Il CAI e il CAAI selezionano un gruppo di giovani alpinisti molto dotati, già forti e fortemente motivati a diventare i numeri primi dell’alpinismo di avventura a livello internazionale, per un percorso formativo di eccellenza sotto la guida di Matteo della Bordella e di altri specialisti del settore.
Dare la possibilità a dei giovani di concentrarsi davvero sull’alpinismo di alto livello è il nocciolo di questa avventura” sostiene Mauro Penasa, presidente generale dell’Accademico. “Da tempo ci lamentiamo della crisi di vocazione alpinistica, senza riuscire a mutare la tendenza che sposta l’interesse degli appassionati verso attività più vicine allo sport… così, chi arriva alla montagna, perché prima o poi ci si arriva, è in media ben preparato dal punto di vista tecnico, ma spesso è ormai tutt’altro che giovane. Come conseguenza il nostro Club, l’Accademico, sta invecchiando inesorabilmente. Il CAI Eagle Team è quindi un’occasione da non perdere per portare su terreni di avventura ragazzi di buon livello sotto i 28 anni. Il suo atto finale, la spedizione, sarà per i partecipanti occasione di prendere confidenza con la realtà extraeuropea, di difficile approccio per un giovane, e verificare così la solidità delle consapevolezze acquisite durante il percorso di crescita”.
Di seguito il comunicato ufficiale condiviso sul sito CAI Home » Andare in Montagna » Alpinismo » Progetto CAI Eagle Team
Trasmettere ai giovani le conoscenze tecniche e il patrimonio culturale fondamentali per chiunque ambisca a diventare interprete dell’alpinismo moderno. Promuovere lo sviluppo della pratica alpinistica tra i più giovani, offrendo a un selezionato gruppo di talenti l’opportunità di potersi esprimere al massimo, sulle difficoltà più elevate e sulle montagne più belle al mondo.
Dodici alpinisti tra i 18 e i 28 anni
Questi gli obiettivi del “EAGLE TEAM”, progetto ideato dall’alpinista Matteo Della Bordella insieme al Club Alpino Italiano e al Club Alpino Accademico Italiano (Sezione nazionale che riunisce i soci Cai che hanno svolto attività alpinistica non professionistica di particolare rilievo e intensità), che intende selezionare dodici giovani (ragazze e ragazzi) tra i 18 e i 28 anni, offrendo loro l’opportunità di sviluppare il talento alpinistico grazie a un programma pensato per una crescita di alto livello, con tutor selezionati tra i migliori alpinisti italiani e internazionali.
Lo scopo finale? Diventare degli ottimi alpinisti, ma anche guadagnarsi il proprio posto nel gruppo che parteciperà alla spedizione alpinistica internazionale 2025 finanziata dal Club alpino italiano in Patagonia, insieme a Matteo Della Bordella e altri due esperti alpinisti.
Sei settimane di formazione, poi la Patagonia
Finanziato dal Club Alpino Italiano e gestito da Matteo Della Bordella (appartenente ai Ragni di Lecco e Accademico del Cai), il progetto “Cai Eagle Team” prevede, tra aprile 2023 e dicembre 2024, sei settimane di attività in varie zone delle Alpi (dalla Grigna alle Dolomiti, dal Monte Bianco alla Valle Orco, fino ad arrivare all’Oberland bernese), incentrate sull’arrampicata (su roccia, su ghiaccio e misto, in fessura), sull’alpinismo e sull’eventuale apertura di una via. Il tutto per trasmettere ai partecipanti le conoscenze tecniche e il patrimonio culturale fondamentali per ogni interprete dell’alpinismo moderno.
Al termine delle settimane, verranno selezionati, sulla base della valutazione delle capacità tecnico/alpinistiche, caratteriali e logistiche, i componenti della spedizione extraeuropea. Sei i giovani (ragazze e ragazzi) che potranno accedervi, con l’obiettivo di compiere salite di prestigio in Patagonia nel febbraio 2025.
Ciascuna delle sei settimane prevede incontri teorici da affiancare alla pratica della specifica attività prevista, oltre a momenti di approfondimento di natura storico/culturale e su temi di ampio respiro come la gestione del rischio e della sicurezza, e a un focus sul legame tra alpinismo e comunicazione, elemento sempre più importante per chi oggi vuole svolgere attività di alto livello.
Le sei settimane vedranno l’intervento, oltre che di Matteo Della Bordella, di alcuni dei migliori alpinisti italiani e internazionali, mentre i momenti sulla storia e sulla cultura saranno affidati a giornalisti, scrittori, storici e a personaggi di spicco dell’alpinismo.
I dodici partecipanti saranno selezionati su base curricolare e mediante un test delle capacità alpinistiche della durata di due giorni, in programma a fine marzo in Piemonte, in Val D’Ossola.
Gli interessati possono trovare tutte le informazioni per inviare la candidatura nel file scaricabile qui sotto.
Per iscriversi c’è tempo fino al 15 marzo 2023.
Costi
Il progetto è finanziato per la sua interezza dal Club Alpino Italiano che, insieme al Club alpino accademico, crede fortemente nell’importanza di offrire un’opportunità alle nuove generazioni, perché possano avere i mezzi attraverso cui mostrare e sviluppare il proprio talento.
Il percorso formativo non prevede costi vivi per i partecipanti, salvo quelli relativi al viaggio per raggiungere le diverse località di svolgimento delle settimane. Allo stesso modo, anche per la spedizione non vi saranno costi fissi a carico degli stessi.
I dodici partecipanti alle settimane, come i sei ammessi alla spedizione, saranno però tenuti al tesseramento Cai e alla stipula del’assicurazione in attività personale che il Cai mette a disposizione dei soci, nonché all’assicurazione per attività extra europea per il periodo della spedizione.
Il progetto “Cai Eagle Team” rappresenta quindi un’esperienza e un’opportunità unica nel suo genere.
Per approfondire
Per informazioni e adesioni
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Il form di iscrizione è disponibile al seguente indirizzo: https://www.cai.it/andare-in-montagna/alpinismo/progetto-cai-eagle-team/
Se ne parla anche qui:
https://www.sportmediaset.mediaset.it/altrisport/missione-patagonia-2025-della-bordella-special-tutor-del-progetto-cai-eagle-team_60928178-202302k.shtml
Le motivazioni che supportano l'adesione del CAAI al Progetto EAGLE TEAM nelle parole del Presidente Generale Mauro Penasa
Nel progetto CAI Eagle Team ci sono due concetti chiave, per l’alpinismo italiano e per il CAAI
I giovani
L’inizio dell’esperienza di tanti accademici risale a molti anni fa, per molti al momento in cui c’è stata una rivoluzione nei materiali e nella mentalità della scalata su roccia. Per quanto poco si facesse sembrava di essere sulla cresta dell’onda, con grande riflesso sulla nostra autostima. Ma allora c’era una sola disciplina, l’alpinismo, tutti più o meno arrivavamo dalla montagna, tutto ruotava intorno ad essa.
Lo sviluppo successivo dell’arrampicata sportiva ha avuto diversi effetti: ha aumentato considerevolmente il livello, ed il numero di praticanti. Oggi i giovani sanno scalare molto bene, ma spesso non hanno alcuna esperienza dei terreni meno addomesticati, ed ovviamente preferiscono pareti tecniche di alta difficoltà ma con ingaggio tendenzialmente limitato.
L’avventura
C’è un aspetto di consapevolezza che viene dalla frequentazione di terreni di avventura in montagna. La consapevolezza non elimina il rischio ma aumenta le capacità di gestirlo e di ridurne le potenzialità limitanti, con l’effetto di poter arrivare a risultati notevoli. Una delle ragioni per cui si riesce a salire una parete è il sentirsi in confidenza con la montagna, e questo arriva non solo dall’esperienza della scalata, ma anche dall’esperienza della confidenza.
Personaggi come Matteo Della Bordella sono allora indispensabili a trainare un gruppo di giovani ed a spingerlo verso il top dell’alpinismo. Ricordiamoci che l’alpinismo è un fenomeno sociale, e il muoversi in un gruppo di élite è prezioso e motivante. Ovviamente questa operazione va gestita in ambito alpino, ma viene automatica l’idea di verificarne il livello in una spedizione extraeuropea, difficile da organizzare per dei giovani e soprattutto dispendiosa in termini di risorse economiche e di tempo (le prime fisiologicamente scarse per un giovane, il secondo sempre prezioso per chi è davvero preso dalla scalata).
MOUNT KENYA - DIAMOND COULOIR
Un grandioso itinerario che ci racconta l’evoluzione dell’alpinismo e le trasformazioni dell’ambiente
Testo e foto di Alberto Rampini e Silvia Mazzani (GISM)
Il Monte Kenya è uno stratovulcano spento che sorge all'interno del Parco Nazionale del Monte Kenya ed è divenuto Patrimonio dell'Umanità Unesco dal 1997. Il parco si trova a circa 150 km a nord-nord-est di Nairobi, la capitale del Kenya.
E’ la seconda cima dell’Africa per altezza ma è sicuramente la prima per interesse alpinistico. In realtà non si tratta di un'unica cima ma di un complesso gruppo montuoso formato da diverse cime, la più alta delle quali è la Punta Batian (5.199 m), circondata da altre tre cime principali, la Punta Nelion (5.188 m), la Punta John (4.883 m) e la Punta Lenana (4.985 m).
A proposito della Punta Lenana ci tengo a ricordare un episodio che ha avuto una amplissima rilevanza mediatica a livello mondiale e che interessa l’alpinista italiano Felice Benuzzi, scomparso nel 1988.
Prigioniero degli Inglesi in Kenya nel 1943 fugge dal campo di detenzione assieme a due compagni al solo scopo di salire il Monte Kenya. In quindici giorni di “latitanza” tentano la salita alla Punta Batian, ma la mancanza di informazioni e di attrezzatura adeguata li costringe a desistere. Riescono però a salire la Punta Lenana, tecnicamente facile, ma comunque a livello personale un’impresa straordinaria per le modalità in cui viene effettuata. Compiuta l’ascensione tornano al campo di prigionia, come avevano promesso!
Leggi qui questa incredibile avventura
Ma torniamo alla cima più alta (la Punta Batian 5.199 m) sulla quale si concentra il maggiore interesse degli scalatori. La via normale si svolge sulla parete Nord ed è una salita su ottima roccia con difficoltà sul quarto grado. Anche altri itinerari sono stati aperti sulla montagna, ma vengono raramente ripetuti. La cosa più notevole, tuttavia, è la presenza al centro della parete Sud di un couloir di ghiaccio lungo oltre 600 metri, divenuto negli anni settanta del secolo scorso una delle mete più ambite per i ghiacciatori di tutto il mondo. Ed è straordinario il fatto che questo nastro di ghiaccio si trovi su una parete posta a meno di 20 km dall’Equatore.
La prima salita del Diamond Couloir venne realizzata da Pete Snyder e Thumbi Mathenge nel 1973, evitando la parte alta più ripida per mezzo di una rampa sulla sinistra; questa imponente sezione superiore, denominata “Headwall”, fu salita per la prima volta nel 1975 da Yvon Chouinard e Michael Covington, che resero famoso il Diamond Couloir come una delle più grandi vie di ghiaccio del mondo per il tempo. AAJ_1976.pdf
Una immensa cascata di ghiaccio proprio al centro dell’Africa. Una cosa da non credere!
Tutto questo era reso possibile dal clima particolare di questa regione, caratterizzato da due stagioni belle e secche (da dicembre a marzo e da luglio a ottobre) inframmezzate da alcuni mesi piovosi e quindi abbastanza nevosi in quota. L’alternarsi di queste diverse fasi permetteva il formarsi di abbondanti cascate di ghiaccio lungo tutto il couloir, sfruttabili al meglio in alcuni periodi delle due stagioni di bel tempo.
Il Monte Kenya ha un tipico clima montano equatoriale e anche nella bella stagione si possono verificare dei cambiamenti improvvisi: al mattino il tempo è in genere buono, mentre nel pomeriggio e in serata si alzano le nebbie e spesso si verificano piovaschi e anche nevicate.
Purtroppo negli ultimi anni un'importante variazione strettamente legata al riscaldamento globale ha cambiato i giochi: il clima attuale sul Monte Kenya è ancora piuttosto umido, ma notevolmente meno che nel secolo scorso e questo ha determinato un calo drastico della copertura glaciale rendendo inscalabile il Diamond Couloir.
La mia esperienza nel gennaio 1989, quando il Diamond Couloir era ancora una lunga striscia bianca
Nei primissimi giorni di gennaio 1989, quando subito dopo le vacanze di Natale volai in Kenya con i miei amici Angelo Pozzi, Massimo Boni, Daniele Pioli e Silvia Mazzani per salire il Diamond Couloir, avevo ben poche notizie: sapevo della mitica prima scalata della Headwall (Yvon Chouinard e Michael Covington nel 1975) e della prima ripetizione italiana ad opera degli Accademici Fausto De Stefani e Italo Bazzani nel 1979. Sapevo anche che il mese di gennaio era un periodo con buone condizioni “meteo”, anche se probabilmente non era il migliore per l'arrampicata su ghiaccio sulla parete sud del Monte Kenya, ma era il periodo che avevamo tutti a disposizione per cui decidemmo di tentare comunque questa magnifica linea. L’idea di piolet traction all’equatore era veramente stimolante.
Anche se un po' ridotta rispetto alle sue condizioni negli anni '70, trovammo ancora questa via come una striscia di ghiaccio bianco, che solcava meravigliosamente la parete sud-ovest del Monte Kenya. Fu per tutti un'esperienza soddisfacente, sia per la bellissima arrampicata su ghiaccio che per il bel tempo e l'ambiente superbo. Le condizioni eccellenti della montagna ci permisero di fare la salita agevolmente in giornata, nonostante le difficoltà incontrate per riuscire a prendere la colata di ghiaccio al suo inizio, sopra la crepaccia terminale.
Un duro tiro in dry-tooling (anche se allora non si chiamava così) ci fece capire che la situazione era ben cambiata nei 14 anni passati dalla data della prima salita, avvenuta lungo uno scivolo ghiacciato fin dal suo inizio.
Arrampicata su ghiaccio, alpinismo e riscaldamento globale.
Il riscaldamento globale sta sciogliendo tutte le superfici ghiacciate della terra, dalla calotta artica ai ghiacciai alpini ai più grandi ghiacciai himalayani a quelli andini e a quelli equatoriali, ovviamente! Purtroppo il riscaldamento globale, al di là delle gravi problematiche che provoca a livello planetario, sta minacciando non solo l'arrampicata su ghiaccio, ma tutte le attività alpinistiche di media e alta montagna. Anche le costruzioni rocciose possono essere danneggiate; infatti negli ultimi decenni, e sempre più frequentemente negli ultimi anni, nelle Alpi si stanno verificando innumerevoli frane, principalmente nelle Alpi Occidentali, ma talvolta anche nelle Dolomiti e nelle Alpi Orientali, causate dal degrado delle zone interne di permafrost, che dovrebbero rimanere permanentemente ghiacciate. Queste invisibili zone di permafrost vengono danneggiate dal susseguirsi di scioglimenti e gelate, dando origine ad una generale instabilità dell'intero edificio roccioso.
Negli ultimi anni, lentamente ma inesorabilmente, anche la bellissima linea di ghiaccio del Diamond Couloir ha iniziato a diventare una delle innumerevoli vittime del riscaldamento globale, fino a quando all'inizio degli anni 2000 è stata ritenuta inscalabile, per l'assenza di ghiaccio nella parte inferiore della via.
Eppure nell'agosto 2005 quattro alpinisti statunitensi riuscirono ancora a salire l'intero Diamond Couloir e dando la notizia sul web affermarono che il Diamond brillava ancora: prima Kitty Calhoun e Jay Smith e il giorno dopo Jim Donini e Brac McMillon. Riferirono che la via si era trasformata in una moderna via di ghiaccio molto difficile con la parte iniziale da percorrere in dry tooling. Notevole anche il pericolo di scariche dall’alto.
Lo stesso anno, in ottobre, anche la guida svizzera Fred Salamin salì il canalone e trovò buone condizioni di ghiaccio su tutta la via. Una possibile spiegazione è che la stagione delle piogge autunnali, fino a quel momento evitata dagli scalatori a causa del maltempo, sia diventata forse la stagione migliore per scalare il Diamond Couloir, avendo fortuna con il meteo. Un'altra possibile spiegazione è che l'anno 2005 sia stato un anno eccezionale per quanto riguarda le condizioni del ghiaccio.
Una successiva salita del Diamond Couloir venne effettuata nel 2006, il 17 gennaio, da Julian Mathias (USA).
Da allora, per 12 anni, non si è avuta notizia di ulteriori ripetizioni. In effetti il Diamond Glacier, situato all'uscita del Diamond Couloir e che lo alimenta, purtroppo ormai non è altro che una macchia di neve: confrontando l'attuale copertura di ghiaccio con quella degli anni '80 la differenza è davvero drammatica.
Qualcuno pensa quindi che il Diamond Couloir sia sulla via di un tramonto definitivo.
Come un imprevedibile colpo di scena, tuttavia, nell’ottobre 2018 il keniota Julian Wright e il sudafricano Trystan Firman in due giorni di dura lotta riescono a salire il Diamond approfittando di condizioni meteorologiche straordinarie e di una stagione insolitamente umida e piovosa.
Leggi qui la loro relazione e lo schema tecnico delle difficoltà incontrate.
E’ chiaro che il Diamond Couloir, se in futuro qualcuno accetterà il rischio di percorrerlo, non sarà più una difficile via di ghiaccio ma una difficilissima via di sottile ghiaccio fantasma e dry tooling, esposta a frequenti cadute di pietre per il generale disgelo.
Anche la salita alla Punta Lenana, effettuata da Silvia Mazzani durante la nostra spedizione del 1989 interamente su ghiaccio, è oggi ridotta ad un pendio di roccette e la salita avviene su tracce nella parte bassa e poi lungo una ferratina nella parte sommitale, dove il ritiro del ghiaccio ha lasciato scoperte rocce più impegnative.
Una ulteriore prova inconfutabile dei cambiamenti climatici che interessano l’intero pianeta.
Leggi qui un interessante articolo sul Diamond Couloir, dal sito americano Summitpost.org
E’ disponibile l’ANNUARIO C.A.A.I. 2022
336 pagine di attualità alpinistica europea ed extraeuropea, grandi avventure, ricostruzioni storiche, monografie e relazioni, ricordi di imprese e personaggi.
Il volume può essere acquistato online senza spese di spedizione sul sito di Idea Montagna.
Gli Annuari precedenti - Parte Prima
Gli Annuari precedenti - Parte Seconda
Ancesieu è il nome della montagna che incombe con alti e direi quasi oppressivi dirupi sui villaggi posti sul fondo del breve Vallone di Forzo, tributario della Val Soana. E’roccioso il versante che si protende a Sud Ovest con balze impressionanti che da sempre hanno attirato gli sguardi degli alpinisti (pochi) che sono transitati lungo quel solitario solco vallivo.
Ora i dirupi dell’Ancesieu sono solcati da numerosi itinerari di arrampicata. Sono note le eccezionali vie di scalata sportiva tracciate da Manlio Motto all’inizio degli anni ’90 sulla grande parete dell’Anticima. E’ rinata l’antica “Strategia del Ragno” sulla parete della cima principale grazie all’opera di pulizia e sistemazione da parte del compianto Adriano Trombetta. Infine ha contribuito alla celebrità del luogo la difficilissima via “La Cruna dell’Ago” sulla parete dell’Anticima, tracciata da Rolando Larcher con Andrea Giorda e Maurizio Oviglia.
Insomma il nome di Ancesieu è ormai molto noto tra gli scalatori anche se la frequentazione non è quella di altri luoghi delle alpi Torinesi come Caporal, Sergent, Sea. Ma questa cima complessa ha una storia che inizia negli anni ’70 quando il suo toponimo non diceva niente a nessuno. Su Monti e Valli, notiziario della Sezione di Torino del CAI, ho raccontato, nel numero 19 – 1982, l’inizio della storia dell’Ancesieu. Rileggendola a 40 anni di distanza mi è venuto voglia di riproporla.
Ugo Manera
L’alpinismo ha una sua storia densa di avvenimenti avventurosi, a volte drammatici, che lo rendono avvincente anche per chi non lo pratica assiduamente. Anche in alpinismo il soggetto delle storie, come in altre attività, è sempre e solamente l’uomo. La montagna più alta o la parete più difficile non sono che dei riferimenti che assumono importanza determinante solo se l’uomo vi proietta sopra il proprio interesse. Non appena l’inesauribile sete di novità dell’alpinista inventa un altro problema quella montagna o quella parete perdono di attualità ed il loro nome non rimane che a significare un riferimento storico del passato
La quota di una cima o l’altezza di una parete solo occasionalmente rappresentano dei fattori primari come selezione di importanza dell’evento alpinistico. Il superamento di un passaggio su una paretina breve può diventare un fatto evolutivo più importante della scalata di una cima himalayana. Tutto dipende dagli interessi di attualità tra gli scalatori di punta.
La storia alpinistica genera letteratura, sarà una letteratura in tono minore ma è innegabile che poche altre attività di evasione dell’uomo moderno spingono i protagonisti a scrivere come l’alpinismo. Non sempre gli scritti più avvincenti hanno per oggetto il racconto di imprese su montagne celebri; spesso si scoprono motivi interessanti ed evolutivi nel racconto di vie aperte su pareti nascoste sui fianchi delle valli, ai piedi delle grandi montagne.
Restando in ambito alpinistico piemontese, e scorrendo le numerose pubblicazioni che di tale attività trattano, troviamo spesso delle pagine avvincenti che raccontano la conquista di pareti a bassa quota. Sono degli avvenimenti alpinistici che, nel contesto storico dell’arrampicata su roccia, rappresentano dei punti di riferimento importanti, e non solo per l’alpinismo locale. Basta ricordare i vari scritti che raccontano della Parete dei Militi in Valle Stretta, ed ancora il bel racconto di Gian Piero Motti dedicato al Caporal, pubblicato su Scandere 1974.
I fianchi delle valli Canavesane offrono un campo inesauribile per l’arrampicata ad alto livello. Dopo la scoperta dello Scoglio di Mroz e del Caporal da parte di Motti e mia, fu anche lo scozzese Mike Kosterliz a valutare la dimensione di queste possibilità. Il forte scalatore, che per qualche stagione arrampicò con noi, ci diede un bell’aiuto nell’ampliare i nostri orizzonti arrampicatori che, a dire il vero, erano allora abbastanza limitati.
Dopo la vasta esplorazione delle possibilità del Caporal e delle limitrofe pareti dei dirupi di “Balma Fiorant”, ci voleva qualche cosa che andasse oltre, che rappresentasse un impegno più completo e totale delle pur complesse vie tracciate sulle bastionate della Valle dell’Orco. Una parete che richiedesse più giorni di impegno, l’uso delle tecniche più moderne ma con l’esclusione del perforatore e dei chiodi a “pressione”.
Quella parete esisteva ed era già stata scoperta quasi contemporaneamente al Caporal. Solo che i numerosi tentativi venivano condotti in gran segreto: era la parete SO dell’Ancesieu.
L’Ancesieu è una vera cima, la sua quota è 1885 m. Posto nel Vallone di Forzo, tributario della Val Soana, presenta un grandioso versante sud-ovest con impressionanti e complesse pareti granitiche che incombono sulle borgate che circondano Molino di Forzo.
Per innumerevoli anni l’Ancesieu non fu che un insormontabile ostacolo ai montanari che per vivere dovevano strappare all’impervio terreno ogni manciata di erba possibile ed ogni tronco d’albero che riuscivano a raggiungere. I montanari dei tempi andati sui fianchi dell’Ancesieu si sono spinti superando i combetti più ripidi per strappare ben magre risorse. Ancora oggi si trovano tracce di opere ardite che consentivano il passaggio tra lisce placche di roccia compatta.
E’ con un senso di tristezza che si osservano queste opere scomparire inghiottite dal tempo, sono il frutto di un duro lavoro e la testimonianza di un periodo importante della storia della dura vita in quelle vallate alpine. A ricordare quei tempi rimangono suggestivi toponimi come quello del Combetto degli Embornei che rappresenta il migliore accesso alle grandi pareti dell’Ancesieu.
Quelle pareti di gneiss, verticali, a volte strapiombanti, non potevano sfuggire agli occhi degli scalatori. Certamente all’inizio non si trattò che di un interesse spettacolare, lo stesso che ogni alpinista, seppur modesto scalatore, prova al cospetto di una parete che appare di elevata difficoltà. Io stesso, nel lontano 1958, alle prime armi come alpinista, sostai a lungo sotto quelle pareti tracciando, con la fantasia, vie impossibili per il futuro da me immaginato per il mio alpinismo.
Nel 1962, sui fianchi dell’Ancesieu, avviene il primo fatto di rilevanza alpinistica: Enrico Frachey con F. Vallesa raggiunge l’ardita “Guglia del Frate” salendo lungo lo spigolo S. E’ questo un ardito e curioso monolito a cuspide strapiombante, ben visibile dal fondo valle. La via tracciata per raggiungere la suggestiva guglia offre una interessante arrampicata, mista libera ed artificiale. Conosce alcune ripetizioni ma l’accesso lungo e complicato non attira gli scalatori.
La storia delle imponenti pareti del versante SO inizia poco dopo la scoperta del Caporal della valle dell’Orco quando Antonio Cotta e Giulio Saviane danno il via ad una lunga serie di tentativi che si concluderanno solo nel 1980. Scelgono la parete della cima principale il cui accesso è lungo e difficile e si svolge lungo il ripidissimo canale che scende fino in fondo valle. Il più agevole accesso attraverso il Combetto degli Enbornei, già percorso dai montanari, verrà riscoperto solo dopo il felice esito dell’impresa.
I primi tentativi di Cotta e Saviane vengono portati a destra di quella che sarà poi la via di salita, lungo un percorso che assumerà il nome di: “variante del Preambolo”. Almeno quattro tentativi non portano gli intraprendenti scalatori oltre la grande cengia erbosa posta ad un terzo della parete. Un grande tetto sembra impedire ogni possibilità di salita.
Dopo questa fase iniziale dei tentativi si ha notizia di approcci da parte di altri scalatori, probabilmente locali, dai quali viene tentato un attacco diretto. Infatti più tardi verrà reperito un ancoraggio da doppia lungo quello che sarà il percorso della via diretta.
Fin dai primi tentativi risultano evidenti le caratteristiche dell’arrampicata sull’Ancesieu: la roccia è compatta, avara di fessure, quelle arrampicabili sono spesso intasate da ciuffi d’erba tenace; nei tratti ove occorre ricorrere all’arrampicata artificiale la chiodatura è molto tecnica e laboriosa. Malgrado queste problematiche l’ambiente esercita un fascino particolare che spinge i volonterosi protagonisti a ritornare con accanimento sul difficile problema.
Antonio Cotta è un “liberista” di grande qualità, molte volte ci ha lasciati di stucco superando con eleganza dei passaggi da masso sui quali noi ci spelavamo inutilmente le dita. Quando però l’arrampicata diventa una dura lotta ed è necessario ricorrere all’arte più raffinata nella posa di ancoraggi precari, non è più affar suo; per questo i vari tentativi condotti non andarono oltre la cengia erbosa.
Le operazioni Cotta-Saviane vennero sempre condotte in grande segreto, nessuno o quasi, nell’ambiente torinese, ne era al corrente. Giunti però al punto morto della cengia sotto al grande tetto, e per il fatto che Saviane si ritirava dalla competizione, ad Antonio non rimase che chiedere aiuto. La scelta non poteva cadere meglio: Isidoro Meneghin! Isidoro è un grande specialista nell’arte della chiodatura sofisticata e nell’aprire vie sulla roccia più ostica. Era solo una questione di tempo ma con l’apporto di Meneghin il successo era assicurato.
All’inizio del 1980 riprendono le operazioni sulla grande parete dell’Ancesieu: Cotta, Meneghin e Biagio Merlo salgono lungo la variante del Preambolo ed esplorano, scendendo in corda doppia, l’attacco diretto che viene superato in un secondo tentativo da Cotta e Meneghin che lasciano due corde fisse. I due ritornano e, salendo per il vallone del rio Arcando, raggiungono la vetta dell’Ancesieu. Scendono in corda doppia fino alla base della parete, risalgono fino alla cengia ed aggiungono, al di sopra, un’altra corda fissa.
Finalmente il 31 maggio 1980 la parete è vinta. L’ascensione è portata a termine in giornata grazie alle corde fisse lasciate in precedenza. A concluderla sono: Cotta e Meneghin ai quali si è aggiunto il talentuoso Giovanni Bosio. In considerazione delle tante e pazienti operazioni Isidoro denomina la via: “La Strategia del Ragno”.
Un cruccio rimane però a Meneghin: da metà parete, per evitare un bivacco, è stata scelta una soluzione di ripiego: i tre sono saliti lungo dei diedri che, in obliquo, portano a sinistra della cima mentre la soluzione ideale sarebbe passata lungo una serie di formidabili diedri chiari che conducono direttamente in cima.
Anche l’ultima fase dell’”operazione Ancesieu” venne condotta in grande riserbo ed il segreto rimase anche dopo la felice conclusione dell’impresa. Isidoro, tornato con Cotta per ricuperare del materiale lasciato, si rese conto che la parete che cade dall’Anticima Sud sul Combetto degli Emburnei, era ancora più maestosa di quella della cima principale, vinta tracciando la Strategia del Ragno. Decise perciò di prepararsi ad affrontare il nuovo straordinario problema mantenendo il segreto onde evitare di essere preceduto da possibili concorrenti.
Scoprì in solitaria l’accesso attraverso il Combetto degli Eburnei e portò, e nascose, alla base della sconosciuta parete delle corde e del materiale.
A questo punto avviene il mio ingresso nella storia di questa straordinaria struttura rocciosa. Già ne conoscevo l’imponenza per averla osservata transitando per il Vallone di Forzo verso altri obiettivi; poi successivamente, con Claudio Sant’Unione, ignari dei tentativi in corso, avevamo condotto una esplorazione raggiungendo la cima dell’Ancesieu. Ingannati però dall’erba che sembrava ingombrare le fessure percorribili, avevamo avuto un’impressione negativa e desistemmo da mire di conquista.
All’inizio dell’estate 1980 avevo scoperto che nell’alto Vallone di Lasinetto esistevano delle pareti che risultavano mai scalate. Mi accordai con Meneghin per andarle a tentare e, un sabato, ci avviammo lungo quel dimenticato vallone. Ad una svolta del sentiero ci fermammo per una breve sosta: di fronte a noi si ergeva maestosa la parete SSO dell’anticima dell’Ancesieu. Manifestai la mia ammirazione per quell’appicco ed Isidoro sorpreso mi chiese:
<<Ti interesserebbe tentarne la scalata?>>
<< Certo>> Risposi.
<<Credevo non ti interessasse>> riprese, ed iniziò allora a raccontarmi la lunga storia della Strategia del Ragno che io, come tutti, ignoravo. Mi disse anche del materiale che aveva nascosto alla base della parete e mi propose di tentarla insieme nell’autunno a seguire.
Quella parete rappresentava con evidenza qualche cosa che andava oltre ciò che avevamo realizzato fino ad allora nelle valli torinesi: la sua ascensione, ammesso che fosse possibile, avrebbe richiesto più giorni ed un impegno totale.
Rimaneva in me un po’ di perplessità nel pensare di affrontare le fessure con erba ed i numerosi strapiombi ma nello stesso tempo andavo ricercando problemi di difficile soluzione onde allenare la mia determinazione in previsione di un grande obiettivo himalayano in progetto per l’anno dopo.
Nell’inverno che seguì la scarsità di precipitazioni ci consentì di arrampicare in continuità e così venne il momento della SSO dell’Anticima dell’Ancesieu. La prima ascensione di quella parete ci richiese tre giorni di scalata più uno dedicato da Isidoro in solitaria ad attrezzare la discesa lungo quello che egli chiamava: il “Pilastro d’Angolo” che delimita le pareti SO e SSO.
Ogni volta si saliva un tratto di parete, si fissavano vecchie corde lungo le quali si scendeva a fine giornata e si risaliva nei tentativi seguenti, quando le condizioni meteorologiche ritornavano favorevoli.
Ricordo le salite e discese notturne lungo il Combetto degli Emburnei che il gelo invernale ornava di gobbe e cascate di ghiaccio; le lunghe soste al freddo mentre il compagno saliva, nella spasmodica attesa di un raggio di sole. Le risalite lungo le corde fisse ruotando nel vuoto staccati dalla parete e l’emozione di una corda quasi tranciata dallo sfregare su uno spigolo di roccia a seguito di alcuni giorni di vento forte. Infine il ricordo più bello: l’uscita dalla via al termine del terzo tentativo, nella luce sfolgorante del sole di un tramonto invernale, lungo la splendida fessura che incide lo strapiombo terminale.
Per superare quella parete siamo ricorsi a tutte le risorse della nostra tecnica: passaggi su “cliff-hanger” quando scomparivano le fessure, sottili “rurp” quando le fessure si riducevano a microscopiche screpolature della roccia, pulizia dai ciuffi d’erba lungo le fessure arrampicabili. Anche però entusiasmanti lunghezze di arrampicata libera e spettacolari visioni create dai raggi del sole nelle sottostanti orride gole, in un gioco fantasioso di luci ed ombre.
La SSO dell’Anticima dell’Ancesieu ci ha costretti ad una dura lotta che però, ha suscitato un grande entusiasmo che è durato in noi per molto tempo, quasi avessimo risolto un problema importante. Come è nostra abitudine non abbiamo lasciato chiodi sulla via salvo qualche ancoraggio rotto non utilizzabile. Il tracciato è nelle condizioni in cui lo abbiamo trovato noi, salvo qualche fessura liberata dall’erba e la certezza che si può uscire.
Il nostro interesse per l’Ancesieu non si era esaurito con la salita della parete dell’Anticima. Isidoro non era soddisfatto della conclusione della “Strategia del Ragno”, la metà superiore della via gli appariva come un ripiego e restava irrisolto il problema della linea diretta lungo i diedri che conducono alla cima.
Il primo maggio del 1981 siamo nuovamente nel vallone di Forzo, è nevicato recentemente, le rocce verticali son pulite ma sui pendii c’è della neve fresca. Dalla borgata Tressi, salendo a sinistra delle pareti, a prezzo di una enorme fatica e pestando molta neve fresca, raggiungiamo la vetta dell’Ancesieu. Da qui ci caliamo a corde doppie fin a portarci sulla cengia ove il percorso della Strategia del Ragno sfugge verso sinistra. Attacchiamo la serie di diedri che conducono direttamente alla cima e li superiamo con arrampicata mista di grande impegno. Sarà la via della “Sveglia”.
A conclusione della nostra scalata, sul finire del giorno, ci avviamo per l’interminabile discesa lungo il vallone del rio Arcando. L’Ancesieu ci è costato impegno intenso e tanta fatica, ma, a conclusione, ne è valsa la pena.
Ugo Manera
ANCESIEU La strategia del ragno
Leggi qui la relazione versione trad
Convegno-Assemblea del GRUPPO ORIENTALE
Mestre 26 novembre 2022
Si terrà a Mestre sabato 26 novembre il Convegno autunnale del Gruppo Orientale presso la sala conferenze dell’Istituto Comprensivo BERNA in Via Bissuola 93 (ampio parcheggio interno).
Alle ore 8,30 aprirà la registrazione dei partecipanti e alle 9,00 avrà inizio il convegno-assemblea, che si concluderà alle 13,00. A seguire il pranzo sociale.
Per gli accompagnatori è prevista la visita guidata al Museo di Arte Moderna M9 di Mestre.
Nel pomeriggio, alle ore 15, nell’Aula Magna ci sarà la proiezione del film “Immenso Blu” curato da Manrico Dell’Agnola e a seguire un contributo di Maurizio Giordani sulla sua carriera alpinistica.
Entrata libera al pubblico.
ALPINISMO IN APPENNINO CENTRALE – IL GRAN SASSO
Parte prima – dal 1573 al 1940
Di Massimo Marcheggiani
Massimo Marcheggiani, classe 1952, Accademico e profondo conoscitore delle vicende e dell’ambiente del Gran Sasso, sulle cui pareti ha tracciato e ripetuto innumerevoli itinerari, fissa in queste pagine la storia alpinistica di questo importante Gruppo montuoso.
Oltre cinque secoli fa.
Abruzzo, terra di mare e soprattutto di montagna.
Entroterra scarsamente popolato, villaggi spesso isolati nelle campagne e figuriamoci sulle montagne.
Vita dura, fatta di pastorizia e agricoltura, pecore a milioni e boschi infiniti. Praticamente poco altro. Villaggi molto spesso “nascosti” sulle montagne agli occhi di briganti e razziatori di ogni bene che la terra dà.
Teramo e Aquila (oggi L'Aquila) ambedue città di antica storia sono i due centri principali divisi tra loro da una grande catena di montagne ma uniti dal reciproco scambio di merci. Un mercato ambulante che vede l'attraversamento della grande montagna che li divide. Merci portate a dorso di muli, asini o sulle spalle, fatiche bestiali in cambio di soldi. Fatiche bestiali perché la montagna la attraversano al Passo della Portella, e chi sa dove sta si renderà conto di cosa significasse.
Aquila nel 1500 ha una posizione strategica per svariati motivi, principalmente militari. Un Capitano, ingegnere militare bolognese esperto in fortificazioni, vi risiede da tempo per conto di Margherita D'Austria figlia dell'imperatore Carlo V.
Ora, con tutto il rispetto per Balmat e Paccard e sperando che non se la prendano a male, 213 anni prima della loro salita alla massima vetta del Monte Bianco qualcuno fece dell'alpinismo non sulle alte vette alpine, ma bensì in Italia centrale, ed esattamente su una montagna appenninica.
Il “Capitano” Francesco De Marchi, di ben 69 anni, per motivi immagino strategici e di opportunità militare salì, nell'agosto del 1573, la più alta vetta dell'intera catena appenninica. Assoldati due cacciatori di camosci oltre che pastori nel villaggio dell'attuale Assergi e in compagnia di due altri amici, probabili militari anch'essi, risalgono a cavallo (i militari) fin dove possibile, poi necessariamente a piedi superano l'angusto e ripido Passo della Portella per poi scendere all'attuale Campo Pericoli. Oltre questo, il gruppo sale lungo desolate e assolate pietraie, ripide rocce e infine, non sappiamo esattamente per dove, il Capitano Francesco De Marchi diventa il primo salitore della massima vetta appenninica: Il Gran Sasso D'Italia, allora semplicemente chiamato dai villici abruzzesi Monte Corno, a 2912 metri sul mare. Il Capitano incide a scalpello il suo nome, ormai invisibile, a suggello della sua salita e annota che si trova più in alto di qualsiasi altra montagna che lo circonda, che volteggiano in aria aquile, sparvieri e falconi. Annota la presenza sotto i loro piedi di una grande e ripida distesa di neve (il ghiacciaio del Calderone) e di una infinita e immensa pianura con massiccia presenza di pecore (Campo Imperatore). Non ultimo scrive che non lontano “Con somma maraviglia” si vede il mare (Adriatico). A cosa possa essere servito in seguito aver scalato la montagna non ci è dato sapere, rimane però il fascino di poter pensare cosa possano aver provato, il Capitano e i suoi seguaci, a superare il limite dei luoghi dove la vita aveva senso e logica.
Un salto di centinaia di anni, durante il quale la parte alta della montagna ricade nel suo naturale oblio fatto di camosci e rari cacciatori ad eccezione di altre sporadiche presenze “alpinistiche” (Tra i pochi Orazio Delfico e Pasquale De Virgilis, seconda meta del '700) ci porta oltre la metà del 1800, quando l'interesse per la salita delle vette è diventata ormai moda, facilitata da “villici” o “guide cosiddette” al soldo di borghesi in cerca di prestigio tanto sulla catena alpina quanto in Appennino dove il massimo interesse è per i 2912 metri del Gran Sasso e le sue numerose cime circostanti.
I britannici, che tanto si distinguono sulle Alpi, vengono a conoscenza di questa montagna dalla quale al mattino si vede distintamente il mare Adriatico. Il primo anglosassone a visitare la massima vetta appenninica è nientemeno che Douglas Freshfield, già autore di diverse salite ed esplorazioni in Asia. Nella primavera del 1875 dopo un lungo pellegrinare insieme alla sua guida francese Francois Devouassoud tra le Alpi Apuane e interminabili viaggi in treno, in diligenze e calessi arrivano al microscopico villaggio di Casale San Nicola, esattamente ai piedi del versante orientale della montagna e ad appena 660 m. sul mare. Vengono ospitati dal canonico del paese da cui attingono informazioni sulla grande montagna. Dal villaggio, salendo in parte di notte si avviano lungo il fianco destro della grande montagna sovrastati dall'immensa muraglia del cosiddetto (oggi) Paretone.
Tra chiazze di neve e numerosi camosci entrano nel grande Vallone delle Cornacchie, rasentano per intero la verticale parete Est del Corno Piccolo e, ancora più in alto, lungo una scoscesa cresta rocciosa nella tarda primavera del 1875 ed in sole sei ore l'intraprendente Freshfield e il fido Devouassoud toccano la vetta Occidentale del Gran Sasso, oltre 2000 metri dal loro punto di partenza, senza tracce di sentiero e pendii nevosi scalinati dalla brava Guida. Ammirano il mare Adriatico, le articolate pareti, il sottostante ghiacciaio del Calderone: “Il Grande Corno è una vera montagna” dice l'inglese al francese. Dopo una dovuta pausa, in sole due ore e più veloci dei camosci fanno ritorno a Casale San Nicola.
Il Gran Sasso diventa sempre più meta ambita, il CAI di L'Aquila ospita nel 1875 il congresso nazionale del sodalizio e la sempre più intensa frequentazione della montagna porterà in seguito alla costruzione del primo rifugio nella conca di Campo Pericoli ad opera del CAI di Roma, intitolato poi a Giuseppe Garibaldi nel 1886. La scelta logistica si rivelerà in seguito fortemente infelice poiché il rifugio nella stagione invernale viene costantemente e completamente sommerso dalla neve.
Il 1880 vede la prima salita invernale del Corno Grande. E' gennaio e due “nomi illustri” si avventurano salendo dal villaggio di Assergi, sotto il versante sud della montagna. Di solito si saliva con l'ausilio di muli e cavalli fin dove possibile, ma l'inverno questo non lo permette di certo. Due giovanissimi cugini del primo ministro e fondatore del CAI Quintino Sella, Corradino e Gaudenzio Sella accompagnati da “presunte guide” locali tra cui Giovanni Acitelli (diversi itinerari oggi portano il suo nome) si inerpicano lungo i ripidi pendii innevati e ghiacciati. Della comitiva uno solo, Corradino, è attrezzato di piccozza e grossolani ramponi mentre gli altri si arrangiano come possono e le “guide” si affidano ai loro famosi “clienti”. Lungo quella che oggi è la via normale del Gran Sasso, tutti arrivano in vetta. I Sella restano stupiti e ammirati alla vista del mare Adriatico, cosa mai vista da nessun'altra montagna da loro salita e ammirano, data la giornata fredda e tersa, la Maiella, i monti Sibillini, il Velino, il lontano Terminillo e non ultima l'immensa, bianca distesa di Campo Imperatore.
Venti ore dopo aver lasciato Assergi la piccola comitiva vi fa ritorno ed in seguito non mancheranno di scrivere elogi sulla bellezza della montagna accompagnate da critiche benevole sulla inadeguata preparazione delle guide, incapaci di affrontare la montagna d'inverno.
Numerose altre cime piuttosto semplici del massiccio abruzzese vengono salite e risalite; scalare montagne, anche se riguarda ancora una umanità più che benestante, si diffonde sempre più, per moda o ambizione personale ma comunque sia è un'umanità che cresce, si confronta e tecnicamente evolve. Una sola di queste montagne resiste ancora inviolata, ormai ambita data la sua forma ardita: ovunque la si guardi spaventa gli alpinisti dell'epoca. Ripide e insormontabili pareti ed erti e angusti canaloni sono l'ostacolo da superare. Si chiama Corno Piccolo ed è la più bella vetta rocciosa del Gran Sasso. Dalle forme eleganti e una roccia formidabile è tutt'ora la montagna più frequentata dagli scalatori e dagli escursionisti esperti.
Sulle montagne della catena alpina si parla già di quarto e quinto grado di difficoltà, mentre al Gran Sasso si è ancora a livello di escursioni, lunghe e complicate ma pur sempre escursioni. I primi un po’ più intraprendenti sono il già noto Giovanni Acitelli di Assergi ed Enrico Abbate, romano e segretario della sezione CAI capitolina. Abbate con Acitelli come guida sono dunque i primi a osare e riuscire nell'impresa. Salgono dal versante Nord. Dal villaggio di Pietracamela con i muli raggiungono la località Prati di Tivo: da qui a piedi salgono gli interminabili e ripidissimi pendii erbosi che dai Prati portano alle prime rocce levigate della parete Nord. Lungo un profondo e roccioso canale escono in alto su una grande comba di detriti ed erba sottostante la vetta. Da qui i due piegano decisamente verso Ovest raggiungendo una facile cresta e lungo questa la vetta. Abbate relaziona la salita e parla di secondo grado, ma a prescindere dalla difficoltà apre, e con lui Acitelli, le porte all'alpinismo di avventura. Giornata lunghissima quella del romano e dell'abruzzese: saliti appunto dai Prati di Tivo i due scendono dalla vetta di 2655m. non sappiamo esattamente come, lungo la profonda Valle dei Ginepri, poi seguono in discesa la valle Maone e fanno ritorno a Pietracamela lungo il fosso del Rio Arno, immagino stravolti di stanchezza. Fare ancora oggi un giro del genere risulta infinito e presuppone grandissima resistenza anche se non ci sono più segreti di orientamento. I fianchi “difficili” quindi cominciano a capitolare; il protagonista principale è Giovanni Acitelli. Nel 1892 insieme a Orlando Gualerzi sale l'inviolata vetta Centrale del Corno Grande con astuta arrampicata. Sempre con Gualerzi, Abbate e C. Gavini compie la prima invernale del Corno Piccolo nonostante la scarsa attrezzatura ed esperienza. Ancora Acitelli con Gualerzi, Gavina e V. Ribaudi salgono d'estate la parete Sud della vetta massima del Corno Grande lungo la via chiamata “direttissima”, ad oggi la più frequentata in assoluto da chi vuole usare oltre i piedi anche le mani. L'inverno successivo vede ancora l'immancabile guida di Assergi accompagnare Gualerzi e E.Scifoni nella prima invernale alla Vetta Orientale, seconda cima più alta del massiccio. E' ormai la fine dell'800 e le guide abruzzesi lavorano molto con i signori, sopratutto romani. Vista la massiccia frequentazione della montagna e la illogica ubicazione del rifugio Garibaldi, la sezione di Roma si adopera di nuovo per la costruzione di un rifugio costruendolo sullo spartiacque tra Campo Imperatore e Campo Pericoli. Il nuovo rifugio eretto nel 1908 e dedicato al Duca degli Abruzzi è in posizione diametralmente opposta al Garibaldi: posizione molto panoramica sulla cresta della Portella ma di contro esposto a violenti venti tipici del Gran Sasso e totale assenza di acqua.
I primi 20/30 anni del '900 vedono diverse interessanti realizzazioni. Nel 1910 due austriaci danno un altro notevole impulso alla ricerca di itinerari sempre più complessi. I due alpinisti d'oltralpe Schmidt e Riebeling compiono la lunga e articolata traversata delle tre vette del Corno Grande: passata la notte al rifugio Garibaldi raggiungono la vetta Occidentale, da questa percorrono l'articolato filo di cresta in discesa che li porta alla Forchetta del Calderone, poi tramite un marcato camino sembra che salgano in vetta al Torrione Centrale (oggi T. Cambi, ma di questa loro salita non si ha assoluta certezza) scalano poi la Vetta Centrale, ne discendono il breve fianco Est e per finire sono sulla vetta Orientale a 2903 m. Questa traversata in continuo sali-scendi è ancora oggi una stupenda, panoramica e tutt'altro che banale ascensione che, volendo, si può integrare e completare con la salita del Torrione Cambi quasi sempre evitato lungo un tipico “terrazzo” sospeso sopra il ghiacciaio del Calderone. Di norma non la si percorre quasi mai dall'Occidentale alla Orientale bensì al contrario, percorso molto più logico e sicuro. La traversata, di difficoltà medio bassa, necessita però di intuito nella scelta del percorso, sapersi muovere su roccia anche friabile e stabilità meteorologica.
Quasi in risposta agli austriaci la guida Francesco Acitelli insieme al romano Paolo Haas sale l'infinito canalone che porta oggi il loro nome. Questa salita inizia dalla isolata e remota Valle dell'Inferno e con un percorso non difficile e molto evidente conduce, dopo 1200 metri di salita sulla Vetta Orientale. La vetta ancora inviolata (?) del Torrione Cambi viene salita nel' '14 dalla Guida F. Acitelli con A. Allevi e E. Gallina. In questi anni la SUCAI di Roma torna ad una sua continua presenza sulla montagna, firmando diverse prime salite ormai senza, o quasi, l'appoggio delle guide. Nell'immediato dopoguerra 15/18 i romani C. Chiaraviglio e E. Berthelet salgono per primi l'articolata cresta Sud del Corno Piccolo, altro magnifico itinerario costantemente sospeso sulla precipite parete Est. Fa in seguito furore la salita della più grande, isolata e selvaggia parete dell'intero massiccio del Gran Sasso e di tutto l'Appennino Centrale, oggi conosciuto come “Il Paretone”.
Un giovane e intraprendente romano (di adozione) si distingue su tutti decretando la stagione dell'alpinismo senza guide anche su grandi itinerari. Nel '19 Enrico Jannetta, ex tenente degli alpini, apre una nuova via sul Torrione Cambi alzando ancora, anche se modesto, il livello di difficoltà. Nell'estate del '22 prende forma però la sua più importante impresa alpinistica dell'epoca; Enrico Jannetta, insieme a cinque coetanei parte in corriera da Roma fino ad Assergi. Il gruppo dei sei ragazzi attraversa il massiccio del Gran Sasso e dopo quattro giorni dalla partenza raggiunge infine con tende, coperte, cibo e materiale alpinistico la base della immensa parete Est della vetta Orientale. Qui c'è un piccolo corso d'acqua e si fermano per riposare un giorno intero. All'alba del sesto giorno i sei giovani e coraggiosi ragazzi, legati in due cordate da tre affrontano un terreno vasto e ricco di incognite tra canalini, pendii erbosi, placche di roccia a volte friabile e a volte ottima. Scalano ricchi di coraggio e determinazione; la parete è immensa e isolatissima. Un lungo traverso obliquo verso destra con sulla testa gli immensi strapiombi della Farfalla (oggi e non allora chiamata così) porta i ragazzi alla base di slanciati ed evidentissimi pilastri. Li evitano ovviamente continuando nell’interminabile obliquo verso destra da dove, dopo infinite 14 ore di arrampicata e 1500 metri di parete sotto il sedere, escono finalmente in cima alla vetta Orientale. E' un fulmine a ciel sereno perché mai prima di allora si era osato tanto. La via Jannetta al Paretone, con i suoi 1500 metri di sviluppo ancora oggi viene ripetuta ma mai frequentemente. E' senza dubbio, a prescindere dalla bassa difficoltà, un ingaggio di tutto rispetto.
L'instancabile Enrico Jannetta nello stesso anno è il primo a superare la impervia e ripida parete Est del Corno Piccolo. L'anno seguente, insieme al conte piemontese Aldo Bonacossa apre una lunga via sulla cresta Nord e il giorno seguente l'articolata cresta Ovest della stessa montagna. Un altro importantissimo merito di Jannetta è la precedente scoperta e valorizzazione della palestra di arrampicata del Monte Morra sui monti Lucretili non particolarmente lontani dalla capitale e che in seguito e per quasi 60 anni sarà il riferimento maggiore per intere generazioni di scalatori, in grandissima parte romani.
E' dell'estate del 1925 la prima solitaria, e forse la prima in assoluto di un certo rilievo, della traversata delle tre (o quattro?) vette del Corno Grande da parte di Giuseppe Bavona che desta un interesse generale, tanto che in seguito ci saranno altre diverse solitarie della bellissima traversata. Oltre lo specifico Corno Grande e Corno Piccolo c'è un’ altra imponente ma secondaria parete che attira gli sguardi di altri due giovani scalatori. Sono Alberto Herron e Piero Franchetti a superare per primi nel 1927 la grande bastionata del Pizzo Intermesoli, che si innalza ripida dalle pendici della tranquilla e amena Valle Maone. I due superano una profonda e lunga spaccatura che divide il secondo dal terzo Pilastro. La via oggi pressoché ignorata termina, come tutte le successive vie aperte in seguito, su dei ripidi prati e rocce friabili sottostanti la vetta.
La montagna, che aveva già visto alcune salite invernali inaugurate dai due cugini Sella, desta nuovamente interesse. Va detto che fino ad allora le salite erano state piuttosto semplici, risalendo vie normali e quindi pendii o semplici e larghi canaloni. E' nell'inverno del 1929 che finalmente si tenta una scalata tecnicamente più impegnativa, dando il via ad un alpinismo molto più avventuroso di quanto non sia stato fatto precedentemente.
Due ragazzi poco più che ventenni, ma già tra i più bravi e intraprendenti della SUCAI di Roma, Mario Cambi e Paolo Cichetti partono dalla capitale in corriera arrivando ad Assergi il giorno stesso del funerale della nota guida alpina Giovanni Acitelli. L'8 febbraio si avviano quindi verso la montagna già abbondantemente coperta di neve ( l'inverno 1928/1929 verrà censito come uno dei più freddi e nevosi del secolo) nonostante una meteo incerta, e arrivano, probabilmente superando il Passo della Portella, al rifugio Garibaldi. Questo è sommerso di neve e lo trovano oltretutto con la porta aperta; l'interno è invaso di neve. Manca una pala e non riescono a liberare la porta, il camino non funziona e non riescono ad accendere nemmeno un po' di fuoco. Passano la notte come se stessero all'aperto. Il 9, a giorno già avanzato, si avviano lungo pendii colmi di neve verso la Sella dei due Corni superando il Passo del Cannone. Nonostante il forte ritardo sulla ipotetica tabella di marcia Cambi e Cichetti non demordono e dalla sella attaccano le rocce della via Chiaraviglio – Bertelhet. Questa, facile d'estate è letteralmente trasformata e la salita risulta difficilissima e penosa. I due ragazzi stanno inanellando errori su errori. Nel frattempo perdono uno zaino, uno dei due (Cambi) non ha più guanti ma nonostante tutto continuano verso la vetta. Solo poco prima del tramonto, ancora lontani dalla meta decidono di arrendersi. Riescono a tornare alla sella che è già notte. Oggi noi ci chiediamo perché, invece che tornare al rifugio, lontanissimo e stremati e mezzi congelati, non siano scesi per il facile Vallone delle Cornacchie e senza difficoltà alcuna raggiungere l'albergo in costruzione a sole un paio d'ore di cammino e qui trovare rifugio per poi scendere facilmente a Pietracamela.
No, invece dopo aver cercato e recuperato lo zaino perso risalgono faticosamente al Passo del Cannone, attraversano la Conca degli Invalidi e infine a notte fonda il Garibaldi. Tutto con la neve oltre le ginocchia. Togliendo gli scarponi realizzano di avere ambedue avanzati stati di congelamento ai piedi e Cambi ad una mano. Il 10 restano fermi, non riescono a calzare gli scarponi e fuori si è scatenata una tormenta che accumula neve su neve. L11 febbraio non cambia nulla e restano fermi, senza ormai cibo e infreddoliti fino alle ossa. Il 12 non hanno più alternativa: scavano con le mani un pertugio per uscire dal rifugio letteralmente sommerso dalla neve e tentano disperatamente di scendere a Pietracamela. La marcia è assolutamente penosa, Mario Cambi non ce la fa più, si ferma e muore di stenti tra le braccia del suo amico Cichetti non può fare altro che provare a salvarsi, continua la sua disperata discesa ma è arrivato alla fine di ogni più piccola risorsa fisica. Crolla nella neve fonda anche lui, nel bosco a ormai due soli chilometri dal piccolo paese. Le ricerche dei due si avviano quanto prima ma senza esito. Cichetti viene ritrovato intorno al 20 Febbraio. Il corpo di Mario Cambi verrà invece ritrovato molto più in alto, soltanto nel mese di aprile. La ricostruzione di questo primo, tragico e drammatico evento si è resa possibile grazie ad alcuni scritti che i due sfortunati ragazzi hanno lasciato nel rifugio Garibaldi, scritti che fanno pensare avessero ormai sentore della loro imminente fine.
L'alpinismo in Abruzzo e in centro Italia in quegli anni viveva di una notevole inferiorità sia tecnica che culturale in confronto all'enorme e intraprendente movimento che cresceva sulle Alpi dove italiani, tedeschi, austriaci e francesi si rincorrevano e sfidavano nella soluzione di già grandi problemi. Basti pensare al sesto grado della via di Solleder e Lettenbauer sulla immensa parete nord Ovest del Civetta salita nel 1925 confrontandola con quanto scritto sopra, dove il quarto o il quinto grado non si sapeva ancora cosa fossero. Per quanto riguarda invece l'alpinismo invernale degli anni a seguire aprirò un capitolo a parte.
Ci pensano alpinisti aquilani a colmare, anche se con l'evidente ritardo, il gap tecnico ormai in continua evoluzione sulle Alpi quando le “grandi” scalate al Gran Sasso erano ancora limitate alla salita di Jannetta al Paretone e oggettivamente poco altro. I fratelli Domenico e Dario D'Armi, insieme a Manlio Sartorelli nell'estate del 1931 salgono in due giorni la lunga e imponente cresta Nord della vetta Orientale, che con i suoi 1150 metri fa da spartiacque tra il Paretone e il vasto Vallone delle Cornacchie; salgono dalla base superando un ostico camino con un breve tunnel, oltre una marcata cengia (cengia dei fiori oggi) seguono la non lineare cresta con problemi di orientamento, fatta di muri, creste, camini di roccia mai particolarmente solida ma innalzano improvvisamente il livello tecnico fino al quarto grado, con un verticale muro che sfiora il quinto. Domenico D'Armi era senz'altro il migliore tra gli alpinisti abruzzesi ormai molto presenti sulla grande montagna, mentre i romani, forse memori della precedente tragedia sono di nuovo quasi assenti. Domenico, detto “Mimì” D'Armi sembra quasi scatenarsi nel realizzare prime salite e ad affrontare difficoltà senza timori reverenziali.
Bruno Marsili, futuro medico condotto di Pietracamela (poi medico in alcune spedizioni abruzzesi in Himalaya negli anni dopo la guerra) e D'Armi aprono una elegante via su un evidente torrione chiamato in seguito Punta dei Due in loro onore. Ancora D'Armi nel '33 apre con Antonio Giancola lo spigolo Sud Sud Est della vetta occidentale (oggi ripetutissimo) con un passaggio che fa pensare ad un ipotetico sesto grado, cosi come nella salita della via dei Pulpiti alla Vetta Centrale aperta dagli stessi nel '34 con difficoltà complessive maggiori rispetto allo spigolo, sfiora o raggiunge il fatidico sesto grado. A introdurre ufficialmente questo mitico grado è nientemeno che “il Fortissimo” Giusto Gervasutti che insieme al conte Bonacossa sale l'aereo spigolo della Punta dei Due. A tale proposito va detto che il passaggio più duro della via dei Pulpiti non è affatto inferiore al sesto grado di Gervasutti.
Se dal versante aquilano D'Armi ha il suo da fare, di contro dal piccolo paese di Pietracamela non stanno certo con le mani in mano. Già nel 1925 l'allora medico condotto e alpinista Ernesto Sivitilli fonda, diversi anni prima dei Ragni di Lecco e degli Scoiattoli di Cortina, il gruppo “Aquilotti del Gran Sasso” riunendo intorno a se alcuni ragazzi del paese e li introduce all'alpinismo. In uno sperduto villaggio lontano da tutto e tutti Sivitilli porta una ventata di rinnovamento sportivo e culturale. Tra gli “Aquilotti” i più intraprendenti si chiamano Bruno Marsili, Antonio Giancola, Antonio Panza che apriranno importanti itinerari, ancora oggi ripetuti per logica ed estetica.
Nel massiccio del Gran Sasso, verso il termine della catena orientale troneggia il Monte Camicia. Con la sua tetra e friabile parete Nord sovrasta il paese di Castelli, da sempre antagonista di Pietracamela. Era opinione comune che la vasta e repulsiva parete in questione fosse impossibile. A mettere in discussione “l'impossibile” ci pensa l'intraprendente Bruno Marsili con il forte Antonio Panza. Nel mese di ottobre del '34 i due affrontano decisi la parete. Un dedalo di canalini, balze rocciose miste ad erba, pilastrini di dubbia tenuta e tanti sfasciumi creano difficoltà non tanto di grado quanto di intuito e attenzione, la roccia friabile non garantirebbe affatto la tenuta di un volo. Marsili e Panza superano infine un facile canale sotto una fastidiosa pioggia ma dopo 2000 metri di arrampicata giungono finalmente in vetta. Non sia mai!!! I pochi scalatori di Castelli e paesani vari non vogliono assolutamente credere che i due di Pietracamela possano aver superato l'immensa parete, non è possibile! In paese vengono addirittura derisi e presi per sbruffoni. Anche a Teramo in ambiente CAI nessuno crede a Marsili e Panza. Toccati nell'orgoglio abruzzese il 15 di agosto del '36 Marsili e Panza si portano di nuovo sotto la Nord con tanto di testimoni. I due “Aquilotti” scalano di nuovo l'intera parete e a conferma e dispetto dei castellani, lasciano un evidente drappo rosso molto in alto. La prova inconfutabile della loro impresa, che verrà ripetuta per la prima volta soltanto 31 anni dopo dai forti ascolani Francesco Bachetti e Giuseppe Fanesi.
Pochissimi anni dopo, il 10 giugno del 1940 da un balcone di Piazza Venezia a Roma un uomo al potere porta l'Italia intera in una devastante guerra e l'alpinismo viene momentaneamente messo da parte.
Foto Archivio M. Marcheggiani
Convegno Nazionale CAAI – Genova 8 ottobre 2022
Cliccando sulla barra di scorrimento sul margine inferiore del filmato puoi posizionarti sull'intervento che ti interessa
Elenco degli interventi
0:00 - Saluto del Presidente Gruppo Occidentale, Fulvio Scotto
5:00 - Saluto del Sindaco di Genova, Marco Bucci
9:40 - Saluto del Presidente Generale CAAI, Mauro Penasa
L’ALPINISMO NIZZARDO, DALLA COSTA AZZURRA ALLE MARITTIME E OLTRE
19:50 - Dal De Cessole a Patrick Berhault – relatore Fulvio Scotto
33:40 - Intervento di Jean Gounand
45:25 - Il dopo Berhault – relatore Matteo Faganello
55:45 - Intervento di Stephane Benoist
PROFETI IN PATRIA, GLI ALPINISTI CUNEESI SULLE MONTAGNE DI CASA
1:04:20 - Relatore Michele Perotti
1:23:20 - Intervento di Cege Ravaschietto
LUPI DI MARE AMMALIATI DAI MONTI, L’ALPINISMO GENOVESE/LIGURE
1:32:50 - Relatore – Alessandro Gogna
2:10:20 - Relatore – Andrea Parodi
UNA PARETE TUTTA PER SÉ, APPUNTI DI ALPINISMO FEMMINILE
2:26:55 - Relatrice Linda Cottino
2:32:00 - Interventi di Betty Caserini e Alice Arata
ALPINISMO E ARRAMPICATA SPORTIVA
3:06:30 - Relatore Giovannino Massari
3:32:25 - Intervento di Matteo Gambaro
DAL GHIACCIO D’OC ALLA MODERNA SCALATA SU MISTO
3:47:30 - Piolet traction sulle montagne cuneesi – relatore Anselmo Giolitti
4:15:15 - Intervento di Massimo Piras
4:24:45 - Il Mercantour e le Alpi Apuane – relatore Matteo Faganello
4:49:50 - Intervento di Massimo Piras
ooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo
di Marco Conti - CAAI Gruppo Occidentale
Compito non semplice riassumere in quattro parole la lunga, quanto interessantissima giornata di sabato 8 ottobre, che ha caratterizzato il Convegno Nazionale del CAAI, nella splendida e sontuosa cornice del Palazzo Ducale di Genova, incastonato tra l’elegante Piazza Matteotti e la spettacolare Piazza De Ferrari, nel centro di una Genova pullulante di gente e di turisti in una veste più che mai estiva .
Sala meravigliosamente accogliente ed ovviamente al completo per una carrellata infinita di interventi, temi e personaggi dalle caratteristiche e dal temperamento più svariati.
Dalle parole di presentazione ed accoglenza del sindaco di Genova Marco Bucci, lui stesso con precedenti alpinistici quali uno Sperone della Brenva, all’attenta analisi introduttiva del Presidente Generale del CAAI, Mauro Penasa. Fra i tanti punti toccati, Penasa ha evidenziato l’attuale e piuttosto preoccupante situazione in cui si trova in particolare il nostro Gruppo, quello Occidentale per intenderci, all’interno del quale l’età media dei componenti è oramai attestata da tempo sopra i 60 anni, con scarsa partecipazione dei giovani, vuoi per il mancato interesse al sodalizio, vuoi per una lamentata scarsa apertura verso l’esterno e soprattutto verso le nuove generazioni. Questa realtà era già emersa ed era stata messa in evidenza nella precedente ed animata Assemblea di Gruppo tenutasi in Val Varaita lo scorso autunno, nata e voluta a seguito anche di un animato e combattuto “scontro” epistolare nell’estate precedente fra alcuni componenti del Gruppo.
Il convegno è poi entrato nel vivo del tema, con un excursus ampio e dettagliato, avviato dal nostro presidente di Gruppo Fulvio Scotto, che nel breve tempo disponibile, ha ripercorso la più pura e antica storia dell’alpinismo e dell’arrampicata sulle Alpi del Sud , narrando ed appoggiandosi ai ricordi di Gounand (intervenuto fra gli ospiti stranieri ) con tutto o quasi il panorama “nizzardo”. Sono seguite le imperdibili testimonianze storiche di Gogna con i nomi più rappresentativi del panorama ligure (Calcagno, Vaccari, Montagna, Villaggio, per citarne alcuni). La parola è poi passata ad Andrea Parodi, profondissimo conoscitore delle Alpi del Sud, con una carrellata infinita di luoghi e prime salite, fino alle generazioni più recenti. L’analisi attenta e allo stesso tempo più leggera e scanzonata dell’alpinismo cuneese è stata fatta dalla guida Michele Perotti con la testimonianza di uno dei suoi maggiori protagonisti di sempre: “Cege ” Ravaschietto.
Splendida e quanto mai eccezionale la parentesi “nizzarda” con la testimonianza diretta e le incredibili realizzazioni di Stéphane Benoist a rappresentarne i vertici dell’alpinismo non solo nizzardo ma direi internazionale (basti citare la sua candidatura a due Piolet d’Or e la vittoria nel 2014 per comprenderne lo spessore). Benoist ha chiaramente descritto con parole e immagini alcuni dei suoi innumerevoli exploit, dapprima sulle Alpi e poi sulle montagne più recondite del pianeta, sempre in stile alpino ed estremamente leggero, testimoniando ai presenti che la strada maestra per il grande alpinismo è tutt’altro che finita; spetta solo alle nuove generazioni perseguirne gli intenti nel pieno rispetto di un’etica rigorosa e rispettosa verso la storia e le nuove tecnologie a disposizione.
Si è poi “scesi” si fa per dire, alle strutture di valle ed al mondo dell’arrampicata moderna di alto livello con la storia e l’evoluzione della stessa nelle parole di un sempre innamorato “Giova” Massari, che ha evidenziato le interazioni tra alpinismo classico e arrampicata/alpinismo sportivo, fino ad arrivare alle ultimissime realizzazioni raccontate da Matteo Gambaro, dalle gare alle multipich di altissimo livello.
Non poteva mancare la parentesi tutta al “femminile” con la testimonianza di due splendide protagoniste dell’alpinismo italiano, la guida alpina Betty Caserini e la collega Alice Arata fresca di promozione; lungi dalla definizione, oramai considerabile sessista di “alpinismo femminile “come sottolineato un po’ polemicamente da una brillantissima Linda Cottino, relatrice per questo capitolo del convegno.
Infine la lunga, cavalcata “piccozze alla mano” fra le più interessanti goulotte e cascate delle Alpi meridionali, dal Monviso al Mar Ligure e giù fino alle Apuane, con gli interventi di Anselmo Giolitti, Massimo Piras e un brillantissimo Matteo Faganello, con le ultime e interessantissime realizzazioni nella zona del Mercantor, ai più misconosciute.
Sono poi scorsi fra un intervento e l’altro un apprezzato cortometraggio del filmaker (e speriamo futuro accademico) Gabriele Canu, girato durante l’apertura di una via nuova di misto assai impegnativa sulla citatissima parete nord-est dello Scarason, insieme ad Alice Arata e al suo compagno Pietro Godani, ed un secondo video di un altro ben noto filmaker, Alessandro Beltrame, sulla scelta professionale come Guida Alpina di Betty Caserini.
Il Convegno ha poi avuto un’appendice dopo cena, con la proiezione del film-tetimonianza “Cristobal Colon” su Gianni Calcagno in presenza della figlia Camilla. La serata si è arricchita con la presenza in sala del sempre prestigioso Kurt Diemberger (con un’intervista realizzata in diretta dal giornalista Ferruccio Repetti) che, da partecipante alla spedizione, ne aveva fatto le riprese filmate, un testimone assoluto dell’alpinismo più tradizionale in questi ultimi 50 anni.
Che dire per concludere? Banale, persino un po’ scontato ringraziare in primis tutti i partecipanti, quelli arrivati dai gruppi più lontani, centrali e orientali.. ma soprattutto un grazie al nostro presidente Fulvio Scotto per la mole di lavoro portata a termine dopo una lunghissima, interminabile maratona.
Vorrei chiudere con le parole di un caro amico, nonché presidente di una sezione CAI del cuneese, a riprova che lo sforzo di un convegno, quando ricco di contenuti vale sempre “la candela”…anzi!
“…Io da umile frequentatore di montagna e presidente della sezione Cai di M*……., ho avuto l'onore di partecipare al convegno dove ho imparato in poche ore più di quanto conoscessi di storia di alpinismo e di alpinisti…”
Grazie a tutti e grazie anche ad una bellissima Genova.
MontagnaTV - Convegno CAAI a Genova
All’inizio di ottobre è stata rimossa la radio di emergenza istallata nel Bivacco Canzio nel 2017 a seguito di un accordo sottoscritto tra CAAI e FMS (Fondazione Montagna Sicura) nell’ambito del Programma Italia-Francia ALCOTRA 2014-2020.
Al termine del periodo contrattuale di manutenzione si è optato per la rimozione anche in considerazione del non utilizzo nel periodo di sperimentazione e della ottima copertura di telefonia mobile della zona.
Analoga apparecchiatura trasmittente era stata collocata sempre nel 2017 al Bivacco della Fourche, ora non più esistente (vedi).
VAL GRANDE IN VERTICALE 2022
Luca Enrico traccia un consuntivo della sesta edizione – 3 e 4 settembre 2022
Il sesto raduno Val Grande in Verticale si è concluso domenica 4 settembre con la consueta estrazione dei premi che ogni anno gli sponsor ci donano. E in linea con le passate edizioni è stato uno dei momenti più belli e aggreganti, la fortuna magari non ha sempre baciato gli arrampicatori incalliti, con la vincita dei premi più tecnici ed ambiti, ma in fondo il divertimento sta anche nell’attendere con il fiato sospeso l’estrazione del biglietto di turno scoprendo poi di aver vinto un salame o un pezzo di toma, cosa per altro, a ben vedere, tutt’altro che male. Certo non tutti possono avere la fortuna del penultimo iscritto al raduno, a estrazione già peraltro iniziata: alla fine si è vinto uno dei premi più belli, la corda singola da 80m.
Prima di parlare di numeri e attività legate all’evento vale la pena soffermarsi su due aspetti importanti che hanno caratterizzato questa edizione e che sono legati entrambi in qualche modo con il nostro sodalizio: il coinvolgimento dei giovani nell’organizzazione e il ruolo dell’Accademico stesso nel Gruppo Valli di Lanzo in Verticale, organizzatore ufficiale della manifestazione.
Quest’anno abbiamo voluto e siamo riusciti a creare una bella squadra di giovani, alcuni residenti in valle, per l’organizzazione operativa durante l’evento. Tutto è filato alla perfezione, è stato uno dei raduni con l’organizzazione migliore, dove con grande responsabilità le persone si sono suddivise i compiti, dal montaggio e smontaggio delle aree di ritrovo, al presidio del punto di iscrizione e alla creazione dei pacchi raduno fino ad arrivare al momento dell’estrazione finale.
Tutti hanno lavorato per la causa senza anteporre, come purtroppo era avvenuto in passato con alcuni personaggi, le proprie ambizioni personali alla buona riuscita del raduno. Ma la cosa davvero importante è che gli stessi giovani sono quelli che si sono appassionati alle chiodature e richiodature in valle, venendo diverse volte con me e mio fratello e chiedendoci poi anche il materiale per riattrezzare ad esempio le soste di una famosa via di Sea.
Tra un turno e l’altro alcuni hanno anche arrampicato con il nostro socio Luciano Peirano, uno dei pochi accademici, insieme ai sempre presenti Franco Carbonero, Fabrizio Ferrari, Ugo Manera ed Alberto Rampini (spero di non aver dimenticato qualcuno), ad aver preso parte al raduno. Un vero peccato questo perché è in queste occasioni che sul campo si potrebbe dimostrare lo spirito accademico, cercando di trasmetterlo a quei giovani di cui tanto sentiamo la mancanza nel nostro sodalizio senza però di fatto fare mai nulla per attirarli. Una piccola nota polemica che vuole però essere uno spunto di riflessione per quanti ancora credono che l’Accademico debba continuare ad esistere, visto che oltretutto quest’anno l’ospite d’onore era Leonardo Gheza, uno tra i più promettenti alpinisti italiani che, nonostante la giovane età, è già accademico. Uno dei pochi purtroppo.
Tanto più che, e qui veniamo al secondo degli aspetti peculiari di questa edizione, l’Accademico è diventato il “principale azionista” del Gruppo Valli di Lanzo in Verticale. Da quest’anno infatti il gruppo si appoggia formalmente al nostro sodalizio. Un’operazione di “cambio societario” che io e mio fratello abbiamo fortemente voluto trasferendo la gestione del Gruppo dalle sezioni del CAI al nostro CAAI, in quanto abbiamo ritenuto che questo fosse l’unico modo per mettere al riparo lo spirito del raduno, preservando quello originario che consiste nel promuovere l’arrampicata favorendo il ripristino delle tante vie presenti in Val Grande e in Sea in particolare. Un particolare grazie va al nostro presidente Mauro Penasa e ad Alberto Rampini che hanno creduto in questo progetto che negli anni ha consentito di ridare vita a un vallone che, per tipologia e quantità di vie, è quasi unico, almeno nelle nostre Alpi Occidentali.
Venendo alla sesta edizione si può dire che, benchè il meteo sabato non ci abbia aiutati, la domenica ci siamo ripresi bene. Direi che in questa giornata c’è stato ancora più movimento rispetto all’anno scorso anche se globalmente c’è stata una lieve contrazione delle iscrizioni, proprio dovute al fatto che il tempo di sabato ha scoraggiato molti a salire. Si scalava ugualmente ma purtroppo quando le previsioni portano possibili piovaschi molti preferiscono non rischiare. La preserata a Cantoira in compagnia di Leonardo è andata molto bene, è stata una proiezione semplice, senza quell’autocelebrazione in cui troppo spesso noi alpinisti abbiamo il vizio di cadere. Un incontro con questo bravo giovane alpinista molto informale, quasi famigliare direi, tanto che tutti in sala si sono sentiti coinvolti da quei racconti, anche chi di alpinismo non ne pratica e forse manco sapeva dov’erano quelle guglie e pareti impossibili salite dal nostro ospite.
Il meteo ci ha graziato, a dispetto delle previsioni, il sabato sera lasciando svolgere, sul campanile di Chialamberto, lo spettacolo di danza scalata a cura dell’associazione “Evoluzionaria Vertical Dance”. Magari qualcuno potrà obiettare che poco c’entra con l’alpinismo duro e puro fatto di fatica, sofferenza e pericolo però poco importa, non è certo questo lo scopo del Val Grande in Verticale e questa serata ha visto un nutrito pubblico, circa 300 persone, tutte col naso all’insù a riminare quella danza acrobatica.
Per le attività più “arrampicatorie” e “di montagna” come sempre il corso trad della Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti ha avuto un grande successo così come le due giornate di prova scalata per bambini (sabato, col tempo che davano, ci siamo quasi stupiti di vederne comunque così tanti) e la prova scalata per adulti neofiti, novità di quest’anno, partita un po’ in sordina ma che ha poi visto diversi iscritti dell’ultima ora. A tal proposito dobbiamo ringraziare le scuole di alpinismo che hanno permesso queste belle iniziative: la Scuola di Alpinismo Giovanile Lavesi, la Scuola di Alpinismo Ribaldone e la Scuola di Alpinismo Grosso. Senza dimenticare tutta la parte escursionistica realizzata grazie alla Scuola di Escursionismo Mentigazzi di Torino e al gruppo escursionistico del Cai Uget e Cai Lanzo. Un grazie quindi a tutti gli istruttori ed accompagnatori che hanno dedicato il proprio tempo libero per rendere vivo e ricco di iniziative il raduno.
E poi non possono mancare i ringraziamenti agli sponsor: alla Camp con Stefano Dalla Gasperina, a La Sportiva con Umbro Tessiore e sua figlia, a Ferrino, Edelrid, Grivel, Ortovox (un ringraziamento particolare va al nostro socio Giovanni Pagnoncelli che lavorando per Ortovox sono diversi anni che ci supporta), Wild Country, Mountain Sicks e Bshop, alle palestre di arrampicata Bside, Escape, Boulder Bar, Sasp, Cus Climbing, alla Libreria della Montagna, ai negozi, ristoranti, alberghi e B&B, a tutto lo staff di Cesarin e del Savoia. Un grazie particolare va anche ai comuni e ai loro sindaci e a Leo Gheza, nonché all’associazione Evoluzionaria Vertical Dance.
LE ALPI SUD OCCIDENTALI – Protagonisti e proposte di alpinismo
GENOVA Palazzo Ducale Sabato 8 ottobre 2022
CONVEGNO NAZIONALE DEL Club Alpino Accademico Italiano
Un mondo alpinistico spesso poco conosciuto ma di grande fascino ed impegno raccontato in immagini dai protagonisti di ieri e di oggi.
Oltre la storia, tante proposte di itinerari estivi ed invernali a tutti i livelli nelle Alpi del Sud.
Intervengono Matteo Faganello, Fulvio Scotto, Jean Gounand, Shephane Benoist, Michele Perotti, Sergio Savio, Cege Ravaschietto, Alessandro Gogna, Andrea Parodi, Linda Cottino, Alice Arata, Betty Caserini, Giovannino Massari, Matteo Gambaro, Anselmo Giolitti, Guido Ghigo, Massimo Piras
Tra le manifestazioni a latere del Convegno si segnala la straordinaria esposizione RUBENS A GENOVA presso il Palazzo Ducale
Scarica il depliant Rubens -Parte 1
Scarica il depliant Rubens - Parte 2
I personaggi, le salite e l'ambiente delle Alpi del Sud presentati da alcuni dei protagonisti e contestualizzati da storici dll'Alpinismo.
Il 25 agosto avevamo pubblicato sulla nostra pagina Facebook la notizia, ancora da confermare nei suoi contorni, di una frana che aveva interessato poche ore prima il nostro Bivacco Alberico e Borgna al Col de la Fourche, nel Gruppo del Monte Bianco.
A seguito delle verifiche sul posto, dobbiamo purtroppo confermare che la struttura è stata completamente travolta dal movimento franoso, precipitando sul ghiacciaio sottostante. In base alle verifiche effettuate dal Soccorso Alpino Valdostano nessuna persona è rimasta coinvolta.
Sono state informate le autorità locali, le associazioni alpinistiche e i mezzi di comunicazione, che tra ieri e oggi hanno dato ampio risalto alla notizia. E’ importante che gli alpinisti diretti al versante Brenva del Monte Bianco sappiano che non si può più contare su questa struttura come base di partenza per le ascensioni o come ricovero di emergenza.
Il bivacco, posizionato al Col de la Fourche a 3.675 mt sulla cresta sud-est del Mont Maudit (massiccio del Monte Bianco), ricordava i due alpinisti torinesi Corrado Alberico e Luigi Borgna travolti da una valanga nel 1934. Venne costruito nel 1935, interamente rifatto nel 1985 e lavori di manutenzione straordinaria si sono succediti nel tempo. L’ultimo intervento risale all’ottobre 2018, quando venne anche posizionata una web cam che ci ha fornito per anni stupende immagini della Brenva aggiornate in tempo reale. Nel 2017 era anche stata installata una apparecchiatura radio di emergenza.
La cresta sulla quale sorgeva il bivacco è ormai soggetta ad una instabilità crescente a causa delle elevate temperature che hanno minato il collante glaciale che cementava le rocce, per cui non sarà facile pensare ad una ricostruzione in posizione sicura. Al momento continuano i crolli di materiale.
La perdita di questa struttura è dolorosa per tutti e ci riporta alla mente pagine gloriose della storia dell’alpinismo (qui avvenne ad esempio l’incontro tra le cordate Bonatti e Mazead nel 1961 alla vigilia del tragico tentativo al Pilone Centrale del Freney) ma ci deve anche far riflettere sui mutamenti climatici che producono effetti devastanti sull’ambiente. Qui ne abbiamo una piccola manifestazione e la montagna del futuro sarà diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora.
a cura di Alberto Rampini - Foto Archivio Carlo Barbolini
ETTORE CASTIGLIONI Giusto dell’Umanità: la commemorazione al Rifugio Brentei
a cura di Alberto Rampini - Foto A. Rampini e F. Leardi
Ettore Castiglioni (1908-1944), forte alpinista Accademico e figura di altissimo profilo umano e sociale, è stato commemorato domenica 21 agosto al Rifugio Brentei.
Su iniziativa di un gruppo di associazioni e alpinisti con il patrocinio della pro-loco di Ruffrè, paese natale di Castiglioni, e del CAAI, una targa ricordo è stata affidata al gestore del Brentei Luca Leonardi. La targa rimarrà esposta in rifugio per alcuni mesi, per essere poi trasferita in altra location legata alla vita di Castiglioni in una specie di pellegrinaggio della memoria. E’ stata chiamata appunto “targa erratica”.
Si è iniziato con il Rifugio Brentei, ha spiegato Paolo Vita, uno dei coordinatori dell’iniziativa, perché per diversi anni nel Gruppo di Brenta Castiglioni esplorò le pareti e aprì diverse vie nuove assieme a Bruno Detassis, gestore per oltre mezzo secolo del Brentei. La testimonianza di quanto sia stato benvoluto Ettore Castiglioni sono un sentiero attrezzato e il bivacco sulla cima del Crozzon che da tempo portano il suo nome.
Presso la chiesetta del Brentei hanno portato la loro testimonianza i rappresentanti di varie associazioni, Sezioni CAI e SAT e numerosi alpinisti. Il CAAI era rappresentato da Francesco Leardi, presidente del Gruppo Orientale, Alberto Rampini ex Presidente Generale, Edoardo Covi, Sergio Martini e Franco Sartori.
Oltre che scalatore, Castiglioni fu anche uno dei primi compilatori di guide alpinistiche moderne, tra le quali quelle della collana TCI-CAI Guide dei Monti d’Italia “Pale di San Martino, Gruppo dei Feruc, Alpi Feltrine”, “Odle, Sella, Marmolada”, “Dolomiti di Brenta” e “Alpi Carniche”.
La biografia di Ettore Castiglioni è estremamente interessante e propone diversi motivi di riflessione, dal perseguimento determinato dei propri ideali di vita e delle proprie passioni, all’impegno in campo alpinistico e culturale e per finire all’impegno civico e sociale, tanto forte e sentito da causarne la prematura scomparsa a soli 36 anni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale operò attivamente in favore delle persone ingiustamente perseguitate in Italia e aiutò ad espatriare clandestinamente in Svizzera centinaia di ebrei e avversari politici, finendo più volte imprigionato e trovando infine la morte sul Ghiacciaio del Forno nel tentativo di riacquistare la propria libertà.
Per questa sua attività venne riconosciuto Giusto dell'Umanità dal Comune di Milano nel 2017.
Ed è questo forse l’insegnamento di più grande attualità che ci viene da questo straordinario personaggio:
fare in modo che l’impegno alpinistico non distolga del tutto la nostra attenzione dal mondo circostante e le doti di coraggio, forza e determinazione che guidano nelle scalate vengano impegnate anche in nobili attività di carattere civico ed umanitario.