Valle del Sarca nei giorni 10/11/12 Maggio.
All’evento parteciperanno giovani arrampicatori/alpinisti nella fascia di età tra i 18 e 30 anni provenienti da tutto il territorio italiano e proposti dalle scuole di alpinismo del C.A.I.
Saranno presenti Accademici che svolgeranno la funzione di tutor. Serate di contenuto storico, culturale e tecnico completeranno il programma.
LA TRACCIA DI TONI
Giovedì 11 aprile 2024 ore 20.45 presso la Sala Quadrivium – Piazza Santa Marta 2, Genova
Il CLUB ALPINO ACCADEMICO ITALIANO
in collaborazione con la sezione genovese della GIOVANE MONTAGNA e del GISM-GRUPPO ITALIANO SCRITTORI DI MONTAGNA
da' proprio patrocinio alla serata dedicata a Toni Gobbi con la proiezione del film
LA TRACCIA DI TONI prodotto da GRIVEL srl
Giovedì 11 aprile 2024 ore 20.45 presso la Sala Quadrivium – Piazza Santa Marta 2, Genova
Con il patrocinio di REGIONE LIGURIA Assessorato Tempo Libero
Presente in sala Oliviero Gobbi, nipote di Toni e AD di Grivel.
Conduce la serata Guido Papini, Direttore di Giovane Montagna – Rivista di Vita Alpina.
La maggior parte degli appassionati di montagna e di alpinismo ha conosciuto Toni Gobbi e ricorda il suo nome per averlo incontrato sui libri di Walter Bonatti, soprattutto per la prima salita del Pilier d’Angle al Monte Bianco. Oppure per le sue settimane di scialpinismo che proponeva come Guida Alpina.
Ma Toni Gobbi é molto di più. E il film “La traccia di Toni” ce lo farà conoscere come uomo, alpinista e Guida Alpina di grande personalità.
Antonio Gobbi nasce a Pavia nel 1914, ma cresce a Vicenza dove la famiglia, appartenente all’alta borghesia, si sposta quando lui è ancora bambino. Il papà è un affermato avvocato, come da tradizione famigliare. Anche Toni, come viene chiamato da quando arriva in Veneto, si laurea in Giurisprudenza all’Università di Padova nel 1940. Già da giovane si appassiona all’alpinismo frequentando il gruppo vicentino della Giovane Montagna già dagli anni 30. Nel ’38 inizia il servizio militare alla Scuola Allievi Ufficiali di Bassano del Grappa, specialità Alpini. L’Europa si avvia ad un periodo molto burrascoso, scoppia la guerra con l’invasione della Polonia da parte della Germania e nell’aprile del ’40 Toni è assegnato alla Scuola Militare Alpina di Aosta, sottotenente istruttore di alpinismo. Poi anche l’Italia entra in guerra e lui in forza al Battaglione Monte Bianco. Le grandi montagne occidentali lo affascinano e in quegli anni conosce anche Romilda, la figlia dei gestori del Rifugio Pavillon sotto il Colle del Gigante. La funivia che sale al rifugio Torino ancora non esiste, e non c’è ancora neppure il traforo del Bianco che aprirà solo nel 1965.
Nel ’43 Toni e Romilda si sposano e lui decide di stabilirsi a Courmayeur. La passione per la montagna è grande e Toni decide di farne la sua professione, così in quello stesso ’43 diventa Portatore (gli attuali Aspiranti Guida) e nel ’46 consegue il brevetto da Guida Alpina, cui fa seguito un paio di anni dopo il brevetto da Maestro di Sci e di Istruttore delle Guide. Nel contempo apre, nel ’48, un negozio di articoli sportivi per alpinisti e sciatori a Courmayeur che diverrà negli anni sempre più un punto di riferimento per gli alpinisti diretti al Monte Bianco.
Quella di Guida Alpina sarà la sua professione, ma nella sua attività alpinistica personale troviamo uno spirito di tipo accademico, nella ricerca del nuovo e con importanti ascensioni invernali. Già da giovane in Dolomiti aveva compiuto una bella attività, compresa una via nuova sul Monte Pasubio facendo nel contempo delle puntate nelle Alpi Occidentali con salite del Cervino e Monte Rosa. Nel Bianco nel ’43 traccia una via nuova al Pic Gamba e una nuova variante alla Cresta des Hirondelles alle Grandes Jorasses, cresta di cui farà poi la prima salita invernale nel ’48. Un anno dopo realizza la prima invernale della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey e nel ’53 la prima invernale della via Major sulla parete della Brenva al Monte Bianco con Arturo Ottoz.
Dalla fine degli anni ‘40 fa la sua comparsa nell’ambiente del Monte Bianco Walter Bonatti. I due divengono amici, legati da una stima reciproca che li unirà per tutta la vita. Insieme realizzano nel ’57 la prima salita del maestoso Pilier d’Angle del Monte Bianco e nel ’58 sono insieme (Gobbi vice capo spedizione) nella spedizione nazionale italiana al Gasherbrum IV capitanata da Riccardo Cassin. La vetta sarà raggiunta dalla cordata di punta, Bonatti e Mauri, ma l’apporto di Toni sarà determinante per la riuscita dell’impresa.
In precedenza, nel ’57, Toni aveva partecipato ad una spedizione (diretta da Guido Monzino e di cui faceva parte un gruppo di Guide del Cervino) nelle Ande Patagoniche con la prima salita assoluta del Paine Grande.
Ancora insieme a Bonatti fece parte della squadra che nel ’57 realizzò la prima traversata sciistica delle Alpi.
Proprio le traversate di scialpinismo divennero il punto di forza della sua attività professionale di guida, infatti a partire dall’inizio degli anni 50 ideò, con autentica visione imprenditoriale, le “Settimane nazionali sci alpinistiche di Alta Montagna” con tanto di catalogo, un gran lavoro di organizzazione, inaugurando una iniziativa che riscosse negli anni un grande successo.
Toni individuerà tutta una serie di percorsi di durata settimanale lungo l’intero arco alpino e anche fuori di esso (Caucaso con la salita dell’Elbrus nel ‘66 e Groenlandia nel ’67 e ‘69) e su di essi accompagnerà gruppi di clienti per un ventennio, fino al giorno della sua scomparsa, nel 1970, per un incidente di montagna al Sasso Piatto in Dolomiti. Pochi giorni dopo avrebbe dovuto partire con un gruppo di clienti per il Damavand in Iran.
Toni è stato un grande innovatore. Enrico Camanni, Accademico del CAI, giornalista, scrittore e storico dell’alpinismo, dice: “Toni Gobbi ha rinnovato totalmente il mestiere di Guida Alpina, ha portato una cultura che non era quella del montanaro, ma era quella di uno nato a Pavia, cresciuto a Vicenza, che ha studiato all’università, che ha visto tante realtà e tanti ambienti diversi.” E per questo divenne un punto di riferimento per i suoi colleghi in Valle e per l’intera categoria.
Toni Gobbi fu ammesso a far parte del GHM, il Groupe Haute Montagne francese, corrispondente al Club Alpino Accademico Italiano, e analogamente in Inghilterra dell’Alpine Club. In Italia fu dapprima presidente del Comitato Guide Valdostane e poi presidente nazionale delle Guide Alpine e a livello internazionale fu anche uno degli ideatori dell’UIAGM l’Union International des Associations de Guides de Montagnes la federazione che raggruppa le varie associazioni nazionali di guide alpine, con reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali e collaborazione internazionale.
Il film La traccia di Toni, che ha già riscosso notevole successo è firmato dal regista Antonio Bocola ed è prodotto da Grivel srl, ditta di cui Oliviero Gobbi, nipote di Toni, è titolare e Amministratore Delegato. Oliviero Gobbi che è altresì autore e produttore del film sarà presente in sala e si intratterrà con il pubblico al termine della proiezione.
Per un approfondimento della storia di uomo, di alpinista e di guida di Toni Gobbi si rimanda alla lettura di una serie cronologica di articoli, firmati da Oliviero Gobbi, illustrati da belle foto d’epoca e pubblicati sul sito Grivel
Per quanto riguarda Oliviero Gobbi, anche lui alpinista con all’attivo salite come l’Innominata al Bianco o il Cervino in invernale, si rimanda all’intervista di Elio Bonfanti pubblicata da Alessandro Gogna
Ottimizzazione e grafica A. Rampini
MERCANTOUR CLIMBING MEET 15-18 FEBBRAIO 2024
Testo di Serafino Ripamonti
Ottimizzazione a cura di A. Rampini
Organizzare un meeting di scalata è sempre un’impresa epica. Per pensare di farlo su vie di ghiaccio e misto in montagna ci vuole un filo di incoscienza. Per scegliere come destinazione un’area a poche decine di chilometri dal mare come il Mercantour occorre pure una certa dose di follia!
A volte però basta poco per immaginare come fattibili anche i sogni più improbabili e lanciarsi in un nuovo progetto, in barba ai dubbi e alle incertezze.
Questa volta sono stati sufficienti il bell’articolo scritto dall’Accademico Matteo Faganello per l’Annuario 2022 del CAAI e poi la relazione tenuta da lui stesso, assieme ai forti alpinisti nizzardi Stéphane Benoist e Jean Gounand, nel Convegno Nazionale organizzato nel 2022 a Genova dal Gruppo Occidentale.
Poi è arrivato un pranzo al Monte dei Cappuccini durante il quale il socio Serafino Ripamonti, grande appassionato di ravanamenti glaciali, ha lanciato l’idea: “Ragazzi, perché non organizziamo un meeting nel Mercantour?”.
Il presidente del Gruppo Occidentale Fulvio Scotto non se l’è fatto ripetere due volte: “OK, buttiamo giù un progettino e lo condividiamo con il Consiglio Generale del CAAI!”.
Così quel primo stimolo, un poco alla volta, ha cominciato a divenire un minimo comune e poi a moltiplicarsi… Anche il Presidente Generale Mauro Penasa ci ha messo del suo: “Perché limitarsi ad un meeting solo per gli occidentali? Dai, apriamo la partecipazione a tutti gli accademici e anche ai ragazzi dell’Eagle Meet e agli istruttori della scuola CAI!”.
La frittata ormai era fatta. Ben presto la follia e l’entusiasmo hanno contagiato i colleghi accademici che hanno approvato il progetto e pure il CAI Centrale, resosi disponibile a sostenere i costi di vitto e alloggio dei partecipanti.
Così è nato l’MCM, acronimo di Mercantour Climbing Meet, ma anche di Minimo Comune Multiplo, ovvero di un momento di incontro e condivisione, un minimo comune, appunto, che però potesse fungere da catalizzatore e moltiplicatore dei sogni, delle idee e delle esperienze di ciascuno.
Ci sono volute tante ore dedicate all’organizzazione e anche qualche notte insonne trascorsa a rimuginare sull’incertezza delle condizioni delle vie di misto laggiù sulle rive del Mediterraneo, in un inverno che di invernale ha davvero ben poco…
Alla fine il D-Day (Dry Day?) è arrivato e, fra il 15 e il 18 febbraio, un gruppone di giovani promesse dell’alpinismo e di diversamente giovani ha potuto assaggiare il sapore salmastro della scalata fra le rocce e il ghiaccio (pochino in realtà) del Mercantour.
Al campo base del Gite d’Etape del Boreon (ottimamente gestito dalla Guida Nicolas Feraud) si sono ritrovati in totale 44 partecipanti di cui 36 italiani (11 dei quali gli Accademici, 4 Aspiranti, 6 ragazzi dell’Eagle Meet e 15 istruttori LPV) e i francesi rappresentanti del Groupe Espoir, guidati da Stéphane Benoist e Jean Gounand, impeccabili padroni di casa. Entrambi si sono resi disponibili per raccontare le loro montagne e fornire tutte le informazioni utili a orientarsi su un terreno decisamente selvaggio. Un “terrain d’aventure” per dirla alla francese, dove soste attrezzate e chiodi in via, anche sugli itinerari più impegnativi, sono merce rara (per non dire introvabile!) e le discese sono spesso altrettanto ingaggiose delle salite.
Stéphane, in particolare, ha messo subito in chiaro che le condizioni erano un po’ quelle che erano, ma che, d’altra parte, nel Mercantour le condizioni sono sempre un po’ quelle che sono e la regola aurea è “adattarsi e improvvisare”…
Spirito che tutti i partecipanti hanno saputo fare proprio, riuscendo a ripetere diversi interessanti itinerari sulle pareti del Pèlago, del Cayre Nègres du Pèlago (Couloir Ben Novice e il Couloir En attendant Godot), del Cayre des Erps, Cime de Juisse (Couloir Yeti), Mount Neiglier (Benoist-Cateland directe ‘89), Cayre Nègre du Mercantour (canale est) e Cayre de Cougourda ove è stata anche aperta una via nuova.
Nel rispetto dell’idea con cui il meeting era stato concepito ogni cordata si è e mossa in autonomia, senza accompagnatori e accompagnati, ma lasciando a ciascuno la responsabilità e la libertà di scegliere obiettivi e compagni in base all’affinità, alla propria esperienza e alle proprie capacità.
Ogni salita e ogni momento trascorsi insieme sono divenuti occasione per ritrovare vecchi amici e conoscerne di nuovi e, come auspicava il nome dato al progetto, per mettere in comune e moltiplicare esperienze e progetti futuri…
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno preso parte e dato senso e valore a questo evento, con il loro spirito di amicizia e condivisione.
Un ringraziamento speciale agli accademici Matteo Faganello, Serafino Ripamonti, Fulvio Scotto e Mauro Penasa, che si sono presi carico dell’organizzazione e del coordinamento.
Grazie, infine, a df Sport Specialist che ha fornito i gilet personalizzati con il logo MCM: un bel ricordo di queste quattro giornate fra le Alpi del Mare.
L'INVERNO DEL GRAN SASSO - Parte prima - Dagli albori al 1980
Storia dell'alpinismo invernale sulla più alta montagna dell'Appennino - di Massimo Marcheggiani
Ottimizzazione e grafica A. Rampini
La più grande montagna dell’Appennino Centrale cambia veste, arriva l’autunno e poi come sempre segue l’inverno che ricopre tutto con la sua coltre immacolata. Masse di neve si accumulano nei valloni, canaloni o pendii e di quando in quando la neve si deposita anche sulle balze delle verticali pareti. La montagna, a volte grazie all’azione del vento, si trasforma in una vera e propria effimera scultura naturale e l’uomo ne subisce il fascino. Per questo, e per altri mille motivi, nasce l’alpinismo invernale.
Dal 1880 al 1900 – Gli albori - Sulle tracce di Corradino e Gaudenzio Sella
L'alpinismo invernale nel gruppo del Gran Sasso non vede il suo inizio con alpinisti del Centro Italia, bensì con due illustri nomi piemontesi: Corradino e Gaudenzio Sella, rampolli di quella grande famiglia Sella tra cui il ben più famoso Quintino che, oltre che ministro delle finanze, fu l'artefice della fondazione del Club Alpino Italiano il 23 ottobre del 1863.
È l'alba del 9 gennaio del 1880 quando i due Sella, accompagnati da Giovanni Acitelli e dal portatore Zaccaria si avventurano, prima di ogni altro, verso la salita invernale della massima vetta dell'Appennino Centrale. Due altri precedenti tentativi il Corradino Sella li aveva tentati invano esattamente un anno prima, nell'inverno del 1879. Non bisogna credere che i Sella facessero la spola Piemonte/Gran Sasso ogni volta: in quegli anni erano viaggi interminabili; invece, i rampolli Sella vivevano a Roma in casa dello zio Quintino, iscritti alla facoltà di ingegneria.
Dopo un interminabile viaggio Roma-Terni in treno, Terni-L'Aquila in diligenza, L'Aquila-Assergi con un'altra vettura i due cugini trovano da dormire e reclutano la “guida” Giovanni Acitelli e il portatore Zaccaria. All'una e mezza di notte si incamminano e all'alba raggiungono il Passo della Portella con neve stabile e una temperatura accettabile. Scendono nel sottostante Campo Pericoli e si dirigono alla volta del Corno Grande. Risalendo il ripido pendio verso la Sella del Brecciaio trovano opportuno legarsi (i due Sella) con una corda di manila da 25 metri invitando le due “guide” a stare nel mezzo e aggrapparsi alla corda in caso di necessità. Il solo che avesse una sottospecie di ramponi era il Corradino che dovette gradinare per l'intero pendio con il resto della comitiva attaccato all’ unica corda. Una volta raggiunta la sella le due “guide” molto spaventate dalla situazione preferirono rinunciare ad accompagnare i loro facoltosi clienti che, ben felici della loro rinuncia, continuarono da soli l'ascensione. Seguendo quella che è oggi la normale, alle 11 e 30 raggiunsero più agevolmente e velocemente la cima del Corno Grande. I due rimasero incantati dalla magnificenza del panorama: l'immensa distesa di Campo Imperatore, i dirupi del versante Nord, la vista dell'elegante Corno Piccolo ma prima di ogni altra cosa la inaspettata vista del mare Adriatico, che da nessun'altra montagna i due avevano mai potuto scorgere. Una relazione dei Sella suscitò inevitabilmente il giusto clamore, soprattutto negli ambienti romani e abruzzesi. Oltre i dettagli tecnici i cugini piemontesi sottolinearono la inadeguatezza delle “guide cosiddette” abruzzesi che giustamente si piccarono del giudizio negativo, ma va detto che in effetti gli Acitelli e altri abruzzesi erano sì conoscitori della montagna, ma il loro livello tecnico era praticamente nullo.
L'impresa dei Sella non fu solo “sportiva” dal momento che gli ambienti alpinistici del Centro Italia ne ebbero un effetto culturalmente positivo, risvegliandosi da un torpore sul quale erano adagiati praticando un alpinismo tendente più all'escursionismo estivo e tecnicamente relativamente facile. Maturò così una ricerca più intraprendente volta ad affrontare coraggiosamente salite più impegnative. La prima reazione fu la presa di coscienza che un rifugio sarebbe stato più che necessario, ed essendo la sezione romana la più “ricca” fu questa a finanziare la costruzione del primo rifugio sul Gran Sasso, che vide la inaugurazione il 16 settembre del 1886 intitolato a Giuseppe Garibaldi. Il Rifugio, costruito nella grande valle di Campo Pericoli, fu in seguito base operativa soprattutto per le “guide” abruzzesi.
L'8 dicembre del 1888 i romani Abbate, Pascarella, Stauffer, Tognini ed Ugolini con la guida Giovanni Acitelli compirono la seconda salita invernale del Corno Grande seguendo lo stesso itinerario dei Sella. Tre anni dopo seguì una terza salita invernale, esattamente il 5 aprile del 1891. Una cordata composta dai due torinesi Demaison e Manaira, il genovese Risso e Broglio di Verbano sicuramente avvezzi ad un alpinismo più d'avventura, salirono di nuovo i 2912 m della vetta massima del Corno Grande ma senza l'ausilio di guide, a dimostrazione che al nord si stava senza dubbio un passo avanti dal punto di vista tecnico. I quattro si trovavano a Roma per ben altri motivi, e approfittando della conoscenza dell'allora presidente del CAI capitolino, riuscirono a rimediare il materiale necessario. Raggiunta Assergi a notte fonda raggiungono il passo della portella, scendono nella conca di Campo Pericoli e successivamente a giorno fatto e contrariamente ai loro predecessori salgono in vetta lungo la cresta sud-ovest, itinerario senza dubbio più difficile (o meno facile) della via normale. Da notare che le salite invernali non si rifacevano, come succede oggi, fiscalmente all'inverno da calendario (21 dicembre-21 marzo) bensì alle condizioni della montagna innevata. Vediamo così che la salita delle montagne d'inverno in centro Italia diventa, come al nord, quasi un “dovere” alpinistico. Il Gran Sasso è montagna diversa dal resto dell'appennino, non è solo la più alta, ma presenta molteplicità di vette, versanti, grandi dislivelli ed esteticamente non ha confronto alcuno con il restante appennino. Era ed è ancora oggi la Montagna più ambita dagli alpinisti del centro Italia.
Salito ormai più volte il Corno Grande, l'attenzione si rivolge inevitabilmente al Corno Piccolo, dalle forme molto più ardite e che risulta essere il problema per eccellenza. La prima salita nella stagione invernale avviene nel 1893. Il 7 febbraio la comitiva composta dall'infaticabile Enrico Abbate, E. Gavini, O. Gualerzi, accompagnati dalla solita guida Giovanni Acitelli ed un portatore, raggiunge il rifugio Garibaldi. A notte inoltrata si avventurano per primi sul versante meridionale arrivando in vetta nel pomeriggio inoltrato su un percorso non molto chiaro (presumibilmente l'attuale via normale da sud). Restano in vetta una manciata di minuti poiché la successiva discesa non è affatto scontata visto che avviene quasi completamente di notte alla luce di lanterne a petrolio. La comitiva, infatti, raggiunge di nuovo il rifugio intorno alle 23, dopo quasi 20 ore di faticosa attività per scendere il giorno successivo ad Assergi.
Una importante salita, anche se tecnicamente semplice fu la traversata della montagna da nord a sud. Concepire una “traversata” nel 1895 fu un'idea senza dubbio all'avanguardia: artefici furono la solita Guida G. Acitelli con O. Gualerzi e E. Scifoni. Il gruppetto preparò minuziosamente “l'impresa”: si portarono al rifugio Garibaldi e qui lasciarono provviste nel caso di eventuali necessità. Ridiscesero la sottostante Valle Maone e raggiunsero Pietracamela, dove sostarono un intero giorno per riposare. Alle 2,30 di notte del 23 marzo lasciarono il piccolo villaggio posto a 1030 m e raggiunsero prima l'Arapietra a quota 1650m. Saliti poi lungo la larga cresta est raggiunsero quello che oggi viene comunemente chiamato “la Madonnina” a 2030 m e da qui, scalinando superarono il ripidissimo ingresso nel vallone delle Cornacchie (oggi Passo delle Scalette) raggiungendo il ghiacciaio del Calderone. Da questo, seguendo presumibilmente la via percorsa circa 200 anni prima da Orazio Delfico, raggiunsero per primi in inverno la Vetta Orientale a 2903m intorno alle ore 12. Scesi rapidamente di nuovo al Calderone, lo risalirono sul suo fianco sinistro fino in vetta all'Occidentale (2912m). Probabilmente il gruppetto era ottimamente allenato visto che, dopo aver sceso la cresta sud-est, alle 16 raggiunse il Rifugio Garibaldi e dopo una breve pausa la sera stessa raggiunse Assergi a 870 m. Dal punto di vista tecnico niente di nuovo, ma la performance fisica fu eccezionale visti i circa 4000 metri di dislivello superati tra salite e discese tanto che l'impresa venne celebrata sulla Rivista Mensile del CAI nell'agosto del 1895. La figura di Giovanni Acitelli, definita “presunta guida” dai Sella non molti anni prima, grazie alla sua fama e notorietà diventa leggendaria, tanto che diventano guide anche i suoi due figli, Berardino e Domenico.
Dal 1900 al 1915 – Inizia la frequentazione dei senza guida
Il XIX secolo si chiude in relativa sordina. L'Abruzzo, grazie alla sua più grande montagna, vede quasi con sorpresa un turismo alpinistico non più “casareccio” ma, grazie alle relazioni dei Sella, anche se sporadicamente, un interesse in crescendo da parte di alpinisti del nord che scendono al sud per conoscere questa montagna da cui “si vede il mare”. Questo scambio culturale tra nord e centro Italia porta con sé innovazioni “sportive”. Se da una parte vediamo la tecnica alpinistica crescere di anno in anno, di contro lo stile di scalare senza guide crea un danno professionale a chi aveva puntato (gli Acitelli e non solo) a questa professione come alternativa all'essere pastore, contadino o boscaiolo. Le risorse lavorative nelle zone montane appenniniche non davano certo grandi opportunità. Non ultimo, la costruzione del rifugio Duca degli Abruzzi nel 1908 sulla cresta del monte Aquila, a differenza del Garibaldi che d'inverno veniva letteralmente sommerso dalla neve, faciliterà ancora di più l'approccio al Corno Grande così come la frequentazione dei “senza guide”. Infatti, con o senza guide partendo dal “Duca” nel 1910 fu tentata una salita al Corno Piccolo, l'anno successivo fu salito in prima invernale l'odierno Canalone Bissolati, ancora nel dicembre del 1912 si vide la salita della parete sud del Corno Grande presumibilmente lungo l'attuale Direttissima e nel 1914 fu effettuato il primo tentativo di salita alla vetta massima con gli sci. A proposito dello sci un grande contributo alla ricerca di nuove salite fu dato dal conte Aldo Bonacossa, che da grande appassionato dello sci come dell'arrampicata portò ad un ulteriore ribalta il Gran Sasso cominciando proprio con la prima salita in sci del Corno Grande.
A proposito di Bonacossa, nato a Vigevano (Pavia), va sottolineata altresì la sua attività innovativa su roccia quando insieme ad Enrico Jannetta apre diverse vie nuove sul Corno Piccolo, tra cui la bellissima cresta nord. La continua presenza al Gran Sasso del “conte” fu di grande stimolo, e fece scalpore la salita con il “Fortissimo” Giusto Gervasutti quando nell'ottobre del '34 aprirono lo spigolo sud alla Punta dei Due con un passaggio di 6°grado che resterà per anni il più duro dell'intera montagna. Il conte Bonacossa in seguito, per i suoi meriti alpinistici divenne Accademico del CAI, e ne fu anche presidente generale.
Le sezioni CAI di L'Aquila e di Roma non stettero certo a guardare, rocciatori e sciatori ebbero una crescita tecnica notevole, colmando in parte il gap con gli stessi ambienti alpini. Il fermento fu tale che in seguito (nel 1925) Ernesto Sivitilli, medico condotto di Pietracamela oltre che valido scalatore, creò il gruppo alpinistico “Aquilotti del Gran Sasso” ancora prima dei più famosi Ragni di Lecco o degli Scoiattoli di Cortina.
Dal 1915 al 1942 – Il periodo tra le due Guerre e la tragica epopea della cordata Cambi-Cichetti
Dal 1915 al 1918 la mortale Prima guerra mondiale mette a tacere gli eventi alpinistici. Non succede nulla di importante per diversi anni, fino a quando una terribile tragedia sconvolge l'ambiente alpinistico centro italiano e soprattutto romano. Due ragazzi, poco più che ventenni ma già tra i più promettenti scalatori in seno alla sezione romana del CAI, partono come era normale in corriera dalla capitale arrivando ad Assergi il giorno stesso del funerale della nota guida alpina Giovanni Acitelli. Sono Mario Cambi e Paolo Cichetti. L'inverno in corso (1928/1929) verrà censito come uno dei più freddi e nevosi del secolo. È l'8 febbraio quando i due si avviano verso la montagna già abbondantemente coperta di neve. Nonostante una meteo non particolarmente favorevole risalgono il lungo pendio fino a raggiungere il Passo della Portella. Scesi a Campo Pericoli raggiungono il rifugio Garibaldi trovandolo come sempre d'inverno semisommerso dalla neve, trovando oltretutto la porta aperta. L'interno è ovviamente invaso dalla neve, non trovano la pala in dotazione al rifugio e non riescono quindi a liberare la porta, il camino intasato dalla neve non funziona e perciò niente fuoco. Passano la notte come se stessero all'aperto patendo il freddo intenso. È giorno avanzato quando si avviano lungo i pendii colmi di neve verso la Sella dei due Corni superando il Passo del Cannone. Nonostante il forte ritardo sulla tabella di marcia Cambi e Cichetti non demordono dal loro progetto della prima invernale alla cresta Chiaraviglio-Berthelet. Questa, facile d'estate, è letteralmente trasformata e, nonostante ciò, attaccano la via trovandola difficilissima e penosa data la già evidente stanchezza del lungo avvicinamento. I due giovani scalatori stanno inconsciamente inanellando errori su errori. Perdono uno zaino che cade nel sottostante Vallone delle Cornacchie, Cambi si ritrova non sappiamo come senza guanti ma decisi a tutto continuano, penosamente e lentamente verso la vetta. Soltanto poco prima del tramonto si rendono conto che non ce la faranno mai a toccare la cima della montagna, sono ancora troppo lontani e finalmente si arrendono. È notte quando raggiungono la Sella dei due Corni. Oggi ci chiediamo perché, invece che tornare al lontanissimo Garibaldi, già stanchi e mezzi congelati, non siano scesi per il facile Vallone delle Cornacchie e da qui, tutto in discesa e senza difficoltà alcuna raggiungere in meno di due ore l'albergo in costruzione sulla cresta dell'Arapietra, passarvi la notte e sempre facilmente raggiungere poi Pietracamela.
No! Invece dopo aver cercato e recuperato lo zaino perso risalgono faticosamente al Passo del Cannone, attraversano la Conca degli Invalidi e quasi all'alba arrivano stremati al Garibaldi. Tutto con la neve oltre le ginocchia. Entrano, tolgono gli scarponi e realizzano ambedue di avere avanzati stati di congelamento ai piedi e Cambi ad una mano. È il 10 febbraio e restano fermi perché non riescono a calzare gli scarponi e fuori si è scatenata una tormenta accumulando neve su neve. Porta aperta, niente fuoco, cibo ormai agli sgoccioli. L'11 febbraio non cambia nulla e stanno ancora fermi, ormai senza cibo né acqua, infreddoliti fino alle ossa. Il 12 non hanno più alternativa se non calzare dolorosamente gli scarponi, scavare con le mani un pertugio per uscire dal rifugio ormai sommerso dalla neve e tentare disperatamente di scendere a Pietracamela. La marcia è penosa oltre ogni limite, Mario Cambi non ce la fa più, si arrende, si ferma e muore di stenti tra le braccia del suo amico. Paolo Cichetti non può fare altro che provare a salvarsi, continua la sua disperata discesa ma è ormai alla fine di ogni sua più piccola risorsa fisica. Crolla nella neve fonda a soli due chilometri dal piccolo paese e qui esala il suo ultimo respiro.
Le ricerche dei due sventurati ragazzi si avviano quanto prima ma senza esito. Paolo Cichetti viene ritrovato il 20 febbraio. Il corpo di Mario Cambi verrà ritrovato, molto più in alto soltanto nel mese di aprile. La ricostruzione di questo primo, tragico e drammatico evento si è resa possibile grazie ad alcuni scritti che i due ragazzi hanno lasciato nel rifugio Garibaldi, scritti che fanno pensare avessero ormai sentore della loro imminente fine.
Dopo la tragica fine dei due giovani Cambi e Cichetti, non ci furono salite invernali per diversi anni. Unica eccezione fu quella di Ernesto Sivitilli con De Carolis, Costantini e Fondaconi che da Pietracamela salirono il Picco dei Caprai, sulla sponda sinistra orografica della Valle Maone, l'8 dicembre del 1929 , “prima invernale alpinistica” di una certa rilevanza dalla fine della Prima guerra mondiale al 1943. Negli anni di mezzo, grazie alla costruzione della prima funivia nel 1934 che da Assergi portava a Campo Imperatore, ci fu esclusivamente una ricerca sciistica sulle montagne del Gran Sasso. Furono saliti per la prima volta il monte Prena, il monte Brancastello, il San Franco, il Cefalone e furono compiute alcune interessanti traversate, ma con valore tecnico alpinistico praticamente nullo. Forse la tragedia dei due romani aveva lasciato un pessimo ricordo e non ultimo una disgraziata Seconda guerra mondiale aveva messo in ginocchio l'Italia intera, con milioni di morti e città devastate da bombardamenti. L'alpinismo, con la sua potenziale pericolosità, probabilmente era l'ultimo dei pensieri degli scalatori.
Dal 1943 al 1963 – Venti anni di intensa attività
Il primo a rimettere le mani sulle pareti del Gran Sasso, d'estate e d'inverno, fu Andrea Bafile. Nato a L'Aquila nel 1923, oltre ad aver effettuato importanti salite su roccia al Corno Grande e al Corno Piccolo, Bafile dal 1943 si dedicò in maniera sistematica alla pratica invernale. Non realizzò niente di particolarmente importante ma salì con compagni diversi molte delle vie classiche di quegli anni; la via Gualerzi-Acitelli alla vetta Centrale, la cresta sud-est del Torrione Cambi (intitolato a Mario Cambi di cui sopra), la via Chiaraviglio-Berthelet al Corno Piccolo (tentata appunto invano da Cambi e Cichetti), lo spigolo sud-sud est del Corno Grande ed altre salite ancora. Fu senza dubbio un anticipatore di quella che sarebbe diventata negli anni a venire un'attività perseguita dai più intraprendenti scalatori della seguente generazione ed è riconosciuto come un valido caposcuola di un alpinismo poliedrico e tecnicamente avanzato. Anche alcuni romani ripresero in mano le scalate invernali: nel 1953 G. Malagodi, L. Camponeschi e G. Bonini compirono la prima invernale della cresta est nord est della vetta Occidentale mentre pochi giorni dopo, era il 12 dicembre, S. Bastianello e S. De Simoni ripeterono lo stesso itinerario ma con una variante d'attacco diretta.
Verso la fine degli anni 40, all'interno della sezione capitolina del CAI, poco più di una manciata di studenti universitari chiede e ottiene dal Consiglio Direttivo di potersi costituire in Sottosezione Universitaria per svolgere in maniera autonoma un’attività alpinistica di stampo tecnico avanzato. Il nefasto ventennio del fascismo e la stupida guerra da questo voluta sono ormai alle spalle, un'aria nuova comincia a respirarsi e la neonata SUCAI diventa il motore pulsante della sezione romana, così distante dalla catena alpina e con una tradizione alpinistica ancora molto scarsa. I giovani sucaini diventano loro malgrado un veicolo sportivo/culturale di prim'ordine, la sezione ne ha benefici così come le altre realtà alpinistiche del centro Italia.
Si comincia a parlare di alpinismo moderno anche in Appennino. Informazioni e rare incursioni sulle lontane Alpi portano ad un confronto con l'alpinismo del 6° grado, con l'alpinismo di grande avventura e dove l'alpinismo invernale presuppone “un cammino della sofferenza”, parafrasando Gian Piero Motti nella sua Storia dell'Alpinismo. Le “piccole” montagne appenniniche vengono viste con occhi diversi, c'è bisogno di un concetto nuovo di esplorazione e i giovani sucaini ne sono, dalla seconda metà degli anni '40, i maggiori protagonisti. Roma è città grande, tra i due/ tre milioni di abitanti è facile trovare più scalatori che non in piccole città come L'Aquila, Teramo o addirittura in piccoli paesi come possono essere Assergi o Pietracamela. Tra i tanti nella sezione CAI romana di bravi e intraprendenti ce ne sono. Va aggiunto che spesso tra i tanti è presente una discreta borghesia, quindi una disponibilità economica che permette lunghi viaggi e permanenze sulle Alpi con realizzazioni e incontri/confronti con alpinisti di altre culture. L'Appennino Centrale è una lunga e articolata catena di montagne, ma per lo più troviamo “grandi colline” con scarse possibilità di trovare pareti da scalare; la dovuta eccezione è data dal Gran Sasso che come già visto e letto offre pareti in quantità, grandi dislivelli e roccia su alcune pareti di primissima qualità. Anche i monti Sibillini offrono pareti ma non reggono certo il confronto con il Gran Sasso, così come i monti Reatini, il gruppo del Velino/Sirente e così via. Il Gran Sasso è il riferimento principale.
Nonostante tutto l'atavico ritardo rispetto allo sviluppo alpinistico estivo o invernale che fosse sulle Alpi, non lo si poteva certo negare. Probabilmente il concetto che l'alpinismo in Appennino fosse di serie B portava ad una visione riduttiva del proprio operato, ma i tempi dovevano maturare, bisognava “fare” per potersi mettere al passo con i “bravi” del nord. Grazie alla scossa che il bravo Andrea Bafile aveva dato, i sucaini romani diventano lentamente i principali protagonisti di un alpinismo tecnicamente più avanzato. Nel marzo del 1957 sembra che i romani si scatenino: Silvio Jovane, Luigi Mario e l'abruzzese Lino D'Angelo compirono la prima invernale della “via delle Spalle” il 16 del mese; il giorno dopo Franco Alletto, Enrico Leone e F. Della Valle salirono primi in inverno il lungo canalone Herron/Franchetti sulla parete est del Pizzo Intermesoli; il giorno dopo ancora, siamo al 18 marzo, G. Bulferi ed E. Mercurio salirono la via “Abbate/Acitelli” sulla parete nord del Corno Piccolo; il 19 Franco Cravino e F. Dupré compirono la prima traversata invernale delle tre vette del Corno Grande. Cravino con altri compagni aveva già salito giorni prima la via “Franchi/Terigi” al monte Corvo. Due abruzzesi di Pescara, Luigi Barbuscia e S. Lucchesi non stettero certo a guardare e salirono per primi d'inverno la lunga “cresta nord-est” del Corno Piccolo. I romani e pochi altri si erano scatenati! Nel mese di gennaio del 1958 continua la corsa alle prime invernale ed ancora i romani della SUCAI risultano esserne i protagonisti. Luigi “Gigi” Mario e Silvio Jovane salirono la via “Jannetta-Bonacossa” sulle Spalle del Corno Piccolo; E. Leone e Panegrossi il “canalone Jacobucci” all'Intermesoli mentre C.A. Pinelli, M. Lopriore e G. Macola salgono il sinuoso canale “Sivitilli” alla prima Spalla. Pinelli sarà il principale salitore delle vie dette “grandes courses”, la sua mentalità più “occidentale” lo porta appunto a cercare quegli itinerari meno tecnici ma di più grande respiro di cui il Gran Sasso non è certo avaro.
“...Lo scorso anno furono compiute le prime salite invernali delle creste nord-est e ovest e della parete nord del Corno Piccolo oltre la est del Pizzo Intermesoli: restava da salire ancora la ripida e articolata parete est del Corno Piccolo; non potevamo rassegnarci a non essere noi abruzzesi di Pietracamela a compierne la prima invernale...” Così scrive Bruno Marsili in “L'ultima prima, Aquilotti del Gran Sasso” del 1976. Infatti, Bruno Marsili (medico condotto di Pietracamela), Lino D'Angelo (prima guida alpina abruzzese) e Clorindo Narducci degli Aquilotti del Gran Sasso, il 15 febbraio del 1958 compirono la prima invernale assoluta della parete più dolomitica della montagna lungo il” Costolone Divisorio”. I tre abruzzesi probabilmente si sentirono scippati dal protagonismo dei romani e cercarono il giusto riscatto in una “sana” e naturale competizione con i forestieri capitolini.
Grazie alle vedute più ampie di Pinelli si cominciano a buttare occhiate alla più grande parete del Gran Sasso. La lunghissima via Jannetta al Paretone diventa così il problema principale; stando ai principi che la pratica invernale si orientava soprattutto su canali più o meno ripidi e rare vie di roccia “facili”, ecco che la “Jannetta” attira le attenzioni dei più agguerriti. Sparuti tentativi precedenti al '61 non salgono che il facile pendio che porta al “forcellino” comodo spazio che negli anni a seguire diventerà un ottimo punto da bivacco esente da pericoli oggettivi ed avamposto per facilitare la salita di questo lunghissimo itinerario. Il 29 febbraio del '61 i “soliti” romani Pinelli, Jovane, Cravino e Lopriore, stipati come sardine a bordo di una modesta FIAT 600, partono da Roma. Non esiste autostrada e il viaggio lungo la via Salaria toccando Rieti, Antrodoco, Vado di Corno, poi il Passo delle Capannelle, Montorio al Vomano ed infine il minuscolo villaggio di Casale San Nicola sfinirebbe chiunque. Passano metà notte in una stalla di conoscenti e ben prima dell'alba si avviano verso la incombente parete salita per la prima volta 40 anni prima. Risalgono il lungo fosso che termina esattamente contro la parete, da qui facilmente raggiungono il “forcellino” e dopo non molto si legano in due cordate distinte. Il primo sole li trova già poco oltre i due muri più ripidi e impegnativi da dove si obliqua ora lungamente verso destra. L'immane strapiombo della “Farfalla” alla loro sinistra incombe sulle loro teste e devono accelerare visto che ogni tanto qualche pietra o piccole slavine cadono dall'alto. La lunghissima salita non comporta grandi difficoltà, anzi, ma l'isolamento e la grandezza ambientale rendono la scalata a suo modo impegnativa. Franco Cravino in seguito ebbe a scrivere:”... comincio a pensare che questa salita sia infinita, dovrò continuare a salire, salire e salire per il resto della mia vita...” La progressione ha però un buon ritmo e sono ormai in alto quando però il tempo è ormai cambiato ed è minaccioso.
E' tardo pomeriggio quando le due cordate escono finalmente in vetta, uscita complicata però dall'arrivo di una fitta nebbia, vento forte, neve e il buio ormai incipiente. Stanchi e senza visibilità decidono per il bivacco, riescono a montare una tendina e a fatica infilarsi dentro tutti e quattro al riparo del forte vento. Scomodi come sono non chiudono occhio, e quando a notte fonda il vento si è placato e le stelle tornate visibili calzano di nuovo i ramponi e facilmente raggiungono il rifugio Franchetti ovviamente chiuso, continuano l'interminabile discesa nel vallone delle cornacchie ed infine l'agognata FIAT 600. Pochi giorni dopo la salita di Pinelli e compagni, Luigi “Gigi” Mario ed E. Caruso della Sucai di Roma si portano alla base della stessa grande parete. Qui nel buio incontrano due tra i migliori scalatori di Ascoli Piceno: sono Marco Florio e Maurizio Calibani che con i due romani compiono quindi la seconda salita invernale della “Jannetta”. I marchigiani, molto attivi sui monti Sibillini, saranno in seguito l'altro polo del protagonismo sul Gran Sasso sia estivo ma soprattutto invernale quando a pochi anni di distanza apparirà sulle scene la figura di Tiziano Cantalamessa.
Pinelli e Jovane un mese dopo la salita al Paretone si ripeterono con un’altra grande salita di stampo occidentale superando i 1250 metri della via Haas-Acitelli, sull'isolatissimo versante Sud della vetta Orientale. Anche questo bellissimo itinerario, come la via Jannetta, non presenta particolari difficoltà tecniche, ma di nuovo l'isolamento e il lungo avvicinamento lo rendono senza dubbio una “grande course” appenninica da non sottovalutare mai.
La forte cordata di Florio e Calibani, una settimana dopo lo Jannetta, sale la breve ma difficile via di Gervasutti alla Punta dei Due. Vero che la via è relativamente breve e di facile accesso, ma il 6° grado affrontato e superato dimostrò la maturità dei due ascolani, maturità che destabilizzò romani e abruzzesi quando i soliti due Florio e Calibani alzarono e di molto l'asticella delle difficoltà, spingendo in avanti il livello tecnico raggiunto fino ad allora quando nel mese di marzo 1963 attaccarono i 1150 metri della cresta Nord della Vetta Orientale. Come per la via Jannetta al Paretone più di una cordata aveva tentato, invano, di salire il difficile e lungo itinerario. I due ascolani all'alba del 17 marzo si trovarono alla base del lungo camino che supera la prima sezione della cresta. Le condizioni non erano delle migliori, ma la determinazione dei marchigiani non venne meno e con una difficile arrampicata su un misto molto complicato (la roccia non è delle migliori) raggiungono la “Cengia dei Fiori” che chiude il primo terzo della via. Attrezzati con tendina e sacchi piuma bivaccarono al freddo ma comodamente in quanto la cengia offre spazio sufficiente. Il secondo giorno li vide maggiormente impegnati: un fastidioso nevischio e non pericolose piccole slavine aggiunsero ulteriori difficoltà alla lunga scalata fatta di misto, assenza di sole, rocce a volte friabili e diversi muri verticali. Nel tardo pomeriggio raggiunsero il termine della cresta, intersecando quella che oggi è la ferrata Ricci e dalla quale si scende al rifugio Franchetti (costruito solo due anni prima) e da qui ai Prati di Tivo senza difficoltà alcuna. Una salita invernale così difficile non era mai stata portata a termine e i due ascolani dettero prova di una avanzata maturità. Questo tipo di evento non poteva che stimolare ulteriori tentativi e realizzazioni sulla grande montagna appenninica; infatti, già l'anno seguente si ebbero due salite tecnicamente impegnative: la vetta massima del Corno Grande viene raggiunta lungo la ancora inviolata parete est. Questa viene salita per la prima volta nel gennaio del 1964. Dopo infruttuosi tentativi di cordate capitoline, la articolata via SUCAI viene vinta da C.A. Pinelli e M. Lopriore. La via, con i suoi lunghi traversi e risalti appoggiati presenta numerose croste di ghiaccio. Lopriore supera queste difficili sezioni con decisione e padronanza tali che Pinelli ebbe a definire “Ottima tecnica di ghiaccio” la progressione del suo compagno di cordata, che in seguito scrisse sul numero unico della SUCAI 1957/1967 “... parto io e trovo le placche fortunatamente pulite, ma nelle fessure e appoggi c'è ghiaccio duro, e più mi avvicino al nevaio di uscita e più questo aumenta. Diventa sempre più difficile evitarlo, finché arrivo sotto il nevaio e non trovo nessun punto di sosta. Da sotto la neve ripida scopro una lastra di ghiaccio duro che copre ogni cosa; mi scavo a fatica un terrazzino con la piccozza e creo una scomodissima sosta dalla quale recupero Betto a spalla...”. Il mese successivo, esattamente l'11 febbraio altri due romani sono all'opera: la verticale parete est del Corno Piccolo viene superata per la seconda volta da M. Caparelli e R. Ferrante lungo il “Camino a nord della vetta”. Certo, il confronto con quanto succedeva sulle Alpi non poteva avere storia; un esempio per tutti: nel gennaio del 1963 un “certo” Walter Bonatti aveva salito la mitica via Cassin alla parete nord delle Grandes Jorasses, che con i suoi 1200 metri di grandi difficoltà aveva messo un grande punto fermo alla pratica dell'alpinismo invernale. Sicuramente le notizie viaggiavano rapidamente, probabilmente anche in centro Italia si cercava di emulare il mitico Walter accontentandosi ovviamente di quanto si riusciva a concludere facendo i conti con il forte ritardo culturale e tecnico che si aveva. Nonostante ciò, si nota però una crescita indubbia anche sulle modeste montagne appenniniche. La scarsità numerica di scalate invernali fino agli anni '60 e le basse difficoltà tecniche allora affrontate venivano pian piano superate. Florio e Calibani avevano senz'altro scosso l'ambiente, la cresta nord dell'Orientale aveva messo un deciso punto fermo.
Dal 1964 al 1970 – L’epopea del Monte Camicia
I romani, molto più numerosi degli abruzzesi o marchigiani, erano i maggiori risolutori dei problemi invernali. Nel '65 quattro romani, Pinelli, Lopriore, Cravino e S. Bragantini salgono in prima assoluta ed invernale una via all'estrema sinistra della grande parete nord del Monte Camicia, esattamente una cresta esposta a nord del Dente del Lupo con un forte principio esplorativo. L'inverno dell'anno successivo ancora due romani, S. Paternò e R. Triglia la via “Ciai-Pasquali” alla punta dei due ma dal versante est. Nello stesso anno al Gran Sasso si inaugura la posa in opera del bivacco Bafile, che in seguito sarà astutamente utilizzato per alcune ascensioni nella stagione invernale.
Arriviamo al 1967, anno davvero importante per l'alpinismo invernale, dove anche se su di un mediocre livello tecnico si contano ben quattro prime invernali. Tutto succede nel mese di marzo, quando, molto probabilmente grazie alle giornate con più ore luce, si hanno più probabilità di evitare freddi bivacchi. Di nuovo i romani: Lopriore, P. Cutolo, P. Cemmi e S. Bragantini salgono lo spigolo sud est del Torrione Cambi, probabilmente approfittando del vicino nuovo bivacco Bafile come appoggio ed evitare il lungo avvicinamento. Era il 5 marzo, e solo due giorni dopo ancora i romani Cravino (attivissimo in quegli anni), G. Steve e Loretta Pasqualotto salgono la “Via della Crepa” di cui Cravino aveva compiuto la prima solitaria. Finalmente due abruzzesi si fanno vivi: Domenico “Mimì” Alessandri con S. Graziosi il 12 dello stesso mese sale la cresta sud est della Vetta Centrale, che attacca direttamente alle spalle del Bafile. Il 15 ancora i sucaini romani all'assalto! G. Steve e due fratelli Bellotti salgono la “via a destra della crepa” sulla verticale parete est del Corno Piccolo mentre il 18 A. Colasanti e L. Caldo salgono la via “Ferrante- Paternò” sempre sulla est. Termina l'inverno con la salita del grande canalone a est del Monte Camicia: N. D'Angelo, G. Brindisi, P. Scatozza, V. e D. Nobilio salgono per la prima volta il lungo itinerario che termina alla Forchetta di Penne, aperto da S. Baroni e D. Cutilli nel '57, chiamato “Il Gravone”, una grande course tipicamente appenninica.
E’ bene ricordare un antefatto: prima di tutte le realizzazioni sopra riportate ci fu un importantissimo tentativo invernale che, se fosse riuscito, avrebbe senza dubbio scosso l'intera comunità alpinistica. La Guida Alpina di Pietracamela Lino D' Angelo con Luigi Muzi il 5 febbraio, con tempo molto buono, si porta alla base della imponente e repulsiva parete nord del Monte Camicia. Come detto precedentemente, questa parete, salita a metà degli anni '30 dagli Aquilotti del Gran Sasso Marsili e Panza, presenta una roccia molto ma molto friabile, con grosse difficoltà nell'infiggere chiodi che facciano stare minimamente sicuri chi la scala e dove un volo potrebbe essere fatale per l'intera cordata. D'inverno, sfruttando buone condizioni di freddo e ghiaccio, la salita può essere per assurdo più facile e sicura. D'Angelo e Muzi, raggiunto il “Fondo della Salsa” alla base della opprimente parete, attaccano dallo zoccolo erboso sfruttando con la piccozza e i ramponi anche l'erba e la terra ghiacciate e con dieci gradi sottozero superano questa chiave d'accesso alla parte più impegnativa, dove la parete si impenna. Superano lingue ghiacciate e brutta roccia affiorante, ma la giornata particolarmente corta li obbliga già ad un primo bivacco non molto sopra lo zoccolo. La progressione è per forza lenta. D'Angelo conduce la cordata e metro dopo metro con la massima attenzione riescono a raggiungere e superare i due piccoli nevai sospesi, a circa due terzi della parte più verticale della parete. Questa, dopo i nevai e altre poche centinaia di metri si abbatte e un relativamente facile canale di circa 300 metri porta in vetta. La scalata dei due abruzzesi è necessariamente lenta e un secondo bivacco è d'obbligo. Come molti sanno, al Gran Sasso non è infrequente l'arrivo improvviso di un forte vento e questo arriva non appena i due alpinisti si sono sistemati nei sacchi piuma. A metà notte la tormenta porta anche la neve. Al mattino la parete è ovviamente ricoperta da neve pesante, la temperatura da -10 è salita a 7/8 gradi sopra lo zero. Scende acqua dalla parete oltre che frequenti piccole slavine e D’Angelo decide necessariamente una ritirata: “...il nostro desiderio di dedicare questa impresa a Gigi Panei (alpinista della provincia reatina cresciuto alpinisticamente in Abruzzo, più volte compagno di Walter Bonatti al Monte Bianco, anche nel tentativo invernale alla Nord del Cervino, poi salita in solitaria da Bonatti) si è sgretolato, come le colonne di ghiaccio che regolarmente precipitano giù verso il Fondo della Salsa. Dopo 12 ore di difficilissima discesa ci ritroviamo sullo zoccolo erboso che poi superiamo di notte. Per me queste sono state le massime difficoltà superate in tutta la mia carriera alpinistica...” Così scrive D'Angelo su “Tentativo invernale al monte Camicia” in “M. Camicia: storia di una montagna” edito da CAI Castelli, TE. Da notare che effettuare corde doppie su quella parete non è impossibile, ma certamente difficilissimo e assai pericoloso. Anche se fu solo un tentativo, di fatto l'asticella delle difficoltà era stata alzata di molto. La scalata incompiuta di D'Angelo e Muzi non passò certo inosservata, nonostante in quegli anni “l'informazione” fosse per forza di cose lenta e relativa. Nell'ambiente centro italiano fu un importante segnale non solo di crescita tecnica, ma di apertura mentale verso una forma di alpinismo di maggiore avventura se confrontato con certe altre salite compiute sullo stesso gruppo montuoso. Tutte hanno il giusto valore, ma c'è una differenza abissale tra salire una parete di 200/300 metri di roccia generalmente buona e una parete di oltre 1000 metri con roccia di dubbia qualità, una parete facilmente raggiungibile oppure una isolata e dall'avvicinamento fortemente complicato. Le differenze ci sono e vanno valutate anche per quello che comporta la difficoltà d'insieme. In questo gli abruzzesi e gli ascolani in alcuni periodi storici dimostrarono, con le dovute eccezioni, indubbiamente una ricerca diversa.
L'alpinismo in centro Italia sotto qualsiasi forma era ormai prassi consolidata. l'Appennino offre terreni di scoperta per tutti i gusti, soprattutto d'inverno quando montagne dai fianchi generalmente “dolci” si trasformano in canali, canalini e di quando in quando in vere e proprie goulottes ghiacciate da salire classicamente con piccozza e ramponi.
Tralasciamo ciò che succede sulle altre montagne appenniniche e torniamo al Gran Sasso.
Come abbiamo visto, la seconda metà degli anni 60 accende i riflettori sulle scalate invernali, attività dove sembrava esserci, e forse c'era effettivamente, una non celata bonaria rivalità tra gli ambienti romani e abruzzesi. Va detto però che, se competizione c'era, è anche vero che spesso alpinisti dei due ambienti si legarono insieme, come per esempio nell'apertura della prima via in assoluto sul grande scudo di roccia del Monolito ad opera di Cravino, Jovane e Lino D'Angelo.
Una nuda e cruda considerazione sullo stato dell'alpinismo invernale fu fatta da Piero Bellotti in un articolo che il sucaino romano scrisse nel 1969 sulla rivista “L'Appennino” del CAÌ di Roma dal titolo “Gli ultimi problemi del Gran Sasso: vie nuove e prime invernali”. In sostanza Bellotti riguardo alle invernali diceva che il livello delle salite era ancora “basso”, del tipo via Jannetta al Paretone, via SUCAI alla Vetta Occidentale o ancora Cresta nord della Vetta Orientale, dove il grado tecnico non andava oltre il classico 4° grado. Unica eccezione il tentativo sul Camicia di D'Angelo e Muzi. Bellotti riconosceva che le tante salite compiute nell'inverno del 67, con un grado tecnico ben più alto, erano per lo più paragonabili a salite estive grazie alla scarsissima presenza della neve. Secondo Belloti ciò era dato da una condizione psicologica e da un atteggiamento di subalternità rispetto gli alpinisti del nord, e per questo si aspettava astutamente la migliore condizione possibile delle pareti di grado superiore: “... in pratica per fare le invernali si aspettava che la parete fosse in condizioni più estive possibile”. P. Bellotti, op. cit.
Probabilmente per mettere in discussione quanto scritto, P. Bellotti con i suoi due fratelli Franco e Paolo il 22 marzo affronta e supera la “Via del Monolito” di 6° grado e A1 superando ogni livello tecnico salito precedentemente, ma con la parete piuttosto carica di neve. La salita dei fratelli Bellotti fu difficile e impegnativa per l'intenso freddo e soprattutto nello zoccolo di avvicinamento, in quanto la via vera e propria, di 150 metri, essendo verticale non poteva certo accumulare troppa neve. Impiegarono comunque 12 ore per uscire con il buio in vetta, ostacolati dal forte vento che nel frattempo si era alzato. La salita del Monolito va vista come uno sdoganamento degli alpinisti del Centro Italia verso la soluzione di grossi problemi invernali.
Dal 1971 al 1980 – Di nuovo la Nord del Monte Camicia. Le invernali si diversificano
Un ulteriore grande merito va dato a tre alpinisti della provincia romana: i tiburtini del CAI di Tivoli Armando Baiocco, Renzo Poggi e Angelino Passariello il 14 febbraio del '71 superano in prima invernale la via “Marco Florio” sulla parete nord del Corno Piccolo. La via, pur non essendo difficile, è però incassata e totalmente priva di sole, e a rendere difficile la salita è l'arrivo di una gelida perturbazione. I tre raggiungono con difficoltà la cresta nord, da cui riscendono in corde doppie, arrivando alla loro auto ai Prati di Tivo solo alle 22 della sera, stanchi ma felici: erano i primi a superare una via di roccia sulla parete nord.
La Vigilia di Natale 1971 gli aquilani Mimì Alessandri e Riccardo Nardis superano la via “Bafile” sullo Sperone Centrale della Vetta Occidentale che presenta una placca di 6° grado praticamente inchiodabile. Alessandri, anche se giunto relativamente tardi all'alpinismo, aveva preso in mano il testimone dell'alpinismo aquilano, distinguendosi tra tutti per intuito e intraprendenza. Soltanto due giorni dopo, è S. Stefano quindi, Alessandri con Roberto Iafrate, (Nardis magari era ancora stanco?) torna all'attacco: i due si portano alla base della parete est della Vetta occidentale per salire la “Diretta Consiglio” ancora per diversi anni la via più difficile dell'intera parete; qui trovano quattro scalatori romani della SUCAI che dopo aver attrezzato i primi due tiri della via il giorno prima e passata la notte al bivacco Bafile, sono già alti in parete. F. Cravino, G. Steve, A. Contini e M. Geri non sono evidentemente veloci, e nel giro di poco si vedono raggiungere dai due aquilani, che risoluti come pochi scalano senza inibizioni. In parete, molto ben assolata, non c'è un solo metro di neve. Le due cordate si scambiano quattro chiacchiere e si dividono; gli abruzzesi tirano dritti lungo la via di Consiglio, mentre i quattro romani raggiunta la molto più facile “via SUCAI” escono lungo questa. Marco Geri su un articolo scrisse poi: “...Ho sete e non c'è neanche una chiazza di neve per dissetarsi! Ma che razza di invernale siamo venuti a fare? … certo, se ora qualcuno mi domandasse se sento di aver compiuto una grande impresa, risponderei di no, direi che ho solo passato due divertenti giorni di festa...” M. Geri, da “Un Natale divertente” da L'Appennino, luglio-agosto 1972.
Il mese di Marzo '72 vede due belle realizzazioni, anche se di stampo diametralmente opposto, e sono due cordate romane le protagoniste: i giovanissimi sucaini Cristiano Delisi, Rys Zaremba e Donatello Amore il 16/17/e18 del mese affrontano e superano una delle salite più ambite; a comando alternato vengono a capo della difficile e verticale via di Gigi Mario: “lo Spigolo a destra della Crepa” ritenuta “la grande via” della parete est del Corno Piccolo e per quegli anni è senza dubbio la scalata più difficile fino allora realizzata. Il fermento nel gruppo SUCAI è chiaramente evidente; sono i maggiori frequentatori del Gran Sasso anche nella stagione meno propizia. Va detto però che i romani sono numericamente più numerosi dei pochi abruzzesi e marchigiani e l'ambiente forse più borghese e universitario fa certamente la differenza. Cinque giorni dopo la fine dello stesso inverno un'altra salita firmata dai romani, ma come dicevo di stampo diametralmente opposto: Pinelli, in compagnia di Gianni Battimelli, Adolfo Contini e il quasi immancabile Franco Cravino (l'anno prima aveva effettuato la prima solitaria della via in questione), supera gli oltre 1200 metri della via aperta dagli Aquilotti del Gran Sasso Sivitilli, Giancola e Trentini nel 1930. Via che si svolge in ambiente grandioso, oltre il già lontano canale Haas-Acitelli che risale una facile cresta per poi entrare in un profondo canale. D'estate non va oltre il terzo grado, ma la lontananza, l'isolamento e il lungo ritorno la fanno una “grande course” di tutto rispetto, a mio avviso maggiore della via Jannetta e dello stesso Haas-Acitelli. Ecco la ricerca che era in atto: da una parte le scalate di alta difficoltà, dall'altra la ricerca con un senso di avventura senza dubbio maggiore. Bisogna considerare che le previsioni meteo di quegli anni erano assolutamente scarse e allora: in un cambio repentino delle condizioni climatiche nonché di scarsa visibilità, una cordata che scende con 3/4 corde doppie, per esempio, dallo Spigolo a Destra della Crepa, una volta alla base torna a casa senza la più piccola difficoltà, né tecnica nè di orientamento. Su una grande via come la “Sivitilli” in zona Paretone l'arrivo di una perturbazione e la possibile scarsa visibilità crea guai a non finire e ci vuole una testa a parte per saperli affrontare. La mentalità occidentalista di Pinelli non era certo una garanzia, ma sicuramente offriva chance in più.
Parlavamo di differenze di mentalità e finalità nelle scelte degli alpinisti. La ricerca delle pure difficoltà sui gradi, oppure le “grandi” scalate d'ambiente, lunghe, isolate e spesso non scevre da difficoltà tecniche. Ribadisco la grandissima differenza tra un modo e l'altro, ed ogni tanto mi rifaccio al banale esempio: nuotare in piscina, o nuotare in mare aperto... Domenico “Mimì” Alessandri nello scegliere il suo alpinismo aveva optato per il mare aperto, e a volte, si sa, il mare può essere mosso e magari con gli squali intorno. Sempre nuoto è ma la differenza è a volte abissale! Quindi “Mimì” decide di voler salire la parete nord del monte Camicia, dove D'Angelo e Muzi non avevano fallito ma erano stati costretti ad una difficilissima ritirata. È il 21 dicembre del 1974 quando con l'aquilano Piergiorgio De Paulis e il romano Carlo Leone raggiunge il Fondo della Sala. De Paulis era molto giovane ma tecnicamente molto efficace, soprattutto su ghiaccio, e “Mimì” lo aveva scelto perché a L'Aquila era il migliore tra i numerosi frequentatori della montagna. Scalano a cordata distesa: in testa “Mimì”, poi Leone in mezzo e De Paulis chiude per ultimo. Superano lo zoccolo erboso e raggiungono le insidiose rocce del Camicia, saldate tra loro da neve e gelo ma pur sempre inaffidabili. Le giornate sono cortissime e bivaccano al primo nevaio. Appena giorno continuano la loro scalata, che vede sempre “Mimì” in testa. Superano altre centinaia di metri quando un urlo lacera l'immenso silenzio della altrettanto immensa parete. “Mimì” è un alpinista verace, molto istintivo e questa istintività, non capendo cosa stia succedendo, gli dice di buttarsi, letteralmente, dietro una crestina di neve e roccia. Forse erano legati in vita o forse indossavano le primissime e scomodissime imbragature, comunque sia buttandosi a corpo morto dietro la crestina “Mimì” riesce a bloccare quello che era un lunghissimo volo di De Paulis che si era portato appresso anche Leone. 40 metri di corda dividevano il capo cordata dal secondo e altri 40 metri dividevano Leone dal terzo. La terribile tensione della corda, con due corpi appesi crea al capo cordata problemi respiratori ma deve resistere e resistere. Seguono urla concitate tra “Mimì” e Leone ma nessuno capisce nessuno. È dopo un tempo infinito che la tensione della corda si allenta e uno stravolto Carlo Leone raggiunge il suo capo cordata. Leone è sotto shock, farfuglia parole sconnesse e tra i singhiozzi dice che De Paulis non rispondeva più, probabilmente morto per il lunghissimo volo e lui ormai allo stremo ha dovuto tagliare la corda. Un silenzio tombale avvolge la drammatica scena. Non possiamo immaginare con che stato d'animo “Mimì” e Leone affrontano un ulteriore gelido bivacco. Al mattino del terzo giorno devono cercare di uscire dalla grande parete, ma Leone è stravolto, non connette e non si sente di continuare la salita. Le insistenze di Alessandri non sortiscono niente, il tempo stringe e così è giocoforza per “Mimi” prendere l’unica decisione possibile, drammatica e rischiosa: uscire da solo dalla infida parete. Lascia quindi a Leone acqua e qualcosa da mangiare e inizia la sua ancora lunga scalata solitaria: “ ...Carlo si accingeva ad aspettare, senza sapere per quanto tempo ancora, da solo sull'immensa parete con la sola speranza che a me andasse tutto bene mentre viveva con angoscia la più dura delle sue esperienze... io fui privilegiato perché le parecchie ore di arrampicata solitaria che seguirono mi consentirono di accantonare la disperazione perché ero concentratissimo ed attento ad arrampicare come non mi era mai capitato in precedenza, mentre i pensieri di Piergiorgio, di mia moglie Antonella e di Carlo nella sua gelida solitudine mi accompagnavano per ricordarmi che tutto ciò che stavo facendo aveva ancora un senso...” Domenico Alessandri, op. cit. Il senso dell’impresa di “Mimì” si materializza il giorno di Natale, quando un elicottero della S.A.R. con a bordo lo stesso Alessandri recuperava tramite il verricello Carlo Leone, mentre una squadra del Soccorso Alpino recuperava la salma di Piergiorgio De Paulis alla base della grande parete del monte Camicia. La prima invernale di un valore altissimo si era così realizzata, ma come ebbe a scrivere ancora Alessandri “La salita fu, sotto il profilo umano ed alpinistico, senza dubbio un fallimento poiché non c'è parete al mondo che valga la vita di un uomo...”
Le cronache invernali riprendono l'inverno successivo, quello del 1975, quando diverse cordate romane realizzano nel mese di gennaio salite di ben altro impegno: M. Geri e E. Menichini salgono i 250 m dello spigolo est-nord-est della vetta occidentale; G. Mallucci, M. Geri e R. Bragantini salgono i 200m della seconda spalla sulla via da loro stessi aperta; D. Amore e L. Gambini salgono i 230 m della Aquilotti 72 ad ovest della seconda spalla. Ancora i romani Geri e F. Antonioli salgono la classica Morandi-Consiglio sempre sulla seconda spalla. Per certi aspetti il livello tecnico trova un momento di stallo scegliendo pareti facilmente abbordabili, di roccia pressoché perfetta e discese senza incognita alcuna. Ancora l'anno seguente il 19 marzo una cordata abruzzese sale la via Alletto-Cravino sulla parete ovest della vetta Orientale: sono Giampiero Di Federico, che sta emergendo come figura di spicco, e M. Mascarucci che impiegarono ben 8 ore per venire a capo dei 300m della fredda parete coperta di vetrato e neve. M. Frezzotti e Antonioli superano la Aquilotti 75 a ovest della seconda spalla. Due giorni prima del Natale '77 P.L. Bini, M. Marcheggiani e G.Picone, tutti e tre al di fuori dell'ambiente CAI romano, salgono il cosiddetto “Camino degli Americani” sulla parete est del Corno Piccolo mentre sulla nord i marchigiani Cotichelli e Mosca salgono la “Gigino Barbizi.
Ancora una tragedia si compie sul massiccio del Gran Sasso quando, giunti al termine della lunga salita della via “Haas-Acitelli” della vetta Orientale, il giovane Stefano Tribioli, che era in compagnia del fratello Bruno e i G. C. Cicconi, partiti da Roma il giorno precedente, inavvertitamente precipita dalla “Forchetta Sivitilli” sul versante opposto della via appena salita. La notizia scuote non poco il mondo alpinistico, soprattutto nella sezione del CAI romana dove i fratelli Tribioli erano molto attivi.
La pratica delle scalate invernali come vediamo non era più “solo per pochi”; anche se pur sempre una minoranza, era consuetudine tra la moltitudine degli scalatori affrontare quasi, e dico quasi, obbligatoriamente le montagne d'inverno. La famosa “lotta con l'Alpe”,così ben definita da Giampiero Motti, rientrava a pieno titolo nell'immaginario degli alpinisti di quegli anni. Sulle Alpi si erano raggiunti livelli neanche confrontabili con quello che succedeva in Appennino, ma lentamente, grazie agli esempi nordici, sia per imitazione o per puro diletto anche in centro Italia la qualità tecnica era costantemente in crescita. Così nel giro di pochi anni si vedrà un notevole balzo avanti nelle realizzazioni invernali. Dagli anni '80 prenderà piede una curiosa tendenza: più sale il livello d'ingaggio con grandi realizzazioni sulle pareti più impegnative del Gran Sasso, meno scalate invernali ci saranno. Vero che l'avvento dell'arrampicata sportiva ha fagocitato ¾ dell'umanità scalante, di fatto però si vedrà un netto calo nella pratica di questa disciplina indubbiamente più impegnativa, fisicamente e mentalmente.
M. Marcheggiani, G. Picone e A. Monti il 6 marzo del '79 salgono la “via del Vecchiaccio” ma non sarà una prima invernale in quanto gli ultimi 15 metri della improteggibile placca terminale sono ricoperti di 10 cm di neve farinosa che impedisce di fatto l'uscita dalla via e costringe a scendere in doppie lungo l'intera via. Ben altra salita sarà invece quella di G.P. Di Federico quando il 19 dello stesso mese sale da solo la “via dei Pulpiti” alla nord della vetta centrale. Questa difficile via, con uno dei primi sesti gradi, rimane costantemente all'ombra, d'inverno così come d'estate. La via ha uno sviluppo relativamente breve ma l'ambiente particolarmente severo e la roccia non proprio eccellente richiesero a Di Federico un impegno globale. Se la salita di Di Federico con la solitaria, con l'isolamento, il ghiaccio, la roccia e il freddo delle pareti nord rappresenta il classico alpinismo nella sua massima espressione, P.L. Bini cerca altre strade: il giovane talento romano (così come lo è l'abruzzese Di Federico) nello stesso inverno sulle assolate placche della seconda spalla sale in velocità, concatenandole, ben tre vie: “Le placche di Manitù”, “Ombre rosse” e “le Placche del Totem”. Bini le sale con R. Bernardi senza mai indossare gli scarponi e né tanto meno i ramponi. Una forma chiaramente e diametralmente opposta alle classiche salite invernali dove la “lotta” con gli elementi avversi dell'inverno fa una chiara differenza. Bini, grande arrampicatore ma poco amante del freddo, seguiva ovviamente l'iter di quasi chiunque scalasse e per questo si cimentava anche d'inverno, ma dove di “inverno”, al di là del calendario e della ovvia neve negli avvicinamenti, c'era ben poco. A conferma di quanto sopra i primi giorni di febbraio del 1980 Bini, M. Marcheggiani e G. Picone salgono la verticalissima e difficile “via Rosy” al Monolito sulla assolata parete est del Corno Piccolo. La salita, oltre ovviamente lo zoccolo di avvicinamento, non presentava la più piccola macchia di neve o ghiaccio. Era sì una prima invernale ma non era certo questa la via da seguire. Prima o poi qualcuno l’avrebbe dimostrato!
Nei dintorni della Punta Corrà
Ascensioni alla Punta Corrà e un ritratto alpinistico-umano di Corradino Rabbi
Testo di Ugo Manera - Foto Archivio Manera
Ottimizzazione e grafica a cura di Alberto Rampini
La Punta Corrà è una elevazione secondaria, spalla della vicina Uia della Gura, posta alla testata della Val Grande di Lanzo. Il nome venne proposto dai primi salitori della bella parete Sud Est a ricordo dello scalatore Giuseppe Corrà, esploratore delle montagne delle Valli di Lanzo travolto, con le guide Meynet e Pellisier, da una scarica di sassi il 29 agosto 1896 sulla Grande Sassiere.
Il suo versante Sud Est è formato da una ripida parete: uno dei gioielli della bellissima testata della Valle Grande. I primi a salire tale parete furono Andrea Mellano e Beppe Tron che tracciarono, il 13 settembre 1959, una via bella e difficile.
Quelle montagne mi conquistarono fin dalla prima volta che le ammirai quando, non ancora alpinista, raggiunsi il Rifugio Daviso con mio padre. Vi ritornai più volte e lì usai per la prima volta piccozza e ramponi per salire il canalone nevoso del Colle Girard. Era l’inizio dell’estate1958.
Divenuto scalatore orientato verso difficoltà elevate, il mio interesse per quell’angolo di montagne non venne meno, anzi ne ero ancora più attratto in quanto era evidente che lì c’era ancora molto da esplorare. Nell’ottobre 1967, con Pietro Giglio, salii al Rifugio Ferreri con l’intento di ripetere la via Mellano-Tron che risultava la via più difficile aperta fino ad allora sulle pareti dell’ampia testata.
Quando fummo sul ghiacciaio e la Corrà ci apparve illuminata dai primi raggi del sole, notai subito che a destra della via, nostro obiettivo, vi era un altro sperone parallelo molto promettente. Proposi seduta stante al mio compagno di tentare l’apertura di una nuova via sul secondo sperone. Una “prima” è sempre più allettante di una ripetizione. Pietro fu d’accordo con me e così ci avviammo su terreno vergine.
Sette ore di entusiasmante scalata ci portarono in vetta alla Punta Corrà. Poi, spinti dalla necessità di sfuggire all’oscurità incombente, scendemmo il più velocemente possibile dal colle Santo Stefano per nevai e detriti.
Un anno dopo ero nuovamente lì in compagnia di Ezio Comba, Gian Piero Motti, Ilio Pivano. Avevamo un obiettivo importante: lo sperone che scende dall’ultima elevazione verso Est della Cresta di Mezzenile, mai salito da nessuno. Fu una bellissima e difficile scalata che ci portò sulla torre innominata cui demmo il nome di Punta Antonio Castagneri.
Negli anni a cavallo tra 1960 e 70 l’interesse di molti scalatori si concentrò sulle ascensioni invernali. Molte vie e pareti importanti non risultavano ancora scalate nella stagione più fredda e la “caccia” a queste prime fungeva da incentivo per chi non temeva freddo, giornate corte ed eventuali gelidi bivacchi in parete. Le pareti del versante Sud-Est della costiera Gura Mezzenile non contavano ascensioni invernali. La loro è una esposizione sfavorevole perché il vento, che spira prevalentemente da nord ovest, anziché pulirle, accumula neve su ogni cengia e rilievo.
La voglia di realizzare qualche invernale in quei luoghi albergava in me da tempo ed all’inizio dell’inverno 1974-1975 mi decisi. Era un debutto d’inverno scarsissimo di neve e la montagna appariva spoglia in ogni dove, valutai che era il momento giusto per la testata della Valle Grande, bisognava andarci al più presto. Trovai disponibilità in Mariangelo Cappellozza, giovane compagno di varie scalate, ed in Corradino Rabbi, grande personaggio dell’alpinismo torinese, sempre pronto per ogni tipo di impresa.
L’obiettivo da me scelto era la via Mellano-Tron della Punta Corrà così nel pomeriggio del 4 gennaio ci trovammo a salire lungo il sentiero che porta al rifugio Ferreri. Di neve proprio non ce n’era, anche le pareti, viste dal basso, apparivano pulite. Per entrare nel rifugio dovemmo però scavare in uno spesso strato di neve accumulata dal vento che ostruiva l’ingresso.
Tali condizioni mi indussero ad una valutazione che poi si rivelò errata. Proposi ai miei due compagni di partire leggerissimi perché con condizioni quasi estive avremmo sicuramente evitato il bivacco. Così facemmo ed al mattino seguente, percorso al buio il lungo avvicinamento, alle prime luci dell’alba eravamo alla base della parete. Data l’esposizione ad est i raggi del primo sole ci raggiunsero presto e noi, senza esitazioni, iniziammo la scalata. Salivo io in testa legato alle due corde ed i miei due compagni seguivano in contemporanea legati ognuno al capo di una corda.
Ci bastarono pochi metri di scalata per scoprire l’errore in cui eravamo incorsi: vista dal basso la parete appariva “pulita”, invece ogni protuberanza era coperta da un sottile strato di neve portata dal vento, sovente trasformata in ghiaccio. Ogni appiglio andava pulito prima di essere utilizzato per cui fummo costretti a scalare con molta attenzione a scapito della velocità. Rallentati da una arrampicata resa delicata dalla presenza di neve e ghiaccio giungemmo in vetta che era ormai buio e fummo costretti al bivacco sulla vetta stessa.
Fu una notte gelida, non avevamo altre protezioni che gli indumenti che indossavamo e lo zaino da infilarci dentro i piedi. Ovviamente per essere leggeri non avevamo portato il fornelletto e non potemmo neanche fondere un po’ di neve per bere. Ma anche quelle lunghe penose ore passarono con un gran battere di denti e frizioni varie per non congelare, e finalmente giunse l’alba. Anchilosati dal gran freddo faticammo un po’ a rimetterci in moto ma poi iniziammo a scendere lungo il canalone di neve compressa del colle Santo Stefano. Le pene sofferte nella notte furono presto archiviate ed in noi emerse la soddisfazione per la bella “invernale” portata a termine.
Rievocando le avventure della Corrà di tanti anni fa mi viene da pensare ai miei due compagni dell’invernale alla via Mellano-Tron. Di Mariangelo e le sue divertenti stranezze - dalla sua trombetta di ottone alle avventure/disavventure del suo periodo militare - ho già raccontato diffusamente. Di Corradino Rabbi invece non ho mai avuto occasione di raccontare, e dire che di cose insieme ne abbiamo fatte.
Se ripenso ai personaggi che ho incrociato, non occasionalmente, nella mia vita di alpinista, in ognuno c’è qualche caratteristica che compare immediatamente nella mia mente quando la loro figura attraversa i miei pensieri. Ad esempio: se penso a Gian Carlo Grassi subito prende forma la sua serena, inesauribile passione per ogni forma di scalata, talmente infinita da trovare pochi riscontri in altri scalatori. Se invece il pensiero si rivolge a Gian Piero Motti mi sovviene la sua lucida intelligenza e soprattutto la grande sensibilità che gli faceva scoprire e raccontare cose che i più non percepiscono, ma che a volte lo portava a momenti di dubbio e di crisi.
Corradino Rabbi
L’immagine di “Dino” Rabbi riporta alla mia mente una qualità innata che non mi ricordo di aver mai osservato in tale misura su persone di mia conoscenza: la disponibilità nei confronti degli altri. Rabbi è un uomo rispettoso delle istituzioni e, nell’ambito di quelle del CAI, non si è sottratto agli incarichi più impegnativi, mai per ambizione ma sempre con spirito di servizio. E’ stato Direttore della scuola Gervasutti, Presidente del CAAI, prima del Gruppo Occidentale poi Presidente Generale. Socio storico della Sezione UGET del CAI, ha ricoperto per anni la carica di Presidente della Sezione.
La sua disponibilità nei confronti degni amici è sempre stata esemplare, mi viene in mente il sostegno, prodigato in un momento difficile, a Ottavio Bastrenta, notaio ad Aosta ed alpinista attivo, suo grande amico.
Un’altra caratteristica che ho sempre osservato in Corradino è la commozione che non riusciva a trattenere di fronte ad eventi drammatici come la morte in montagna di un amico o quando fu assassinato Guido Rossa. Ma le lacrime agli occhi gli giungevano anche quando interveniva su episodi felici, Ricordo bene nel 1984 al campo base sul ghiacciaio del Tiric Mir quando, dopo 5 giorni di scalata e 4 bivacchi sulle creste dei Bindu Gol Zom, Lino Castiglia, io, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione, ritornammo sfiniti dopo aver raggiunto l’obiettivo della spedizione. Rabbi, nel tendone cucina del campo, improvvisò un discorso di felicitazioni come Presidente dell’Accademico. Discorso interrotto più volte per la commozione.
In tutti noi, quando parliamo delle nostre salite, compare, a volte senza volerlo, un po’ di autocelebrazione, in Rabbi questa tendenza io non l’ho notata, e sì che di scalate importanti nella sua carriera di alpinista ne ha realizzate tante. Egli era sempre disponibile per ogni tipo di impresa: ripetizioni di grandi vie classiche, prime ascensioni, prime invernali, spedizioni extra europee. Ha scalato con giovani emergenti dell’alpinismo torinese quali Gianni Ribaldone e Gian Piero Motti. Egli lasciava sempre che questi quasi fuoriclasse sfogassero la loro esuberanza andando da primi di cordata ma quando le cose divenivano complesse, come successe a volte per il sopraggiungere della tempesta, emergeva la sua calma e la sua esperienza nel contribuire in modo determinate nell’uscire dalla situazione critica. Così avvenne con Ribaldone nell’invernale al Pilier Gervasutti al Tacul e con Motti al Gran Capucin, due scalate avversate dal sopraggiungere del maltempo.
Non ricordo quando incontrai per la prima volta Dino Rabbi, ma imparai a conoscerlo bene quando entrai nel GAM (Gruppo Alta Montagna UGET) e successivamente nella scuola Giusto Gervasutti nel 1965. Egli ha 9 anni più di me ed allora mi parve quasi di un’altra generazione ma presto mi resi conto che la sua voglia di affrontare problemi alpinistici era ben radicata nell’attualità.
Nella scuola era molto attivo, come del resto in tutte le attività che ha affrontato, ed io ero colmo di entusiasmo per cui cominciammo a collaborare nel mantenere l’attività della Gervasutti ad un livello elevato. Insieme portammo degli allievi, tra i più bravi, a salire la parte NO del Combin de Valsorey per l’impegnativa via Eidher-Vanis.
All’inizio degli anni ’70, poco prima della scoperta del Caporal in Valle dell’Orco, Gian Piero Motti ed io iniziammo a visitare le Prealpi calcaree francesi. Le nostre entusiastiche descrizioni convinsero molti a seguire il nostro esempio ed anche Rabbi volle provare a scalare su quelle pareti che sentiva da noi magnificare. Venne con me a salire la difficile Voie du Rif Tord alla Crète du Raisin nella suggestiva Grande Manche del Massif de Cerces che era allora a noi sconosciuto anche se relativamente vicino a Torino. Rimase molto soddisfatto della scalata e mi ricordo ancora il suo commento:
<<Noi ci fermavamo in Valle Stretta, e pensare che bastava valicare una cresta per trovare tutta questa roba a disposizione>>.
Si lasciò anche coinvolgere dalla nostra curiosità/febbre di Valle dell’Orco seguita al Caporal, così nell’autunno 1974 si unì a Claudio Sant’Unione ed a me nell’esplorare la sconosciuta parete che sovrasta il Caporal: la Parete delle Aquile. Scalammo tutto il giorno sovrastati dal volo di due maestose aquile che avevano il nido poco discosto dalla nostra via ed uscimmo in cima quando era ormai buio, soddisfatti per la difficile scalata e un po’ preoccupati per la sconosciuta discesa notturna da affrontare.
Di cosa si parla quando si è solo in due nei viaggi in macchina, negli avvicinamenti, nei bivacchi e nelle lunghe discese dopo la scalata? Nell’ultima per lo più si sta zitti perché stanchi e rimane solo il desiderio di scendere al più presto. Negli altri casi di tutto, dipende dal compagno e dagli interessi comuni. Con Dino credo di aver parlato soprattutto di personaggi legati all’alpinismo e di vicende umane legate a tali personaggi, di storia dell’alpinismo, di montagne e di progetti di scalate. Attraverso i suoi racconti ho imparato a conoscere dei personaggi a me noti solo per il nome e, parlando di montagne, egli mi ha indicato dei problemi da risolvere che poi sono diventati dei miei obiettivi, tra questi il percorso integrale della Cresta di Tronchey alle Grandes Jorasses e la allora vergine parete EST dell’Aiguille Centrale di Pra Sec. Egli aveva grande rispetto per i personaggi che avevano fatto la storia dell’alpinismo, tra questi Renato Chabod ed Amilcare Cretier che con Lino Binel avevano salito per primi la parete Sud Est del Mont Maudit nel 1929. Tale via interessava molto a Rabbi e quando cominciammo a parlarne non era ancora stata salita in inverno. Era allora un grosso problema invernale e noi decidemmo di tentarlo.
In uno splendido pomeriggio invernale d’inizio 1974 salimmo al bivacco Ghiglione del Col du Trident sulla cresta della Tour Ronde (oggi non esiste più). Dal colle assistemmo ad uno spettacolare tramonto con le pareti rese di fuoco dagli ultimi raggi del sole. Troppo bello per essere normale, nella notte cominciò a nevicare e noi dovemmo abbandonare il nostro progetto e scendere dal canale del colle infarinati dalle piccole slavine di neve farinosa. La prima invernale di quella via venne realizzata un anno dopo da quatto forti guide: J.P. Balmat, D. Ducroz, M. Dandelot, J. Jenny, dal 22 al 24 gennaio 1975.
Nell’estate dello stesso 1974 ci trovammo ancora ad operare insieme nell’aprire una nuova via non programmata sulla parete S.E. dell’Aiguille d’Argentiere nel massiccio del Monte Bianco. Su quella cima io avevo percorso l’Arète du Jardin ed ero rimasto colpito dalla parete di granito rosso del versante S.E. della Cima Sud. Avevo letto che su quella parete vi era una via di Gaston Rebuffat ed ero curioso di andarla a vedere. Dino, sempre interessato alle novità, aderì con entusiasmo alla mia proposta così l’alba del 28 luglio ci trovò alla base della parete pronti all’azione. La parete appariva superiore alle mie aspettative e subito notai che vi era spazio per una via più diretta della Rebuffat. Proposi al mio compagno di tentare una nuova via ed egli mi rispose semplicemente: <<Vai pure>>.
500 metri di ottimo granito rosso e 9 ore di scalata e la nostra firma era posta su quella bellissima montagna.
L’alpinismo invernale era in gran voga in quegli anni ed io avevo messo a fuoco un bell’obiettivo: la parete S.O della Becca di Moncorvè mai salita d’inverno. Aderirono al progetto: Roberto Bianco, il giovane Mariangelo Cappellozza, Dino Rabbi e Claudio Sant’Unione. Al 20 dicembre 1974 eravamo pronti a salire al rifugio Vittorio Emanuele per entrare in azione allo scoccare dell’inverno. Era un inizio d’inverno con temperature molto basse ed assenza di neve, si poteva raggiungere Pont Valsavarenche in auto ma con il rischio di rimanere bloccati in caso di nevicata in quanto la strada in inverno veniva tenuta aperta solo fino all’abitato di Eau Rousse.
Poco prima della partenza Rabbi venne colpito dall’influenza e dovette rinunciare ma, ancora febbricitante, salì con la sua auto in Valsavarenche e ci trasportò fino a Pont in modo che la nostra auto rimanesse parcheggiata ad Eau Rousse evitando i rischi di blocco in caso di improvvisa nevicata.
La scalata andò a meraviglia, scendemmo soddisfatti ma con un unico rammarico, quello di non aver avuto con noi il nostro generoso compagno.
Corradino Rabbi ha sempre avuto un grande interesse per le montagne extraeuropee e di spedizioni ne ha fatte molte. Quando anch’io decisi che volevo visitare le montagne lontane era quasi d’obbligo progettare la spedizione con lui. Prendemmo in considerazione vari obiettivi ma poi scegliemmo il Garhwal indiano nel gruppo del Nanda Devi. In quel gruppo era da poco stata salita da un fortissimo gruppo di scalatori inglesi una montagna di straordinaria bellezza e difficoltà: il Changabang. Conquistati dalle immagini di quei posti chiedemmo il permesso di tentare il monte vicino al Changabang: il Kalanka. Le nostre informazioni si rivelarono imprecise e ci trovammo nella valle sbagliata, eravamo sì sotto l’impressionante Changabang ma dal Kalanka ci separava la catena dei Risi Kot con quota superiore ai 6000 metri. Il tempo a nostra disposizione non ci avrebbe consentito di scavalcare tale catena, occorreva scegliere un altro obiettivo.
Rabbi, con la sua pazienza riuscì a comunicare con il portatore rimasto con noi al campo base e da questi venne a sapere che una spedizione giapponese aveva salito, nel periodo pre monsonico, il Changabang lungo l’imponente spigolo SO. I giapponesi avevano lasciato corde fisse e molto materiale in parte. Prendemmo una decisione un po’ pazza: tentare di ripetere la via dei giapponesi. Piazzammo un campo avanzato ed in quattro iniziammo a salire lungo lo spigolo. Scalammo per due giorni ma poi ci rendemmo conto che ci mancava sia il tempo che il materiale per proseguire.
Mentre noi eravamo intenti alle nostre manovre, a nostra insaputa, sulla vicina parete Ovest erano impegnati gli inglesi Peter Boardman e Joe Tasker nella loro straordinaria impresa. Curioso un passaggio del libro di Boardman: La Montagna di Luce, che racconta la grande impresa.
I due da molti giorni sono impegnati in parete, ad un tratto uno dei due dice all’altro: << Ho sentito delle voci >>. L’altro risponde: << Stai andando fuori di testa, stai vaneggiando >> << No >> risponde il primo <<Ho visto anche una luce in cielo >>. Le voci erano le nostre e la luce era un razzo verde che avevo lanciato io dopo il primo giorno di scalata per segnalare, a chi era rimasto giù, che avremmo continuato nel tentativo il giorno dopo.
Ritornati sul ghiacciaio dopo il tentativo, Dino ed io ci attardammo nel riporre i materiali mentre gli altri due iniziavano a scendere. Quando anche noi ci avviammo ad un tratto scorgemmo Alberto Re seduto sul ghiacciaio che si guardava una mano con aria sconsolata, aveva un dito piegato a 90 gradi. Era scivolato sul ghiaccio, il dito si era infilato tra due sassi e si era rotto. Scendemmo fino alla tendina e cominciammo a dare assistenza al nostro amico. Su indicazioni di Rabbi io preparai una paletta della dimensione di una mano con un’assicella ricavata da un contenitore di alimenti mentre lui con determinazione ed abilità degna di un provetto infermiere raddrizzava e sistemava il dito rotto di Alberto. Poi con la paletta che io avevo preparato impalettò e fasciò perfettamente la mano del nostro amico.
Un po’ rincuorato Alberto si avviò verso il campo base mentre Dino ed io ci fermammo a pernottare nella tendina per salire il giorno dopo il Risi Kot II, cima di 6200 m. che non risultava mai salita. Sui pendii più ripidi di quella cima avevamo già piazzato precedentemente alcune corde fisse.
Con Dino ci trovammo accomunati in altre iniziative non prettamente alpinistiche come la realizzazione del celebre Scandere 1979 in un quartetto composto oltre che da me e Rabbi da Roberto Bianco e Gian Piero Motti. Scandere era l’annuario della sezione CAI Torino. Purtroppo scomparso dalle pubblicazioni da molti anni. Altro lavoro realizzato insieme, unitamente a Renato Chabod, è stato l’aggiornamento della guida del Gran Paradiso della collana dei Monti d’Italia nel 1980.
Un episodio drammatico che mette in evidenza l’altruismo e la volontà di Corradino Rabbi è l’incidente occorso a lui e Roberto Bianco al monte Ormelune in Valgrisenche nel maggio 1981.
I due hanno come obiettivo la sciistica di questa cima, le condizioni dell’innevamento non sono ottimali, decidono di salire il pendio finale direttamene, sci a spalle per non tagliarlo con serpentine, giunti quasi in cima Roberto scarica gli sci e di schianto tutto il pendio si stacca, i due sono travolti da una grande valanga. Sono trascinati per oltre 300 metri e saltano anche una barra rocciosa. Durante la caduta perdono i sensi. Quando rinviene Bianco si trova con la testa fuori dalla neve e Dino non si vede, dopo poco tempo vede però la neve muoversi vicino a lui e compare la testa di Rabbi, era rimasto sotto un leggero strato di neve. Con grande fatica riescono ad uscire dalla neve e si rendono conto di essere feriti in modo grave. Bianco non è in grado di alzarsi in piedi (risulterà avere gravi compressioni vertebrali). Corradino riesce a stare in piedi ma a grande fatica, ha lo sterno gravemente danneggiato e risulterà avere anche una compressione vertebrale. E’ chiaro che non possono avere aiuto, nessuno è allertato, bisogna salvarsi da soli, Roberto non è in grado di muoversi e Dino si avvia per cercare soccorsi, il compagno lo vede procedere con estrema lentezza, trascorrono più di due ore prima che scompaia alla sua vista poche centinaia di metri più sotto.
E’ notte fonda quando Dino raggiunge la vettura ma non può usufruirne perché le chiavi sono rimaste nello zaino sotto la neve, deve perciò continuare a piedi lungo il lago fino a Bonne.
Quel giorno a Bonne vi era il soccorso alpino valdostano per delle esercitazioni collettive, alle 6 del mattino la guida Renzino Cosson esce dall’albergo e vede una figura barcollante che si avvicina, è Corradino Rabbi, si è trascinato per 17 ore. Subito scatta l’allarme, Rabbi viene soccorso e trasportato all’ospedale di Aosta e parte la ricerca dell’altro infortunato. Non può intervenire l’elicottero a causa della fitta nebbia sopraggiunta, le guide partono a piedi alla ricerca di Bianco. Intanto Roberto, dubbioso sulla possibilità che Dino riesca a scendere a valle abbandona il luogo dell’incidente e, trascinandosi a 4 zampe riesce a scendere per qualche centinaio di metri. E’ quasi per caso che le guide riescono a trovarlo nella nebbia, grazie ai richiami a voce.
A due Accademici il PELMO D’ORO 2023
ALESSANDRO MASUCCI per la carriera e ITALO ZANDONELLA CALLEGHER per la cultura alpina
a cura di Orietta Bonaldo
Queste le motivazioni espresse dalla giuria:
Alessandro Masucci per la carriera alpinistica
Alpinista che in tre decenni di attività severa ed eticamente impeccabile ha scritto il suo nome sul Pelmo e su tutte le crode della Val di Zoldo, allora poco conosciute e ancor meno percorse, individuando con occhio sapiente e concretizzando con tenace passione ben 140 nuove linee di salita.
Italo Zandonella Callegher per la cultura alpina
Fine editorialista, brillante scrittore, eccellente alpinista. Ma, soprattutto ed in ogni sua attività, montanaro profondamente dolomitico, di sconfinata cultura alpina. La sua penna ha riempito pagine e pagine raccontando delle montagne di casa non solo i profili, la storia, la vita, ma pure i valori che si traducono in dialogo universale della gente dei monti.
Gli altri riconoscimenti sono stati attribuiti come segue:
Il Pelmo d'oro per l'alpinista in attività è andato al catalano Santiago “Santi” Padros
Guida Alpina di levatura internazionale, spagnolo di nascita ma bellunese di adozione. Nelle Dolomiti Bellunesi realizza un’attività poliedrica di altissimo livello: nuove aperture in roccia e ghiaccio, inediti concatenamenti e, su pareti spesso remote, salite di misto moderno, di cui è uno dei massimi esponenti a livello non solo italiano.
Il Premio Speciale della Provincia ha voluto rendere omaggio e ringraziare Oscar De Bona e Roberto De Martin primi ideatori del premio
Vivere tra le montagne più belle del mondo comporta anche il dovere di raccontarle, di farle conoscere, superando il silenzio della pietra e del bosco, dando voce alla solennità delle crode. Oscar De Bona e Roberto De Martin hanno ideato questo premio venticinque anni fa proprio allo scopo di dare risalto alle montagne bellunesi e alle genti che le vivono.
Il Premio Speciale Giuliano De Marchi ha ricordato Silvana Rovis, alla memoria
Il suo amore per la montagna l’ha portata, non solo ad esplorarla e a viverla intensamente ma, soprattutto, a raccontarla attraverso i suoi articoli e le sue interviste anche alle alpiniste donne così spesso trascurate, già diventate capitoli di storia dell’alpinismo.
E infine il Premio Speciale Dolomiti UNESCO è stato conferito all'Alpine Club
Primo club alpino del mondo, l’Alpine Club, venne fondato a Londra il 22 dicembre 1857 ed ebbe John Ball primo Presidente. Tale iniziativa fu forse ispirata dall’impresa che lo stesso Ball compì due mesi prima quando, accompagnato da una guida di Borca di Cadore, effettuò la prima ascensione alpinistica sul Monte Pelmo, uno dei simboli delle Dolomiti. Questi primi alpinisti divennero anche i principali osservatori e divulgatori di quei valori estetici, paesaggistici e scientifici che oggi sono universalmente apprezzati e che si trovano alla base del riconoscimento che l’UNESCO ha voluto conferire nel 2009 alle Dolomiti.
Per chi desidera approfondire, qui ci sono i profili dei premiati
Il valore di un premio si misura anche nell'emozione che suscita in chi lo riceve e questa venticinquesima edizione sarà da ricordare per la forza d'animo di Alessandro Masucci che ha raccolto tutte le sue forze per essere presente e salire sul palco, in barba alla malattia, per ringraziare e coinvolgere simbolicamente nel premio i compagni di cordata con cui ha condiviso la sua straordinaria attività di scoperta nelle Dolomiti. Purtroppo Alessandro ci ha lasciati poco dopo aver ricevuto questo importante riconoscimento, rendendo ancora più intensa l'emozione di quanti lo hanno conosciuto e stimato. Tornando alla cerimonia, l'emozione è proseguita con Santiago Padros cui mancavano le parole, non perchè il suo italiano non sia eccellente, ma perchè toccato nel profondo un po' dall'ovazione che lo ha accolto, ma soprattutto dall'immagine degli “eroi silenziosi” evocata dal presidente della Provincia Roberto Padrin per i montanari che amano e difendono le proprie montagne, cui Santi, profondamente sensibile all'argomento, ha accomunato i “pazzi alpinisti” che scalando le crode si sentono tutt'uno con la Natura.
Per loro inaspettato e perciò ancor più gradito il riconoscimento della fondazione Unesco per l'Alpine Club, rappresentato dal suo attuale presidente il forte alpinista Simon Richardson, nelle sue parole “The Alpine Club would like to thank the Dolomites UNESCO World Heritage Site for the award and the Club Alpino Italiano and Provincia di Belluno for their hospitality. We hope that this event will rekindle a strong and lasting relationship between all four organisations.”
Per chi ha voglia di vedere questi e altri momenti del 25° Pelmo d'oro, sul canale Youtube di Radio Più è disponibile la registrazione dell'intera cerimonia.
IL PELMO D'ORO, una lunga tradizione di eccellenza
Nel 2023 il Pelmo d'oro ha compiuto il quarto di secolo. Per chi non lo conosce, molto in breve, è un premio, assegnato annualmente e articolato in più sezioni, con cui la Provincia di Belluno vuole riconoscere particolari meriti acquisiti da persone fisiche, enti pubblici e privati, associazioni e sodalizi nell’ambito di:
- alpinismo e solidarietà alpina
- tutela e valorizzazione dell’ambiente e delle risorse montane
- conoscenza e promozione della cultura
- storia
- tradizioni delle comunità delle Dolomiti Bellunesi.
L'attribuzione dei premi avviene su indicazione di una giuria composta oltre che da Roberto Padrin, Presidente della Provincia di Belluno, da rappresentanti del CAI, del CNSAS, dell'AGAI del Veneto e del Presidente del Consorzio Bim Piave di Belluno.
Componenti giuria 25° edizione: Federico Bressan e Giorgio Brotto per il Club Alpino Italiano, Orietta Bonaldo per il CAAI, Giorgio Peretti per il Collegio Guide alpine del Veneto, Paolo Conz, guida alpina, per il CNSAS e Marco Staunovo Polacco, Presidente del Consorzio Bim Piave di Belluno.
Una caratteristica della cerimonia di consegna del premio è non avere una sede fissa ma essere ospitata ogni anno in un diverso comune della provincia, che per l'occasione si veste a festa e coinvolge tutta la comunità per l'organizzazione di eventi e l'accoglienza dei numerosi ospiti. Quest'anno, il 29 luglio, è toccato al piccolo comune di San Tomaso Agordino (600 residenti) che ha accolto gli ospiti nella splendida struttura Arena 1082.
Molti sono i legami tra il Premio e il CAAI, dato che soprattutto in due sezioni i riconoscimenti riguardano strettamente l'alpinismo di eccellenza e quindi spesso sono andati a soci accademici: il Pelmo d'oro per l'alpinismo in attività e quello alla carriera. Non solo, dal 2010 un premio speciale è dedicato alla memoria dell'accademico Giuliano de Marchi, tragicamente scomparso nel 2009 sull'Antelao. Per chi vuole approfondire, ecco qui il dettaglio dei premi e l'albo d'oro dei premiati di tutte le 25 edizioni.