L'INVERNO DEL GRAN SASSO - Parte prima - Dagli albori al 1980
Storia dell'alpinismo invernale sulla più alta montagna dell'Appennino - di Massimo Marcheggiani
Ottimizzazione e grafica A. Rampini
La più grande montagna dell’Appennino Centrale cambia veste, arriva l’autunno e poi come sempre segue l’inverno che ricopre tutto con la sua coltre immacolata. Masse di neve si accumulano nei valloni, canaloni o pendii e di quando in quando la neve si deposita anche sulle balze delle verticali pareti. La montagna, a volte grazie all’azione del vento, si trasforma in una vera e propria effimera scultura naturale e l’uomo ne subisce il fascino. Per questo, e per altri mille motivi, nasce l’alpinismo invernale.
Dal 1880 al 1900 – Gli albori - Sulle tracce di Corradino e Gaudenzio Sella
L'alpinismo invernale nel gruppo del Gran Sasso non vede il suo inizio con alpinisti del Centro Italia, bensì con due illustri nomi piemontesi: Corradino e Gaudenzio Sella, rampolli di quella grande famiglia Sella tra cui il ben più famoso Quintino che, oltre che ministro delle finanze, fu l'artefice della fondazione del Club Alpino Italiano il 23 ottobre del 1863.
È l'alba del 9 gennaio del 1880 quando i due Sella, accompagnati da Giovanni Acitelli e dal portatore Zaccaria si avventurano, prima di ogni altro, verso la salita invernale della massima vetta dell'Appennino Centrale. Due altri precedenti tentativi il Corradino Sella li aveva tentati invano esattamente un anno prima, nell'inverno del 1879. Non bisogna credere che i Sella facessero la spola Piemonte/Gran Sasso ogni volta: in quegli anni erano viaggi interminabili; invece, i rampolli Sella vivevano a Roma in casa dello zio Quintino, iscritti alla facoltà di ingegneria.
Dopo un interminabile viaggio Roma-Terni in treno, Terni-L'Aquila in diligenza, L'Aquila-Assergi con un'altra vettura i due cugini trovano da dormire e reclutano la “guida” Giovanni Acitelli e il portatore Zaccaria. All'una e mezza di notte si incamminano e all'alba raggiungono il Passo della Portella con neve stabile e una temperatura accettabile. Scendono nel sottostante Campo Pericoli e si dirigono alla volta del Corno Grande. Risalendo il ripido pendio verso la Sella del Brecciaio trovano opportuno legarsi (i due Sella) con una corda di manila da 25 metri invitando le due “guide” a stare nel mezzo e aggrapparsi alla corda in caso di necessità. Il solo che avesse una sottospecie di ramponi era il Corradino che dovette gradinare per l'intero pendio con il resto della comitiva attaccato all’ unica corda. Una volta raggiunta la sella le due “guide” molto spaventate dalla situazione preferirono rinunciare ad accompagnare i loro facoltosi clienti che, ben felici della loro rinuncia, continuarono da soli l'ascensione. Seguendo quella che è oggi la normale, alle 11 e 30 raggiunsero più agevolmente e velocemente la cima del Corno Grande. I due rimasero incantati dalla magnificenza del panorama: l'immensa distesa di Campo Imperatore, i dirupi del versante Nord, la vista dell'elegante Corno Piccolo ma prima di ogni altra cosa la inaspettata vista del mare Adriatico, che da nessun'altra montagna i due avevano mai potuto scorgere. Una relazione dei Sella suscitò inevitabilmente il giusto clamore, soprattutto negli ambienti romani e abruzzesi. Oltre i dettagli tecnici i cugini piemontesi sottolinearono la inadeguatezza delle “guide cosiddette” abruzzesi che giustamente si piccarono del giudizio negativo, ma va detto che in effetti gli Acitelli e altri abruzzesi erano sì conoscitori della montagna, ma il loro livello tecnico era praticamente nullo.
L'impresa dei Sella non fu solo “sportiva” dal momento che gli ambienti alpinistici del Centro Italia ne ebbero un effetto culturalmente positivo, risvegliandosi da un torpore sul quale erano adagiati praticando un alpinismo tendente più all'escursionismo estivo e tecnicamente relativamente facile. Maturò così una ricerca più intraprendente volta ad affrontare coraggiosamente salite più impegnative. La prima reazione fu la presa di coscienza che un rifugio sarebbe stato più che necessario, ed essendo la sezione romana la più “ricca” fu questa a finanziare la costruzione del primo rifugio sul Gran Sasso, che vide la inaugurazione il 16 settembre del 1886 intitolato a Giuseppe Garibaldi. Il Rifugio, costruito nella grande valle di Campo Pericoli, fu in seguito base operativa soprattutto per le “guide” abruzzesi.
L'8 dicembre del 1888 i romani Abbate, Pascarella, Stauffer, Tognini ed Ugolini con la guida Giovanni Acitelli compirono la seconda salita invernale del Corno Grande seguendo lo stesso itinerario dei Sella. Tre anni dopo seguì una terza salita invernale, esattamente il 5 aprile del 1891. Una cordata composta dai due torinesi Demaison e Manaira, il genovese Risso e Broglio di Verbano sicuramente avvezzi ad un alpinismo più d'avventura, salirono di nuovo i 2912 m della vetta massima del Corno Grande ma senza l'ausilio di guide, a dimostrazione che al nord si stava senza dubbio un passo avanti dal punto di vista tecnico. I quattro si trovavano a Roma per ben altri motivi, e approfittando della conoscenza dell'allora presidente del CAI capitolino, riuscirono a rimediare il materiale necessario. Raggiunta Assergi a notte fonda raggiungono il passo della portella, scendono nella conca di Campo Pericoli e successivamente a giorno fatto e contrariamente ai loro predecessori salgono in vetta lungo la cresta sud-ovest, itinerario senza dubbio più difficile (o meno facile) della via normale. Da notare che le salite invernali non si rifacevano, come succede oggi, fiscalmente all'inverno da calendario (21 dicembre-21 marzo) bensì alle condizioni della montagna innevata. Vediamo così che la salita delle montagne d'inverno in centro Italia diventa, come al nord, quasi un “dovere” alpinistico. Il Gran Sasso è montagna diversa dal resto dell'appennino, non è solo la più alta, ma presenta molteplicità di vette, versanti, grandi dislivelli ed esteticamente non ha confronto alcuno con il restante appennino. Era ed è ancora oggi la Montagna più ambita dagli alpinisti del centro Italia.
Salito ormai più volte il Corno Grande, l'attenzione si rivolge inevitabilmente al Corno Piccolo, dalle forme molto più ardite e che risulta essere il problema per eccellenza. La prima salita nella stagione invernale avviene nel 1893. Il 7 febbraio la comitiva composta dall'infaticabile Enrico Abbate, E. Gavini, O. Gualerzi, accompagnati dalla solita guida Giovanni Acitelli ed un portatore, raggiunge il rifugio Garibaldi. A notte inoltrata si avventurano per primi sul versante meridionale arrivando in vetta nel pomeriggio inoltrato su un percorso non molto chiaro (presumibilmente l'attuale via normale da sud). Restano in vetta una manciata di minuti poiché la successiva discesa non è affatto scontata visto che avviene quasi completamente di notte alla luce di lanterne a petrolio. La comitiva, infatti, raggiunge di nuovo il rifugio intorno alle 23, dopo quasi 20 ore di faticosa attività per scendere il giorno successivo ad Assergi.
Una importante salita, anche se tecnicamente semplice fu la traversata della montagna da nord a sud. Concepire una “traversata” nel 1895 fu un'idea senza dubbio all'avanguardia: artefici furono la solita Guida G. Acitelli con O. Gualerzi e E. Scifoni. Il gruppetto preparò minuziosamente “l'impresa”: si portarono al rifugio Garibaldi e qui lasciarono provviste nel caso di eventuali necessità. Ridiscesero la sottostante Valle Maone e raggiunsero Pietracamela, dove sostarono un intero giorno per riposare. Alle 2,30 di notte del 23 marzo lasciarono il piccolo villaggio posto a 1030 m e raggiunsero prima l'Arapietra a quota 1650m. Saliti poi lungo la larga cresta est raggiunsero quello che oggi viene comunemente chiamato “la Madonnina” a 2030 m e da qui, scalinando superarono il ripidissimo ingresso nel vallone delle Cornacchie (oggi Passo delle Scalette) raggiungendo il ghiacciaio del Calderone. Da questo, seguendo presumibilmente la via percorsa circa 200 anni prima da Orazio Delfico, raggiunsero per primi in inverno la Vetta Orientale a 2903m intorno alle ore 12. Scesi rapidamente di nuovo al Calderone, lo risalirono sul suo fianco sinistro fino in vetta all'Occidentale (2912m). Probabilmente il gruppetto era ottimamente allenato visto che, dopo aver sceso la cresta sud-est, alle 16 raggiunse il Rifugio Garibaldi e dopo una breve pausa la sera stessa raggiunse Assergi a 870 m. Dal punto di vista tecnico niente di nuovo, ma la performance fisica fu eccezionale visti i circa 4000 metri di dislivello superati tra salite e discese tanto che l'impresa venne celebrata sulla Rivista Mensile del CAI nell'agosto del 1895. La figura di Giovanni Acitelli, definita “presunta guida” dai Sella non molti anni prima, grazie alla sua fama e notorietà diventa leggendaria, tanto che diventano guide anche i suoi due figli, Berardino e Domenico.
Dal 1900 al 1915 – Inizia la frequentazione dei senza guida
Il XIX secolo si chiude in relativa sordina. L'Abruzzo, grazie alla sua più grande montagna, vede quasi con sorpresa un turismo alpinistico non più “casareccio” ma, grazie alle relazioni dei Sella, anche se sporadicamente, un interesse in crescendo da parte di alpinisti del nord che scendono al sud per conoscere questa montagna da cui “si vede il mare”. Questo scambio culturale tra nord e centro Italia porta con sé innovazioni “sportive”. Se da una parte vediamo la tecnica alpinistica crescere di anno in anno, di contro lo stile di scalare senza guide crea un danno professionale a chi aveva puntato (gli Acitelli e non solo) a questa professione come alternativa all'essere pastore, contadino o boscaiolo. Le risorse lavorative nelle zone montane appenniniche non davano certo grandi opportunità. Non ultimo, la costruzione del rifugio Duca degli Abruzzi nel 1908 sulla cresta del monte Aquila, a differenza del Garibaldi che d'inverno veniva letteralmente sommerso dalla neve, faciliterà ancora di più l'approccio al Corno Grande così come la frequentazione dei “senza guide”. Infatti, con o senza guide partendo dal “Duca” nel 1910 fu tentata una salita al Corno Piccolo, l'anno successivo fu salito in prima invernale l'odierno Canalone Bissolati, ancora nel dicembre del 1912 si vide la salita della parete sud del Corno Grande presumibilmente lungo l'attuale Direttissima e nel 1914 fu effettuato il primo tentativo di salita alla vetta massima con gli sci. A proposito dello sci un grande contributo alla ricerca di nuove salite fu dato dal conte Aldo Bonacossa, che da grande appassionato dello sci come dell'arrampicata portò ad un ulteriore ribalta il Gran Sasso cominciando proprio con la prima salita in sci del Corno Grande.
A proposito di Bonacossa, nato a Vigevano (Pavia), va sottolineata altresì la sua attività innovativa su roccia quando insieme ad Enrico Jannetta apre diverse vie nuove sul Corno Piccolo, tra cui la bellissima cresta nord. La continua presenza al Gran Sasso del “conte” fu di grande stimolo, e fece scalpore la salita con il “Fortissimo” Giusto Gervasutti quando nell'ottobre del '34 aprirono lo spigolo sud alla Punta dei Due con un passaggio di 6°grado che resterà per anni il più duro dell'intera montagna. Il conte Bonacossa in seguito, per i suoi meriti alpinistici divenne Accademico del CAI, e ne fu anche presidente generale.
Le sezioni CAI di L'Aquila e di Roma non stettero certo a guardare, rocciatori e sciatori ebbero una crescita tecnica notevole, colmando in parte il gap con gli stessi ambienti alpini. Il fermento fu tale che in seguito (nel 1925) Ernesto Sivitilli, medico condotto di Pietracamela oltre che valido scalatore, creò il gruppo alpinistico “Aquilotti del Gran Sasso” ancora prima dei più famosi Ragni di Lecco o degli Scoiattoli di Cortina.
Dal 1915 al 1942 – Il periodo tra le due Guerre e la tragica epopea della cordata Cambi-Cichetti
Dal 1915 al 1918 la mortale Prima guerra mondiale mette a tacere gli eventi alpinistici. Non succede nulla di importante per diversi anni, fino a quando una terribile tragedia sconvolge l'ambiente alpinistico centro italiano e soprattutto romano. Due ragazzi, poco più che ventenni ma già tra i più promettenti scalatori in seno alla sezione romana del CAI, partono come era normale in corriera dalla capitale arrivando ad Assergi il giorno stesso del funerale della nota guida alpina Giovanni Acitelli. Sono Mario Cambi e Paolo Cichetti. L'inverno in corso (1928/1929) verrà censito come uno dei più freddi e nevosi del secolo. È l'8 febbraio quando i due si avviano verso la montagna già abbondantemente coperta di neve. Nonostante una meteo non particolarmente favorevole risalgono il lungo pendio fino a raggiungere il Passo della Portella. Scesi a Campo Pericoli raggiungono il rifugio Garibaldi trovandolo come sempre d'inverno semisommerso dalla neve, trovando oltretutto la porta aperta. L'interno è ovviamente invaso dalla neve, non trovano la pala in dotazione al rifugio e non riescono quindi a liberare la porta, il camino intasato dalla neve non funziona e perciò niente fuoco. Passano la notte come se stessero all'aperto patendo il freddo intenso. È giorno avanzato quando si avviano lungo i pendii colmi di neve verso la Sella dei due Corni superando il Passo del Cannone. Nonostante il forte ritardo sulla tabella di marcia Cambi e Cichetti non demordono dal loro progetto della prima invernale alla cresta Chiaraviglio-Berthelet. Questa, facile d'estate, è letteralmente trasformata e, nonostante ciò, attaccano la via trovandola difficilissima e penosa data la già evidente stanchezza del lungo avvicinamento. I due giovani scalatori stanno inconsciamente inanellando errori su errori. Perdono uno zaino che cade nel sottostante Vallone delle Cornacchie, Cambi si ritrova non sappiamo come senza guanti ma decisi a tutto continuano, penosamente e lentamente verso la vetta. Soltanto poco prima del tramonto si rendono conto che non ce la faranno mai a toccare la cima della montagna, sono ancora troppo lontani e finalmente si arrendono. È notte quando raggiungono la Sella dei due Corni. Oggi ci chiediamo perché, invece che tornare al lontanissimo Garibaldi, già stanchi e mezzi congelati, non siano scesi per il facile Vallone delle Cornacchie e da qui, tutto in discesa e senza difficoltà alcuna raggiungere in meno di due ore l'albergo in costruzione sulla cresta dell'Arapietra, passarvi la notte e sempre facilmente raggiungere poi Pietracamela.
No! Invece dopo aver cercato e recuperato lo zaino perso risalgono faticosamente al Passo del Cannone, attraversano la Conca degli Invalidi e quasi all'alba arrivano stremati al Garibaldi. Tutto con la neve oltre le ginocchia. Entrano, tolgono gli scarponi e realizzano ambedue di avere avanzati stati di congelamento ai piedi e Cambi ad una mano. È il 10 febbraio e restano fermi perché non riescono a calzare gli scarponi e fuori si è scatenata una tormenta accumulando neve su neve. Porta aperta, niente fuoco, cibo ormai agli sgoccioli. L'11 febbraio non cambia nulla e stanno ancora fermi, ormai senza cibo né acqua, infreddoliti fino alle ossa. Il 12 non hanno più alternativa se non calzare dolorosamente gli scarponi, scavare con le mani un pertugio per uscire dal rifugio ormai sommerso dalla neve e tentare disperatamente di scendere a Pietracamela. La marcia è penosa oltre ogni limite, Mario Cambi non ce la fa più, si arrende, si ferma e muore di stenti tra le braccia del suo amico. Paolo Cichetti non può fare altro che provare a salvarsi, continua la sua disperata discesa ma è ormai alla fine di ogni sua più piccola risorsa fisica. Crolla nella neve fonda a soli due chilometri dal piccolo paese e qui esala il suo ultimo respiro.
Le ricerche dei due sventurati ragazzi si avviano quanto prima ma senza esito. Paolo Cichetti viene ritrovato il 20 febbraio. Il corpo di Mario Cambi verrà ritrovato, molto più in alto soltanto nel mese di aprile. La ricostruzione di questo primo, tragico e drammatico evento si è resa possibile grazie ad alcuni scritti che i due ragazzi hanno lasciato nel rifugio Garibaldi, scritti che fanno pensare avessero ormai sentore della loro imminente fine.
Dopo la tragica fine dei due giovani Cambi e Cichetti, non ci furono salite invernali per diversi anni. Unica eccezione fu quella di Ernesto Sivitilli con De Carolis, Costantini e Fondaconi che da Pietracamela salirono il Picco dei Caprai, sulla sponda sinistra orografica della Valle Maone, l'8 dicembre del 1929 , “prima invernale alpinistica” di una certa rilevanza dalla fine della Prima guerra mondiale al 1943. Negli anni di mezzo, grazie alla costruzione della prima funivia nel 1934 che da Assergi portava a Campo Imperatore, ci fu esclusivamente una ricerca sciistica sulle montagne del Gran Sasso. Furono saliti per la prima volta il monte Prena, il monte Brancastello, il San Franco, il Cefalone e furono compiute alcune interessanti traversate, ma con valore tecnico alpinistico praticamente nullo. Forse la tragedia dei due romani aveva lasciato un pessimo ricordo e non ultimo una disgraziata Seconda guerra mondiale aveva messo in ginocchio l'Italia intera, con milioni di morti e città devastate da bombardamenti. L'alpinismo, con la sua potenziale pericolosità, probabilmente era l'ultimo dei pensieri degli scalatori.
Dal 1943 al 1963 – Venti anni di intensa attività
Il primo a rimettere le mani sulle pareti del Gran Sasso, d'estate e d'inverno, fu Andrea Bafile. Nato a L'Aquila nel 1923, oltre ad aver effettuato importanti salite su roccia al Corno Grande e al Corno Piccolo, Bafile dal 1943 si dedicò in maniera sistematica alla pratica invernale. Non realizzò niente di particolarmente importante ma salì con compagni diversi molte delle vie classiche di quegli anni; la via Gualerzi-Acitelli alla vetta Centrale, la cresta sud-est del Torrione Cambi (intitolato a Mario Cambi di cui sopra), la via Chiaraviglio-Berthelet al Corno Piccolo (tentata appunto invano da Cambi e Cichetti), lo spigolo sud-sud est del Corno Grande ed altre salite ancora. Fu senza dubbio un anticipatore di quella che sarebbe diventata negli anni a venire un'attività perseguita dai più intraprendenti scalatori della seguente generazione ed è riconosciuto come un valido caposcuola di un alpinismo poliedrico e tecnicamente avanzato. Anche alcuni romani ripresero in mano le scalate invernali: nel 1953 G. Malagodi, L. Camponeschi e G. Bonini compirono la prima invernale della cresta est nord est della vetta Occidentale mentre pochi giorni dopo, era il 12 dicembre, S. Bastianello e S. De Simoni ripeterono lo stesso itinerario ma con una variante d'attacco diretta.
Verso la fine degli anni 40, all'interno della sezione capitolina del CAI, poco più di una manciata di studenti universitari chiede e ottiene dal Consiglio Direttivo di potersi costituire in Sottosezione Universitaria per svolgere in maniera autonoma un’attività alpinistica di stampo tecnico avanzato. Il nefasto ventennio del fascismo e la stupida guerra da questo voluta sono ormai alle spalle, un'aria nuova comincia a respirarsi e la neonata SUCAI diventa il motore pulsante della sezione romana, così distante dalla catena alpina e con una tradizione alpinistica ancora molto scarsa. I giovani sucaini diventano loro malgrado un veicolo sportivo/culturale di prim'ordine, la sezione ne ha benefici così come le altre realtà alpinistiche del centro Italia.
Si comincia a parlare di alpinismo moderno anche in Appennino. Informazioni e rare incursioni sulle lontane Alpi portano ad un confronto con l'alpinismo del 6° grado, con l'alpinismo di grande avventura e dove l'alpinismo invernale presuppone “un cammino della sofferenza”, parafrasando Gian Piero Motti nella sua Storia dell'Alpinismo. Le “piccole” montagne appenniniche vengono viste con occhi diversi, c'è bisogno di un concetto nuovo di esplorazione e i giovani sucaini ne sono, dalla seconda metà degli anni '40, i maggiori protagonisti. Roma è città grande, tra i due/ tre milioni di abitanti è facile trovare più scalatori che non in piccole città come L'Aquila, Teramo o addirittura in piccoli paesi come possono essere Assergi o Pietracamela. Tra i tanti nella sezione CAI romana di bravi e intraprendenti ce ne sono. Va aggiunto che spesso tra i tanti è presente una discreta borghesia, quindi una disponibilità economica che permette lunghi viaggi e permanenze sulle Alpi con realizzazioni e incontri/confronti con alpinisti di altre culture. L'Appennino Centrale è una lunga e articolata catena di montagne, ma per lo più troviamo “grandi colline” con scarse possibilità di trovare pareti da scalare; la dovuta eccezione è data dal Gran Sasso che come già visto e letto offre pareti in quantità, grandi dislivelli e roccia su alcune pareti di primissima qualità. Anche i monti Sibillini offrono pareti ma non reggono certo il confronto con il Gran Sasso, così come i monti Reatini, il gruppo del Velino/Sirente e così via. Il Gran Sasso è il riferimento principale.
Nonostante tutto l'atavico ritardo rispetto allo sviluppo alpinistico estivo o invernale che fosse sulle Alpi, non lo si poteva certo negare. Probabilmente il concetto che l'alpinismo in Appennino fosse di serie B portava ad una visione riduttiva del proprio operato, ma i tempi dovevano maturare, bisognava “fare” per potersi mettere al passo con i “bravi” del nord. Grazie alla scossa che il bravo Andrea Bafile aveva dato, i sucaini romani diventano lentamente i principali protagonisti di un alpinismo tecnicamente più avanzato. Nel marzo del 1957 sembra che i romani si scatenino: Silvio Jovane, Luigi Mario e l'abruzzese Lino D'Angelo compirono la prima invernale della “via delle Spalle” il 16 del mese; il giorno dopo Franco Alletto, Enrico Leone e F. Della Valle salirono primi in inverno il lungo canalone Herron/Franchetti sulla parete est del Pizzo Intermesoli; il giorno dopo ancora, siamo al 18 marzo, G. Bulferi ed E. Mercurio salirono la via “Abbate/Acitelli” sulla parete nord del Corno Piccolo; il 19 Franco Cravino e F. Dupré compirono la prima traversata invernale delle tre vette del Corno Grande. Cravino con altri compagni aveva già salito giorni prima la via “Franchi/Terigi” al monte Corvo. Due abruzzesi di Pescara, Luigi Barbuscia e S. Lucchesi non stettero certo a guardare e salirono per primi d'inverno la lunga “cresta nord-est” del Corno Piccolo. I romani e pochi altri si erano scatenati! Nel mese di gennaio del 1958 continua la corsa alle prime invernale ed ancora i romani della SUCAI risultano esserne i protagonisti. Luigi “Gigi” Mario e Silvio Jovane salirono la via “Jannetta-Bonacossa” sulle Spalle del Corno Piccolo; E. Leone e Panegrossi il “canalone Jacobucci” all'Intermesoli mentre C.A. Pinelli, M. Lopriore e G. Macola salgono il sinuoso canale “Sivitilli” alla prima Spalla. Pinelli sarà il principale salitore delle vie dette “grandes courses”, la sua mentalità più “occidentale” lo porta appunto a cercare quegli itinerari meno tecnici ma di più grande respiro di cui il Gran Sasso non è certo avaro.
“...Lo scorso anno furono compiute le prime salite invernali delle creste nord-est e ovest e della parete nord del Corno Piccolo oltre la est del Pizzo Intermesoli: restava da salire ancora la ripida e articolata parete est del Corno Piccolo; non potevamo rassegnarci a non essere noi abruzzesi di Pietracamela a compierne la prima invernale...” Così scrive Bruno Marsili in “L'ultima prima, Aquilotti del Gran Sasso” del 1976. Infatti, Bruno Marsili (medico condotto di Pietracamela), Lino D'Angelo (prima guida alpina abruzzese) e Clorindo Narducci degli Aquilotti del Gran Sasso, il 15 febbraio del 1958 compirono la prima invernale assoluta della parete più dolomitica della montagna lungo il” Costolone Divisorio”. I tre abruzzesi probabilmente si sentirono scippati dal protagonismo dei romani e cercarono il giusto riscatto in una “sana” e naturale competizione con i forestieri capitolini.
Grazie alle vedute più ampie di Pinelli si cominciano a buttare occhiate alla più grande parete del Gran Sasso. La lunghissima via Jannetta al Paretone diventa così il problema principale; stando ai principi che la pratica invernale si orientava soprattutto su canali più o meno ripidi e rare vie di roccia “facili”, ecco che la “Jannetta” attira le attenzioni dei più agguerriti. Sparuti tentativi precedenti al '61 non salgono che il facile pendio che porta al “forcellino” comodo spazio che negli anni a seguire diventerà un ottimo punto da bivacco esente da pericoli oggettivi ed avamposto per facilitare la salita di questo lunghissimo itinerario. Il 29 febbraio del '61 i “soliti” romani Pinelli, Jovane, Cravino e Lopriore, stipati come sardine a bordo di una modesta FIAT 600, partono da Roma. Non esiste autostrada e il viaggio lungo la via Salaria toccando Rieti, Antrodoco, Vado di Corno, poi il Passo delle Capannelle, Montorio al Vomano ed infine il minuscolo villaggio di Casale San Nicola sfinirebbe chiunque. Passano metà notte in una stalla di conoscenti e ben prima dell'alba si avviano verso la incombente parete salita per la prima volta 40 anni prima. Risalgono il lungo fosso che termina esattamente contro la parete, da qui facilmente raggiungono il “forcellino” e dopo non molto si legano in due cordate distinte. Il primo sole li trova già poco oltre i due muri più ripidi e impegnativi da dove si obliqua ora lungamente verso destra. L'immane strapiombo della “Farfalla” alla loro sinistra incombe sulle loro teste e devono accelerare visto che ogni tanto qualche pietra o piccole slavine cadono dall'alto. La lunghissima salita non comporta grandi difficoltà, anzi, ma l'isolamento e la grandezza ambientale rendono la scalata a suo modo impegnativa. Franco Cravino in seguito ebbe a scrivere:”... comincio a pensare che questa salita sia infinita, dovrò continuare a salire, salire e salire per il resto della mia vita...” La progressione ha però un buon ritmo e sono ormai in alto quando però il tempo è ormai cambiato ed è minaccioso.
E' tardo pomeriggio quando le due cordate escono finalmente in vetta, uscita complicata però dall'arrivo di una fitta nebbia, vento forte, neve e il buio ormai incipiente. Stanchi e senza visibilità decidono per il bivacco, riescono a montare una tendina e a fatica infilarsi dentro tutti e quattro al riparo del forte vento. Scomodi come sono non chiudono occhio, e quando a notte fonda il vento si è placato e le stelle tornate visibili calzano di nuovo i ramponi e facilmente raggiungono il rifugio Franchetti ovviamente chiuso, continuano l'interminabile discesa nel vallone delle cornacchie ed infine l'agognata FIAT 600. Pochi giorni dopo la salita di Pinelli e compagni, Luigi “Gigi” Mario ed E. Caruso della Sucai di Roma si portano alla base della stessa grande parete. Qui nel buio incontrano due tra i migliori scalatori di Ascoli Piceno: sono Marco Florio e Maurizio Calibani che con i due romani compiono quindi la seconda salita invernale della “Jannetta”. I marchigiani, molto attivi sui monti Sibillini, saranno in seguito l'altro polo del protagonismo sul Gran Sasso sia estivo ma soprattutto invernale quando a pochi anni di distanza apparirà sulle scene la figura di Tiziano Cantalamessa.
Pinelli e Jovane un mese dopo la salita al Paretone si ripeterono con un’altra grande salita di stampo occidentale superando i 1250 metri della via Haas-Acitelli, sull'isolatissimo versante Sud della vetta Orientale. Anche questo bellissimo itinerario, come la via Jannetta, non presenta particolari difficoltà tecniche, ma di nuovo l'isolamento e il lungo avvicinamento lo rendono senza dubbio una “grande course” appenninica da non sottovalutare mai.
La forte cordata di Florio e Calibani, una settimana dopo lo Jannetta, sale la breve ma difficile via di Gervasutti alla Punta dei Due. Vero che la via è relativamente breve e di facile accesso, ma il 6° grado affrontato e superato dimostrò la maturità dei due ascolani, maturità che destabilizzò romani e abruzzesi quando i soliti due Florio e Calibani alzarono e di molto l'asticella delle difficoltà, spingendo in avanti il livello tecnico raggiunto fino ad allora quando nel mese di marzo 1963 attaccarono i 1150 metri della cresta Nord della Vetta Orientale. Come per la via Jannetta al Paretone più di una cordata aveva tentato, invano, di salire il difficile e lungo itinerario. I due ascolani all'alba del 17 marzo si trovarono alla base del lungo camino che supera la prima sezione della cresta. Le condizioni non erano delle migliori, ma la determinazione dei marchigiani non venne meno e con una difficile arrampicata su un misto molto complicato (la roccia non è delle migliori) raggiungono la “Cengia dei Fiori” che chiude il primo terzo della via. Attrezzati con tendina e sacchi piuma bivaccarono al freddo ma comodamente in quanto la cengia offre spazio sufficiente. Il secondo giorno li vide maggiormente impegnati: un fastidioso nevischio e non pericolose piccole slavine aggiunsero ulteriori difficoltà alla lunga scalata fatta di misto, assenza di sole, rocce a volte friabili e diversi muri verticali. Nel tardo pomeriggio raggiunsero il termine della cresta, intersecando quella che oggi è la ferrata Ricci e dalla quale si scende al rifugio Franchetti (costruito solo due anni prima) e da qui ai Prati di Tivo senza difficoltà alcuna. Una salita invernale così difficile non era mai stata portata a termine e i due ascolani dettero prova di una avanzata maturità. Questo tipo di evento non poteva che stimolare ulteriori tentativi e realizzazioni sulla grande montagna appenninica; infatti, già l'anno seguente si ebbero due salite tecnicamente impegnative: la vetta massima del Corno Grande viene raggiunta lungo la ancora inviolata parete est. Questa viene salita per la prima volta nel gennaio del 1964. Dopo infruttuosi tentativi di cordate capitoline, la articolata via SUCAI viene vinta da C.A. Pinelli e M. Lopriore. La via, con i suoi lunghi traversi e risalti appoggiati presenta numerose croste di ghiaccio. Lopriore supera queste difficili sezioni con decisione e padronanza tali che Pinelli ebbe a definire “Ottima tecnica di ghiaccio” la progressione del suo compagno di cordata, che in seguito scrisse sul numero unico della SUCAI 1957/1967 “... parto io e trovo le placche fortunatamente pulite, ma nelle fessure e appoggi c'è ghiaccio duro, e più mi avvicino al nevaio di uscita e più questo aumenta. Diventa sempre più difficile evitarlo, finché arrivo sotto il nevaio e non trovo nessun punto di sosta. Da sotto la neve ripida scopro una lastra di ghiaccio duro che copre ogni cosa; mi scavo a fatica un terrazzino con la piccozza e creo una scomodissima sosta dalla quale recupero Betto a spalla...”. Il mese successivo, esattamente l'11 febbraio altri due romani sono all'opera: la verticale parete est del Corno Piccolo viene superata per la seconda volta da M. Caparelli e R. Ferrante lungo il “Camino a nord della vetta”. Certo, il confronto con quanto succedeva sulle Alpi non poteva avere storia; un esempio per tutti: nel gennaio del 1963 un “certo” Walter Bonatti aveva salito la mitica via Cassin alla parete nord delle Grandes Jorasses, che con i suoi 1200 metri di grandi difficoltà aveva messo un grande punto fermo alla pratica dell'alpinismo invernale. Sicuramente le notizie viaggiavano rapidamente, probabilmente anche in centro Italia si cercava di emulare il mitico Walter accontentandosi ovviamente di quanto si riusciva a concludere facendo i conti con il forte ritardo culturale e tecnico che si aveva. Nonostante ciò, si nota però una crescita indubbia anche sulle modeste montagne appenniniche. La scarsità numerica di scalate invernali fino agli anni '60 e le basse difficoltà tecniche allora affrontate venivano pian piano superate. Florio e Calibani avevano senz'altro scosso l'ambiente, la cresta nord dell'Orientale aveva messo un deciso punto fermo.
Dal 1964 al 1970 – L’epopea del Monte Camicia
I romani, molto più numerosi degli abruzzesi o marchigiani, erano i maggiori risolutori dei problemi invernali. Nel '65 quattro romani, Pinelli, Lopriore, Cravino e S. Bragantini salgono in prima assoluta ed invernale una via all'estrema sinistra della grande parete nord del Monte Camicia, esattamente una cresta esposta a nord del Dente del Lupo con un forte principio esplorativo. L'inverno dell'anno successivo ancora due romani, S. Paternò e R. Triglia la via “Ciai-Pasquali” alla punta dei due ma dal versante est. Nello stesso anno al Gran Sasso si inaugura la posa in opera del bivacco Bafile, che in seguito sarà astutamente utilizzato per alcune ascensioni nella stagione invernale.
Arriviamo al 1967, anno davvero importante per l'alpinismo invernale, dove anche se su di un mediocre livello tecnico si contano ben quattro prime invernali. Tutto succede nel mese di marzo, quando, molto probabilmente grazie alle giornate con più ore luce, si hanno più probabilità di evitare freddi bivacchi. Di nuovo i romani: Lopriore, P. Cutolo, P. Cemmi e S. Bragantini salgono lo spigolo sud est del Torrione Cambi, probabilmente approfittando del vicino nuovo bivacco Bafile come appoggio ed evitare il lungo avvicinamento. Era il 5 marzo, e solo due giorni dopo ancora i romani Cravino (attivissimo in quegli anni), G. Steve e Loretta Pasqualotto salgono la “Via della Crepa” di cui Cravino aveva compiuto la prima solitaria. Finalmente due abruzzesi si fanno vivi: Domenico “Mimì” Alessandri con S. Graziosi il 12 dello stesso mese sale la cresta sud est della Vetta Centrale, che attacca direttamente alle spalle del Bafile. Il 15 ancora i sucaini romani all'assalto! G. Steve e due fratelli Bellotti salgono la “via a destra della crepa” sulla verticale parete est del Corno Piccolo mentre il 18 A. Colasanti e L. Caldo salgono la via “Ferrante- Paternò” sempre sulla est. Termina l'inverno con la salita del grande canalone a est del Monte Camicia: N. D'Angelo, G. Brindisi, P. Scatozza, V. e D. Nobilio salgono per la prima volta il lungo itinerario che termina alla Forchetta di Penne, aperto da S. Baroni e D. Cutilli nel '57, chiamato “Il Gravone”, una grande course tipicamente appenninica.
E’ bene ricordare un antefatto: prima di tutte le realizzazioni sopra riportate ci fu un importantissimo tentativo invernale che, se fosse riuscito, avrebbe senza dubbio scosso l'intera comunità alpinistica. La Guida Alpina di Pietracamela Lino D' Angelo con Luigi Muzi il 5 febbraio, con tempo molto buono, si porta alla base della imponente e repulsiva parete nord del Monte Camicia. Come detto precedentemente, questa parete, salita a metà degli anni '30 dagli Aquilotti del Gran Sasso Marsili e Panza, presenta una roccia molto ma molto friabile, con grosse difficoltà nell'infiggere chiodi che facciano stare minimamente sicuri chi la scala e dove un volo potrebbe essere fatale per l'intera cordata. D'inverno, sfruttando buone condizioni di freddo e ghiaccio, la salita può essere per assurdo più facile e sicura. D'Angelo e Muzi, raggiunto il “Fondo della Salsa” alla base della opprimente parete, attaccano dallo zoccolo erboso sfruttando con la piccozza e i ramponi anche l'erba e la terra ghiacciate e con dieci gradi sottozero superano questa chiave d'accesso alla parte più impegnativa, dove la parete si impenna. Superano lingue ghiacciate e brutta roccia affiorante, ma la giornata particolarmente corta li obbliga già ad un primo bivacco non molto sopra lo zoccolo. La progressione è per forza lenta. D'Angelo conduce la cordata e metro dopo metro con la massima attenzione riescono a raggiungere e superare i due piccoli nevai sospesi, a circa due terzi della parte più verticale della parete. Questa, dopo i nevai e altre poche centinaia di metri si abbatte e un relativamente facile canale di circa 300 metri porta in vetta. La scalata dei due abruzzesi è necessariamente lenta e un secondo bivacco è d'obbligo. Come molti sanno, al Gran Sasso non è infrequente l'arrivo improvviso di un forte vento e questo arriva non appena i due alpinisti si sono sistemati nei sacchi piuma. A metà notte la tormenta porta anche la neve. Al mattino la parete è ovviamente ricoperta da neve pesante, la temperatura da -10 è salita a 7/8 gradi sopra lo zero. Scende acqua dalla parete oltre che frequenti piccole slavine e D’Angelo decide necessariamente una ritirata: “...il nostro desiderio di dedicare questa impresa a Gigi Panei (alpinista della provincia reatina cresciuto alpinisticamente in Abruzzo, più volte compagno di Walter Bonatti al Monte Bianco, anche nel tentativo invernale alla Nord del Cervino, poi salita in solitaria da Bonatti) si è sgretolato, come le colonne di ghiaccio che regolarmente precipitano giù verso il Fondo della Salsa. Dopo 12 ore di difficilissima discesa ci ritroviamo sullo zoccolo erboso che poi superiamo di notte. Per me queste sono state le massime difficoltà superate in tutta la mia carriera alpinistica...” Così scrive D'Angelo su “Tentativo invernale al monte Camicia” in “M. Camicia: storia di una montagna” edito da CAI Castelli, TE. Da notare che effettuare corde doppie su quella parete non è impossibile, ma certamente difficilissimo e assai pericoloso. Anche se fu solo un tentativo, di fatto l'asticella delle difficoltà era stata alzata di molto. La scalata incompiuta di D'Angelo e Muzi non passò certo inosservata, nonostante in quegli anni “l'informazione” fosse per forza di cose lenta e relativa. Nell'ambiente centro italiano fu un importante segnale non solo di crescita tecnica, ma di apertura mentale verso una forma di alpinismo di maggiore avventura se confrontato con certe altre salite compiute sullo stesso gruppo montuoso. Tutte hanno il giusto valore, ma c'è una differenza abissale tra salire una parete di 200/300 metri di roccia generalmente buona e una parete di oltre 1000 metri con roccia di dubbia qualità, una parete facilmente raggiungibile oppure una isolata e dall'avvicinamento fortemente complicato. Le differenze ci sono e vanno valutate anche per quello che comporta la difficoltà d'insieme. In questo gli abruzzesi e gli ascolani in alcuni periodi storici dimostrarono, con le dovute eccezioni, indubbiamente una ricerca diversa.
L'alpinismo in centro Italia sotto qualsiasi forma era ormai prassi consolidata. l'Appennino offre terreni di scoperta per tutti i gusti, soprattutto d'inverno quando montagne dai fianchi generalmente “dolci” si trasformano in canali, canalini e di quando in quando in vere e proprie goulottes ghiacciate da salire classicamente con piccozza e ramponi.
Tralasciamo ciò che succede sulle altre montagne appenniniche e torniamo al Gran Sasso.
Come abbiamo visto, la seconda metà degli anni 60 accende i riflettori sulle scalate invernali, attività dove sembrava esserci, e forse c'era effettivamente, una non celata bonaria rivalità tra gli ambienti romani e abruzzesi. Va detto però che, se competizione c'era, è anche vero che spesso alpinisti dei due ambienti si legarono insieme, come per esempio nell'apertura della prima via in assoluto sul grande scudo di roccia del Monolito ad opera di Cravino, Jovane e Lino D'Angelo.
Una nuda e cruda considerazione sullo stato dell'alpinismo invernale fu fatta da Piero Bellotti in un articolo che il sucaino romano scrisse nel 1969 sulla rivista “L'Appennino” del CAÌ di Roma dal titolo “Gli ultimi problemi del Gran Sasso: vie nuove e prime invernali”. In sostanza Bellotti riguardo alle invernali diceva che il livello delle salite era ancora “basso”, del tipo via Jannetta al Paretone, via SUCAI alla Vetta Occidentale o ancora Cresta nord della Vetta Orientale, dove il grado tecnico non andava oltre il classico 4° grado. Unica eccezione il tentativo sul Camicia di D'Angelo e Muzi. Bellotti riconosceva che le tante salite compiute nell'inverno del 67, con un grado tecnico ben più alto, erano per lo più paragonabili a salite estive grazie alla scarsissima presenza della neve. Secondo Belloti ciò era dato da una condizione psicologica e da un atteggiamento di subalternità rispetto gli alpinisti del nord, e per questo si aspettava astutamente la migliore condizione possibile delle pareti di grado superiore: “... in pratica per fare le invernali si aspettava che la parete fosse in condizioni più estive possibile”. P. Bellotti, op. cit.
Probabilmente per mettere in discussione quanto scritto, P. Bellotti con i suoi due fratelli Franco e Paolo il 22 marzo affronta e supera la “Via del Monolito” di 6° grado e A1 superando ogni livello tecnico salito precedentemente, ma con la parete piuttosto carica di neve. La salita dei fratelli Bellotti fu difficile e impegnativa per l'intenso freddo e soprattutto nello zoccolo di avvicinamento, in quanto la via vera e propria, di 150 metri, essendo verticale non poteva certo accumulare troppa neve. Impiegarono comunque 12 ore per uscire con il buio in vetta, ostacolati dal forte vento che nel frattempo si era alzato. La salita del Monolito va vista come uno sdoganamento degli alpinisti del Centro Italia verso la soluzione di grossi problemi invernali.
Dal 1971 al 1980 – Di nuovo la Nord del Monte Camicia. Le invernali si diversificano
Un ulteriore grande merito va dato a tre alpinisti della provincia romana: i tiburtini del CAI di Tivoli Armando Baiocco, Renzo Poggi e Angelino Passariello il 14 febbraio del '71 superano in prima invernale la via “Marco Florio” sulla parete nord del Corno Piccolo. La via, pur non essendo difficile, è però incassata e totalmente priva di sole, e a rendere difficile la salita è l'arrivo di una gelida perturbazione. I tre raggiungono con difficoltà la cresta nord, da cui riscendono in corde doppie, arrivando alla loro auto ai Prati di Tivo solo alle 22 della sera, stanchi ma felici: erano i primi a superare una via di roccia sulla parete nord.
La Vigilia di Natale 1971 gli aquilani Mimì Alessandri e Riccardo Nardis superano la via “Bafile” sullo Sperone Centrale della Vetta Occidentale che presenta una placca di 6° grado praticamente inchiodabile. Alessandri, anche se giunto relativamente tardi all'alpinismo, aveva preso in mano il testimone dell'alpinismo aquilano, distinguendosi tra tutti per intuito e intraprendenza. Soltanto due giorni dopo, è S. Stefano quindi, Alessandri con Roberto Iafrate, (Nardis magari era ancora stanco?) torna all'attacco: i due si portano alla base della parete est della Vetta occidentale per salire la “Diretta Consiglio” ancora per diversi anni la via più difficile dell'intera parete; qui trovano quattro scalatori romani della SUCAI che dopo aver attrezzato i primi due tiri della via il giorno prima e passata la notte al bivacco Bafile, sono già alti in parete. F. Cravino, G. Steve, A. Contini e M. Geri non sono evidentemente veloci, e nel giro di poco si vedono raggiungere dai due aquilani, che risoluti come pochi scalano senza inibizioni. In parete, molto ben assolata, non c'è un solo metro di neve. Le due cordate si scambiano quattro chiacchiere e si dividono; gli abruzzesi tirano dritti lungo la via di Consiglio, mentre i quattro romani raggiunta la molto più facile “via SUCAI” escono lungo questa. Marco Geri su un articolo scrisse poi: “...Ho sete e non c'è neanche una chiazza di neve per dissetarsi! Ma che razza di invernale siamo venuti a fare? … certo, se ora qualcuno mi domandasse se sento di aver compiuto una grande impresa, risponderei di no, direi che ho solo passato due divertenti giorni di festa...” M. Geri, da “Un Natale divertente” da L'Appennino, luglio-agosto 1972.
Il mese di Marzo '72 vede due belle realizzazioni, anche se di stampo diametralmente opposto, e sono due cordate romane le protagoniste: i giovanissimi sucaini Cristiano Delisi, Rys Zaremba e Donatello Amore il 16/17/e18 del mese affrontano e superano una delle salite più ambite; a comando alternato vengono a capo della difficile e verticale via di Gigi Mario: “lo Spigolo a destra della Crepa” ritenuta “la grande via” della parete est del Corno Piccolo e per quegli anni è senza dubbio la scalata più difficile fino allora realizzata. Il fermento nel gruppo SUCAI è chiaramente evidente; sono i maggiori frequentatori del Gran Sasso anche nella stagione meno propizia. Va detto però che i romani sono numericamente più numerosi dei pochi abruzzesi e marchigiani e l'ambiente forse più borghese e universitario fa certamente la differenza. Cinque giorni dopo la fine dello stesso inverno un'altra salita firmata dai romani, ma come dicevo di stampo diametralmente opposto: Pinelli, in compagnia di Gianni Battimelli, Adolfo Contini e il quasi immancabile Franco Cravino (l'anno prima aveva effettuato la prima solitaria della via in questione), supera gli oltre 1200 metri della via aperta dagli Aquilotti del Gran Sasso Sivitilli, Giancola e Trentini nel 1930. Via che si svolge in ambiente grandioso, oltre il già lontano canale Haas-Acitelli che risale una facile cresta per poi entrare in un profondo canale. D'estate non va oltre il terzo grado, ma la lontananza, l'isolamento e il lungo ritorno la fanno una “grande course” di tutto rispetto, a mio avviso maggiore della via Jannetta e dello stesso Haas-Acitelli. Ecco la ricerca che era in atto: da una parte le scalate di alta difficoltà, dall'altra la ricerca con un senso di avventura senza dubbio maggiore. Bisogna considerare che le previsioni meteo di quegli anni erano assolutamente scarse e allora: in un cambio repentino delle condizioni climatiche nonché di scarsa visibilità, una cordata che scende con 3/4 corde doppie, per esempio, dallo Spigolo a Destra della Crepa, una volta alla base torna a casa senza la più piccola difficoltà, né tecnica nè di orientamento. Su una grande via come la “Sivitilli” in zona Paretone l'arrivo di una perturbazione e la possibile scarsa visibilità crea guai a non finire e ci vuole una testa a parte per saperli affrontare. La mentalità occidentalista di Pinelli non era certo una garanzia, ma sicuramente offriva chance in più.
Parlavamo di differenze di mentalità e finalità nelle scelte degli alpinisti. La ricerca delle pure difficoltà sui gradi, oppure le “grandi” scalate d'ambiente, lunghe, isolate e spesso non scevre da difficoltà tecniche. Ribadisco la grandissima differenza tra un modo e l'altro, ed ogni tanto mi rifaccio al banale esempio: nuotare in piscina, o nuotare in mare aperto... Domenico “Mimì” Alessandri nello scegliere il suo alpinismo aveva optato per il mare aperto, e a volte, si sa, il mare può essere mosso e magari con gli squali intorno. Sempre nuoto è ma la differenza è a volte abissale! Quindi “Mimì” decide di voler salire la parete nord del monte Camicia, dove D'Angelo e Muzi non avevano fallito ma erano stati costretti ad una difficilissima ritirata. È il 21 dicembre del 1974 quando con l'aquilano Piergiorgio De Paulis e il romano Carlo Leone raggiunge il Fondo della Sala. De Paulis era molto giovane ma tecnicamente molto efficace, soprattutto su ghiaccio, e “Mimì” lo aveva scelto perché a L'Aquila era il migliore tra i numerosi frequentatori della montagna. Scalano a cordata distesa: in testa “Mimì”, poi Leone in mezzo e De Paulis chiude per ultimo. Superano lo zoccolo erboso e raggiungono le insidiose rocce del Camicia, saldate tra loro da neve e gelo ma pur sempre inaffidabili. Le giornate sono cortissime e bivaccano al primo nevaio. Appena giorno continuano la loro scalata, che vede sempre “Mimì” in testa. Superano altre centinaia di metri quando un urlo lacera l'immenso silenzio della altrettanto immensa parete. “Mimì” è un alpinista verace, molto istintivo e questa istintività, non capendo cosa stia succedendo, gli dice di buttarsi, letteralmente, dietro una crestina di neve e roccia. Forse erano legati in vita o forse indossavano le primissime e scomodissime imbragature, comunque sia buttandosi a corpo morto dietro la crestina “Mimì” riesce a bloccare quello che era un lunghissimo volo di De Paulis che si era portato appresso anche Leone. 40 metri di corda dividevano il capo cordata dal secondo e altri 40 metri dividevano Leone dal terzo. La terribile tensione della corda, con due corpi appesi crea al capo cordata problemi respiratori ma deve resistere e resistere. Seguono urla concitate tra “Mimì” e Leone ma nessuno capisce nessuno. È dopo un tempo infinito che la tensione della corda si allenta e uno stravolto Carlo Leone raggiunge il suo capo cordata. Leone è sotto shock, farfuglia parole sconnesse e tra i singhiozzi dice che De Paulis non rispondeva più, probabilmente morto per il lunghissimo volo e lui ormai allo stremo ha dovuto tagliare la corda. Un silenzio tombale avvolge la drammatica scena. Non possiamo immaginare con che stato d'animo “Mimì” e Leone affrontano un ulteriore gelido bivacco. Al mattino del terzo giorno devono cercare di uscire dalla grande parete, ma Leone è stravolto, non connette e non si sente di continuare la salita. Le insistenze di Alessandri non sortiscono niente, il tempo stringe e così è giocoforza per “Mimi” prendere l’unica decisione possibile, drammatica e rischiosa: uscire da solo dalla infida parete. Lascia quindi a Leone acqua e qualcosa da mangiare e inizia la sua ancora lunga scalata solitaria: “ ...Carlo si accingeva ad aspettare, senza sapere per quanto tempo ancora, da solo sull'immensa parete con la sola speranza che a me andasse tutto bene mentre viveva con angoscia la più dura delle sue esperienze... io fui privilegiato perché le parecchie ore di arrampicata solitaria che seguirono mi consentirono di accantonare la disperazione perché ero concentratissimo ed attento ad arrampicare come non mi era mai capitato in precedenza, mentre i pensieri di Piergiorgio, di mia moglie Antonella e di Carlo nella sua gelida solitudine mi accompagnavano per ricordarmi che tutto ciò che stavo facendo aveva ancora un senso...” Domenico Alessandri, op. cit. Il senso dell’impresa di “Mimì” si materializza il giorno di Natale, quando un elicottero della S.A.R. con a bordo lo stesso Alessandri recuperava tramite il verricello Carlo Leone, mentre una squadra del Soccorso Alpino recuperava la salma di Piergiorgio De Paulis alla base della grande parete del monte Camicia. La prima invernale di un valore altissimo si era così realizzata, ma come ebbe a scrivere ancora Alessandri “La salita fu, sotto il profilo umano ed alpinistico, senza dubbio un fallimento poiché non c'è parete al mondo che valga la vita di un uomo...”
Le cronache invernali riprendono l'inverno successivo, quello del 1975, quando diverse cordate romane realizzano nel mese di gennaio salite di ben altro impegno: M. Geri e E. Menichini salgono i 250 m dello spigolo est-nord-est della vetta occidentale; G. Mallucci, M. Geri e R. Bragantini salgono i 200m della seconda spalla sulla via da loro stessi aperta; D. Amore e L. Gambini salgono i 230 m della Aquilotti 72 ad ovest della seconda spalla. Ancora i romani Geri e F. Antonioli salgono la classica Morandi-Consiglio sempre sulla seconda spalla. Per certi aspetti il livello tecnico trova un momento di stallo scegliendo pareti facilmente abbordabili, di roccia pressoché perfetta e discese senza incognita alcuna. Ancora l'anno seguente il 19 marzo una cordata abruzzese sale la via Alletto-Cravino sulla parete ovest della vetta Orientale: sono Giampiero Di Federico, che sta emergendo come figura di spicco, e M. Mascarucci che impiegarono ben 8 ore per venire a capo dei 300m della fredda parete coperta di vetrato e neve. M. Frezzotti e Antonioli superano la Aquilotti 75 a ovest della seconda spalla. Due giorni prima del Natale '77 P.L. Bini, M. Marcheggiani e G.Picone, tutti e tre al di fuori dell'ambiente CAI romano, salgono il cosiddetto “Camino degli Americani” sulla parete est del Corno Piccolo mentre sulla nord i marchigiani Cotichelli e Mosca salgono la “Gigino Barbizi.
Ancora una tragedia si compie sul massiccio del Gran Sasso quando, giunti al termine della lunga salita della via “Haas-Acitelli” della vetta Orientale, il giovane Stefano Tribioli, che era in compagnia del fratello Bruno e i G. C. Cicconi, partiti da Roma il giorno precedente, inavvertitamente precipita dalla “Forchetta Sivitilli” sul versante opposto della via appena salita. La notizia scuote non poco il mondo alpinistico, soprattutto nella sezione del CAI romana dove i fratelli Tribioli erano molto attivi.
La pratica delle scalate invernali come vediamo non era più “solo per pochi”; anche se pur sempre una minoranza, era consuetudine tra la moltitudine degli scalatori affrontare quasi, e dico quasi, obbligatoriamente le montagne d'inverno. La famosa “lotta con l'Alpe”,così ben definita da Giampiero Motti, rientrava a pieno titolo nell'immaginario degli alpinisti di quegli anni. Sulle Alpi si erano raggiunti livelli neanche confrontabili con quello che succedeva in Appennino, ma lentamente, grazie agli esempi nordici, sia per imitazione o per puro diletto anche in centro Italia la qualità tecnica era costantemente in crescita. Così nel giro di pochi anni si vedrà un notevole balzo avanti nelle realizzazioni invernali. Dagli anni '80 prenderà piede una curiosa tendenza: più sale il livello d'ingaggio con grandi realizzazioni sulle pareti più impegnative del Gran Sasso, meno scalate invernali ci saranno. Vero che l'avvento dell'arrampicata sportiva ha fagocitato ¾ dell'umanità scalante, di fatto però si vedrà un netto calo nella pratica di questa disciplina indubbiamente più impegnativa, fisicamente e mentalmente.
M. Marcheggiani, G. Picone e A. Monti il 6 marzo del '79 salgono la “via del Vecchiaccio” ma non sarà una prima invernale in quanto gli ultimi 15 metri della improteggibile placca terminale sono ricoperti di 10 cm di neve farinosa che impedisce di fatto l'uscita dalla via e costringe a scendere in doppie lungo l'intera via. Ben altra salita sarà invece quella di G.P. Di Federico quando il 19 dello stesso mese sale da solo la “via dei Pulpiti” alla nord della vetta centrale. Questa difficile via, con uno dei primi sesti gradi, rimane costantemente all'ombra, d'inverno così come d'estate. La via ha uno sviluppo relativamente breve ma l'ambiente particolarmente severo e la roccia non proprio eccellente richiesero a Di Federico un impegno globale. Se la salita di Di Federico con la solitaria, con l'isolamento, il ghiaccio, la roccia e il freddo delle pareti nord rappresenta il classico alpinismo nella sua massima espressione, P.L. Bini cerca altre strade: il giovane talento romano (così come lo è l'abruzzese Di Federico) nello stesso inverno sulle assolate placche della seconda spalla sale in velocità, concatenandole, ben tre vie: “Le placche di Manitù”, “Ombre rosse” e “le Placche del Totem”. Bini le sale con R. Bernardi senza mai indossare gli scarponi e né tanto meno i ramponi. Una forma chiaramente e diametralmente opposta alle classiche salite invernali dove la “lotta” con gli elementi avversi dell'inverno fa una chiara differenza. Bini, grande arrampicatore ma poco amante del freddo, seguiva ovviamente l'iter di quasi chiunque scalasse e per questo si cimentava anche d'inverno, ma dove di “inverno”, al di là del calendario e della ovvia neve negli avvicinamenti, c'era ben poco. A conferma di quanto sopra i primi giorni di febbraio del 1980 Bini, M. Marcheggiani e G. Picone salgono la verticalissima e difficile “via Rosy” al Monolito sulla assolata parete est del Corno Piccolo. La salita, oltre ovviamente lo zoccolo di avvicinamento, non presentava la più piccola macchia di neve o ghiaccio. Era sì una prima invernale ma non era certo questa la via da seguire. Prima o poi qualcuno l’avrebbe dimostrato!