VENTO DELL’OVEST
ALPINISMO TORINESE DALLA MORTE DI GERVASUTTI ALLE GARE DI ARRAMPICATA
di Ugo Manera
1. L’IMPORTANZA DI TORINO NELLA STORIA DELL’ALPINISMO
Torino si trova in un angolo estremo dell’Italia eppure negli ultimi 150 anni molti avvenimenti importanti hanno avuto avvio dalla nostra città. Limitatamente alla nostra attività è doveroso notare che il Club Alpino Italiano è stato fondato a Torino nel 1863 da Quintino Sella. Che qui è nato il Club Alpino Accademico Italiano nel 1904; che a Torino hanno sede la Biblioteca Nazionale ed il Museo della Montagna ed a Torino è nata la Rivista del CAI e vi è rimasta fino al 1976.
Sebbene, almeno nel dopoguerra, l’attività svolta dai torinesi sia stata meno voluminosa di quella svolta in altre città, soprattutto nel campo extraeuropeo, molte iniziative tra le più importanti hanno continuato a sorge ed a svilupparsi in ambito torinese, ad esempio qui sono nate le due riviste alpinistiche private (che purtroppo oggi sono scomparse): La Rivista della Montagna ed ALP e qui sono state organizzate le prime gare di arrampicata in Europa nel 1985.
Parlerò spesso di CAAI (Club Alpino Accademico), dedico perciò due parole per spiegare ai giovani che cosa é.
L’alpinismo nacque ad opera di esploratori che cominciarono a scalare montagne accompagnati da esperti montanari che divennero, in seguito, Guide Alpine: professionisti esperti che conducevano “i Signori Clienti” ed avevano la totale responsabilità della cordata. Il CAAI nacque per promuovere l’alpinismo senza guide, ossia emancipare gli alpinisti dal servizio dei professionisti. Negli anni l’Accademico divenne il gruppo di elite del Club Alpino Italiano che raccoglieva gran parte dei migliori alpinisti non professionisti. Va osservato che dalla fondazione fino ad epoca recente l’Accademico era riservato agli uomini, le donne non erano ammesse.
La motivazione era che il gentil sesso, per motivi di costituzione fisica, non era in grado di svolgere l’attività richiesta per l’ammissione. Dopo lunga ed ardua tenzone i progressisti, tra i quali il sottoscritto, riuscirono a vincere e questo anacronistico concetto venne eliminato. Ora ii CAAI è aperto agli scalatori, femmine e maschi che, per farne parte, debbono presentare, all’atto della domanda di ammissione, almeno 5 anni di attività alpinistica ad alto livello condotta da primo di cordata.
2. L’ALPINISMO COME AVVENTURA, RACCONTATA SCRITTA E NON SCRITTA
Le motivazioni che spingono a scalare sono molte e variegate, dal fascino dell’ambiente alpino alla prestazione sportiva, ma non c’è dubbio che il motivo trainante è il desiderio di avventura abbinato al fascino della scoperta. Non è detto che avventura e scoperta siano prerogative dell’alta montagna o delle pareti lontane, si possono anche trovare su una parete posta sul fianco di una valle o su di un masso disperso tra i boschi. E’ naturale che ad attirare gli scalatori è stata in primo luogo la sconosciuta alta montagna ma poi, esaurito questo terreno come luogo di scoperta, ci si è rivolti ad altre strutture ignote fino ad arrivare ai massi di pochi metri, ma sempre con la stessa sete di avventura e con pari dignità.
Capita che chi vive un’avventura tenga tale esperienza per sé, ma il più delle volte la racconta e, se l’avventura è stata grande ed ha richiesto un coinvolgimento totale, il protagonista sente la necessità di raccontarla anche per iscritto in modo che non vada dimenticata nel tempo.
L’alpinismo offre delle grandi avventure e fin dal suo albore molti protagonisti hanno scritto per esternare le proprie esperienze. E’ nata cosi una letteratura alpinistica, un po’ anomala, di tipo prettamente autobiografico che quasi mai ha offerto spunti a racconti romanzati. Io mi colloco tra quelli che, ritenendo le avventure alpine esperienze appassionanti, credono che non debbano andare perse, per cui amo raccontarle e mi adopero per fare si che anche quelle che non sono state scritte possano essere ricuperate.
Il periodo dell’alpinismo torinese che mi accingo a raccontare è stato denso di vicende interessanti, a volte drammatiche, ma spesso divertenti e curiose; con attori che non hanno mai scritto nulla. Cercherò perciò di trasmettere è a mia conoscenza affinché queste vicende, vissute sotto la spinta di una passione irresistibile, non svaniscano nel nulla.
3. LA MORTE DI GERVASUTTI – 1946
Il 12 settembre 1946 sul Mont Blanc du Tacul cadeva Giusto Gervasutti nel tentativo di aprire una via sul pilastro centrale della parete NE. Finiva un’epoca di cui il Fortissimo era stato uno dei massimi rappresentanti, certamente il principale protagonista torinese dell’“alpinismo eroico”. Gervasutti aveva solo 37 anni e se fosse vissuto avrebbe ancora avuto molto da esprimere, magari nell’alpinismo extraeuropeo. Il mondo alpinistico torinese si senti orfano ma in breve espresse una nuova generazione di scalatori diversi da quelli degli anni ’30.
4. CONNOTAZIONE SOCIALE DELL’ALPINISMO TORINESE PRIMA E DOPO LA GUERRA – NASCITA DEL G.A.M. – 1947
L’alpinismo torinese di punta dell’anteguerra ha una collocazione medio borghese, i suoi esponenti principali sono: avvocati, ingegneri, professionisti, artisti, studiosi….. La così detta “classe operaia” è quasi assente. Nell’immediato dopoguerra tale collocazione appare invertita. I giovani che, dopo la morte di Gervasutti, rilanciano l’alpinismo torinese sono in prevalenza operai e hanno vissuto da adolescenti, il dramma della guerra. Le loro disponibilità economiche sono scarse ed essi raggiungono le grandi montagne a prezzo di pesanti sacrifici.
Con l’obiettivo di unire e sostenere questi nuovi protagonisti nel 1946 nasce il GAM (Gruppo Alta Montagna) che, non a caso, trova origine nella sezione UGET che, tra le due sezioni torinesi, è quella dalla fisionomia più proletaria. Il GAM si propone di raccogliere gli scalatori con attività alpinistica rilevante al fine di promuovere la formazione di cordate in grado di affrontare le più difficili scalate dell’attualità.
Nel 1960 veniva pubblicato il primo numero dell’annuario Liberi Cieli della sezione UGET. Scorrendo lo storico bollettino appare evidente che, sebbene edito a nome della Sezione tutta, era principalmente l’espressione di uno dei componenti dell’UGET: il Gruppo Alta Montagna. Il presidente del GAM, Guido Rossa, in una scarna ed essenziale prefazione così sintetizzava storia ed intendimenti del Gruppo:
<< Nel 1947, dopo l’oscura parentesi della guerra, un gruppo di giovani torinesi, tagliati fuori dalle vicende belliche, dalle grandi tradizioni dell’alpinismo torinese, muniti solo di un immenso bagaglio di progetti e speranze, unitamente al desiderio di diventare degli autentici “montagnards” decisero di riunire in una unica somma le nozioni ricavate dalle loro disunite attività alpinistiche.
Nacque così il GAM in seno alla Sezione UGET i cui intendimenti, benché modesti, furono linearmente chiari: creare un ambiente alpinistico di un certo valore nelle leve giovanili nel quale poter trovare il compagno di cordata per affrontare le difficoltà delle: “Grandes Courses”.
Ora il GAM conta 13 anni, pochi, ma sembrano tanti ripensando agli amici incontrati, ai bei ricordi acquisiti, alle ore felici e piene vissute grazie ad esso.
Il GAM ha servito in questo modo, nel limite delle sue possibilità, la causa della grande montagna e dell’evoluzione dell’alpinismo. Per questo i soci del GAM salutano chi divide con loro una passione che è scuola di vita >>
Dalla sua fondazione il Gruppo aveva avuto, come presidenti: Salomone Giulio (1947-1949), Ghigo Luciano (1950-56), Mauro Giovanni (1957), Rossa Guido (1958-1960)
Il GAM non era un gruppo di “elite” confrontabile in sede nazionale al CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) ma era una selezione di alpinisti attivi ad alto livello formante groppo nel quale, come scrive Rossa, trovare il compagno per affrontare le grandi salite. Il Gruppo Alta Montagna aveva un limitato numero di soci dovuto alla dinamicità di un preciso regolamento che disciplinava sia l’ingresso che la permanenza.
Il regolamento prevedeva che per ottenere l’ammissione occorreva, tramite le salite compiute, totalizzare 1000 punti in due anni di attività. Per la permanenza nel Gruppo era necessario, in ogni caso, presentare l’attività biennale che doveva raggiungere gli 800 punti. Chi raggiungeva i 5 anni di permanenza e non svolgeva più una attività alpinistica rilevante, poteva rimanere nel Gruppo come socio onorario, senza diritto di voto. Il punteggio necessario per l’ammissione e la permanenza era ricavato attraverso una semplice e razionale valutazione delle salite tramite efficace metodologia comparativa.
Negli anni ’50 per i giovani raggiungere ed operare in “alta montagna” era un problema di difficile soluzione; ristrettezze economiche e scarsità dei mezzi di trasporto spesso diventavano difficoltà più impegnative di quelle incontrate in parete. Poteva capitare poi che l’impresa tanto desiderata non veniva neanche tentata perché mancava il compagno preparato e pronto per la scalata.
Il GAM aveva come intento proprio quello di facilitare il contatto tra scalatori per formare delle cordate forti e determinate. Era, tra gli obiettivi del Gruppo, anche quello di fornire un piccolo aiuto finanziario ai soci attivi per l’acquisto dei materiali di scalata.
Il Gruppo, grazie ai suoi intenti ed alla formula dinamica, rappresentava una entità ideale per i giovani di allora tanto che acquisì consensi e notorietà anche oltre i limiti regionali, troviamo infatti nel 1969 Alessandro Gogna come vicepresidente. Nel momento di massima fortuna del GAM si pensò anche di intervenire sulla formazione alpinistica ad alto livello organizzando, nel 1965, un corso di perfezionamento per alpinisti già esperti. Il corso venne però funestato dall’incidente mortale del pinerolese Raffi sul Corno Stella e l’iniziativa morì sul nascere.
Sul riflesso di idee maturate nel ’68 ed anni successivi, l’ammissione al Gruppo legata ad una formula matematica apparve come una limitazione alla maturità ed all’auto determinazione dell’uomo moderno per cui i punteggi per ingresso e permanenza vennero aboliti e questo fu l’inizio della fine del GAM. Qualche anno dopo, quando il Gruppo Alta Montagna era ormai agonizzante, ci fu un tentativo di reintrodurre il punteggio di ingresso ma il declino era ormai irreversibile, l’interesse tra gli scalatori attivi si era ormai perso ed il GAM terminò la sua vita nel 1981.
5. 1948 - NASCITA DELLA SCUOLA GERVASUTTI – GIUSEPPE DIONISI
Nel 1948 venne fondata la scuola di alpinismo Giusto Gervasutti al di fuori della Sezione di Torino del CAI in quanto nella Sezione già esisteva una scuola: la Boccalatte. Uno degli scopi dei due fondatori era quello di aprire alle esigenze dei giovani di estrazione sociale più popolare e non più con tendenze un po’ elitarie come la Boccalatte che era gestita in primis dal Club Alpino Accademico.
A fondarla furono Giuseppe Dionisi e Giorgio (Gino) Rosenkranz, due personaggi molto diversi tra di loro che si erano conosciuti attraverso la moglie di Dionisi che già scalava con i fratelli Rosenkranz.
Giorgio Rosenkranz era un atleta, riserva della nazionale olimpica di ginnastica, eccelleva nell’arrampicata su roccia ed avrebbe voluto orientare la scuola più su scalate tecniche su roccia che verso l’alta montagna, aveva poi, probabilmente, una visione più impostata sui rapporti amichevoli che sulla disciplina.
Pur essendo legati da grande amicizia, tra Dionisi e Rosenkranz sorsero dei contrasti nella conduzione della scuola che culminarono con le dimissioni di Dionisi nel 1952, rientrate poi due anni dopo quando la scuola versava in difficoltà e stava per chiudere l’attività.
Nota di colore: la scuola nacque senza le donne, nel periodo dell’assenza di Dionisi vennero ammesse da Rosenkanz e quando rientro trovò diverse ragazze tra gli allievi. Un incidente però ne causò la definitiva cacciata: in una uscita della scuola si pernottava al bivacco Gervasutti nel bacino di Fréboudze nel Gruppo del Monte Bianco; nella notte si ritrovarono un istruttore ed una allieva nella stessa cuccetta a fare delle manovre un poco agitate, la brandina cedette ed i due caddero su un’altra allieva che dormiva al di sotto, la poveretta ne uscì con un braccio rotto. Decisione di Dionisi: le donne sono causa di indisciplina perciò fuori dalla scuola.
Anni dopo nacque una scuola di alpinismo femminile nell’ambito della sottosezione USSI del CAI Torino. Quando però, nel 1972, Dionisi usci dalla scuola, subito avvenne l’unificazione e le donne ritornarono alla Gervasutti.
Giorgio Rosenkranz nel 1954 partecipò ad una sfortunata spedizione himalayana al Monte Api e non fece ritorno, morì di malore su quella lontana montagna.
Dionisi ha avuto una grande importanza nell’alpinismo torinese per le vicende legate alla scuola Gervasutti, e con il suo entusiasmo ha avviato all’alpinismo nomi importanti come suo nipote Franco Ribetti e più tardi Gian Piero Motti.
Sul piano dell’attività alpinistica nelle Alpi non espresse molto di importante anche se dobbiamo registrare un coraggioso tentativo alla difficilissima cresta nord dell’Aiguille Noire de Peuterey con Giorgio Rosenkranz, conclusasi con un avventuroso ripiego lungo il versante nord. L’impresa non era in quel momento alla loro portata, la cresta venne poi vinta da due grandi dell’alpinismo internazionale: Jean Couzy e René Desmaison.
Notevole invece l’attività di Dionisi nelle spedizioni sulle Ande Peruviane, ne effettuò numerose conseguendo anche dei risultati importanti come le prime ascensioni del Pucahirca Central nella Cordillera Blanca ed il Trapecio nella Cordillera Huayhuash.
Dionisi era circondato da un gruppo di “fedelissimi” tra i quali Luciano Ghigo, Gino Balzola e Giuseppe Marchese che furono indubbiamente condizionati, anche nella loro attività individuale, dalla spiccata personalità del leader.
6. OBIETTIVI ALPINISTICI ALLA FINE DEGLI ANNI ‘40
Dopo la parentesi della guerra l’orizzonte alpinistico è ancora dominato dall’eco delle grandi imprese degli anni ’30 che hanno dato una soluzione a quelli che erano ritenuti gli ultimi grandi problemi delle Alpi.
Primo obiettivo è perciò confrontarsi con quelle grandi imprese che da anni attendono i ripetitori. In questa rincorsa primeggia la nuova generazione di scalatori francesi, le grandi vie di Gervasutti vengono ripetute per la prima volta dai francesi Julien e Bastien; tra gli italiani, nel riprendere le tracce del passato, è molto attivo un gruppo di giovanissimi lombardi tra i quali primeggiano Walter Bonatti ed Andrea Oggioni.
Presto però le ripetizioni non bastano più, ci si accorge che sulle Alpi di grandi problemi da risolvere ce ne sono ancora molti e che fuori dall’Europa ci sono le grandi montagne del mondo che attendono. Sulle Alpi quattro prime segnano marcatamente il superamento dei limiti raggiunti in precedenza: la parete Est del Gran Capucin, la parete Ovest del Petit Dru e nelle Dolomiti la cima Scotoni e la Su Alto di George Livanos.
Alla soluzione del problema Gran Capucin partecipa un torinese: Luciano Ghigo come secondo di cordata di Bonatti. Luciano, diviene Guida Alpina, cessa poi tale attività ed entra nell’accademico. Appare come persona calma e riflessiva ma poi anche lui ama lo scherzo ed il divertimento, affianca presto Giuseppe Dionisi nella scuola Gervasutti e con Dionisi condivide gran parte della propria attività individuale, comprese alcune spedizioni nelle Ande
7. LA CORSA AL PILIER GERVASUTTI
Nei giorni 29 e 30 luglio 1951, cinque anni dopo la morte di Gervasutti, venne aperta la via sul pilastro del Mont Blanc du Tacul ove era caduto il “Fortissimo”. Tale salita era diventata l’obiettivo di varie cordate internazionali, ma ad aggiudicarselo furono due giovani torinesi: Piero Fornelli, capo cordata, e Giovanni Mauro, sorprendendo tutto il mondo alpinistico di allora. Mauro fu istruttore della scuola Gervasutti fin dalla fondazione oltre che membro del Gruppo Alta Montagna. Fornelli era giovanissimo, secondo di una famiglia di 3 fratelli ed una sorella, tutti alpinisti.
Piero entrò nella scuola Gervasutti proprio nel 1951, l’anno dell’impresa sul pilier del Tacul. Era un fuoriclasse dell’arrampicata su roccia, forse il più forte tra i torinesi in quel momento. Nell’ambiente viene denominato “Peru Bel” per distinguerlo da un altro Piero. Quel Piero Malvassora, apritore della celebre via sul Becco Meridionale della Tribolazione, che è denominato invece: “Peru Brut”. Fornelli svolge una notevole attività alpinistica aprendo varie nuove vie, nessuna però più al livello del Pilier Gervasutti.
Il versante ENE del Tacul si può definire torinese: Il pilier Gervasutti, come abbiamo visto, venne vinto da due torinesi e torinese fu la cordata che si aggiudicò la prima invernale nel 1965, composta da Gianni Ribaldone e Dino Rabbi. Anche la prima solitaria fu opera di un torinese: Gian Piero Motti 1969. Precedentemente il grande canalone era stato salito da Gervasutti e Renato Chabod nel 1934 ed il pilastro ad est da Gabriele Boccalatte con Nini Pietrasanta nel 1936. Successivamente Il Pilier a Tre punte venne salito per la prima volta da Andrea Mellano e Beppe Ton con altri due compagni nel 1959 (prima invernale Grassi, Manera, Motti con il biellese Rava Miller, 1971). Infine il Pilier Sans Nom venne salito in prima ascensione da Gian Carlo Grassi e la prima solitaria con concatenamento di questi ultimi due piliers venne compiuta da Marco Bernardi nel 1980.
8. GIOVANI EMERGENTI
Nel corso degli anni ’50 vi è un fiorire di giovani talenti che lasceranno il segno nell’alpinismo torinese e non solo, citerò i più rappresentativi che hanno espresso un’attività ad alto livello volta alla ricerca del nuovo sia sul piano tecnico che nelle realizzazioni, non limitandosi quindi alla ripetizione di salite importanti.
Corradino (Dino) Rabbi, classe 1930, rappresenta tutto quello che c’è di positivo nella visione classica dell’alpinismo: grande rispetto della tradizione e della storia senza scivolare nel conservatorismo, forte su tutti i terreni, il suo alpinismo si esprime in tutte le direzioni, dalle ripetizioni alla ricerca di terreni vergini, sia sulle Alpi che sulle montagne extraeuropee, è rispettoso delle istituzioni del CAI e non sfugge alle responsabilità: passa attraverso innumerevoli cariche sociali dalla direzione della scuola Gervasutti alla presidenza generale del Club Alpino Accademico Italiano impegnandosi sempre con tutte le sue forze e con la massima serietà. Nel 1954 vince la severa parete nord del Corno Stella nelle Marittime, uno dei problemi importanti di quel periodo, la sua attività ad alto livello è diluita in moltissimi anni mai molto concentrata perché Dino non trascura la famiglia per privilegiare la sua passione e quando, nel mese di agosto, gli amici sono scatenati sul Monte Bianco o nelle Dolomiti, egli è in vacanza famigliare in Sardegna.
Ha arrampicato con quasi tutti i giovani emergenti degli anni ’60 e ’70 in prime ascensioni, prime invernali, ripetizioni importanti, lasciando sempre via libera ai più giovani compagni ma contribuendo in modo determinante con il peso della sua esperienza. Una delle sue caratteristiche è stata quella di dare enorme valore al sentimento dell’amicizia, raramente ho scorto in altri un dolore così intenso come in Dino quando un amico cadeva in montagna o quando Guido Rossa venne assassinato dalle Brigate Rosse. Rabbi rappresentava la serietà in tutti i campi e non veniva coinvolto nelle imprese della banda di disperati della Villa Pisolino che vedremo in seguito.
Io cominciai a scalare montagne il 29 settembre 1957, ma non venni subito a contatto con il mondo degli scalatori di punta, avevo iniziato con un gruppo che praticava la collezione di cime rifuggendo le ascensioni difficili; quando cambiai indirizzo notai subito che vi era un nome che fungeva da riferimento tra gli arrampicatori: Guido Rossa, era riconosciuto da tutti come il più bravo e vi era un certo timore nell’affrontare i passaggi in libera delle vie da lui aperte. Si narra che la sua prima esperienza di arrampicata avvenne sulla parete dei Militi in valle Stretta a Bardonecchia condotto da Umberto Prato soprannominato “Tribula” per le tante tribolazioni che accompagnavano le sue scalate. Dopo aver superato “tribolando” e con dispendio di tempo il tratto iniziale, il capocordata comunicò all’inesperto compagno che era giunta l’ora di bivaccare e che avrebbero proseguito il giorno dopo.
Guido sulla Militi ritornò oltre trenta volte in tutte le stagioni ed anche in solitaria, tracciò delle vie che per quel tempo erano all’avanguardia e pochi avevano il coraggio di ripetere. Per rendere l’idea del livello e della sua determinazione basta osservare ciò che effettuò il 17 giugno 1956: sali lo spigolo Fornelli in 25 minuti, la via De Albertis in 40 minuti e la via Gervasutti di sinistra in un’ora.
Credo che da Gervasutti fino a Marco Bernardi nessuno a Torino abbia espresso un talento nell’arrampicata comparabile a quello di Guido Rossa. In gioventù era attratto dalla voglia di andare contro corrente rispetto ai canoni dell’autorità costituita e di scherzare a tutto campo, con il più giovane Franco Ribetti ne hanno combinate di tutti i colori, il loro motivo conduttore, riferendosi al prossimo, era: “an tuca feje giré le bale “.
Fece una breve comparsa nella scuola Gervasutti trascinato da Ribetti in quanto era in ballo una spedizione nelle Ande su un obiettivo con grandi difficoltà di roccia e loro due erano i più attrezzati in quel momento per l’arrampicata; poi Ribetti si fracassò all’Uia di Mondrone e Guido usci dalla scuola in quanto gli obiettivi e la disciplina che la caratterizzava non erano compatibili con la sua mentalità.
All’inizio degli anni ’60 rallentò il suo impegno nell’alpinismo attivo, militava politicamente nella sinistra e nel sindacato e l’impegno sociale divenne più importante della montagna stessa.
Ci siamo incontrati varie volte nelle assemblee del CAAI, abbiamo discusso di alpinismo e di temi sindacali ma ormai egli arrampicava solo saltuariamente anche se sempre sorretto da una classe eccezionale.
Era la sua una dirittura morale che non conosceva compromessi così egli, paladino dei diritti dei lavoratori, venne assassinato dalle Brigate Rosse.
Compagno di Guido Rossa nell’arrampicare ma più ancora nello studiare e combinare casini era Franco Ribetti; nipote di Dionisi. Cominciò ad arrampicare a 13 anni e a 16 era istruttore della Gervasutti. Franco non conosceva la paura, affrontava passaggi in libera con una determinazione che rasentava la temerarietà e perciò chiodava pochissimo. Come suo zio era conformista e molto rispettoso degli ideali tramandati dalla tradizione dell’alpinismo, così Franco era dissacrante e completamente inattaccabile da ogni sorta di mito. Era però molto affezionato a Dionisi, affetto ampiamente ricambiato, e spesso hanno arrampicato insieme dove a volte il più anziano veniva messo a dura prova dallo scatenato nipote.
Egli ha sempre preso molto sul serio la montagna per ciò che concerne rischi, preparazione e obiettivi, su tutto il resto si poteva scherzare e ridere. Con Franco arrampico da quasi 30 anni ed ho capito che della notorietà non glie ne è mai fregato nulla, scala perché gli piace e si diverte e perché ama fare gli sport di fatica. Non ha mai steso le relazioni delle vie che ha aperto ed ha scritto poche righe solo quando è stato costretto.
Dice che se mai scriverà un libro il titolo sarà: “Stronzate Alpine”, perché egli è portato a dissacrare questo mondo così incline a mitizzare azioni e personaggi. Ma un libro non lo scriverà mai e spesso sono tentato io di raccontare quelle che lui chiama stronzate.
Andrea Mellano faceva gruppo a sé, pur appartenendo al GAM, aveva un gruppo di amici con i quali scalava abitualmente. Nelle più importanti delle sue imprese è quasi sempre in compagnia di un lombardo: Romano Perego e spesso con un genovese: Enrico Cavaglieri. Andrea è un alpinista serio con le idee molto chiare, è un ricercatore e scopre i problemi per poi risolverli.
Altri scalatori torinesi di quel periodo erano probabilmente più forti di lui nell’arrampicata ma Andrea è stato un realizzatore, caratteristica tipica di chi, magari non sorretto da un talento naturale, impara ad impegnarsi a fondo per raggiungere i propri obiettivi.
Il nome di Mellano è associato alla salita delle tre pareti Nord, ultimi grandi problemi degli anni ’30: Cervino, Eiger e Walker alle Grandes Jorasses, impresa mai realizzata in precedenza da scalatori italiani; ma, a mio avviso l’importanza di Andrea va cercata in altre realizzazioni come vie nuove, scoperte e realizzate con intelligente lavoro di ricerca; dallo sperone Young alla Nord delle Grandes Jorasses al Pilier a Tre Punte sul Tacul, dalle vie sulla Testata della Valle Grande di Lanzo alla Nord del Breithon. Ma la perla più brillante di questa collezione è lo spigolo Ovest del Becco di Valsoera, vinto nel 1960.
Andrea, più degli altri torinesi di quel periodo, raccontava le sue ascensioni, numerosi sono i suoi articoli sulle riviste dell’epoca. La sua carriera come scalatore di punta non è stata molto lunga ma la sua opera è continuata con iniziative importanti e di ampie vedute, con il giornalista Emanuele Cassarà è stato l’inventore delle gare di arrampicata e uno dei fondatori del FASI (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana).
9. SCHERZO E DIVERTIMENTO
Il gruppo che faceva capo a Guido Rossa, pur nel rispetto dei pericoli legati all’alpinismo e fedeli alla tradizione che impone di non barare millantando imprese inesistenti, aveva eletto lo scherzo, spesso molto incisivo, come motivo conduttore nei momenti di pausa tra le scalate. Guido congedandosi dalla naja si era portato dietro un po’ di esplosivi: tritolo, petardi da esercitazione etc. Con quel materiale combinarono un bel po’ di casini. Sulla via Gervautti alla Sbarua, nel traverso del primo tiro, vi era una grande lama incastrata che muoveva (visibile in una foto storica), Guido la fece saltare con una carica di tritolo.
Un giorno con Ribetti si trovavano alla capanna Gnifetti al monte Rosa per salire la Nord del Lyskamm, per “caso” negli zaini, tra gli attrezzi di scalata, avevano delle cariche di tritolo. Saputo che doveva arrivare una delegazione di notabili del CAI e visto che esisteva un solo ponte di neve per accedere alle rocce, sempre fedeli al principio di fare girare le palle al prossimo, decisero di far saltare il ponte di neve. Al momento dello scoppio Ribetti si trovava troppo vicino e venne scaraventato in un crepaccio dallo spostamento d’aria, fortuna volle che ci fosse un ponte di neve dentro il crepaccio che arrestò la sua caduta.
La più bella però avvenne a Villa Pisolino, era questa una grangia che faceva parte del campeggio UGET in Val Veni, il gestore del campeggio, nonché presidente dell’UGET, Andreotti, lasciava gratuitamente questa grangia ai membri del Gruppo Alta Montagna che erano perennemente a corto di quattrini. Questi avevano denominato Villa Pisolino la vecchia baita. Un giorno era ospite del campeggio un prete che doveva celebrare una messa in vetta al Bianco, era un tipo grande e grosso e molto alla buona che Andreotti sistemò nella “Villa” dato che erano i disperati qui residenti che si erano offerti di accompagnarlo in cima al Bianco. Per le sue dimensioni venne sistemato in una branda collocata sul pavimento e mal glie ne incolse; una notte decisero di farlo saltare in aria. Collocarono sotto i piedini della branda 4 petardi da esercitazione e, nel cuore della notte, mentre il reverendo dormiva profondamente, li fecero esplodere; il poveretto si sveglio mentre veniva proiettato in alto lui e la brandina. Per sdebitarsi, oltre che al Bianco, Franco lo portò anche al Dente del Gigante.
In cambio di buoni pasto ed altre agevolazioni quelli di Villa Pisolino si prestavano ad accompagnare abusivamente (non essendo guide) degli inesperti ospiti del campeggio in vari giri tra i ghiacciai del Bianco; una delle mete era la traversata Rifugio Torino- Chamonix attraverso la Mer de Glace. Capitò che Guido e Franco giunti nella seraccata del Requin, anziché seguire la retta via portassero la numerosa comitiva in mezzo ai crepacci ove non si intravvedeva più possibilità di uscita, qui giunti, fingendo grande preoccupazione, comunicavano di aver perso la strada e di non sapere più cosa fare, arrivavano persino a far finta di piangere per simulare disperazione. Quando la disperazione vera cominciava a farsi strada tra i “clienti” Guido diventava serio e dicendo “abbiamo scherzato abbastanza, usciamo da qui” conducevano in salvo i malcapitati, e tutto si concludeva con grandi risate e qualche bevuta.
Un colpo micidiale lo fecero ad Arturo Rampini aspirante scrittore e giornalista, segretario della scuola Gervasutti e cantore delle glorie di Dionisi nella spedizione Ande 1961. Arturo era un gran rompiscatole e si lasciava andare a scherzi piuttosto cattivi. Durante un corso per guide alpine, corsi che a quei tempi venivano condotti con la collaborazione delle scuole di alpinismo e dell’Accademico, bisticciò con uno dei presenti e per ripicca gli pisciò nello zaino. Saputa la cosa i suoi “amici” glie la fecero pagare: tolsero la mollica ad una pagnotta, spalmarono l’interno di merda e la farcirono con abbondante prosciutto, poi chiamarono Rampini dicendogli che aveva dimenticato il panino che il rifugista aveva preparato per colazione. Allora non erano tempi di abbondanza, al vedere un panino così ben farcito il malcapitato si precipitò sopra e gli aguzzini gli comunicarono la verità quando ormai ne aveva divorato metà. Vi lascio immaginare la reazione del poveretto.
10. 1963 - SPEDIZIONE UGET AL LIRUNG - NEPAL
Nel 1963 ricorreva il centesimo anniversario della fondazione del Club Alpino Italiano, la sezione UGET volle celebrare la ricorrenza con una spedizione himalaiana, l’obiettivo era il Lirung, una cima di oltre 7000 metri vanamente tentata da spedizioni giapponesi, era una occasione importante tenuto conto anche delle scarse iniziative del genere a Torino. Capo spedizione era Lino Andreotti e gli alpinisti, provenienti dal GAM, erano: Andrea Mellano, Giovanni Brignolo, Dino Rabbi, Alberto Risso, Guido Rossa, Giorgio Rossi con Cesare Volante medico. Non era un gruppo omogeneo, forse gli unici con la giusta determinazione in quel momento erano Mellano e Rabbi mentre Rossa cominciava a percepire altri interessi che stavano prevalendo sull’alpinismo; gli altri erano personaggi di secondo piano senza la mentalità vincente da protagonista. La spedizione venne funestata da una grave tragedia: Rossi e Volante morirono travolti da una caduta di seracchi e l’obiettivo principale venne abbandonato. Furono salite 2 cime sopra i 6000 metri e 2 oltre i 5000 metri.
11. NUOVI PROTAGONISTI
Nel 1963 entrano nella scuola Gervasutti due giovani che non erano torinesi di origine, uno è a Torino per gli studi di ingegneria: Gianni Ribaldone, l’altro è valsesiano ed ha come obiettivo la professione di Guida Alpina: è Giorgio Bertone. Sono due scalatori eccezionali, spesso arrampicano insieme e sono legati da grande amicizia. Gianni è una forza della natura con una resistenza fisica eccezionale, ha una grande determinazione e non ci sono ostacoli che lo fermano, arrampica spesso con un altro giovane brillante della scuola: Alberto Marchionni e tra i due esistono divergenze di vedute espresse spesso vivacemente. Ribaldone spazia dalle Dolomiti al Monte Bianco, nelle Dolomiti ripete alcune delle vie più difficili del momento, nel Bianco ripete grandi vie, ne apre di nuove ed effettua delle prime invernali importanti come il pilier Gervasutti al Tacul e la via degli Svizzeri al Capucin. E’ un ragazzo intelligente e serio, che non trascura gli studi malgrado la travolgente passione per l’alpinismo; pratica anche la speleologia e gli viene assegnata la medaglia d’oro al valor civile per un salvataggio in grotta. E’ uno studioso ed in grotta scopre un insetto sconosciuto che ora porta il suo nome.
Nel 1966 durante un’uscita della scuola cade con due allievi sul canalone Gervasutti al Tacul.
Giorgio rimane alla scuola per due anni, scala con Ribaldone poi, conseguito il brevetto da guida, si trasferisce a Courmayeur. Diviene una delle più forti guide in attività, non scala solo con clienti e continua ad aprire vie estreme in estate ed in inverno. Arrampica anche con Gian Piero Motti e ne diviene grande amico. Con Renzino Cosson, anch’egli guida di Courmayeur, compie la prima italiana della via del Nose al Capitan. Ci fece ridere tutti quando, in una serata al teatro Regio organizzata dalla FILA e coordinata da Motti, ci raccontò in tono scherzoso, di come si erano presentati nel tempio degli scalatori americani da sprovveduti, con attrezzatura da alta montagna e scarponi rigidi. Diventò uno dei massimi esperti di soccorso alpino e di manovre di corda. Venne poi preso da una travolgente passione per il volo: troppo audace per la breve esperienza in quel campo, si schiantò con il velivolo sul Monte Bianco.
12. G.A.M. E SCUOLA GERVASUTTI CENTRI DI AGGREGAZIONE DELL’ALPINISMO DI PUNTA TORINESE
Alla metà degli anni ’60 la scuola Gervasutti ed il Gruppo Alta Montagna diventano sempre di più i centri d’incontro degli scalatori di punta torinesi e non solo, Il GAM sembra quasi mettere in secondo piano l’Accademico, quasi tutti i suoi membri sono anche istruttori della scuola.
Io fui ammesso al GAM nel 1964 e venni invitato come istruttore alla scuola nel 1965, ero autodidatta, non avevo mai abbastanza tempo per scalare, e fare l’allievo nella scuola mi sembrava una perdita di tempo. Spinto però da alcuni amici mi prestai volentieri ad entrare come istruttore, in questa veste mi resi conto di quanto si può apprendere e quanto ci si può migliorare restando nell’ambito di una scuola di alpinismo.
Nel 1965 divenimmo istruttori in 15 tra i quali un giovanissimo Gian Piero Motti che era stato brillante allievo e Giuseppe Castelli che aveva salito la Nord del Cervino con Mellano rimediando un congelamento ai piedi che però non limitò le sue eccezionali doti di arrampicatore.
La tragedia di Ribaldone sul Tacul lasciò un momentaneo vuoto nell’ambiente perché i personaggi che erano stati gli animatori degli anni precedenti avevano smesso o rallentato la loro spinta; Motti fu il primo ad occupare tale vuoto con una serie di ripetizioni di alta difficoltà e con l’apertura di nuove vie che spesso andavano oltre i limiti raggiunti dai predecessori, come la risoluzione del Diedro del Terrore sulla Militi, ove si era fermato Guido Rossa e dove si era arenato anche un tentativo di Bonatti.
Come sempre c’é chi frena su ciò che emerge, ed in quegli anni ho sentito più d’uno commentare negativamente l’attività esplosiva di Gian Piero formulando previsioni catastrofiche.
Per un po’ le nostre attività si svolsero parallele poi cominciammo a fare qualche cosa insieme e scoprimmo che seppure molto diversi, tante cose ci accomunavano. Ambedue amavamo il nuovo: mettere le mani su un tratto di roccia mai toccato da nessuno aveva per noi un fascino irresistibile.
Eravamo tutti e due appassionati di letteratura alpinistica e ci piaceva raccontare le nostre scalate e le emozioni che ne avevamo tratto, solo che mentre Gian Piero aveva una facilità di scrittura eccezionale, per me lo scrivere era sinonimo di difficoltà.
Cominciammo a scalare integrandoci a vicenda: Gian Piero sulla roccia arrampicava meglio di me ed io appresi molto da lui, io ero più forte su ghiaccio e terreno misto ed ero più duro e determinato in alta montagna. Ci piaceva andare da primi per cui iniziammo scalando insieme ma ciascuno a capo di una cordata, poi ci trovammo molto meglio a condividere la cordata alternandoci al comando.
Gian Piero proveniva da una famiglia borghese abbastanza agiata, la loro sede di vacanze era a Breno in Valle Grande di Lanzo e quella divenne “la Sua Valle“. Da ragazzo ne girò tutti gli angoli salendo colli e cime spesso da solo. I Motti conoscevano Giuseppe Dionisi il quale, vista tanta voglia di montagna, lo condusse alla scuola Gervasutti. Come allievo fu brillantissimo ad al termine dei corsi venne invitato nel corpo istruttori.
Gian Piero non è mai stato capito dai più, molti vedevano nel suo modo di presentarsi una forma di alterigia, certe sue assenze vennero interpretate come leggerezze egoistiche e poco responsabili. Invece egli era estremamente sensibile e soffriva molto per ogni atteggiamento critico nei suoi confronti; era generoso e timido di fronte al pubblico, in privato scriveva su tutti gli argomenti senza nessun timore nell’esternare le sue idee, anche se andavano contro corrente; di fronte ad un pubblico taceva, non mi ricordo di averlo mai visto condurre una proiezione o una conferenza, qualche volta, messo alle strette, catturava me e parlavo io; poi mi prendeva in giro per qualche frase colorita o impropria da me pronunciata; il nomignolo canzonatorio: Manera Pan e Pera me lo ha affibbiato lui.
A quei tempi non esistevano i telefoni “cellulari“ e neanche tutti avevano il telefono fisso, due erano i punti di ritrovo più in uso per parlare di scalate e per combinarne di nuove: al giovedì sera al CAI in via Barbaroux, oppure, tutte le volte che ci capitava, presso il negozio di materiali per alpinismo dei Fratelli Ravelli in Corso Ferrucci, (ora non esiste più) il negozio era condotto da Leonardo (Leo) Ravelli (anche lui istruttore della scuola) figlio del mitico “Cichin” (Francesco) Ravelli. Li c’era sempre Pipi Ravelli con la sua barba bianca che gestiva il laboratorio e brontolava contro la moda delle picozze con manico sempre più corto. Spesso nel negozio si incontrava Cichin novantenne, vestito sempre con giacca e cravatta e costantemente aggiornato sull’attualità alpinistica. Un giorno, mentre discutevo con Leo, vidi entrare un ragazzo, sembrava un bambino si guardava attorno quasi fosse spaventato, chiese informazione sul prezzo di qualche attrezzo, ringraziò ed uscì: era Gian Carlo Grassi.
Gian Carlo è una delle figure più importanti dell’alpinismo torinese del dopo guerra, ebbe un inizio alpinistico difficile, cominciò a scalare da ragazzo animato da un entusiasmo enorme. Fu allievo della scuola Gervasutti e divenne istruttore, ma non si trovò a suo agio, le regole che vigevano allora non coincidevano con il suo modo di praticare l’alpinismo. Faceva un lavoro che odiava e che lo rendeva insoddisfatto, egli avrebbe voluto scalare a tempo pieno e vedeva il lavoro come un penoso impedimento. Legò presto con Gian Piero Motti con il quale effettuò molte delle sue prime scalate difficili, ma in posizione subalterna; raramente con Gian Piero riusciva a scalare da primo di cordata. All’inizio il nostro ambiente non fu generoso con lui, la sua perenne insoddisfazione e qualche incidente da sfigato gli valsero il nomignolo di Calimero, il pulcino piccolo nero e sfortunato. Per vivere di montagna, tra molte difficoltà, fece il corso guide e divenne guida alpina: il suo sogno era realizzato. Lasciato alle spalle il personaggio Calimero, Gian Carlo si avviò a diventare un grande protagonista dell’alpinismo.
Ritornò a Torino un torinese che si era trasferito a Milano per gli studi universitari: Paolo Armando. Egli non aveva amici in città per cui un giovedì sera si recò al CAI per trovare qualcuno con cui arrampicare. L’ambiente torinese non era il più idoneo a favorire amicizie istantanee: sempre un po’ chiuso ed indifferente nei confronti degli estranei.
Nessuno, come si suole dire in linguaggio attuale, lo cagò, e ciò fece emergere il suo spirito caustico e sarcastico che orientò verso gli scalatori locali.
Amava dissacrare con battute provocatorie e molti sono gli episodi che mettono in evidenza il suo spirito pungente.
Paolo Armando al di là di tutto è stato un grande alpinista ed il valore delle sue imprese appianò ogni contrasto, entrò nel GAM, diventò amico di tutti anche se ogni tanto tra le sue battute emergeva ancora qualche punzecchiata. La sua seppur breve carriera alpinistica è notevole: con Alessandro Gogna e Gianni Calcagno si aggiudicò l’ambita prima invernale della Nord Est del Pizzo Badile anche se con una tecnica stile himalayano che sollevò qualche critica, salì grandi vie dalle Dolomiti alle Occidentali con qualche prima” di grande difficoltà come la via sullo Scarason nelle Marittime con Gogna.
Cadde sulla Parete Nord del Greuvetta nel 1970 tentando di aprire una nuova via diretta.
Io non ho mai scalato con Paolo ma sono uno dei pochi a non aver avuto scontri polemici con lui. Nelle interminabili chiacchierate in strada, dopo la chiusura della sezione del CAI, a volte mi confidava le sue idee sull’alpinismo e quando fece una serata alla Galleria d’Arte Moderna, pochi mesi prima dell’incidente, volle che fossi io a presentarlo.
13. LA RIVISTA DELLA MONTAGNA
Nel giugno 1970 esce il primo numero della Rivista della Montagna, è una pubblicazione indipendente, totalmente svincolata dagli organismi del CAI. Nel comitato di redazione vi sono Gian Piero Motti ed Andrea Mellano, quest’ultimo vi rimarrà solo per tre numeri mentre Motti ne diventerà direttore dal n. 22, ottobre 75, al n. 26, dicembre 76, per uscire poi dal comitato di redazione nel settembre 1978. Io all’inizio non ne condividevo completamente i contenuti perché mi pareva che la parte riservata all’alpinismo di punta fosse insufficiente, ma allora ero un po’ troppo assolutista, entrai poi a fare parte del comitato di redazione con il n. 28 del giugno 1977. La Rivista fu importante nel diffondere le nuove tendenze dell’alpinismo e dell’arrampicata che nel corso degli anni ’70 ebbe una vera e propria rivoluzione; questo soprattutto grazie all’opera di Motti che in quegli anni fu il punto di riferimento della cultura alpinistica torinese e non solo. Tutti gli argomenti innovativi vennero da lui affrontati e diffusi dalle pagine della Rivista con testi suoi e con traduzioni intelligentemente scelte dal mondo alpinistico anglo americano passando dall’apertura verso l’alto dell’ormai anacronistica scala Welzenbach delle difficoltà su roccia all’arrampicata ad incastro; dall’analisi dell’alpinismo californiano con le sue motivazioni, all’evoluzione dell’arrampicata in Gran Bretagna e all’uso delle pedule di arrampicata.
14. IL NUOVO MATTINO
All’inizio degli anni ’70 Gian Piero Motti era l’uomo di punta dell’alpinismo torinese e le sue idee influenzarono l’ambiente, non che fossero capite e condivise da tutti, anzi alcuni articoli male interpretati sollevarono critiche da alpinisti della vecchia guardia ma lui comunque era il punto di riferimento e lo rimase anche quando si allontanò dall’alpinismo attivo. E’ naturale quindi che ad inaugurare quel periodo che oggi si ricorda come “Nuovo Mattino” fosse lui.
Nel 1972 Gian Piero ed io scoprimmo il Caporal e vi apriamo la prima via che battezzammo con un nome molto significativo: “via dei Tempi Moderni”, fu l’atto d’inizio del “Nuovo Mattino” da un termine coniato appunto da Motti in un suo scritto. Quel periodo durò circa 3 anni.
Molto si è detto e scritto sul “Nuovo Mattino”, spesso in modo impreciso, si è anche detto che fu il movimento che influenzò il ritorno all’arrampicata libera in Italia, non è esatto, innanzitutto l’arrampicata libera come la vedevamo noi allora era ben diversa da come la intendiamo oggi; poi in Italia il massimo promotore di un ritorno all’arrampicata libera, dopo l’abbuffata tecnologica dovuta al diffondersi del chiodo a pressione, fu Reinhold Messner, come è dovuta principalmente a lui l’apertura verso l’alto della scala delle difficoltà su roccia: il superamento del sesto grado!
E’ vero che fummo soprattutto noi i primi a diffondere in Italia le tendenze che andavano affermandosi negli USA, nel Regno Unito e anche in Francia.
Visti a tanti anni di distanza gli obiettivi principali che originarono il nostro Nuovo Mattino furono:
Tracciare vie con livelli di difficoltà superiori a quanto era stato fatto prima di noi, sia in arrampicata libera che in artificiale.
Dare pari dignità alle pareti poste a bassa quota rispetto alle pareti di alta montagna: la grande avventura poteva essere vissuta ovunque indipendentemente dalla quota.
Uscire dalla concezione eroica, ideale e drammatica dell’alpinismo, ancora tanto radicata tra gli scalatori italiani e di lingua tedesca. Pur accettando dei rischi inevitabili, fatiche e privazioni, a scalare volevamo andare per vivere avventure grandi varie e complete, non per sfidare” eroicamente” la morte, volevamo inoltre privilegiare i fattori tecnici e ludici su quelli emotivi.
Non è che le nostre idee fossero tutte originali, molte erano già rintracciabili per esempio tra il gruppo che faceva riferimento a Guido Rossa, solo che loro non le esternavano con la scrittura. Nella prefazione di presentazione del GAM a firma di Rossa, presidente dello stesso, sul numero 1 di Liberi Cieli del 1960, compaiono ancora i concetti di: << … la causa della grande montagna ……evoluzione dell’alpinismo…….. passione che è scuola di vita>> Concetti ormai scomparsi nella nostra concezione Novomattiniana dell’alpinismo.
15. CIRCO VOLANTE E MUCCHIO SELVAGGIO
Nell’aprile 1972 con Gian Piero salii una difficile via sulla Paroi de Glandasse in Vercors, tale salita faceva parte della sistematica esplorazione delle pareti calcaree francesi intrapresa proprio da Motti e da me. Dietro di noi vi era una cordata di due giovanissimi uno dei quali era Danilo Galante, proveniva dalla scuola Gervasutti ove era stato allievo brillante. Si dimostrò subito molto dotato nell’arrampicata e, dopo i corsi alla scuola, iniziò a scalare con Gian Carlo Grassi che ritornava all’attività dopo il ricovero in sanatorio. Con lui si legò di grande amicizia. Danilo diventò il punto di riferimento per un gruppo di giovani tendenzialmente trasgressivo ed in questo gruppo venne chiamato “Il Mago” mentre Grassi, più anziano, veniva definito: “Maestro”. Il gruppo si autodefinisce, volta a volta, “Circo Volante” o “Mucchio Selvaggio”.
La trasgressione nell’alpinismo Torinese non era una novità, basta ricordare le imprese di Villa Pisolino, ma questa era una trasgressione diversa, non solo rivolta all’interno del proprio campo di attività ma manifestata a più ampio raggio come ad esempio: “spese proletarie”, prelievo di benzina da auto altrui ecc….
Eravamo tutti amici e quando capitava scalavamo assieme, ricordo con piacere un tentativo ad una grande parete calcarea francese nel giugno 1974, naufragato sotto la pioggia. Era condotto da Motti e da me seguiti da una cordata formata da Galante, Roberto Bonelli e Piero Pessa, tentativo sfortunato ma sorretto da tanta allegria. Ricordo con qualche rimpianto i lunghi discorsi sopratutto con Danilo e Roberto.
C’era però in questo gruppo una visione un po’ critica verso ciò che rappresentavamo io e Gian Piero.
Io ero per una forma di ordine, esemplificato da una ferrea volontà nel conseguire gli obiettivi e nel pretendere il rispetto delle regole che la tradizione ci aveva insegnato; Gian Piero era visto come il Principe, libero di scegliere senza tanti condizionamenti. Noi due poi eravamo un po’ ingombranti con le rubriche che curavamo sulla Rivista Mensile del CAI e con i tanti scritti che pubblicavamo. Ciò malgrado Danilo fu molto influenzato da Gian Piero.
Galante morì per sfinimento assistito da Grassi in Chartreuse, nel bosco sull’altopiano, stroncato dal maltempo, se fosse vissuto sarebbe stato uno dei protagonisti dell’arrampicata libera sportiva che sbocciò alla fine di quel decennio. Alcune sue vie dimostrano una concezione che era già proiettata in avanti.
Grassi, divenuto guida alpina incrementò ancora la sua enorme attività abbracciando tutti i campi; altri del Circo Volante continuarono a scalare ma senza formare più un gruppo definito e rappresentativo.
16. LA NUOVA ARRAMPICATA LIBERA
Nella seconda metà degli anni ’70 un vento di novità arriva ad investire l’arrampicata libera su roccia, proviene inizialmente dalla Regno Unito poi successivamente dalla Francia e dalla Germania. Ancora una volta è Gian Piero Motti a farsi portavoce traducendo sulla Rivista della Montagna n° 33 del settembre 1978, uno scritto di Peter Boardman: “Dove sta volando l’arrampicata in Gran Bretagna”.
L’arrampicata libera diventava sempre più “sportiva”, quindi con regole che la disciplinavano, parallelamente prendevano importanza scale di valutazione delle difficoltà aperte verso l’alto tali da registrare e classificare gli enormi miglioramenti conseguiti dagli scalatori atleti. Come in tutti gli sport vennero sviluppate tecniche di allenamento che consentirono di arrivare a livelli di difficoltà sempre più alti.
Nasce un nuovo obiettivo: superare con le regole dell’arrampicata sportiva le vie aperte con ricorso alla scalata artificiale, ossia senza usare ancoraggi né per la progressione né per il riposo.
Per definire le difficoltà in arrampicata libera, noi torinesi sposiamo fin dall’inizio il metodo francese che applica una scala di valutazione molto semplice e razionale; quella numerico-letterale, oggi usata quasi universalmente.
Molti ambienti restavano conservatori e all’epoca si opposero alle novità, mi ha fatto impressione rileggere il verbale di una assemblea del Club Alpino Accademico Gruppo Occidentale del 17 dicembre 1978 dove una mia mozione per l’apertura della scala delle difficoltà oltre il sesto grado venne bocciata 6 voti a 11.
Sempre più sport, quindi allenamento e necessità di tempo libero per praticarlo. Nasce perciò la voglia da parte di molti arrampicatori di scalare a tempo pieno come dei professionisti dello sport.
A Torino vi è molta sensibilità su questi temi. Promossi da Andrea Mellano, sempre aperto al nuovo, e da Emanuele Cassarà, vengono tenuti due convegni sul Settimo Grado, il secondo in occasione della Manifestazione Sportuomo 1980 promossa dal comune di Torino.
Fu un incontro importante, conoscemmo l’astro nascente del nuovo modo di arrampicare: il francese Patrik Berhault che si presentò con una chiarissima relazione sul suo modo di allenarsi sia fisicamente che psicologicamente, il suo fu un forte stimolo per i nostri campioni nascenti che servì a proiettare verso l’affermazione internazionale del più forte di tutti: Marco Bernardi.
17. MARCO BERNARDI
Marco Bernardi è stato, probabilmente, il più forte arrampicatore dell’ambiente torinese del dopo guerra, il suo era un talento naturale che egli affinò applicandosi con intelligenza allo studio della dinamica della scalata ed allenandosi intensamente e scientificamente. Quando le sue straordinarie capacità erano già note legò con Gianni Comino e Gian Carlo Grassi che lo iniziarono, quasi giovane allievo, al giaccio estremo. Allievo sul ghiaccio si intende perché sulla roccia era già insuperabile. Dopo la morte di Comino sui seracchi della Poire al Bianco, continuò a scalare con Grassi aprendo le prime vie con passaggi di settimo grado nel gruppo del Gran Paradiso. Il legame di amicizia tra i due si interruppe dopo una salita al Capitan in Yosemite negli Stati Uniti.
Bernardi si impone nell’alpinismo internazionale con una serie di prime solitarie eccezionali tra il 1980 e l’81: il concatenamento in solitaria del Pilier a Tre Punte ed il Pilier Sans Nom al Mont Blanc du Tacul, la prima solitaria della via Gervasutti alla Est delle Jorasses e la prima solitaria del Pilier Derobèe sulla Sud del Monte Bianco. A queste imprese nel Massiccio più ambito dagli scalatori torinesi, va aggiunta la prima solitaria della difficilissima via Armando- Gogna sullo Scarason nelle Alpi Marittime.
Quello delle solitarie e dei concatenamenti era il motivo conduttore dell’alpinismo di punta in quel momento. E’ però un modo di scalare che impone forti rischi che Marco non è disposto a correre per cui non continua su quella strada. Diviene Guida Alpina e si afferma sempre di più nella nuova “arrampicata sportiva”, sarà il tracciatore delle prime gare di arrampicata a Bardonecchia.
Sulla pubblicazione Monti e Valli della Sezione CAI di Torino del secondo semestre 1983, in un articolo dedicato all’orrido di Foresto, sintetizza molto bene lo scostamento che va formandosi tra l’”arrampicata sportiva” e la concezione tradizionale e classica della scalata: <<….se si era scoperto il nuovo terreno a bassa quota e si iniziava a vivere l’arrampicata come un gioco, la tendenza rimaneva quella di aprire vie nuove anziché cercare di realizzare quelle già esistenti in arrampicata libera. La sensazione data dal raggiungimento dell’armonia tra forza, movimento ed equilibrio rimanevano inferiori per intensità a quelle date dalla conquista di una parete………………Si era comunque compiuto il passo comprendendo che l’esercizio di salire una parete poteva essere vissuto sportivamente senza le implicazioni dell’alpinismo………….Si iniziava a distinguere tra Alpinismo finalizzato alla realizzazione di un’impresa e Arrampicata come movimento fine a se stesso…… arrampicare sportivamente significa allenarsi sia a secco che in parete e richiede un impegno simile a quello della danza classica o della ginnastica artistica……….>>
Nella seconda metà degli anni ’80 Marco Bernardi si allontana dalla scena discretamente, in punta di piedi: la Montagna non è più il suo principale interesse.
18. SPETTATORE ATTIVO
Pescando tra i ricordi dei fatti e dei personaggi mi sembra di esser uno spettatore che vede comparire, sparire, e ricomparire i protagonisti. Spettatore attivo però, sempre nella mischia condannato come: “L’Ebreo Errante” protagonista di un antico romanzo, a non fermarsi mai, sempre alla ricerca di nuovi compagni per nuove scalate. Ritorna Franco Ribetti dopo tanti anni di assenza, compare Isidoro Meneghin che mi è compagno in tante “Prime”
Nel 1981 chiude il Gruppo Alta Montagna, ha esaurito la sua spinta nell’alpinismo torinese.
Nel giugno 1983 si toglie la vita Gian Piero Motti, straordinario protagonista dell’alpinismo della nostra città.
19. SPEDIZIONI
Se i torinesi sono stati protagonisti in molti eventi, lo sono stati molto meno nelle spedizioni extraeuropee. Nel 1981 viene organizzata una spedizione importante, ad una delle più belle montagne che esistano: il Changabang. Era divenuta celebre per le imprese di alcuni dei massimi esponenti dell’alpinismo himalayano. Io vidi quella montagna nel 1976 ne rimasi affascinato e mi ripromisi di fare di tutto per salirla. La nostra spedizione era composta da alpinisti della domenica e qualche sorriso certamente ci accompagnò: << cosa cercano dei dilettanti su una montagna da professionisti? >>. Malgrado tutto il Changabang venne da noi salito per una nuova via, in vetta Lino Castiglia di Alba e Ugo Manera.
L’appetito vien mangiando, dicono, così nel 1984 nuova spedizione nell’Hindu Kush Pakistano con obiettivo la sconosciuta catena dei Bindu Gul Zom.
Una cavalcata attraverso cinque cime mai salite tra i 5200 e 6200 metri che offri una straordinaria arrampicata su granito seguita da aeree creste di misto. In vetta Lino Castiglia, Ugo Manera, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione. Parteciparono alla spedizione Corradino Rabbi e Giuseppe Dionisi, sessantanovenne, tante volte nelle Ande, desideroso di vedere l’Himalaya.
Due anni dopo il nocciolo duro della spedizione del Bindu Gul Zom con altri due scalatori ripartiva nuovamente per l’Hidu Kusch per un grande obiettivo ma fummo sfortunati, un fuoristrada si ribaltò nel viaggio di avvicinamento e nell’incidente perse la vita Alessandro Nacamuli, giovane istruttore della scuola Gervasutti.
20. GARE DI ARRAMPICATA - ALP
Nel 1985 nasce la rivista ALP che accompagnerà l’evoluzione dell’Arrampicata Sportiva che si sta creando il suo spazio sempre più ampio (Purtroppo il cammino editoriale di questa rivista è finito). Lo stesso anno vengono effettuate le prime gare di arrampicata in Europa Occidentale. A volerle e promuoverle, tra tante difficoltà, furono Andrea Mellano ed Emanuele Cassarà.
di Luca Enrico C.A.A.I. - Gruppo Valli di Lanzo in Verticale
Sono seduto davanti a una birra da “Cesarin”, i due simpatici croati, che si sono sciroppati nove ore di viaggio per venire in Sea, mi hanno quasi obbligato a bere con loro, è lunedì sera e non c’è più nessuno anche se Claudia sembra indaffarata come due sere prima…..rivivo quei momenti di festa, una grande serata, mentre l’amico croato mi racconta, in un italiano più che discreto, di cosa hanno fatto, delle scalate e del suo paese, la mente vaga ai due giorni di festa appena conclusi, per noi organizzatori iniziati in realtà già venerdì.
Adesso che è tutto concluso, che in valle tutti hanno cominciato a fare apertamente i complimenti a questa manifestazione, è facile essere soddisfatti eppure questo raduno, il quinto, ha fatto vivere le ansie del primo: “il tempo sarà bello? verrà gente?” sarà sempre così e forse il bello sta anche in quello, nell’aspettativa e nell’incertezza, in quel non sapere e non poter prevedere, nei nodi che si sciolgono solo a cose fatte, quando l’elenco degli iscritti ha riempito pagine e pagine del “registro presenze”. Il successo e la soddisfazione sembrano allora divenire scontati e si pensa già all’anno dopo.
Ogni volta che un raduno si conclude, la sera della domenica, nella notte imminente di fine estate, mi sovviene la fine del primo, nel 2017. Ricordo quella sottile vena di nostalgia che provai davanti al “Savoia”, ormai svuotato, in una Forno ridiventata deserta e silenziosa tranne che per il lontano abbaiare di un cane, la nostalgia per due belle giornate di festa, per un qualcosa di nuovo che era nato, per una giornata indimenticabile. Però quest’ultima edizione è stata davvero grande, forse la migliore perché ha visto il coinvolgimento di tante persone che hanno saputo trasformarlo in una vera festa, al di là dei numeri, dei gradi e delle prestazioni, perché chi ama e anima il raduno non ha bisogno di mettersi in mostra ma semplicemente di condividere un’esperienza che diventa unica. Il Val Grande in Verticale in questo è un raduno molto “popolare”, nel senso che è rivolto a tutti, a chi vuole camminare, a chi vuole scalare magari partendo dalle basi, dai corsi che il Club Alpino Italiano a ogni edizione organizza per dare la possibilità di avvicinarsi alla montagna. E’ un raduno lontano da qualsiasi logica commerciale e il bello è che è creato dalla base, grazie alla quale si autoalimenta, senza necessariamente coinvolgere personalità famose e big, troppo spesso asettici e ormai lontani dal vero spirito che deve muovere l’alpinismo.
I numeri però bisogna pur darli, fosse anche solo per il fatto che nella nostra società basiamo tutto su di essi, i numeri diventano la cosa più importante, sono l’indicatore del successo o dell’insuccesso, del guadagno o della perdita. Siamo circondati da numeri e quindi è giusto comunicarli. La quinta edizione ha visto ben 304 iscritti ufficiali, cioè quelli che prendono il pacco raduno e vestono la maglietta, a cui si aggiungono più di 100 bambini accorsi per la prova scalata tenuta dalle Scuole di Alpinismo Giovanile del Club Alpino Italiano. A conti fatti significa che le presenze sono aumentate di un terzo rispetto alla precedente edizione, un netto balzo in avanti che fa ben sperare per il futuro, per l’ulteriore crescita di questo evento che sta diventando, anno dopo anno, un punto di riferimento quanto meno nel Nord Ovest. Anche la proiezione del film su Gian Carlo Grassi ha riscosso un gran successo. Inizialmente previsto solo il sabato pomeriggio a Cantoira (dove sono stati registrati 90 spettatori) è stato replicato, per un infortunio occorso all’ospite di quella che doveva essere la serata programmata, la sera stessa a Chialamberto contando più di 100 spettatori. Un dovuto omaggio al grande alpinista che è stato il vero “imperatore” di Sea, nel trentennale della sua tragica morte è stato doveroso ricordarlo e forse si sarebbe dovuto fare di più. Sea adesso rivive ma fu sicuramente lui il più prolifico tra gli apritori ed esploratori, colui che senza tante elucubrazioni sull’etica tracciò un numero impressionante di itinerari, da quelli con le protezioni tradizionali a quelli a spit, magari calandosi pure dall’alto! E’ grazie a lui se adesso scaliamo in questo paradiso di roccia e quindi, con buona pace di chi ricerca solo il grado e la difficoltà per mettersi in mostra, il raduno non può che essere simbolicamente dedicato a lui che amò questi luoghi come nessun altro.
Ecco che allora gli asettici numeri si stemperano nella festa, quella vera, nella condivisione delle emozioni e dell’allegria che sono la vera ed autentica base di questa manifestazione, lo stare insieme e il rincorrere il sogno di scalare le vie dai nomi fantastici, di scalare questi scudi di nero granito alla ricerca del sole e delle spade di luce. Anche quest’anno il meteo ci ha accompagnati, ha permesso a tutti di scalare e camminare, di testare le scarpette messe a disposizione da “La Sportiva” e i materiali dalla “Camp”. E’ stato importante vedere montati i gazebo di due grandi marchi, sponsor della manifestazione. Perché è grazie agli sponsor che tutto questo è possibile e quindi bisogna ricordare altri grandi marchi che ci hanno supportato in quest’iniziativa: “Ortovox”, “Grivel”, “Edelrid”, “Nograd” e “Ferrino”. A questi si aggiungono i negozi “Bshop” di Torino e “Mountainsicks” di Rivarolo, la storica libreria editrice “La Montagna” di Torino, da sempre al nostro fianco, e l’istituto geografico “IGC”, molto noto per le sue cartine. E ancora il salumificio “Raspini”, la ditta di prodotti biologici “Arc en Ciel – Bio Più” , tutti gli esercizi commerciali della valle, e non solo, che ci hanno aiutato dandoci numerosi, e molto apprezzati, premi in natura e le strutture ricettive che si sono messe a disposizione per accogliere e sfamare gli ospiti.
Una cosa è certa: la volontà di proseguire quest’avventura. Il raduno 2022 è già iniziato!!
CONVEGNO NAZIONALE 2021 – BERGAMO 2 e 3 ottobre
Organizzato dal Gruppo Centrale del CAAI
Foto di Leo Gheza
E’ un dato di fatto che i mutamenti climatici introducono elementi di novità anche nella pratica alpinistica.
In particolare, evidentemente, sono interessate al massimo livello tutte le attività che si basano su neve e ghiaccio, dalle salite scialpinistiche alle pareti glaciali, alle cascate di ghiaccio.
Il tema del CONVEGNO NAZIONALE 2021 “LINEE INVISIBILI PER NUOVI INVERNI” approfondirà proprio questo argomento, con relazioni di specialisti della materia.
Appuntamento quindi al Palamonti di Bergamo sabato 2 ottobre alle ore 14,30.
In allegato il depliant con il programma della manifestazione e il modulo di iscrizione per i soci.
Noi tutti conosciamo MONTAGNE 360, erede della prestigiosa testata storica La Rivista Mensile, organo ufficiale del Club Alpino Italiano. Nel tempo vi è stato un profondo restyling editoriale e un nuovo cooordinamento dei contenuti rispetto alla mutata fisionomia dell'Associazione, apertasi ad un pubblico via via crescente e dalle aspettative più variegate. Tutto il complesso mondo che gravita attorno alla montagna è rappresentato oggi nel CAI e il suo mensile MONTAGNE 360 ne è specchio fedele. Nelle pagine riservate all'Alpinismo, punto fisso rimasto nel tempo è il contributo sempre puntuale e di livello portato dai soci del CAAI con articoli e rubriche. Nel periodo marzo 2020 - giugno 2021 una ventina di articoli significativi scritti da Accademici o su Accademici si sono aggiunti a relazioni di aperture di vie nuove e spot di contenuto vario sul mondo dell'Alpinismo.
Sono contributi che meritano di essere estrapolati, conservati per la storia e proposti al pubblico vasto del web.
Gli interventi su Montagne 360 relativi al periodo 2018-2019 sono già stati pubblicati in precedenza. Vedi qui
A cura di Alberto Rampini - Foto di copertina di Sergio De Leo
ANTARCTICA 2020
Terminata l’Antarctic Expedition degli Accademici Gian Luca Cavalli, Marcello Sanguineti e Manrico Dell’Agnola. Non solo salite alpinistiche ma anche raccolta di campioni di ghiaccio per conto del CNR
01_Antarctic_Expedition_2020_03.pdf
L'ANIMA DEL LUPO
Claudio Migliorini (CAAI) e Roberto Parolari salgono in stile trad una difficile linea effimera sulla Nord di Cima Tosa in Brenta
02_Lanima_del_Lupo_2020_04.pdf
ANTARCTICA 2020
Il racconto dettagliato della spedizione Antarctica 2020 patrocinata dalla Sezione CAI di Biella, dal CAI Centrale, dal CAAI e dal CNR
GRANDES JORASSES In memoria di Gianni Comino
Ripetuto dopo oltre 35 anni il capolavoro di misto firmato dall’Accademico Giancarlo Grassi con Renzo Luzi e Mauro Rossi sulla Sud delle Grandes Jorasses. La “Via in memoria di Gianni Comino”, la leggendaria “diretta fantasma”, conferma il suo carattere
04_Grandes_Jorasses_-_In_memoria_di_Gianni_Comino_2020_05.pdf
Denis Urubko e Leonardo Gheza ammessi nel Club Alpino Accademico Italiano. Due personaggi diversi per generazione e per storie personali, ma accomunati da una grande passione per la montagna e per le prestazioni di alto livello
05_Urubko_e_Gheza_Accademici_2020_05.pdf
Samuele Mazzolini racconta l’avventurosa salita della Simon-Rossi alla Nord del Pelmo, itinerario poco ripetuto ma che non ha nulla da invidiare alle più blasonate grandi vie di sesto grado delle Dolomiti
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Della Bordella, Bernasconi e Pasquetto salgono in stile trad una nuova linea sul Cerro Standhardt, 450 metri autonomi su roccia bellissima e difficoltà di 7b/A1
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Ennesime nuove aperture nelle Dolomiti Friulane, Monte Pramaggiore, per Roberto Mazzilis e compagni
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In ricordo di Annelise Rochat
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L’Accademico Kurt Diemberger, unico uomo al mondo, assieme ad Hermann Buhl, ad aver salito in prima assoluta due “ottomila”, racconta la conquista del Dhaulagiri, nel 1960
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Nuovo titolo per Alessandro Gogna in libreria con “Visione Verticale”, una selezione di interpreti dell’alpinismo e delle loro imprese
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“Incroyable” breve via di alta difficoltà sul Pilastro Rosso del Brouillard per Della Bordella, Cazzanelli e Ratti
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Creta Grauzaria, Monte Avanza, Cima delle Batterie, Gamskofel: grandi monti poco conosciuti delle Alpi Carniche, teatro di aperture in stile severo per Roberto Mazzilis e Fabio Lenarduzzi
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Mario Manica rievoca la prima salita, assieme a Renzo Vettori, dell’immensa Parete del Cerro Piergiorgio per il Pilastro Nord-Ovest. “Greenpeace”, 800 metri di VII+ e A1, a trentacinque anni dall’apertura rimane una linea di tutto rispetto
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“G IV, Montagna di Luce”: sempre di attualità il film girato al seguito della spedizione che nel 1958 conquistò la montagna. Bonatti e Mauri in vetta, Maraini alla cinepresa
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Roberto de Martin tratteggia un ricordo vivo e appassionante del grande Accademico Franco Miotto, l’uomo dei Viaz e delle grandi pareti selvagge e remote delle Dolomiti Bellunesi
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Il ghiaccio in tempi di crisi climatica. Assieme a David Bacci proviamo a capire come sfruttare al massimo una stagione sempre più ristretta per scalare le cascate di ghiaccio
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In mostra al Forte di Bard i dipinti di Renato Chabod, un’immagine molto personale della montagna, vissuta in parete e interpretata sulla tela
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Carlo Alberto Pinelli illustra il grande progetto messo in campo per la realizzazione di un Parco e lo sviluppo di un alpinismo compatibile sulle montagne dello Swat in Pakistan
Le Dolomiti Pesarine (Tolmezzo): un mondo di cime e grandi montagne poco conosciute, proposte attraverso le innumerevoli vie aperte dall’infaticabile Roberto Mazzilis
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Kurt Diemberger, cineasta delle alte vette, e la sua inseparabile Bolex Paillard: “Verso dove?”, un film per la regia di Luca Bich presentato al Film Festival di Trento
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La vita incredibilmente avventurosa di Pier Luigi Airoldi, vincitore della Parete Sud del McKinley (Spedizione Cassin 1961)
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Quasi un numero intero di Montagne 360 (aprile 2021) dedicato al grande Walter Bonatti. Uomo, alpinista ed esploratore: uno degli Accademici che hanno lasciato grandi tracce nella storia dell’Alpinismo
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Space Vertigo, nuova via estrema per gli Accademici Alessandro Baù e Claudio Migliorini in cordata con Nicola Tondini sulla Parete Nord della Cima Grande di Lavaredo
Roberto Bianco riflette sull’evoluzione della figura del socio Accademico e sul futuro dell’Associazione
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Sogno e destino sull’immensa Parete Est delle Grandes Jorasses. Via nuova per Della Bordella, Moroni e Pasquetto: un sogno che si realizza e un destino che si compie
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Premio Paolo Consiglio 2020. Prima salita della Ovest del Bhagirathi IV per Luca Schiera, Matteo Della Bordella e Matteo De Zaiacomo e prima assoluta del Black Tooth (Karakorum pakistano, 6718 metri) per Simon Messner e Martin Sieberer
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La grande Parete Sud della Creta da Cjanevate (Alpi Carniche) dalle vie di Castiglioni e Soravito alle più recenti realizzazioni di Roberto Mazzilis e compagni nell’estate 2020
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La mitica via Bonatti alla Nord del Cervino ripetuta da Della Bordella, Ratti e Cazzanelli. Matteo della Bordella, alla fine conferma: “…Walter Bonatti, per me il più grande dei grandi”
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Pietro Crivellaro raccoglie in un volume le immagini della satira politica su Quintino Sella, lo statista con gli scarponi
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Pilastro Ghiglione, versante Sud delle Grandes Jorasses: nuova via dedicata a Matteo Bernasconi per Della Bordella, Schiera e Mauri
31_Una_via_moderna_per_alpinisti_doc_2021_06.pdf
La Cecchinel-Nominè al Pilier d’Angle, una via per i tempi innovativa, nel racconto di Roberto Bianco
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Un ricordo di Mario Marone, Accademico eclettico e fuori ordinanza, presentato da Mauro Penasa
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CONVEGNO del CAAI Gruppo Orientale:
“Montagne e boschi raccontano il cambiamento climatico: la tempesta Vaia e la tempesta perfetta”
Marano Vicentino 19 giugno 2021
Possono gli alpinisti disinteressarsi delle problematiche ambientali? La risposta ovviamente è scontata.
E le associazioni che li raggruppano? Anche qui la risposta è scontata. Ma non basta.
Le evidenze del cambiamento climatico e le prospettive di danni ambientali irreparabili devono spingere ognuno di noi e le nostre comunità ad assumere e promuovere comportamenti responsabili. Il tempo che rimane per poter limitare i danni è veramente poco. Questione di pochi anni. Ecco perché nessuno può più delegare ad altri, nessuna associazione alpinistica può delegare ad altre associazioni con il pretesto della propria specificità.
Il CAAI è nato per occuparsi di alpinismo e di alpinismo continua ad occuparsi, naturalmente, ma non può non impegnarsi direttamente e con convinzione anche della sensibilizzazione dei propri soci e degli alpinisti in generale su questo grande tema che interessa il futuro di tutti noi. Come abitanti della Terra in primis, ma anche come alpinisti siamo interessati direttamente a queste grandi questioni. Già da oggi perché l’ambiente alpino nel quale operiamo mostra segni evidenti di degrado dovuti ai cambiamenti climatici (riscaldamento globale) ma anche e soprattutto perché dati scientificamente certi ci pongono di fronte a prospettive allarmanti sulla nostra possibilità di sopravvivenza futura sul nostro pianeta.
Il CAAI Gruppo Orientale ha voluto dare un primo segnale con un Convegno specifico sull’argomento, invitando relatori di alto profilo per dibattere sul tema e sensibilizzare dall’interno i nostri soci.
a cura di Alberto Rampini
Ecco di seguito gli interventi (scaricabili anche in formato pdf) preceduti da un breve profilo dei relatori.
Paola Favero
alpinista appassionata, scrittrice e forestale, già comandante del distretto forestale di Agordo e del Reparto Carabinieri per la Biodiversità di Vittorio Veneto. Oltre a 18 libri legati alla montagna, tra cui racconti per ragazzi, libri naturalistici e di alpinismo, raccolte di antiche leggende cimbre e ladine, ed anche una pubblicazione sul paesaggio sonoro, ha pubblicato decine di articoli e tenuto convegni e conferenze sulle foreste e i cambiamenti climatici
L’innegabile realtà dei cambiamenti climatici è una nostra responsabilità
Intervento del prof Maurizio Fermeglia al Convegno CAAI Orientale del 19 giugno 2021
Linnegabile_realtà_dei_cambiamenti_climatici_è_una_nostra_responsabilità_-_di_Maurizio_Fermeglia.pdf
Abstract
Sovrapolazione, consumo di energia, effetto serra e cambiamenti climatici causati dall’uomo mettono a rischio crescente le zone più sensibili del pianeta. Carenza di acqua potabile, cibo ed energia ne saranno conseguenze ovvie, quantificate fin da oggi in modo preciso. Non quantificate invece, ma sicure, le conseguenze in termini di disordini sociali e migrazioni epocali.
Politiche demografiche responsabili, massiccia espansione delle energie rinnovabili e una convinta azione educativa verso comportamenti sostenibili sono la chiave di volta per arrestare la corsa del pianeta verso il baratro. Ma il tempo per agire è adesso.
Il recente rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change - IPCC parla chiaro: l'uomo è responsabile dei cambiamenti climatici. Le ragioni principali del riscaldamento globale sono la deforestazione, l’uso del suolo e l’utilizzo di combustibili fossili tutte ragioni ascrivibili all'attività umana. Alla presentazione del rapporto, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, rilancia l'allarme globale sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, sottolinea l'attuale impreparazione a fronteggiare le minacce alla biosfera e alla nostra civiltà e raccomanda alle autorità politiche di tutto il mondo di intervenire per cercare di evitare che gli effetti del riscaldamento globale diventino più devastanti: "Dobbiamo agire subito per limitare i danni, abbiamo i mezzi per farlo". Uno degli ambienti più sensibili nel quale gli effetti dei cambiamenti climatici risultano più evidenti è proprio l’ambiente alpino.
L’elemento di partenza delle analisi che gli scienziati hanno fatto e stanno facendo è legato alle prospettive di crescita della popolazione mondiale e delle relative migliori condizioni di vita che si estenderanno plausibilmente a strati sempre più ampi di popolazione. La popolazione mondiale cresce, particolarmente nel sud del mondo nei paesi meno sviluppati industrialmente ed anche più poveri.
Il consumo di energia in particolare è aumentato notevolmente negli ultimi decenni. Nel 1912 per accendere il pianeta era sufficiente 1 TW di potenza. Le previsioni, ottimistiche, per il 2030 sono di 23 TW e per il 2050 di 30 TW. Il quadro energetico a livello mondiale mostra chiaramente come la maggior parte delle fonti di energia siano fonti fossili, sia nei dati storici che nelle previsioni al 2025 ed al 2040. Da qui al 2040 il fabbisogno energetico mondiale aumenterà e tale incremento si registrerà principalmente nei paesi emergenti e nei paesi in via di sviluppo quale conseguenza dell’incremento demografico, dell’impulso economico, dell’aumento di industrializzazione, di urbanizzazione e quindi del benessere.
Purtroppo l’utilizzo dei combustibili fossili non sembra voler diminuire. Il petrolio ed il gas naturale continueranno, comunque, a essere la fonte energetica principale in tutto il mondo. Stime recenti, pur nella loro incertezza, indicano che l’impiego di petrolio, gas naturale tendenzialmente aumenteranno nel 2040, così come aumenteranno tutte le fonti ad eccezione del carbone. Sembra quindi che il mondo sia destinato ad utilizzare combustibili fossili nei prossimi anni e, anche se le energie alternative, escluse energia idroelettrica e biomassa, aumenteranno in maniera consistente, purtroppo nel 2040 rappresenteranno solo una modesta percentuale del quadro energetico mondiale.
Era il 2009 quando John Beddington, consulente scientifico del governo inglese, per primo parlò della ‘tempesta perfetta di eventi globali’ posizionando questo evento temporalmente nel 2030. Beddington disse che “Se non affrontiamo questo concatenarsi di cause ci possiamo aspettare grandi destabilizzazioni, con un aumento di disordini e potenziali notevoli ondate migratorie a livello internazionale, in fuga per evitare le carenze di cibo e di acqua”. Il punto di partenza del ragionamento di John Beddington è l’aumento della popolazione mondiale (previsti 8.3 miliardi nel 2030) che inevitabilmente si rifletterà in una maggiore richiesta di cibo (aumento del 50% rispetto all’attuale), ma non supportata da una adeguata produzione. Analogamente la richiesta di energia si prevede aumenterà, nel 2030, del 60% ancora con una produzione non adeguata, mentre la domanda globale di acqua potabile aumenterà del 30% (50% in paesi in via di sviluppo e 20% nei paesi sviluppati). A causa del cambiamento climatico, entro il 2030, quasi la metà della popolazione mondiale vivrà in aree ad alto stress idrico, tra cui l’Africa che conterà tra 75 e 250 milioni di persone sottoposte a tale pressione. Purtroppo negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno avuto un incredibile accelerazione e non reggono i ragionamenti dei negazionisti che ascrivono i cambiamenti climatici ad eventi naturali e ricorrenti negli anni.
Ma John Beddington non è stato l’unico a segnalarci il problema. Ben prima di lui il Nobel per la chimica, Richard Smalley disse che nel mondo abbiamo a che fare con 4 emergenze a livello globale; la scarsità di acqua, di cibo, di energia e la tutela dall’ambiente. Ci disse anche che è impensabile affrontare e risolvere uno di questi problemi indipendentemente dagli altri in quanto essi sono fortemente correlati.
Utilizzare fonti fossili per produrre energia significa emettere in atmosfera CO2, principale gas serra. Le emissioni di CO2 aumentano di circa il 4% all’anno ed i maggiori responsabili di tali emissioni sono le fonti fossili di energia: combustibili liquidi e solidi per il 76.7%, quelli gassosi per 19.2%. Al terzo posto la fabbricazione del cemento con il 3.8%. Questa è purtroppo l’impronta dell’era industriale, il cosiddetto Antropocene.
Le emissioni di CO2 ed altri gas producono il cosiddetto effetto serra. L’atmosfera si comporta come i vetri di una serra: come questi vetri, i gas lasciano passare le radiazioni luminose solari che vengono parzialmente assorbite e parzialmente riflesse dalla terra. Questo calore viene di nuovo riflesso, dal vetro nel caso della serra, dall’anidride carbonica nel caso dell’atmosfera. In sostanza l’effetto serra altro non è che una coperta che ci protegge e ci riscalda. Un aumento della concentrazione di CO2 ha l’effetto di rendere la coperta più spessa, quindi non ci sorprende che sotto alla coperta faccia più caldo. L’effetto serra, il suo funzionamento, ma anche la sua precarietà ed il suo equilibrio sono noti sin dal 1896, quando Arrhenius lo definì. Che cosa accade se questa coperta diventa più spessa? La risposta la troviamo ancora una volta nei report dell’IPCC. Al momento attuale si sta cercando disperatamente di contenere l’aumento della temperatura del pianeta a 1.5 anziché a 2° C: quel mezzo grado in meno, se raggiunto, potrebbe comportare notevoli differenze in positivo: sulla salute, sulla biodiversità delle piante e degli animali, sulle barriere coralline tropicali, sugli oceani e sulle possibilità di adattamento.
Scioglimento dei ghiacciai, intensificazione del ciclo idrologico e sconvolgimento delle precipitazioni, aumento del livello del mare, modifica della produttività delle piante, sconvolgimento della distribuzione delle specie vegetali ed animali sono tutti fenomeni ascrivibili all’aumento di temperatura dell’atmosfera e quindi all’utilizzo di fonti fossili per la produzione di energia. Stiamo parlando di aumenti di temperatura che a prima vista potrebbero sembrare irrilevanti: non lo sono purtroppo.
Le prime osservazioni dell’aumento della concentrazione dei gas serra sono state fatte da Charles David Keeling all’arcipelago delle Hawaii, all’osservatorio di Mauna Loa nel 1958. Ma analisi delle carote estratte dai ghiacci dell'Artide e dell'Antartide mostrano chiaramente come le concentrazioni dei gas serra sono rimaste per centinaia di migliaia di anni costanti e solo nell'ultimo periodo sono crescite notevolmente. Come dettagliatamente documentato dall’IPCC nel suo rapporto sullo stato dell’ambiente, esiste una diretta correlazione tra l’aumento della temperatura media del pianeta con l’aumento della concentrazione dei gas serra e quindi con le attività umane.
La temperatura della terra è aumentata di circa 0.85° negli ultimi 100 anni. Questo significa che per rimanere all’interno dei 2° C rimane un margine molto ridotto. Per contenere l’aumento a soli 1.5° è necessario che le emissioni siano ridotte del 45% prima del 2030 e che le rinnovabili forniscano 70-80% dell’energia entro il 2050.
Anche la temperatura degli oceani sta crescendo e non deve trarre in inganno il fatto che l’aumento sia contenuto: la terra ha un equilibrio climatico molto delicato e garantito dalle enormi masse oceaniche, ma basta un piccolo cambiamento di temperatura di queste masse fluide per generare effetti devastanti. Le previsioni al 2100 che nello scenario peggiore prevede un aumento della temperatura degli oceani di 1 grado sarebbe devastante ed assolutamente irreversibile, a causa della capacità termica degli oceani nell’immagazzinare una quantità enorme di calore e della loro grande inerzia nel rilasciarlo.
L’intensificazione del ciclo idrologico è una delle conseguenze del riscaldamento globale. Sono sotto gli occhi di tutti alcuni effetti evidenti: piove meno frequentemente ma più intensamente ed aumentano i periodi di siccità e di ondate di calore.
Uno degli effetti più importanti e globalmente presenti sul pianeta sarà l'innalzamento del livello del mare, dovuto ai cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento globale. Intere isole spariranno e zone costiere subiranno allagamenti sempre più frequenti a causa dell’innalzamento del livello del mare combinato con il fenomeno delle maree. Nel 2100 saranno sott'acqua interi tratti di costa italiana. Secondo un recente studio dell'Enea, 5.500 km quadrati saranno sommersi a causa dell'innalzamento del livello del mare. A rischio il Nord Adriatico, il Golfo di Taranto, il Golfo di Oristano e quello di Cagliari.
A causa della siccità, desertificazione e inondazioni, le regioni ad alte latitudini necessariamente dovranno diventare centri chiave per la produzione alimentare. Altre nazioni più tradizionalmente legate all’allevamento dovranno spostare la propria produzione alimentare e sviluppare avanzati pesticidi o coltivare specie più ardite per incrementare le rese.
La montagna è un ambiente debole, in cui il rispetto degli equilibri climatici è fondamentale. Le montagne sono tanto IMPORTANTI quanto VULNERABILI. Le regioni fredde sono le più sensibili perché rispondono in maniera amplificata all’aumento di temperatura: In montagna la temperatura è aumentata con un tasso circa doppio rispetto alla media su tutto il globo. Gli indicatori naturali dello stato di salute del pianeta sono evidenti: ritiro dei ghiacciai, degradazione del permafrost, diminuzione della durata, estensione e spessore della neve al suolo, biodiversità in declino, cambiamenti negli ecosistemi (spostamenti verso l’alto di flora e fauna, sfasamenti ecosistemi).
In montagna la situazione è più critica che in pianura. Il riscaldamento globale, oltre alla fusione dei ghiacci terrestri ha come conseguenza la diminuzione dell’albedo e l’aumento della radiazione solare assorbita (i ghiacci riflettono la radiazione solare, il terreno la assorbe). Come conseguenza il suolo si riscalda e questo amplifica ancora il riscaldamento. Ma ci sono anche altri fenomeni che amplificano il fenomeno in montagna quali la presenza di vapore acqueo, il ruolo delle nubi, la presenza di aerosol nella bassa troposfera montana e la sua deposizione sulle superfici innevate e ghiacciate.
I ghiacciai si riducono: la perdita di massa dei ghiacciai è un fenomeno generale nelle Alpi ma non solo: nella Ande, in Asia, in Alaska, in Patagonia avviene lo stesso ed il fenomeno è irreversibile. Sul ghiacciaio Athabasca, uno delle principali lingue di ghiaccio del ghiacciaio Columbia, delle montagne rocciose canadesi qualcuno ho già messo delle targhe ricordo. Il ghiacciaio si sta riducendo ad una velocità di circa 5 metri all’anno. E’ arretrato di oltre 1.5 chilometri ed ha perso oltre la metà del suo volume. La riduzione di massa dei ghiacciai avviene a tutte le latitudini e longitudini: avviene vicino all’equatore ed ai poli.
Un fenomeno collegato alla riduzione dei ghiacci in montagna, ma non per questo meno devastante è la fusione delle calotte ghiacciate in Artide ed Antartide. Fenomeno che porta ad un sensibile aumento del livello del mare, soprattutto per quel ghiaccio che giace su terreno come ad esempio in Groenlandia ed Alaska. Questo aggravamento è dovuto al fatto che lo scioglimento di una massa di ghiaccio galleggiante compensa l’innalzamento del livello del mare a causa dal maggiore afflusso di acqua con una riduzione del volume del ghiaccio immerso nel mare.
Ma lo scioglimento del ghiaccio che giace su terreno ha anche come effetto lo scongelamento del permafrost che ricopre una buona parte delle terre artiche. Il permafrost è ghiaccio intrappolato nel terreno che si è mantenuto tale a causa della rigida temperatura esterna. Questo ghiaccio, quando fonde, libera non solo CO2 ma anche metano, gas che, se liberato in atmosfera, contribuisce all'aumento dell'effetto serra 25 volte di più rispetto alla CO2, e materiale organico che è rimasto intrappolato in esso per migliaia di anni. Lo scongelamento del permafrost avviene anche in roccia ed è il maggiore responsabile di crolli, distacchi di roccia anche di dimensioni notevoli. In figura la distribuzione potenziale del permafrost sul Cervino.
A proposito di equilibri delicate in montagna un altro elemento fondamentale è la quantità di acqua presente in ambiente: se ce n’è troppo poca, per carenza di risorse idriche, gli effetti sono siccità, carestie, rischio incendi. Se ne arriva troppa in poco tempo a causa di precipitazioni intense porta ad alluvioni con rischi per instabilità dei versanti, frane, ed altri rischi geo-idrologici.
Un ulteriore effetto del riscaldamento globale è la perdita di biodiversità. La riduzione dei ghiacciai e dei periodi di innevamento sta minacciando molte specie alpine sulle montagne di tutto il mondo. Si tratta di popolazioni animali e vegetali spesso piccole e isolate, specie altamente specializzate a vivere in condizioni estreme di bassa temperatura, con limitata capacità di dispersione, poco adattate ai repentini cambiamenti che il clima sta subendo, e facilmente soggette ad estinzione.
La vita delle piante ad alta quota è limitata da vari fattori, ma due di questi sono i più importanti: la temperatura e la concentrazione di CO2. La temperatura limita molti processi fisiologici, primo fra tutti le divisioni cellulari necessarie per l’accrescimento, la riproduzione ecc… La CO2 è necessaria per la fotosintesi, e dal punto di vista delle piante i valori attuali in atmosfera sono relativamente bassi. In alta quota, la diminuzione della pressione parziale limita la disponibilità di CO2 per le piante (esattamente come limita per noi la disponibilità di O2). Quindi, l’attuale aumento di CO2 atmosferica e il progressivo aumento di temperatura stanno inevitabilmente producendo vari effetti sulla vegetazione delle ‘alte quote’.
Un primo effetto è messo in evidenza da un’analisi delle variazioni di copertura forestale e limite degli alberi dal 1909 al 2009 nell’area di Davos (Svizzera), periodo in cui la temperatura media regionale nell’area è aumentata di 1.4 °C. Oltre a questo dato climatico, è cambiato radicalmente l’uso dei territori di alta quota, con un progressivo abbandono dei pascoli. Come conseguenza la copertura forestale è aumentata di circa il 60%, e il limite degli alberi si è innalzato mediamente di 83 metri. Il massimo aumento del limite della vegetazione arborea è stato osservato su versanti esposti a NW (+151 m), N (+103 m) e W (+87 m), cioè proprio le zone dove le basse temperature limitano l’insediamento delle giovani piante arboree, e ne rallentano poi l’accrescimento. L’aumento di temperatura ha giocato un ruolo importante nel fenomeno di innalzamento della linea degli alberi.
A questo andamento di lungo termine si possono sovrapporre eventi anomali (es. tempesta Vaia, estati molto aride del 2003, 2012 ecc…) che hanno prodotto effetti immediati sulle foreste delle Alpi, con abbattimento delle monocolture di abete o disseccamento di molti individui di specie poco resistenti alla siccità.
Un secondo effetto si riferisce alla vegetazione alpino-nivale, quindi al di sopra del limite degli alberi. Tra il 1994 e il 2014 sono state eseguiti rilievi della vegetazione in oltre 1000 stazioni permanenti (ciascuna di 1x1 m2) a diverse quote (da 2911 m a 3497 m) ed esposizioni (da SW a SE) del Monte Schrankogel (3497 m, Stubaier Alps, Tyrol, Austria). Nel periodo il numero totale di specie è aumentato (da 51 a 61), come conseguenza della colonizzazione di specie in arrivo da quote più basse, e caratteristiche di habitat più caldi e tendenzialmente più aridi. A questa colonizzazione si è affiancata la progressiva scomparsa delle specie più tipicamente alpino-nivali, con una velocità di estinzione locale aumentata nel corso degli ultimi 10 anni. Ma a dispetto dell’aumento del numero di specie, la copertura della vegetazione è mediamente diminuita, indicando che le specie che stanno colonizzando le alte quote e sostituendo le specie alpinonivali non riescono a garantire la stessa copertura delle specie sostituite.
In parole semplici, anche se l’aumento di temperatura sta aumentando il numero di specie ad alta quota, a questo non corrisponde un ‘inverdimento’ della regione alpino-nivale, ma semmai una perdita di copertura vegetale.
Anche nelle regioni Himalaiana, in particolare nella regione del Monte Everest si possono notare gli stessi effetti. Misurazioni e confronti da dati satellitari ottenuti dagli archivi della NASA dimostrano un notevole aumento della vegetazione tra i 4150 ed i 6000 metri di quota, con un picco massimo tra i 5000 ed i 5500 metri. Considerata la notevole estensione di queste aree, sempre più scoperte dalla neve e dal ghiaccio, è prevedibile un forte impatto sul ciclo dell’acqua, che sarebbe devastante per l’approvvigionamento idrico di oltre 1.4 miliardi di persone.
Negli anni il tema del riscaldamento globale è stato sistematicamente sottovalutato e mal gestito Inizialmente la posizione era ‘non è reale, non esiste un riscaldamento globale’. Più di recente la posizione è cambiata in ‘d’accordo è reale, ma non è causato dagli esseri umani, è un fenomeno naturale’. Adesso siamo purtroppo molto vicini alla catastrofe che sarà, tardivamente, preceduta da una presa di coscienza collettiva di consapevolezza del fenomeno. Speriamo che non sia troppo tardi.
Ernest Hemingway ci fornisce un grande insegnamento: “Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, … ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi. E’ stato così tante volte.”
Cosa fare? Alla luce del filo rosso che collega la più lunga recessione economica della storia contemporanea e la “tempesta perfetta” che ci attende nel 2030 è urgente investire oggi in infrastrutture e tecnologie che possano evitare domani danni incalcolabili. In pratica, occorre una massiccia espansione delle energie rinnovabili, e una convinta azione educativa verso comportamenti sostenibili. Il tempo per agire è adesso, ed il compito di tutti noi amanti della montagna è creare consapevolezza su questo tema: specie nelle giovani generazioni.
I BOSCHI FRAGILI
il messaggio degli alberi
di Paola Favero (articolo pubblicato sulla rivista SIMBIOSI)
La_tempesta_Vaia_e_il_messaggio_del_bosco_-_di_Paola_Favero.pdf
Abstract
la tempesta Vaia ci ha dimostrato che i mutamenti climatici che derivano innanzitutto dal riscaldamento globale danno luogo ad eventi estremi che superano la capacità di resistenza e resilienza delle nostre foreste. Favorire tipologie di bosco più resistenti è importante ma non basta: la vera sfida è diminuire le emissioni ed i consumi e proteggere la biodiversità.
Mentre scendo in auto dal passo Falzarego verso i paesi dell'alto Agordino, nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, guardo ancora una volta i pendii coperti da migliaia di alberi spaccati, schiantati, divelti, tutti ammassati in modo caotico in un disordine totale, ancora più impressionanti ora che il colore verde delle chiome è stato sostituito da toni che vanno dal marron al grigio. Dopo due anni dalla tempesta Vaia solo alcune aree sono state ripulite: i tronchi ed i rami sono stati recuperati, spesso con operazioni che hanno comportato rischio e fatica, considerata la pendenza e l'orografia dei versanti, e sono rimaste solo delle distese di ceppaie, mute testimoni della distruzione. E mi chiedo ancora una volta come possiamo restare indifferenti, inermi, rassegnati o, ancor peggio, assuefatti ai disturbi e non disposti a cambiare, incapaci di cogliere l'estremo e inderogabile messaggio degli alberi.
Le foreste sintesi del clima
Le foreste rappresentano l'ecosistema più evoluto, complesso, resiliente presente sulla Terra; in ogni angolo del pianeta si sono evoluti in milioni di anni ecosistemi forestali capaci di raggiungere il massimo equilibrio con l'ambiente fisico e climatico attorno in modo da ottenere la massima produttività, biodiversità e resilienza, cioè capacità di assorbire i disturbi. Ed è proprio da qui che voglio partire: le diverse fitocenosi forestali rappresentano la sintesi dei fattori stazionali, - dalle rocce al terreno al clima- di un dato luogo, così che molto spesso per individuare velocemente una certa area climatica delle nostre montagne parliamo di Castanetum, Fagetum, Picetum, Laricetum, rifacendoci ancora alle fasce fitoclimatiche individuate dal Pavari, e poi differenziate in modo molto più specifico da monti altri studiosi tra cui Pignatti. Queste diverse fitocenosi forestali, che individuiamo qui riferendoci all'albero simbolo di ogni fascia, hanno impiegato centinaia di migliaia di anni per raggiungere l'optimum, realizzando boschi di composizione, dimensione, struttura, densità più idonee per sfruttare al massimo le potenzialità stazionali e per resistere alle perturbazioni esterne, comprese quelle del clima. Vedere improvvisamente milioni di alberi cadere come è accaduto il 29 ottobre 2018 con la tempesta Vaia, su estensioni mai viste prima, almeno per gli ultimi 2000 anni della nostra storia, ci fa comprendere come qualcuno dei fattori ambientali stia rapidamente cambiando, superando la capacità di resistenza e resilienza dell'ecosistema forestale. Venti di 150 km orari con raffiche di 217, provenienti da direzioni inconsuete per le nostre piante e riguardanti superfici così estese, non si erano mai verificati prima nelle nostre montagne, ed anche se rilievi metereologici specifici sono disponibili solo per gli ultimi 50 anni, possiamo risalire indietro nei secoli attraverso i nostri stessi boschi, che non portano il segno di eventi simili accaduti in passato, e ancor di più attraverso la documentazione storica, poiché nessuna mappa o resoconto antico- anche quando il bosco costituiva un patrimonio importante come nel caso della Repubblica di Venezia- ne porta testimonianza. Certo superfici interessate da schianti, provocati da violenti venti localizzati o da piccole trombe d'aria, ci sono sempre stati, come trovo conferma in una mappa veneziana della foresta del Cansiglio risalente al 1627, dove vengono accuratamente riportate due "fratte da vento" verificatesi nel 1623 ampie alcune decine di ettari. Ma superfici vaste come quella colpita da Vaia nel 2018 non sono mai state mappate, e nessun documento antico descrive un simile incredibile evento, in tempi in cui il bosco aveva un valore molto maggiore e tutto veniva accuratamente rendicontato. Così mi viene da pensare che alle precedenti fasce climatiche se ne debba oggi aggiungere un'altra: i boschi fragili, colpiti in modo massiccio da tempeste di vento, incendi di proporzione mai vista, infestazioni di insetti, conseguenze di rapidissimi cambiamenti climatici a cui i nostri popolamenti forestali non hanno tempo di adattarsi. Alla base di tutto il riscaldamento globale che oltre all'innalzamento della temperatura provoca un diverso regime delle piogge, con lunghi periodi di siccità alternati spesso a devastanti bombe d'acqua, ed eventi estremi come Vaia causati dall'enorme quantità di energia presente nell'atmosfera, e dal divario sempre più accentuato tra le masse di aria fredda che accompagnano le perturbazioni e le temperature sempre più calde dei mari e delle terre dove poi vanno a impattare.
La tempesta Vaia
Anche all'origine di Vaia c'è stata la discesa di una bassa pressione dalle aree del nord Europa verso il Mediterraneo, tipica dei mesi autunnali, depressione che anzichè allontanarsi poi verso est si è trovata bloccata sul Mar Mediterraneo, schiacciata tra due aree di alta pressione sui Balcani e sulla penisola Iberica. La depressione ha così iniziato a girare su se stessa, creando un vortice sopra il mare, che aveva però una temperatura di ben due gradi superiore alla media stagionale. Una vera bomba di energia! Mentre sulla terra, a fine ottobre, si registravano temperature di 28-29°. Questa situazione anomala ha provocato prima correnti umide da libeccio con precipitazioni intense dalla Liguria alla Carnia, e poi grazie al rinforzo di venti da sud est ha scatenato violentissimi venti di scirocco, che hanno risalito l'Adriatico colpendo Venezia e proseguendo quindi verso le montagne, dove si sono ulteriormente rafforzati infilandosi nelle strette vallate e subendo uno schiacciamento verso il basso a causa di masse di aria calda che li sovrastavano. Venti mai registrati prima hanno causato la distruzione di 15 milioni di mc di legname, ed almeno 30 milioni di alberi, su una superficie di circa 42.000 ettari, dalla Lombardia al Friuli Venezia Giulia, solo considerando i boschi completamente devastati. Ma eventi simili, fino a quel giorno sconosciuti all'Italia, si verificano già dal 1980 a nord delle Alpi, dove uragani extraoceanici di inusuale violenza hanno provocato la distruzione di estese superfici forestali in Francia, Germania, Svizzera e in tutti i paesi del centro e nord Europa. L'uragano Lothar, nel 1999, toccò Francia, Belgio, Germania, provocò 140 morti, e distrusse 246 milioni di mc di legname, molto più di Vaia, con venti fino a 250 km/h. Vivian nel 1990 interessò il centro Europa con venti da 200 a 280km/h e atterrò 120 milioni di mc. Gudrun nel 2005 passò per Irlanda Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia e Russia, distruggendo 75 miklioni di mc di legname mentre Klaus nel 2009 attraversò Francia e Spagna atterrando 45 milioni di mc....solo per citarne alcuni. Eppure in Italia non se ne parlava e non ci si preoccupava, convinti che le nostre foreste a nord fossero protette dalle Alpi e rassicurati dal fatto di trovarci sul Mar Mediterraneo, da sempre mite, e non su un grande irrequieto oceano capace di generare venti ben più forti. Nessuno si poteva aspettare che invece il nostro mare, più caldo di 2 gradi, potesse diventare addirittura un creatore di cicloni, chiamati Medicane. Oggi rischiamo però di compiere lo stesso errore quando pensiamo che Vaia sia un evento unico, con tempi di ritorno che vanno oltre il secolo, senza comprendere che si tratta invece solo del primo di una serie di episodi che potranno colpire in futuro i nostri territori e i nostri boschi.
Una comunicazione lontana dalla natura
Il giorno dopo la tempesta sentivo le affermazioni più assurde correre sui media: "I boschi sono caduti perché gli alberi sono tutti uguali" ,- peccato che oltre ai rimboschimenti artificiali di abete rosso dell'Altopiano di Asiago siano caduti splendidi larici-cembreti in val d'Ega o un bellissimo bosco misto in comune di Claut. "I boschi sono caduti perché non vengono gestiti e non vengono più tagliati", -di certo chi parlava non sapeva che tra i boschi caduti c'erano le famose peccete della Val di Fiemme o i grandi boschi della Val Visdende, da sempre gestiti, curati, tagliati con estrema attenzione-. Fino all'idiozia più grande" non preoccupatevi: ora ripuliamo, piantiamo nuovi alberi e tutto tornerà in pochi anni come prima!" senza rendersi conto che non stiamo parlando di edifici che possono essere ricostruiti, ma di interi ecosistemi dove oltre agli alberi erano stati distrutti gli habitat di cespugli fiori insetti animali funghi...miliardi di organismi che all'ombra della foresta trovavano dimora, e che richiedono cicli di secoli per poter tornare, senza considerare che lo stesso cambiamento climatico in atto sta modificando radicalmente i caratteri stazionali dei luoghi. Affermazioni come queste ci fanno comprendere quanto siamo superficiali, ignoranti, lontani dalla estrema complessità che caratterizza le foreste e tutti gli ecosistemi, ma anche lontani dal comprendere come siano diversi i tempi della natura, a cui vogliamo imprimere una velocità che non le è propria. Il tempo degli alberi è un tempo di lentezza, ben diverso da quello frenetico dell'uomo, che è andato progressivamente staccandosi dal bosco e dai suoi ritmi, a cui per migliaia di anni era stato legato. Le foreste sono invece ecosistemi estremamente complessi, che noi tentiamo di semplificare per renderle più comprensibili e gestibili, per poterle classificare, organizzare, schematizzare al fine di conoscerle meglio ma anche di utilizzarle per le nostre necessità. Lo stesso temine foresta, che deriva dal latino fores stare, indicava un tempo tutto quello che stava fuori dalle mura delle città, che non si conosceva, che metteva paura, che poteva essere pericoloso. Oggi anche se non vi è un modo univoco di utilizzare il termine bosco e foresta risulta abbastanza immediato associare la parola foresta al concetto di foresta vergine o primaria, non alterata dall'azione dell'uomo, o di usare questo termine per indicare le grandi foreste rimaste, come la foresta di Somadida o la foresta del Cansiglio. Si parla invece di boschi quando i popolamenti sono stati utilizzati o comunque modificati dall'azione antropica, così che non sentiremo mai dire il bosco dell'Amazzonia, né la foresta cedua degli Appennini. Ma al di là del termine gli studi e le conoscenze che si sono approfondite negli anni ci hanno fatto sempre più comprendere l'estrema biodiversità, - peraltro in gran parte ancora sconosciuta-, complessità imprevedibilità degli ecosistemi forestali, che si scontra con un’informazione inadeguata e fuorviante, che tende a semplificare e omologare tutto.
Che bosco è? Quanto resiste?
Ma tornando ora alla tempesta Vaia, all'interno di questi boschi divenuti improvvisamente fragili dobbiamo però fare delle differenze, riconoscendo che esistono comunque delle specie arboree più o meno resistenti allo sradicamento e allo schiantamento, e delle comunità forestali più o meno resilienti ai nuovi eventi estremi che le colpiscono.
Tutti sappiamo che l'abete rosso è la specie meno resistente allo sradicamento per il suo apparato radicale estremamente superficiale, mentre il larice, il pino silvestre, il faggio ed in genere tutte le latifoglie sono molto più resistenti, così che dove il vento ha raggiunto velocità di 100-120 km orari queste ultime hanno resistito, mentre sopra i 150 km orari qualsiasi specie è caduta. Ma oltre alle singole specie è molto importante valutare gli effetti della tempesta Vaia sui diversi tipi di strutture forestali, per vedere quali siano più in grado di fronteggiare gli eventi estremi. Vedremo allora che i danni maggiori si sono avuti laddove avevamo popolamenti artificiali monospecifici, come sull'Altopiano di Asiago, dove dopo la Prima Guerra Mondiale sono stati piantati milioni di abeti rossi, o dove si applica un tipo di gestione del bosco con tagli raso a strisce, che hanno reso più debole il bosco attraverso l'apertura di corridoi che rinforzano l'azione del vento, come nella zona di Paneveggio. I popolamenti forestali che ci circondano sono stati tutti più o meno alterati dall'azione dell'uomo, che ha sviluppato nei secoli diversi modelli di assestamento e selvicoltura per la loro gestione, ed ha cercato di stabilire alcuni parametri che ci permettono di classificare le varie tipologie di bosco ai fini della sua utilizzazione, ma anche di interpretarlo riguardo la sua funzionalità, equilibrio, resistenza e resilienza. Riassumo in modo estremamente sintetico i principali:
l'origine del bosco: naturale o artificiale
le specie che lo compongono, e se un popolamento è monospecifico o polispecifico, ciò composto da una o più specie arboree. In natura le foreste sono sempre composte da più specie, e popolamenti monospecifici esistono solo in zone estreme, come ai limiti della vegetazione. E' intuitivo capire che la presenza di più specie permette alle piante di sfruttare meglio le risorse del terreno e lo spazio a disposizione e rende un bosco più resiliente e forte anche di fronte a infestazioni di parassiti o altre calamità.
la modalità riproduttiva del bosco: un bosco naturale si riproduce principalmente attraverso i semi, ma in seguito all'azione dell'uomo abbiamo oggi sia boschi da seme o fustaie, sia boschi cedui (dal latino caedere = tagliare), dove in seguito al taglio periodico le ceppaie delle latifoglie ributtano dei fusti secondari chiamati polloni e il bosco si rinnova principalmente per via agamica.
la struttura del popolamento forestale: i boschi possono essere coetanei, cioè formati da piante che hanno per la maggior parte la stessa età, o disetanei, dove sono rappresentate le varie classi di età. Anche in questo caso appare evidente che in natura la maggior parte delle foreste sono disetanee e che questa situazione favorisce una miglior distribuzione dello spazio, presenza di luce e ossigeno, ricchezza di biodiversità, garanzia di una rinnovazione naturale, trasmissione di informazioni tra gli alberi, ecc... Le strutture coetaneiformi sono state create dall'uomo solo per maggior comodità di utilizzazione e di conseguenza maggior ritorno economico. Anche in questo caso di fronte all'evento Vaia questi popolamenti hanno dimostrato la loro maggior vulnerabilità.
il tipo di gestione che viene applicato: il tipo di taglio che viene effettuato all'interno di un bosco è fondamentale. Mentre il taglio raso, peraltro vietato in Italia, azzera completamente tutto e prevede spesso un successivo impianto artificiale, il taglio saltuario per piede d'albero, quello che si avvicina di più a quanto accadrebbe in natura, permette di asportare delle piante mature ma di lasciare nel contempo il bosco il più possibile integro, aprendo delle piccole buche solo in corrispondenza della pianta tagliata. In queste radure potranno poi insediarsi nuove piantine grazie ai semi caduti dalle piante attorno, ricreando il dinamismo che avrebbe generato una caduta naturale dell'albero asportato. Naturalmente tra questi due estremi -taglio raso o taglio saltuario- vi sono altre tipologie di interventi, come i tagli raso a strisce o a buche, e fondamentale è anche l'intensità dei diversi interventi e la scelta delle piante da tagliare, oltre che i tempi di ritorno in un dato popolamento. Tipica della nostra selvicoltura nelle fustaie era in estrema sintesi la successione: diradamenti, taglio di preparazione o sementazione, taglio di sgombro. In questa fase tutte le piante rimaste, mature o stramature, dovevano essere tolte per lasciare spazio alla rinnovazione. Una moderna selvicoltura attenta alla biodiversità non può più prevedere questo, ma deve considerare che è fondamentale lasciare alcune piante pur se molto vecchie, per il loro valore intrinseco nella comunità e per garantire la dimensione stessa dell'ecosistema e la biodiversità presente: se taglio tutti gli alberi superiori a 30 m di altezza e lascio le piantine pur rigogliose alte al massimo 10 m ho ridotto lo spazio di quell'ecosistema del settanta per cento e ho distrutto migliaia di habitat e di organismi prima presenti. (Facendo un paragone con la società umana è come se decidessimo di eliminare tutte le persone più anziane, che se da un lato producono meno dall'altro sono quelle che trasmettono conoscenza e saperi).
Le ricette fuorvianti
Tener conto di tutti questi aspetti può aiutarci a seguire in futuro una selvicoltura più idonea a fronteggiare questi nuovi assetti climatici, a cui le piante sembrano rispondere per esempio con una risalita delle specie verso l'alto ma anche con la sofferenza di piante che sono già nelle fasce altimetriche superiori, come ad esempio il larice, ma dobbiamo sempre tener presente che questo potrà servire solo a sopportare meglio i venti forti fino a 150 km orari mentre sopra questo limite qualsiasi bosco purtroppo cadrà. Per questo è indispensabile una nostra azione ben più radicale, indirizzata a contenere il cambiamento climatico e l'innalzamento della temperatura, o tutti i nostri sforzi saranno vani. Pensare che sia sufficiente non piantare più abete rosso per risolvere il problema, o immaginare interventi assistiti alla naturale rinnovazione delle piante può distogliere l'attenzione dal vero problema, mentre è addirittura fuorviante sostenere che bisogna ringiovanire i boschi perché così resistono di più, dimenticando che è proprio il bosco più maturo ed evoluto quello più resistente e resiliente, e scordando che la tutela della biodiversità è ormai una assoluta priorità e ringiovanendo i boschi si va invece a distruggerla. Come insistere sulla necessità di tagliare di più i boschi continuando a ripetere che la superficie forestale in Italia è molto aumentata, ma scordando di dire che i boschi si sono espansi soprattutto in aree abbandonate e poco accessibili, mentre quelli che si andrebbero a tagliare saranno purtroppo quelli più comodi, redditizi e serviti da strade, andando così a depauperare ancora una volta i popolamenti più importanti, in un momento in cui i boschi vanno soprattutto protetti per la serie di servizi ecosistemici che ci forniscono.
Crisi ecologica e crisi culturale
I ghiacciai ci danno una prova costante del cambiamento climatico, misurabile anno per anno, così come l'innalzamento dell'acqua degli oceani; i boschi e le foreste invece tracollano di colpo, e i fattori che le stanno decimando, oltre alla deforestazione che ancora continua, sono incendi, tempeste da vento ed infestazioni di insetti. In Italia nel 2017 sono bruciati 160.000 ha di boschi, mentre nel 2019 incendi mai visti hanno distrutto 4 milioni di ha di boschi in Siberia - pensiamo all'immensità di una tale devastazione confrontata con i 42.600 ha di Vaia - , senza poi parlare delle immense superfici che stanno bruciando in Amazzonia, Australia e California. Le tempeste di vento hanno colpito il centro e nord Europa per una media di 38 milioni di mc di schianti all'anno, a cui sono seguite spesso infestazioni di scolitidi che hanno distrutto ancora ettari ed ettari di bosco. Ma alla crisi ecologica che accompagna il nostro tempo si affianca una profonda crisi culturale che ci vede sempre più lontani dalla natura e dal bosco, estranei ad un mondo con il quale siamo invece intimamente legati. Gli uomini hanno costruito sul legno degli alberi la loro civiltà: dall'uso del fuoco per cucinare e scaldarsi, al produrre energia ed estrarre medicine, al costruire le loro dimore, le armi per cacciare e gli attrezzi agricoli, i mezzi di trasporto, la carta su cui scrivere, le opere d'arte e gli strumenti musicali. Sono le foreste le responsabili di un'atmosfera più ricca di ossigeno e adatta alla nostra vita, e ancor oggi, seppur inconsapevolmente, il benessere di cui godiamo è legato ai molti servizi ecosistemici che ci fornisce il bosco. Ma mentre un tempo ogni singolo albero aveva un suo valore e una sua storia, e ogni bosco veniva seguito e attentamente gestito, oggi gli alberi sono spesso una massa indistinta di materia, diventati ormai solo un mero prodotto industriale. Dimenticando che intere civiltà sono scomparse dalla faccia della Terra perché hanno distrutto i boschi che circondavano i loro villaggi, causando il cambiamento del clima di quella zona e l'impossibilità di avere acqua e cibo. La storia ci racconta degli errori del passato, mentre la scienza ci fornisce tutti i dati e le conoscenze per comprendere la gravità della crisi ambientale che stiamo vivendo, ma con un estremo atto di resilienza a cambiare il nostro modello consumistico fingiamo ancora di non capire. Spero allora che la devastazione provocata da Vaia possa almeno servire a prendere coscienza di come sta accelerando la nostra corsa verso la distruzione, e di quanto sia urgente il nostro cambiamento: un estremo messaggio degli alberi che da sempre ci hanno accompagnato.
Estremeconseguenze
VAIA, messaggera del cambiamento climatico e acceleratore di nuove politiche forestali di rapina.
di Paola Favero
Estremeconseguenze_di_Paola_Favero.pdf
Abstract
La crisi climatica ci ha portato VAIA. Nel cercare di rimediare a Vaia si pongono le premesse per ulteriori dissesti ambientali che porteranno danni nel medio-lungo periodo anche sotto il profilo del clima. Una spirale perversa che occorre disattivare.
La tempesta Vaia è stato un evento epocale, segnale estremo della crisi ambientale e climatica che ci sta travolgendo. I ghiacciai che si sciolgono possono essere monitorati misurando anno per anno il cambiamento, e così accade per l'innalzamento del livello dei mari, i boschi invece hanno assorbito per anni ed anni i disturbi esterni, ma di colpo sono crollati, schiantati da un vento prima sconosciuto, figlio del riscaldamento globale che provoca sempre più spesso eventi estremi. Poteva essere un’occasione importante per aprire gli occhi, prendere coscienza della rapidità con cui stiamo precipitando verso una situazione fuori controllo, dove il nostro benessere viene meno assieme a quello dell'ecosistema che ci circonda, anzi, di cui facciamo parte. Ma non è stato così. Ed oggi, a due anni da quel 29 ottobre, mentre scendo in auto da passo Falzarego e vedo i boschi distrutti che mi circondano, mi chiedo come possiamo attraversare questo paesaggio stravolto senza sentire un disagio profondo, indifferenti e sordi al messaggio degli alberi. I boschi si sono evoluti in milioni di anni per raggiungere un equilibrio ottimale con l'ambiente in cui vivono, in modo da avere la massima produttività e la massima resilienza, ma ora questo equilibrio si è rotto, e questo dovrebbe essere un segnale che ci fa riflettere spingendoci a cambiare prima che sia troppo tardi. Con l'unica imprescindibile necessità di consumare meno, ricordando che non è possibile uno sviluppo infinito su un pianeta finito, con risorse che sono limitate, come sosteneva Augusto Peccei ed il Club di Roma già nel 1970.
Non l'abbiamo compreso, o facciamo finta di ignorarlo perché non vogliamo cambiare il nostro stile di vita se non di fronte a qualcosa che ci tocca da vicino e ci fa paura, come è ora con la pandemia. Così anche l'estremo segnale degli alberi sarà stato vano.
Ma c'è di peggio. Vaia da un lato ci ha dato la conferma del cambiamento climatico in atto e delle conseguenze che può avere, ma dall'altro ha aperto le porte ad una politica forestale nuova, ad una selvicoltura produttivistica moderna, ad una gestione del bosco dove l'albero diventa una merce come tante altre, e tutto deve essere funzionale ad ottenere il massimo profitto utilizzando tecnologie un tempo impensabili. Una simile trasformazione era già in atto in gran parte d'Europa ma faceva fatica ad entrare in Italia, sia per l'orografia dei versanti che non consentiva l'uso dei moderni macchinari, sia per la radicata tradizione di selvicoltura naturalistica che caratterizza la nostra storia. In molti paesi d'oltralpe già da decenni i boschi vengono tagliati con tecniche che poco tengono conto dell'ecosistema forestale mentre guardano di più a massimizzare la resa economica: tagli raso o tagli raso a strisce dove aree di bosco vengono completamente tagliate e poi eventualmente rimboschite, organizzazione regolare di strade e boschi per rendere più facile il lavoro, popolamenti forestali sempre più monotoni e artificiali...salvo poi mantenere delle are a parco o riserva dove invece i boschi sono protetti e lasciati ad uno sviluppo più possibile naturale. Simili indirizzi selvicolturali e l'arrivo dopo gli anni 80 di uragani e tempeste devastanti che hanno abbattuto ettari di bosco sia nel nord che centro Europa ha poi fatto sviluppare un tipo di macchinari adatti a lavorare in situazioni così difficili, come gli harvester . Questi macchinari sono in grado di tagliare un albero, sramarlo, scortecciarlo e dividerlo in tronchi in pochi minuti, e una sola macchina riesce a preparare circa 200 mc di legname al giorno, a fronte di 20 mc che potrebbe allestire un boscaiolo. I tronchi così preparati in mezzo al bosco vengono poi raccolti e portati in strada dal forworder, un altro mostro meccanico capace di salire pendenze e terreni dove nessun cingolato riuscirebbe. Tecnologia ed efficienza massime, ideali per operare in situazioni difficili come gli schianti di Vaia, ma terribili se poi applicate in boschi in piedi per effettuare i normali tagli, che in Italia venivano ancora programmati secondo i canoni della selvicoltura naturalistica. Lo scopo era quello di ricavare legname dal bosco cercando di avere un impatto minimo e imitando la natura, magari addirittura attraverso un taglio saltuario mirato, prelevando le piante più vecchie, aprendo il bosco troppo fitto, liberando la rinnovazione, con un’azione puntuale che ricavava legname garantendo nel contempo i servizi ecosistemici e la biodiversità, che nel caso di tagli raso o troppo intensi viene azzerata. Cosa chiaramente impossibile se fatta con un mezzo che solo per spostarsi richiede 4 metri di apertura e che ha bracci meccanici che lavorano solo se hanno spazio libero attorno, per almeno altri 8/10 m. Macchinari che solo poche ditte boschive italiane avevano, ed è per questo che su Vaia sono intervenuti subito Austriaci e Sloveni, ma che ora molti si sono affrettati a comperare, anche grazie alle sovvenzioni. Macchinari indispensabili per lavorare sugli schianti di Vaia, ma che poi, finito di recuperare il legno a terra, si dovranno utilizzare a pieno regime sui boschi in piedi per ammortizzarne il costo.
Così girando per la Piana di Marcesina sull'Altopiano di Asiago si vedono macchinari e camion di diverse nazionalità, un immenso cantiere forestale come mai si era visto prima, e nei documentari girati per l'occasione si sente inneggiare al nuovo modello di gestione fino a dire che la motosega rappresenta la preistoria, mentre questi macchinari sono il futuro. La cosa peggiore è però la propaganda mediatica che sta a monte di tutto questo, con un martellante invito a tagliare i boschi perché si sono troppo espansi, e a ringiovanire i boschi perché resistono meglio alle tempeste, anche se tutti gli studi dimostrano che sono invece i boschi più maturi ed evoluti ad essere più resistenti e resilienti. Senza dire che se è vero che i boschi italiani sono aumentati di un milione di ettari, è altrettanto certo che non si andrà a tagliare di più nelle zone di recente colonizzazione, di solito impervie e poco accessibili, ma condizionati dall'uso dei macchinari si taglierà di più solo nei boschi comodi che sono spesso anche i più belli. E dimenticando che i boschi più vecchi ed evoluti sono anche quelli più resilienti e più ricchi di biodiversità, che viene distrutta quando vengono fatti tagli intensi o il bosco viene ringiovanito.
Dietro queste logiche così lontane dai proclami di impegno per le foreste, la biodiversità, l'ecosistema, si nascondono ancora una volta pressanti motivi economici, che oltre all'omologazione e banalizzazione del legno, un tempo prodotto pregiato ed oggi spesso utilizzato per imballaggi e cippato, spingono verso un’utilizzazione degli alberi per le centrali a biomassa legnosa, promosse ed incentivate come energia rinnovabile. Senza ricordare che le stesse erano nate per consumare in modo utile gli scarti delle segherie o delle utilizzazioni boschive, e non per destinare alberi interi per approvvigionarle, bruciando in pochi minuti anni di lenta crescita e rilasciando comunque nell'atmosfera la CO2 derivata dalla combustione. Così si spiega come sull'Altopiano sia proprio una multinazionale, Durfeco biomasse, ad avere aperto il più grande cantiere forestale d'Italia. E perché sia così assillante e puntigliosa l'attuale campagna mediatica a favore dei tagli, della gestione attiva del bosco, che arriva a denigrare i pareri di grandi studiosi forestali e perfino della stessa soprintendenza, come nel caso dei cedui di castagno del monte Amiata, pur di sostenere questa folle politica di rapina. Che diffonde sui media, tutti al servizio della lobby della nuova selvicoltura produttivistica, concetti come la necessità di tagliare di più perché i boschi si sono troppo espansi (ma rispetto a quando? E perché non dovrebbe essere positivo in questi tempi di cambiamento climatico avere più boschi?), e ribadisce la necessità di gestire il bosco, che sembra non essere in grado di sopravvivere da sé, e che non può essere abbandonato ad uno sviluppo naturale...Tanto che il nuovo Testo Unico Forestale arriva a prevedere anche la possibilità di obbligare un privato a tagliare il proprio bosco se lo stesso, non più utilizzato, viene classificato come abbandonato. Peccato che siano proprio i boschi abbandonati, dove l'uomo non arriva perché troppo scomodi, che ci regalano poi i boschi vetusti più ricchi di biodiversità e le più belle nicchie di naturalità senza che nessuno sia andato a gestirli. Peccato che in un conteggio di costi e benefici, distratti dalla logica del profitto immediato, ci si dimentichi di considerare gli innumerevoli servizi ecosistemici, fondamentali per la nostra vita ed il nostro benessere, che il bosco sa darci.
Convegno CAAI Marano Vicentino -19 giugno 2021
Le foreste e il cambiamento climatico a livello globale e possibili azioni
di Silvia Stefanelli
Abstract
Negli ultimi anni sono aumentati i disturbi alle foreste, come schianti da veneto, tempeste e attacchi parassitari su larga scala che insieme a pratiche di intensificazione dei prelievi hanno danneggiato la funzionalità e lo stato di salute di molte foreste europee, in molti casi esacerbati dal cambiamento climatico. Nel mondo 80% della deforestazione è causata da prodotti di uso agricolo, tra cui la carne e la creazione di pascoli per allevamento di bovini inclusa la soia per alimentarli, caffè e cacao, olio di palma, pelle e poche altri prodotti tra cui legname e estrazione mineraria e petrolifera. Il contributo maggiore che possiamo dare come cittadini e alpinisti è cambiare le nostre abitudini, anche in campo alimentare, agire nella sfera di influenza della nostra vita sociale e partecipare attivamente al dibattito pubblico chiedendo azioni concrete e immediate.
Uno sguardo sulle foreste nel mondo
Le foreste sono al centro dell’attenzione globale per il ruolo cruciale che svolgono nella crisi climatica e per l’ampio spettro di servizi che offrono all’umanità, alla cui esistenza sulla Terra sono indispensabili. La biosfera terrestre, grazie principalmente alla fotosintesi delle foreste, assorbe il 30% delle emissioni di gas serra causate da attività antropiche, per poi immagazzinare il carbonio negli alberi e nel suolo.
Le foreste, soprattutto quelle tropicali, ospitano l’80% della biodiversità globale con centinaia di migliaia di specie ancora da scoprire.
Il ruolo che le foreste svolgono per il sostentamento umano è altrettanto rilevante. Più del 25% della popolazione sulla Terra dipende dalle risorse forestali per vivere, di cui 240 milioni vivono in ecosistemi forestali con cui hanno sviluppato un sistema di conoscenza e tradizioni antichissime.
Nel mondo coprono poco più di 4 miliardi di ettari, il 31% delle terre emerse concentrate nelle zone equatoriali, tropicali, boreali, temperate – dove si collocano le foreste Italiane. Solo un quarto della superficie totale è composto da foreste primarie, ecosistemi che non sono stati ancora alterati dall’uomo.
Tuttavia ora come non mai le foreste subiscono pressioni e minacce che mettono a serio rischio, oltre che la capacità di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, anche la loro resilienza a disturbi esacerbati dai cambiamenti climatici e infine la loro stessa funzionalità. La perdita di superficie forestale è causa del 12-17 % delle emissioni di gas serra globali.
Benché il tasso di deforestazione sia diminuito, dai 16 milioni di ettari annui degli anni novanta ai 10 milioni annui nel 2020, perdite significative si concentrano in Africa, Sud America, in particolare in Brasile, Birmania, Malesia e Indonesia, hotspots di biodiversità. La deforestazione di foreste naturali, ecosistemi complessi evoluti in migliaia di anni, è solo in parte compensata da piantagioni forestali, foreste molto semplificate, in molti casi monocolture costituite da una o poche specie.
Mai come ora è necessario agire per ridurre le principali minacce: deforestazione, frammentazione degli habitat, degrado dell’ecosistema, cambiamento climatico, rischi sempre più gravi anche per le popolazioni che vi vivono.
Eventi sempre più estremi
Eventi estremi come gli incendi colpiscono con sempre maggiore frequenza foreste tropicali e boreali.
La Siberia in particolare è diventata un hotspot climatico a causa di un surriscaldamento più accentuato che nelle zone temperate. Gli incendi nella foreste della taiga siberiana insieme allo scioglimento del permafrost stanno causando oltre che perdite di foreste, fuoriuscite di metano e dei veri e propri mini crateri.
Nel 2020 nella Siberia orientale sono bruciati circa 19 milioni di ettari di foreste boreali, innescati da temperature eccezionalmente alte di 38°C ma anche da inverni e primavere caldi, che hanno seccato i vasti terreni torbosi e li hanno reso molto suscettibile al fuoco.
Nel 2019 ugualmente i satelliti di Copernicus avevano monitorato incendi forestali in Alaska, Groenlandia, nel 2018 in Svezia e nel 2012 c’era già stata una vasta ondata di incendi nella Siberia. Se globalmente gli incendi forestali sono in diminuzione, quello che conta è dove sono ora localizzati, in aree dove non erano frequenti come le regioni artiche, boreali e l’Amazzonia. In quest’ultima vasta regione incendi causati da fattori multipli ascrivibili all’uomo, dalla deforestazione e alla frammentazione dell’habitat unitamente ad alte temperature che rendono la foresta e il materiale lasciato più infiammabile, hanno devastato ampie zone del Brasile negli stati del Parà e del Pantanal. Come spesso succede per il clima, tra riscaldamento dell’oceano e clima ci sono forti correlazioni. Temperature molto alte dell’oceano hanno spostato le precipitazioni lontano dal Sud-America, causando delle condizioni di siccità che hanno interessato le foreste tropicali.
Negli ultimi cinquanta anni è andato perso il 17% della foresta amazzonica. Una delle domande che gli scienziati del clima si stanno ponendo ora è quanta deforestazione e cambiamento climatico può questo vasto bioma tollerare, senza causare una modifica al clima e avviarsi verso un processo irreversibile di conversione in savana, un habitat più secco e impoverito di biodiversità, rilasciando vaste quantità di carbonio nell’atmosfera.
Il climatologo dell’Amazzonia Carlos Nobre e il biologo Thomas Lovejoy – il padrino del concetto di biodiversità - hanno di recente aggiornato le stime allarmanti sulla vicinanza al punto di non ritorno, indicandolo vicino a 20-25% di deforestazione, a causa dell’aumento di incendi e siccità.
Oltre a questi punti di non ritorno o tipping points, che si stanno pericolosamente avvicinando, il bioma amazzonico non sarebbe più in grado di sostenersi e si innescherebbe un processo di conversione in savana con conseguenze sul clima in Sud-America e nel mondo.
Secondo studi recenti, il 40% della foresta amazzonica, a causa di incendi, cambiamento climatico e deforestazione, sarebbe già spacciata e prossima a convertirsi in savana.
Leve di azione contro la deforestazione
Nel mondo 80% della deforestazione è causata da prodotti di uso agricolo, tra cui la carne e la creazione di pascoli per allevamento di bovini inclusa la soia per alimentarli, caffè e cacao, olio di palma, pelle e poche altri prodotti tra cui legname e estrazione mineraria e petrolifera che creano degrado per la frammentazione dell’habitat. Per fermare questo processo ci sono molte leve di azione:
Le foreste in Europa - segnali di crescente fragilità
Nel complesso ci sono alcune buone notizie sul fronte delle foreste europee che sono aumentate di superficie del 9% negli ultimi trenta anni per arrivare a coprire il 38% della superficie europea. Mentre le foreste aumentavano di superficie, volume e la quantità di carbonio stoccato nelle foreste sono aumentati del 50%.
Le foreste europee sequestrano il 10% del totale delle emissioni di gas serra dell’Europa.
La superficie di foreste che godono di qualche forma di protezione in Europa - circa il 24% - è soddisfacente, mentre il 15% gode di forme di protezione speciale indirizzate alla tutela della biodiversità.
I volumi utilizzati sono ancora mediamente inferiori all’incremento – circa il 73% - pur con enormi variazioni tra i Paesi.
Negli ultimi anni c’è stato tuttavia un aumento diffuso nella maggior parte dei paesi europei dei prelievi di legno. Dai dati satellitari in 26 paesi europei dal 2016 al 2018 c’è stato un aumento significativo della perdita di biomassa - del 69% -e un aumento del 34% dell’area media utilizzata. La perdita di biomassa riflette un aumento della domanda di legname e biomassa, cambiamenti nella gestione ma anche perdite per disturbi forestali quali schianti e incendi. Questo fenomeno avviene a scapito di biodiversità, funzionalità dei suoli e della capacità di regolazione dell’acqua. Ci sono paesi che utilizzano tutto l’incremento e anche di più, che praticano la deforestazione come la Finlandia e la Romania. In Francia c’è stata una ripresa della selvicoltura industriale mentre in Italia c’è stato un aumento del prelievo forestale che secondo le stime indicate dal Piano nazionale foreste e clima è destinato ad aumentare nei prossimi dieci anni passando da un utilizzo medio del 30-33 % dell’incremento per arrivare a un 45 %
Lo stesso concetto di gestione forestale sostenibile è applicato in modo molto diverso nei paesi europei, nonostante poi la certificazione e il marchio sui prodotti sia lo stesso.
In generale si rileva un aumento della pressione sulle foreste causato da un aumento della domanda di prodotti legnosi e di biomassa per scopi energetici ma anche da una sempre maggiore diversificazione di prodotti e sottoprodotti utilizzati per l’industria della bioeconomia.
In particolare gli obiettivi molto ambiziosi di traguardo sulle fonti rinnovabili hanno creato degli incentivi perversi di utilizzo massiccio di biomasse legnose, tra cui l’uso massiccio di legname per convertire le centrali a carbone in centrali di cogenerazione.
Se questo prelievo sostenuto continuasse, il ruolo stesso delle foreste europee di mitigazione delle emissioni potrebbe essere compromesso e le perdite di CO2 delle foreste potrebbero richieder degli sforzi ulteriori per raggiungere la neutralità climatica nel 2050.Dovremmo aumentare il già molto complesso percorso per arrivare all’obiettivo di emissioni nette di gas serra pari a zero nel 2050.
Nonostante i paesi europei dichiarino che applicano la gestione forestale sostenibile, tuttavia forme poco sostenibili sono molto diffuse tra cui uso di specie non autoctone, monocoltura, prelievi eccessivi, danno da meccanizzazione pesante. Queste forme di selvicoltura industriale sono aggravate dalla situazione di vulnerabilità in cui si trovano molte foreste.
Parallelamente negli ultimi anni tuttavia sono aumentato i disturbi come schianti da veneto, tempeste e attacchi parassitari su larga scala che insieme a pratiche di intensificazione dei prelievi hanno danneggiato la funzionalità e lo stato di salute di molte foreste europee, in molti casi esacerbati dal cambiamento climatico
È stata osservata una maggiore frequenza di disturbi su larga scala causati da siccità seguita da attacchi di un insetto – l’Ips typographus - che colpisce le foreste di abete rosso. Le foreste di abete rosso dell’Europa centro-orientale ed in particolare in Germania, Austria, Francia, Slovenia, Slovakia e Repubblica Ceca, sono state particolarmente colpite da danni da tempeste, siccità seguite da attacchi parassitari. Il mercato è inondato da milioni di metri cubi di prodotti legnosi di media bassa qualità.
In conclusione, l’utilizzo delle biomasse legnose per raggiungere gli obiettivi climatici non è sempre positivo e deve tener conto di impatti diretti e indiretti sul suolo ed ecosistemi ma anche del tipo di gestione forestale attuata e in generale della funzionalità ecosistemica.
Verso un maggiore impegno collettivo
Gli attuali impegni dell’accordo di Parigi sono profondamente insufficienti per rispettare gli accordi presi, di contenimento dell’aumento della temperatura entro 1,5 C°. Secondo le stime delle Nazioni Unite è necessario quadruplicare gli impegni dei Piani clima presentati dai 190 paesi aderenti. Con gli sforzi attuali il trend di aumento della temperatura ci porterebbe a un aumento di almeno 3,2 C° entro fine secolo.
Nello stesso tempo i Piani di Ripresa post Covid-19 rappresentano una grossa opportunità ma solo meno di dieci paesi a livello globale hanno mostrato coerenza tra gli aiuti pubblici e gli obiettivi climatici. L’Italia ha una posizione non chiara: se da un lato prevede forti investimenti su fonti rinnovabili e idrogeno verde dall’altro lato non c’è un chiaro percorso di uscita della dipendenza dal gas e di eliminazione dei 18 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi.
Il dibattito pubblico non riflette l’urgenza di un cambiamento nei modelli produttivi, di consumo e negli stili di vita. Inoltre c’è un’attenzione molto focalizzata sulla tecnologia, tra cui la geoingegneria, la cattura del carbonio e l’idrogeno verde. L’idea che le tecnologie verdi, che pure sono molto importanti, risolveranno i problemi è altrettanto pericolosa.
Non c’è un vaccino per il clima e i movimenti giovanili ci ricordano che la crisi climatica non è solo economica, politica scientifica ma anche etica.
C’è una stretta finestra di opportunità per imboccare la strada giusta, in cui tutti, anche noi soci del CAAI possiamo fare la nostra parte, diventando degli ambasciatori del clima e del cambiamento. Il contributo maggiore che possiamo dare come cittadini e alpinisti è cambiare le nostre abitudini, agire nella sfera di influenza della nostra vita sociale e partecipare attivamente al dibattito pubblico chiedendo azioni concrete e immediate.
Anche quest'anno gli amanti dell'arrampicata trad saranno contenti di potersi ritrovare e scalare sulle splendide strutture rocciose delle Valli di Lanzo.
Un'occasione da non perdere.
Grazie all'impegno e alla tenacia degli organizzatori è stato approntato un programma ricco e molto vario per l'edizione 2021 di questo appuntamento ormai consolidato.
Leggi il resoconto del meeting 2020
Il Club Alpino Accademico ha creduto da sempre in questa iniziativa e continua a supportarla attivamente come associazione e come singoli soci impegnati nello staff.
Sostengono l'iniziativa assieme a noi anche altre Sezioni del CAI, Scuole di Alpinismo e varie associazioni, tra cui in primis Valli di Lanzo in Verticale, sul cui sito web si possono trovare ulteriori notizie e seguire gli aggiornamenti. Valli di Lanzo in Verticale
Ecco il programma dettagliato del meeting.
IL RADUNO
PROGRAMMA VAL GRANDE IN VERTICALE 2021
Sabato 04 Settembre 2021:
A partire dalle ore 09.00 iscrizioni e consegna pacco partecipazione presso piazzale dietro Albergo Savoia di Forno Alpi Graie;
Arrampicata presso le pareti del Vallone di Sea e della Val Grande, in autonomia e sotto la responsabilità di ciascun partecipante;
A partire dalle ore 10.00 prova gratuita di arrampicata, rivolta in particolare a bambini e ragazzi presso i massi della frazione Balme di Cantoira. A cura della Scuola di Alpinismo Giovanile della sottosezione Cai Chieri;
Corso di arrampicata trad a cura della Scuola Nazionale di Alpinismo “Giusto Gervasutti”. Iscrizione obbligatoria contattando il sig. Tachi Pesando al numero 347/468.58.50;
In base alle condizioni meteo, sabato o domenica, verrà svolta una dimostrazione e prove di gonfiaggio vele di parapendio a cura del Club di Volo Baratonga Flyer e Scuola di Volo ASD Peter Pan in località Forno Alpi Graie (dietro Albergo Savoia). Possibilità di voli biposto (a pagamento);
Ore 16.00, presso Salone delle Feste di Cantoira, via della Chiesa, 28, presentazione del libro “Gian Carlo Grassi un uomo una storia” di R. Mantovani con collaborazione di E. Bonfanti e proiezione in prima assoluta del film “Gian Carlo Grassi un uomo una storia” di E. Bonfanti. Ingresso gratuito;
Ore 18.45 cena presso il ristorante “Cesarin” di località Breno di Chialamberto. Menù fisso. Prenotazione al numero 340/868.52.36 oppure 339/538.74.20;
Ore 21.15 serata “Dalle Alpi alla Groenlandia alla ricerca della parete perfetta” di Federica Mingolla, atleta “La Sportiva”, presso Palazzetto Polifunzionale di Chialamberto, località Cossiglia. Ingresso gratuito.
Domenica 05 Settembre 2021:
A partire dalle ore 09.00 iscrizioni e consegna pacco partecipazione presso piazzale dietro Albergo Savoia di Forno Alpi Graie;
Arrampicata presso le pareti del Vallone di Sea e della Val Grande, in autonomia e sotto la responsabilità di ciascun partecipante;
Corso di arrampicata trad a cura della Scuola Nazionale di Alpinismo “Giusto Gervasutti”. Iscrizione obbligatoria contattando il sig. Tachi Pesando al numero 347/468.58.50;
Ore 9 partenza escursione gratuita con i C.A.I. aderenti a Valli di Lanzo in Verticale. Iscrizione obbligatoria entro giovedì 02 settembre. L’escursione prevista partirà da Vrù, frazione di Cantoira e si differenzierà su percorsi differenti a seconda del livello dei partecipanti. Prevista anche la visita alla Miniera Brunetta. Per info e ritrovo contattare sig. Paolo Schina al numero 335/589.26.63 oppure sig.ra Tiziana Ferrari al numero 339/825.92.35;
Escursione in MTB con destinazione Bec di Mea (sviluppo itinerario: 30 km circa; discesa lungo la Stura sino a Pialpetta; salita a fraz. Rivotti per poi percorrere l’anello Rivotti – Bec di Mea – Alboni e ritorno a Forno – difficoltà MC). Ritrovo: ore 9 presso piazzale dietro Albergo Savoia di Forno Alpi Graie. Escursione aperta anche a e-bike. Casco obbligatorio, bici in ordine e adeguata alla difficoltà prevista. Iscrizioni entro giovedì 02 settembre. Per info contattare sig. Diego Drago al numero 348 550 3818 oppure sig. Guido Apostolo al numero 348 743 1317;
A partire dalle ore 10.00 prova gratuita di arrampicata rivolta in particolare a bambini e ragazzi presso il masso all’ingresso del Vallone di Sea, a cura della Scuola di Alpinismo “Gianni Ribaldone”;
A partire dalle ore 10.00 prova gratuita di arrampicata rivolta in particolare a bambini e ragazzi presso i massi della frazione Balme di Cantoira. A cura della della Sezione Cai di Venaria;
Dalla mattinata esibizione di “slack line” a cura del Gruppo “Torino sul Filo”, in zona Forno A.G.;
In base alle condizioni meteo, sabato o domenica, verrà svolta una dimostrazione e prove di gonfiaggio vele di parapendio a cura del Club di Volo Baratonga Flyer e Scuola di Volo ASD Peter Pan in località Forno Alpi Graie (dietro Albergo Savoia). Possibilità di voli biposto (a pagamento);
Ore 16.30 presso Albergo Savoia di Forno A.G. presentazione del libro “Gian Carlo Grassi un uomo una storia”, di R. Mantovani con collaborazione di E. Bonfanti, con lettura di alcuni passi da parte dell’autore stesso (durata circa 30 min.). Ingresso gratuito;
Ore 17.15 conclusione Val Grande in Verticale presso il parco dell’Albergo Savoia di Forno Alpi Graie con consegna gadget ai partecipanti;
Cena presso Albergo Pialpetta e/o Setugrino di Pialpetta.
Luca Enrico, del CAAI Gruppo Occidentale, ci racconta un viaggio avventuroso in un angolo di Dolomiti grandioso ma poco battuto. Via Tissi/Andrich/Zanetti alla TORRE ARMENA, nelle Pale di San Lucano.
RELAZIONE_TECNICA_Torre_Armena-via_Tissi.pdf
Le foto sono dell'autore.
Questa Jori sull’Agner proprio non vuole farsi salire, almeno da noi, ancora una volta l’amico Santomaso, super “local” di questi posti, ce la sconsiglia. Quei maledetti camini, così profondi, sembra che non vogliano essere mai così tanto asciutti da non infliggerci una grande ravanata. Ma forse la nostra fama in fatto di ravanate è nota fino ad oriente e così il nostro amico agordino ci propone una salita un po’ particolare, sicuramente poco ripetuta (…scopriremo poi il perché) ma che di certo potrebbe riservarci tutte le emozioni che andiamo cercando, solo con la roccia asciutta. Il che in fondo non è poco, strisciare come delle serpi nei camini umidi e fangosi non è mai proprio il massimo, non tanto perché il mio abbigliamento ne patisca più di tanto ma perché ne esci sempre tutto umidiccio, con sta fanghiglia appiccicosa addosso!
La Torre Armena sembra interessante, in fondo si potrebbe anche andare a visitarla, e poi la Valle di San Lucano è sempre bella e di tutte le salite fatte qui serbiamo un bel ricordo. Vioni infiniti, discese lunghe, insomma, giornate sempre vissute in modo pieno e mai scontato, lontane dalla folla di altri gruppi dolomitici, come le Lavaredo, dove per scalare bisogna prendere il biglietto.
Come le altre volte il programma è partire il venerdì pomeriggio (…non dico “sera” solo perché in estate la luce sembra allungare le giornate…), fare la via il sabato, “magari” bivaccare su e rientrare con tutta tranquillità la domenica. E così facciamo, l’appuntamento è sotto casa nostra (mia e di mio fratello) dove si trovano Luca Brunati e il giovane Luigi Sibille, figlio del nostro amico Sergio. Ovviamente l’ora di partenza viene drasticamente posticipata anche questa volta ma così, pensiamo per rincuorarci, non troveremo casino a Milano. In effetti il viaggio fila liscio, tanto liscio che ci viene la malaugurata idea di non fermarci nel solito squallido autogrill ma di uscire nella pianura veneta alla ricerca di una pizzeria. Solo una volta al tavolo ci rendiamo conto che l’attesa dell’agognata pizza si sta prolungando oltre il dovuto…morale usciamo a Belluno che è già notte inoltrata.
Anche autoconvincendosi che dal casello manchino pochi kilometri la strada fino ad Agordo sembra sempre infinita ma finalmente arriviamo nell’ultimo paese abitato prima che la wilderness, per usare un altisonante termine anglosassone, della Valle di San Lucano prenda il sopravvento. Ci fermiamo a prendere acqua. Sotto alla piazzetta, dove sorge la bella fontana, sembra esserci una confortevole tettoia che, però, altro non è che la copertura di alcuni garages…a me non sembra tanto il caso ma un tizio, sopraggiunto per parcheggiare il suo mezzo, ci invita ad usufruire di quel riparo. Seppur un po’ titubante mi sto apprestando ad organizzarmi per ciò che rimane ancora della notte quando una voce dal nulla comincia a sbraitarci addosso per la nostra “violazione di domicilio”. Buttiamo tutto in auto e andiamo nella wilderness agordina.
La mattina l’umidità è terribile, non ci alziamo nemmeno così presto, l’alba è già passata da un po’ ma passa poca gente per di qua, mentre facciamo colazione con un Estathè freddo arriva solo una ragazza con un’Audi lunga dieci metri da cui fa scendere un cane, non c’è altra anima viva. Certo che sono ben selvaggi questi posti ma le grandi pareti che sembrano schiacciarci sono molto affascinanti. La Torre la scorgiamo lassù in alto, difesa da salti e pareti ammantate di mughi.
Dovremmo ricordare da dove parte il sentiero per il bivacco Cozzolino ma c’è un tale sconvolgimento di tronchi abbattuti che le nostre convinzioni per un attimo vacillano salvo essere poi confermate da una scarpetta da arrampicata infilata su un ramo a mò di segnavia. Certo fossimo in altre zone delle Dolomiti magari avremmo trovato cartelli e paline segnaletiche e un sentiero tipo autostrada ben tracciato ma qui no, ci sembra un po’ di essere nella versione orientale delle nostre amate Valli di Lanzo!
Sappiamo che prima del Cozzolino dobbiamo girare a destra e prendere il sentiero che porta alla Forcella del Negher. Ovviamente nel punto che ci sembra proprio quello giusto scende un nevaio con quella neve dura estiva, super compattata e con le nostre scarpe basse da avvicinamento scivoliamo solo a vederla. Che fare? Possiamo sempre traversare all’inizio del nevaio e poi risalire tra i mughi la sponda opposta. Dall’altra parte ci infiliamo in un canale, non si cammina nemmeno così male ma presto iniziamo a lottare ferocemente con i mughi. Tuttavia, ad ogni ramata in faccia, pensiamo che da lì a poco ritroveremo la giusta via. Gli sbiaditi segni rossi li vediamo, peccato però che siano al di là di una forra impenetrabile, e nel frattempo le scarpe di Luigi perdono i pezzi. Cerchiamo la suola di una delle calzature in mezzo alla vegetazione trovandola semi appesa su un mugo, quasi come un addobbo per un Natale ancora troppo lontano. In realtà la raccattiamo più come cimelio storico che altro, o forse per non inquinare la montagna, tanto non sapremmo proprio come riattaccarla. Camminare senza Vibram non è il massimo ma Luigi se la cava bene, almeno fin dove il “bosco” di mughi non diventa quasi verticale. Qui tiriamo fuori la corda che ci serve anche per la successiva breve calata in doppia fatta rigorosamente alla “vecchia maniera”, cioè a spalla. La manovra ha però il vantaggio di depositarci finalmente sulla retta via, poco sotto la Forcella del Negher!
Da qui la camminata sembra persino agevole, il posto è incantevole, davvero fuori dal mondo. Adesso dobbiamo solo riuscire a trovare la “variante” aperta da Emilio Comici con Giorgio Brunner durante la prima ripetizione l’11 giugno del 1931, a soli sette giorni dalla prima salita opera di Attilio Tissi con Giovanni Andrich e Francesco Zanetti. Come fece il grande triestino a scovare questo accesso, per evitare una lotta feroce con i mughi della “normale”, non è dato sapere ma lo ringraziamo.
L’ambiente è magnifico, sembra di essere in un labirinto verticale fatto di cenge, prati sospesi, colletti e crestine, ci insinuiamo sempre di più nel cuore della montagna e finalmente arriviamo alla base della parete su cui passa la “variante Comici”. Sono passate ben 6 ore dalla partenza!
Finalmente calziamo le scarpette da arrampicata, la parete è nerastra, la roccia mediocre e scarse le possibilità di protezione, sto salendo io e con ammirazione penso a Comici, che ben 89 anni prima di me sfiorò queste rocce, con le sue pedule in feltro, la corda legata in vita e una manciata di chiodi che probabilmente manco usò…io invece sono qui a cercare di piazzare un microfriend che non riesco e sudo nel vedere il lasco della corda sotto di me. Ma è il tiro seguente che denota la grande maestria di quel fuoriclasse, il suo grande intuito a fare quella grande traversata così aerea e un po’ illogica, sotto un inconfondibile spuntone giallastro, di quel giallo dolomitico, di un giallo marcio che più marcio non si può. Usciamo dal salto e ci ritroviamo su un prato sospeso di una bellezza senza eguali, davanti a noi la Torre si innalza ora ben evidente e di qui sembra infinita e non quel quasi insignificante torrioncino che appariva dal parcheggio.
Lo zoccolo, o almeno quello che chiamano così, non è così bonario. Partiamo slegati ma presto alcuni passaggi per nulla banali ci convincono a procedere legati, anche se in verità la possibilità di piazzare protezioni è piuttosto scarsa. Continuiamo a salire e non arriva mai l’attacco vero della via, guardando la relazione vogliamo quasi ingannarci ma la realtà e un’altra. Ad un certo punto sbattiamo contro un camino profondo e nerastro, repulsivo. La via attacca con un camino, siamo giusti e sullo spuntone che emerge dal comodo terrazzino dove siamo sistemati c’è un bel fascio di vecchi cordoni.
Parto io, il camino è nero e tutto umido, supero una serie di strozzature e con sgomento mi ritrovo sotto un bombamento strapiombante. Cerco di uscire, strisciando come una serpe, da un buco sul fondo del camino ma è troppo stretto. Sono bagnato e infangato ma riesco a piazzare un buon cordone sulla clessidra formata dal grande masso che ostruisce il camino. C’è niente da fare, devo buttarmi in fuori, superare il bombamento ed afferrare la fessura successiva. E’ larga, non riesco a fare un buon incastro di mano, butto dentro un piede e un braccio e affannosamente cerco un friend che possa andare bene ma che ovviamente ho già piazzato in basso. Mi faccio coraggio e salgo, tanto non ci sono alternative, e mi ritrovo su un terrazzino sul fondo del camino. E’ un posto orrido e fantastico al contempo, la sua volta sembra quella di una cattedrale e dall’alto filtra la luce del pomeriggio ormai avanzato. Tutto è umido, liscio, slavato dall’acqua. Recupero gli altri che si sono legati tutti alla mia corda.
Ma com’è possibile che i primi salitori siano passati da qui? Erano forti, è vero, ma mi sembra strano. Ci riuniamo tutti e quattro e cerchiamo di capire da dove uscire. La possibilità più logica è a destra. Parto di nuovo io e mi trovo fin da subito impegnato a lottare su una specie di lama, più strapiombante e cattiva di quanto sembrasse da sotto. Qui dentro è così buio che gli altri mi illuminano con le frontali. La lama diventa una fessura fuori misura, un camino stretto. Mi ci incastro dentro, sento la roccia comprimermi il petto e la schiena, l’ingombro del casco mi dà fastidio. Sono riuscito a piazzare un n°4 ma mi sento bloccato, non riesco a muovermi, intorno a me è tutto liscio e penso che se mi dovessi spostare da questa posizione precipiterei. Lancio tutta una serie di imprecazioni, poi, come spesso accade in questi frangenti, mi decido in maniera quasi inconsapevole, afferro una tacca sul muro liscio a destra del mio sarcofago, con uno scatto mi sollevo, mi riposiziono con i piedi, riesco a piazzare un’altra protezione e con un ultimo balzo esco da quell’anfratto. Esausto mi siedo sulla bella terrazza ghiaiosa, la nebbia nel frattempo è scesa ma non mi impedisce di vedere che il camino giusto è quello che sale dalla parte opposta, asciutto e bonario rispetto a quello appena salito!
E’ tardi ma decidiamo di salire il successivo facile tiro. Ci ritroviamo su una cengia rocciosa leggermente inclinata. Non è comodissima ma nemmeno così male per il bivacco ormai inevitabile e per di più siamo anche al riparo da possibili pietre, ma tanto non abbiamo scelta. Dobbiamo fermarci qui. Ci infiliamo nei sacchi da bivacco, come sempre all’inizio non sembra nemmeno faccia così freddo. Al mattino la musica cambia. Il sole non viene nemmeno a scaldarci e partiamo intirizziti con le dita fredde e dure. Ma troviamo un vecchio chiodo! Ne troveremo solo cinque in tutto.
La roccia qui diventa bella, la scalata verticale, le possibilità di proteggersi sempre piuttosto scarse. Con ammirazione pensiamo a Tissi, a Comici e ai loro compagni che quasi nove decadi fa salirono da qui, senza possibilità di ritorno. La parete è enorme ma tiro dopo tiro ci portiamo verso l’uscita, fino all’ultimo camino con la roccia dubbia. Usciamo dalle difficoltà, il sole adesso viene a scaldarci.
Ma non è finita, come al solito quando uno pensa già di essere fuori c’è sempre ancora un tiro da fare, un passaggio ostico da superare, un’incertezza di itinerario da decifrare ma, anche questa volta, la vetta arriva. Il tempo sta cambiando, dobbiamo affrettarci perché ci tocca ancora percorrere una cresta espostissima, il vuoto è allucinante, lo sguardo si perde negli strapiombi dolomitici, in quegli imbuti infiniti striati di nero, su pareti e muri fantastici che mai nessuno ha percorso e potrà percorrere, chimere di un primordiale mondo minerale.
Siamo sui ghiaioni, comincia a piovigginare ma dura poco, facciamo il sacco, mangiucchiamo qualcosa, un’ultima risalita sfasciumosa ci porterà sulla via normale dell’Agner. Ma ormai non ha più importanza. Scendiamo, basta scendere. Sotto l’amico Santomaso, ancora una volta, ci darà un passaggio per riprendere l’auto parcheggiata nella Valle di San Lucano. A buon rendere!
La carta stampata, anche nel settore “alpinismo”, ha inesorabilmente ceduto il passo al virtuale.
Ma ci furono esperienze straordinarie e irripetibili che non si possono dimenticare.
Una di queste è sicuramente SCANDERE, rivista nata nel 1949 all’interno del CAI Torino ma diventata ben presto una fucina di nuove idee anche in campo nazionale e non solo.
Ugo Manera ne ripercorre le tappe fondamentali.
Scandere è stata una pubblicazione importante, forse unica nel suo genere che, pur essendo sezionale, spesso è uscita dai confini cittadini affrontando temi generali dell’alpinismo di punta, sia nazionale che internazionale. Sarò un vecchio nostalgico, ma ne sento la mancanza ora che, sulle poche pubblicazioni cartacee sopravvissute, l’alpinismo di punta, a differenza del passato, è quasi scomparso. Fa eccezione l’Annuario CAAI, lunga vita a questa pubblicazione.
Sono anche nostalgico delle pubblicazioni cartacee in genere che progressivamente scompaiono ingoiate da quel mostro mangiatutto che è internet. È pur vero che su internet si trova di tutto, ma di questa immensa mole di informazioni (serie o fasulle) cosa rimarrà nel tempo? Tra 50 anni chi sarà interessato alle storie alpinistiche di oggi riuscirà a ritrovarle e rileggerle in questo astronomico contenitore o saranno praticamente introvabili, ingoiate dal consumismo generale? Io ho una discreta collezione di riviste alpinistiche, quando mi serve qualche cosa, per necessità o per piacere, lo cerco su “Montagne et Alpinism” degli anni ’50 e ’60; sulla ‘Rivista Mensile’ dagli anni ’30 agli anni ’80; su Scandere o sulla ‘Rivista della Montagna degli anni ’70. Gli appassionati del 2070 potranno ritrovare e rileggere le cose di oggi navigando in internet o saranno disperse in un orizzonte inscrutabile perché troppo vasto? Non lo so.
Per questo voglio raccontare un blitz che, esattamente 40 anni fa, in 4 amici, abbiamo condotto per impossessarci di Scandere e dimostrare quali contenuti doveva avere un annuario per essere una testimonianza dell’alpinismo di vertice.
Scandere nasce nel 1949 come annuario della Sezione di Torino del CAI. L’intenzione dei benemeriti promotori dell’iniziativa era di creare una pubblicazione che, oltre a tenere informati i soci delle attività e cariche sociali, desse la possibilità ai soci stessi di pubblicare le proprie storie di avventure di rilievo vissute nella pratica dell’alpinismo e anche dello sci alpinismo. Scandere riprendeva una tradizione della Sezione di Torino che negli anni ’30 aveva pubblicato un interessante notiziario annuale dal titolo: Alpinismo.
Massimo promotore di questa “rinascita” fu Ernesto Lavini che mantenne la direzione della redazione di Scandere fino al 1977 quando la cedette a Gianni Valenza da tempo suo collaboratore.
Scandere nasce con lo scopo primario di illustrare l’attività alpinistica dei soci ponendosi anche come obiettivo quello di incentivare gli stessi a raccontare le proprie avventure vissute in montagna. Pur essendo una pubblicazione sezionale, offre le sue pagine a scalatori di punta che non sono soci della Sezione, come Andrea Mellano e Corradino Rabbi, che appartengono alla Sezione cittadina concorrente: l’UGET.
Scandere mette in primo piano l’alpinismo ad alto livello, seppure in ambito cittadino e locale, concedendo comunque spazio all’alpinismo non estremo ed allo sci alpinismo. Rimane in ogni caso una rivista di stampo prettamente alpinistico che segue l’attività di punta in ambito piemontese con aperture ad imprese di carattere nazionale ed internazionale.
Una rubrica molto gradita ai soci era quella della pubblicazione dell’attività alpinistica dei soci stessi con, in primo piano, l’elenco delle prime ascensioni, prime invernali e prime italiane. Seguivano le ascensioni alpinistiche ed infine quelle sci alpinistiche. Era una importante fonte di notizie che rimanevano fissate nel tempo. Con gli anni però questa rubrica si perse, forse per l’oggettiva difficoltà nel raccogliere le necessarie informazioni. Questo portò ad una certa disaffezione da parte di molti soci, privati dalla possibilità di vedere pubblicata la propria attività.
Tra i numeri di Scandere da citare trova spazio quello del 1961/62 dedicato totalmente alla vittoriosa spedizione andina della scuola Gervasutti al Pukajirka Central guidata da Giuseppe Dionisi e raccontata dalla penna di Arturo Rampini, segretario della Scuola e fedele scudiero del “Capo”: Dionisi.
Altro numero importante è quello del 1963 quando, in occasione del centenario di fondazione del CAI e della Sezione di Torino, Armando Biancardi traccia in modo egregio un’analisi di cento anni di alpinismo torinese.
Ernesto Lavini, nei molti anni di guida della redazione di Scandere, fu sensibile al valore letterario degli articoli, compaiono così articoli di Massimo Mila e quando appare sulla scena Gian Piero Motti non esita ad ospitarlo il più possibile con i suoi scritti sull’annuario; notevole il numero dl 1974 dove Gian Piero illustra magistralmente il nostro nuovo terreno di gioco: i Dirupi di Balma Fiorant in valle dell’Orco.
Gli anni ’70 hanno visto una grande evoluzione dell’alpinismo e della scalata sulle Alpi. Nasce e si sviluppa anche da noi la tecnica di progressione su ghiaccio definita di “piolet traction” destinata a stravolgere la scalata su ghiaccio. Nelle manovre di corda si afferma l’assicurazione dinamica che consente di osare di più e con maggior sicurezza nell’arrampicata. Si sviluppano anche le tendenze già in atto negli Stati Uniti e nel Regno Unito che condurranno all’arrampicata sportiva. In Valle dell’Orco, ma anche altrove, nascono movimenti innovativi nella scalata. Quello a casa nostra viene ricordato come: Nuovo Mattino. Dopo la metà del decennio si fa strada il modo di scalare che Enrico Camanni definirà “Fantalpinismo” con imprese condotte in tempi incredibili e spesso in solitaria.
Noi, che rappresentiamo in quel momento l’alpinismo di punta in ambito torinese, siamo molto attenti a questa evoluzione globale. Cerchiamo di capirla e poi di farla conoscere. Roberto Bianco, sempre intraprendente e determinato, propone di portare a Torino uno dei campioni del nuovo dirompente Fantalpinismo: Jean Marc Boivin. Roberto si mette in azione, contattata Jean Marc e ottenuto il suo assenso, prenotiamo il Teatro Nuovo perché vogliamo realizzare una serata torinese alla grande che attiri alpinisti e semplici amanti della montagna.
A questo punto debbo correggere un’imprecisione nel pregevole libro di Camanni: “Verso un Nuovo Mattino”. L’incontro con Boivin non avvenne al Teatro Nuovo che all’ultimo momento ci venne negato per concederlo a Macario in quanto il teatro che portava il nome del celebre comico era stato chiuso per motivi di sicurezza.
Roberto Bianco andò su tutte le furie ma non si dette per vinto, mobilitò tutte le sue conoscenze e riuscì ad avere Torino Esposizioni per la serata di Boivin. Venne anche allestita una parete in legno sulla quale Jean Marc si esibì con dimostrazioni di progressione in piolet traction. Fu un successo enorme con oltre 3000 persone sedute anche per terra in quel salone non predisposto per tali manifestazioni. Non vi erano solo alpinisti e appassionati di montagna, ma anche rappresentanti del mondo industriale con il quale Roberto aveva rapporti di lavoro. Forse solo motivi di sicurezza impedirono la partecipazione persino dell’Avvocato. Era il 1977.
Il successo di quella serata alimenta il nostro entusiasmo, entusiasmo che investe anche la principale pubblicazione torinese: Scandere. Nel 1976 nella redazione dell’Annuario si affianca ad Ernesto Lavini Gianni Valenza, già suo collaboratore, che l’anno successivo lo sostituisce nella direzione. Valenza, degnissima persona, non ha molti legami con l’alpinismo di punta e adotta un’impostazione diversa con temi che spesso esulano da tale alpinismo. Nello Scandere 1977 compare un suo articolo su Napoleone sulle Alpi di ben 13 pagine ed altre 19 pagine trattano temi che poco hanno da spartire con ogni forma di alpinismo. Proprio in un momento di importanti evoluzioni dell’alpinismo stesso, con tante novità da illustrare e diffondere.
Questa nuova impostazione di Scandere suscita le mie fiere rimostranze in sede di Consiglio della Sezione. Da anni facevo parte del Consiglio ed ora, ad oltre un quarantennio di distanza, debbo ammettere che ero piuttosto rompiscatole, sempre pronto a contestare quelle iniziative che mettevano in secondo piano l’alpinismo.
Ottenuto l’incarico trasciniamo nell’avventura Gian Piero Motti e Corradino Rabbi e ci avvaliamo della collaborazione di Costantino Piazzo, tutti membri del Club Alpino Accademico. Parte l’operazione condotta in primo luogo da Bianco che si scapicolla nel procurarsi articoli da alpinisti internazionali di alto livello.
Troviamo ovunque interesse e collaborazione, riusciamo a mettere insieme molti articoli che rappresentano l’attualità alpinistica, nasce così Scandere ’79 che dà tanto spazio all’alpinismo di punta. L’annuario ha successo e trova ampio consenso ma occorre rientrare dalle spese, bisogna vendere tante copie per pareggiare i conti, così iniziamo un lungo giro nelle sedi CAI del Nord Italia in una formazione a 4, ognuno con compiti definiti: Gian Piero funge da autista alla guida del suo fuoristrada Toyota, Rabbi presenta una breve serie di diapositive 6x6 con immagini alpine di alta qualità, io presento una ampia esposizione di diapositive 24x36 relative ad attività alpinistica, Roberto si occupa dell’organizzazione delle serate, della vendita dell’Annuario, e funge da cassiere.
Vendiamo molte copie, copriamo tutte la spese ed alla fine dei conti ci troviamo con un utile che, su proposta di Roberto, investiamo in una gran cena per noi quattro in un ristorante stellato Michelin, soddisfatti ed allegri.
Scandere 1979 ebbe grande successo ma la nostra era stata una dimostrazione ed il nostro piccolo gruppo non aveva nè la possibilità nè la volontà di continuare l’esperienza. Quell’esperimento però aveva suscitato molto interesse così la Sezione di Torino decise di continuare sulla strada da noi indicata trovando un accordo con il Club Alpino Accademico e la Rivista della Montagna e Scandere 1980 fu nuovamente un bel numero. I problemi finanziari si fecero però sentire visto che non poteva essere ripetuta l’iniziativa di diffusione da noi attuata l’anno precedente così il numero che seguì raggruppò due anni: 81/82 e venne prodotto in collaborazione con il CDA abbinando il nome di Scandere a quello dell’annuario alpinistico del CDA: Momenti di Alpinismo.
Anche questa soluzione non risultò definitiva e Scandere sarebbe finito se non scendeva in campo il Museo della Montagna nella persona del suo direttore. Aldo Audisio che, formato un comitato di coordinamento composto dallo stesso Audisio, da Manera Ugo e Gian Piero Motti diede vita a quella serie caratterizzata da immagini di copertina su sfondo nero cara ad Audisio.
Quella serie durò diversi anni e produsse numeri di grande interesse tra i quali quello del 1983 che fu l’ultimo impegno di Gian Piero Motti che, con l’articolo “Arrampicare a Caprie” sembrava preannunciare un addio all’alpinismo ed al mondo.
La serie sotto l’egida del Museo della Montagna continua con gli Scandere 1984, 1985, 1986 poi Audisio, sommerso da altri impegni, lascia il coordinamento. Nel 1987 escono due numeri sottoforma di supplemento della rivista della Sezione: Monti e Valli e per il 1988 il coordinamento viene assunto da Nanni Villani. Sono però soluzioni transitorie ed i risultati non sono all’altezza della tradizione, così Audisio torna a dirigere la redazione avvalendosi della collaborazione di Franco Ribetti e produce altri cinque numeri di ottimo livello fino al 1996 quando decide definitivamente di uscire scindendo Scandere dai destini del Museo della Montagna.
Scandere sopravvive ancora per un numero, Il CAI Torino tenta di continuare con l’Annuario 1997/99, lontano dal livello delle edizioni precedenti, ma con questo numero termina la vita di Scandere.
E’ in consegna in questi giorni il funzionale capo di abbigliamento a marchio Grande Grimpe confezionato su misura per i soci del C.A.A.I.
La nostra associazione ha sempre dato importanza primaria alla qualità dei soci e alla loro attività, ma visto che anche la forma si lega spesso alla sostanza, crediamo che questa iniziativa possa alimentare lo spirito di appartenenza e aumentare la visibilità esterna dei nostri soci.
Dietro ognuno di questi pile una storia alpinistica importante e una visione dell’alpinismo ricca di contenuti e di valori.
Un ringraziamento particolare ai soci Ennio Spiranelli e Domenico Chindamo
Storie semiserie nel racconto di Ugo Manera
Tutte le foto, salvo citazione specifica, sono dell'autore.
IL CAPORAL
Quando nel lontano autunno del 1972 mi venne in mente di denominare scherzosamente Caporal la prima parete scalata sugli allora sconosciuti “Dirupi di Balma Fiorant” della Valle dell’Orco, non pensavo proprio che quel dirupo divenisse celebre come lo è ora. L’idea del nome mi era sorta pensando al gigantesco scoglio della californiana Yosemite Valley: il celeberrimo Capitan; solo che il nostro, pur bellissimo, era notevolmente più piccolo ed andava ovviamente posto ad un livello più basso della scala gerarchica.
Perché storie semiserie?
Perché le nostre avventure su quei dirupi furono sempre vissute con allegria, a volte in modo poco razionale, ma lontane da atteggiamenti epici che ancora comparivano in alcuni aspetti dell’alpinismo di allora. Il nostro era un gioco condotto con determinazione ma con spirito fanciullesco anche se non eravamo più ragazzi.
La storia del Caporal e dintorni è strettamente legata al Club Alpino Accademico; a condurre le due cordate che vi aprirono la prima via, Tempi Moderni, furono due accademici: Manera e Motti così come erano Accademici i tre che tracciarono la prima via sulla Parete delle Aquile: Manera, Rabbi, Sant’Unione. Dei quattro che scalarono poi per primi la Parete dei Falchi due erano accademici: Manera, Sant’Unione.
Lo scopritore del Sergent, Gian Carlo Grassi, era allora accademico e diede tale nome alla nuova parete per rivendicare amichevolmente un titolo di superiorità nei confronti del nostro Caporal.
Grande successo hanno avuto poi gli International Trad Climbing Meeting voluti ed organizzati su quelle pareti dal Club Alpino Accademico.
In quel microcosmo di ottimo gneiss granitico, di roccia da scalare ve ne era tanta e poneva molti problemi da risolvere agli scalatori. Le prime 10 volte che sono andato lì è stato per aprire nuove vie, poi ho cominciato a ripetere itinerari già esistenti. Alcune di quelle aperture sono state delle vere avventure, a volte non molto razionali ma belle da raccontare.
La Scoperta
Sul finire degli anni ’60 il sodalizio alpinistico tra Gian Piero Motti e me si fece più saldo, ci eravamo conosciuti nell’ambito della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, ambedue entrammo a far parte dell’organico istruttori nel 1965, io invitato per la precedente attività alpinistica, Motti perché aveva superato brillantemente i corsi della scuola e contemporaneamente aveva espletato una cospicua attività alpinistica individuale. Io ero più vecchio di 7 anni, avevo una sconfinata voglia di scalare pareti e montagne difficili, voglia che dovevo mediare con impegni di famiglia e di lavoro. Gian Piero proveniva da una famiglia benestante, tra i giovani fu il primo a poter disporre di un’auto propria: inizialmente una 500 ma presto una FIAT 850 Coupé, più consona ai suoi gusti. A chi non lo conosceva appariva determinato, anche un po’ spavaldo, era generoso e disponibile ma nelle discussioni tagliava corto se trovava l’interlocutore noioso. Si impegnò seriamente con la scuola di alpinismo e con la precisione e competenza che lo hanno sempre distinto, preparò una bellissima serie di dispense per gli allievi. Il suo modo di vivere e qualche suo atteggiamento nell’agire gli valsero il soprannome di “Principe”, coniato forse da qualcuno che nei suoi confronti provava un po’ di invidia.
Nell’ambito della scuola cominciammo a discutere di montagne e lentamente scoprimmo di avere obiettivi in comune ed anche la nostra visione etica dell’alpinismo aveva molte similitudini. Gian Piero leggeva le pubblicazioni alpinistiche che provenivano dagli USA e dal Regno Unito e seguiva molto ciò che succedeva al di là delle Alpi: in Francia.
Aveva scoperto una visione della scalata diversa da quella della nostra tradizione ancora influenzata dalla concezione romantica dell’alpinismo eroico di origini italo germaniche. Si potevano affrontare le massime difficoltà con preparazione tecnico-sportiva, spogli dalla visione drammatica che in passato sembrava aver accompagnato le grandi imprese. Io non leggevo le riviste in lingua inglese ma divoravo tutto quello che si scriveva di alpinismo in Italia e Francia, avevo poco tempo a disposizione ed un’infinità di progetti. La visione della “Montagna scuola di vita”, se mai mi aveva sfiorato, era scomparsa completamente dai miei pensieri. Lontanissima da me era poi l’idea dell’alpinismo eroico e gran parte del mio studio e preparazione tecnica era improntata a ridurre i rischi che comunque l’alpinismo delle grandi difficoltà richiede di affrontare. Già provavo qualche senso di colpa nei confronti dei miei familiari per cui non intendevo cedere a nessuna spinta eroica nel conquistare i miei obiettivi alpinistici. Ciò che ci accomunava era il desiderio della scoperta: posti nuovi ove vivere l’avventura, non necessariamente solo in alta montagna, l’avventura si trovava anche sui fianchi delle valli e, possibilmente, volevamo anche viverla in allegria.
Dalle chiacchiere passammo all’azione pratica, cominciammo a combinare qualche scalata insieme. In quegli anni, oltre le notizie sul Capitan e dintorni arrivarono dall’America innovativi materiali tecnici quali: chiodi in acciaio trattato, sottilissime “rurp”, “bong bong” in alluminio, cliffhanger.
Gian Piero ci portò a scoprire i tesori nascosti della sua valle: la Valle Grande di Lanzo, egli l’aveva girata in lungo ed in largo fin da bambino, conosceva tutte le rocce che si potevano scalare, così iniziò il periodo molto allegro del Bec di Mea con merende serali nella “piola” da Cesarin a Breno. Gian Piero ed io, indipendentemente l’uno dall’altro, cercavamo qualche cosa che andasse oltre tutto quello che era stato fatto in falesia prima di noi. Aprimmo nuove vie alla Rocca Sbarua ed al Plu ma il risultato non ci appagava. Nella valle Grande di Lanzo tutto era molto bello ma nè il Bec di Mea, nè il Bec di Roci Ruta ed ancor meno la Rocca di Lities rappresentavano l’obiettivo che stavamo cercando: troppa poca era la differenza rispetto a ciò che già era stato fatto in precedenza. Nelle mie fantasie continuavo a domandarmi ove cercare un obiettivo degno e certamente Gian Piero si poneva le stesse domande.
Un giorno mi si accese la classica lampadina: le pareti sopra i tornanti della strada per Ceresole Reale! Tante volte le avevo guardate diretto nel Gran Paradiso ma senza formulare progetti di scalata; erroneamente immaginavo che su quei liscioni granitici si potesse progredire solo con grande impiego di chiodi a pressione, tipo di scalata che a me non interessava. Le esperienze fatte con Gian Piero, alla ricerca di nuovi obiettivi in falesia, unitamente alle conoscenze apprese leggendo riviste americane, inglesi e francesi, cambiarono il mio punto di vista e quasi improvvisamente mi scoprii convinto che i dirupi di Balma Fiorant potevano essere scalati grazie al bagaglio tecnico da noi acquisito e senza l’indiscriminato uso del perforatore. Immediatamente fui preso dalla frenesia di passare all’azione. Un giovedì sera mi recai nella sede CAI Torino determinato a trovare un compagno per organizzare un tentativo. Entrando nei locali di via Barbaroux 1 intravvidi subito Gian Piero, era indubbiamente il miglior candidato possibile a cui proporre il mio progetto. Come iniziai a parlare egli scoppiò a ridere e mi confessò che due giorni prima si era recato alla base di quelle rocce animato dai miei stessi propositi per scoprire una linea possibile di salita e che credeva di averla individuata. Non fu necessario aggiungere altro, passammo subito al progetto esecutivo: ci accordammo sui materiali e concordammo sull’opportunità di trovare altri due compagni in modo da attaccare divisi in due cordate.
Era un periodo autunnale di tempo splendido così la domenica successiva, lasciata l’auto sui tornanti della strada che sale a Ceresole Reale, ci avviammo in quattro verso i dirupi di Balma Fiorant seguendo il percorso trovato da Motti pochi giorni prima. A noi due ideatori del progetto si erano aggiunti Guido Morello ed Ilio Pivano. Ci portammo nel punto di attacco individuato da Gian Piero e, impazienti di passare all’azione, mi legai con Motti ed il mio compagno si avviò per il primo tiro lungo una serie di fessure piuttosto umide. Piantò numerosi chiodi e si fermò su un piccolo ripiano; io lo raggiunsi lasciando i chiodi per la seconda cordata e, quasi con impazienza, proseguii per il secondo tiro mentre Morello, in testa alla seconda cordata, raggiungeva Gian Piero in sosta. Toccava ad Ilio chiudere la processione, ma fatti pochi metri, imprecando, ci dichiarò che su di lì non sarebbe salito e si fece calare. Non restava altro da fare che legare Guido ad una delle nostre corde, lasciare in loco chiodi e moschettoni usati nel primo tiro e proseguire in cordata da tre.
Gian Piero condusse il terzo tiro poi toccò a me superare una bella e difficile lunghezza che ci portò alla base di una liscia placca compatta senza fessure. In previsione di un ostacolo di quel genere Motti si era portato un punteruolo e tre chiodi a pressione, armato di tali attrezzi si avviò lungo la placca compatta, salì fino a quando sentì la necessità di proteggersi poi, in posizione precaria, iniziò a battere sul punteruolo per praticare un foro atto a ricevere un chiodo a pressione. Alla terza martellata il punteruolo gli sfuggì di mano e precipitò tintinnando lungo la parete. Non avevamo punteruoli di ricambio e ci trovammo così come “tre uccelli su un ramo”, per usare una espressione tipica del nostro simpatico amico Carlo Carena detto “il Carlaccio”.
Non ci rimaneva che apprestarci a ridiscendere in corda doppia con le pive nel sacco quando udimmo una voce che ci chiamava dall’alto. Con eccezionale preveggenza Pivano era salito lungo il canalone che costeggia la parete raggiungendone la sommità e, con ammirevole intuito, si era portato appresso due corde e non solo. Legò insieme le due corde, le fisso ad un larice e le calò lungo la parete nella nostra direzione, Così ingloriosamente conquistammo la sommità del dirupo con salita a mezzo nodi Prusik.
Allora io avevo l’abitudine di portarmi appresso, fino alla base della parete ovviamente, una bottiglia di barbera di pregio che io stesso imbottigliavo. Ilio, con abnegazione e coraggio, insieme alle corde, si era portata in cima la mia bottiglia così festeggiammo immeritatamente con brindisi abbondante la nostra conquista abusiva dei dirupi di Balma Fiorant.
Due settimane dopo Gian Piero ed io eravamo nuovamente lì per completare l’opera. Non c’erano più con noi i due amici del primo tentativo; il loro posto era stato preso da Vareno Boreatti e Flavio Leone, ci accompagnava la allora fidanzata di Flavio: Giuse Locana, una ragazza in gamba e spiritosa, purtroppo portata via poi dal solito male. Ci avrebbe atteso alla base e sue sono le due foto delle due cordate in azione, comparse in molte pubblicazioni.
Gian Piero attaccò per primo in cordata con Boreatti, io seguii legato con Leone. La salita si svolse senza intoppi, saggiamente avevamo portato un punteruolo di ricambio ma fu necessario un solo chiodo a pressione sulla placca che aveva fermato il primo tentativo. Toccammo la sommità in preda ad un entusiasmo esagerato, soprattutto da parte mia e di Gian Piero, avevamo finalmente dato inizio al nostro Nuovo Mattino.
Ritornati alla base, dove ci attendeva Giuse, brindammo, questa volta meritatamente, con la solita barbera. Nell’allegria generale ci ponemmo il tema di dare dei nomi alla nostra scoperta: Gian Piero aveva già in testa il nome dell’itinerario aperto: la Via dei Tempi Moderni. Io feci un piccolo scherzoso ragionamento sul nome da dare alla parete: Il nostro monolite non era meno bello dello Yosemitiano Capitan, era solo molto più piccolo ed allora lo potevamo collocare in una scala gerarchica più Bassa: se quello era Capitano, il nostro poteva benissimo essere un Caporale. La mia proposta piacque all’unanimità e Caporal fu.
PARETE DELLE AQUILE
VIA DELLA DOPPIA P…
Una componente non trascurabile della mia lunga “vita” alpinistica è sempre stata quella del divertimento e dell’allegria; non sono mancati attimi con toni drammatici, ma questi sono una costante nell’alpinismo delle grandi difficoltà e spesso contribuiscono ad arricchire il piatto dei ricordi, come il formaggio grana sulla pasta asciutta.
Sarà forse stata incoscienza creata ad arte, ma quasi sempre la scalata era accompagnata dallo scherzo, dallo sfottò, dalla presa in giro di presenti ed assenti e da canzoni massacrate in modo abominevole. Dal periodo delle allegre salite con Carlo Carena detto “Il Carlaccio”, bersaglio non indifeso delle nostre battute, alle tante scalate con Gian Piero Motti ove cercare l’occasione per la risata era quasi d’obbligo.
Un luogo ove, nel corso dell’apertura di tante nuove vie, non sono mancate situazioni ridicole, fino a sfiorare il paradosso, è il Caporal. Quel formidabile complesso roccioso della valle dell’Orco, che, prima della nostra scoperta, già possedeva uno sconosciuto nome locale: dirupi di Balma Fiorant.
Acquistò grande notorietà a partire dal 1972 quando divenne la nostra “piccola California”; successivamente passò in secondo piano con l’avvento dell’arrampicata sportiva e degli itinerari attrezzati a spit e fix salvo poi ritornare alla grande in data recente, con i meeting di arrampicata Trad organizzati dal Club Alpino Accademico. Ora è conosciuto universalmente ed è facile trovarvi più scalatori stranieri che italiani.
Condite con un po’ di nostalgia mi è venuto voglia di raccontare qualcheduna di quelle storie semiserie come la “Via della Doppia P…” alla Parete delle Aquile, del novembre 1982. Ero in compagnia di Franco Ribetti ritornato alla grande alle scalate; eravamo allora ambedue scafati ultra quarantenni ma la nostra fu un’impresa esemplare da incoscienti pivelli.
Franco negli anni ’50 era “l’enfant prodige” dell’alpinismo torinese; nipote di Giuseppe Dionisi, fondatore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, venne guidato dallo zio alla scuola: a 13 anni era già allievo ed a 16 anni istruttore; la paura era per Franco quasi sconosciuta ed alcuni passaggi da lui superati per primo sui massi delle Courbassere, preludio torinese al moderno Bulder, rasentavano la temerarietà. Legato da grande amicizia con Guido Rossa, di qualche anno più vecchio, oltre alle scalate, insieme ne combinarono di tutti colori guidati da spirito dissacrante e scherzoso.
Nel 1960, all’attacco di una via sulla parete nord dell’Uja di Mondrone, nel corso di un’uscita della scuola di alpinismo, Franco scivolò sulla roccia resa umida da recente pioggia e si fece 40 metri di caduta rotolando sulle balze e finendo su una lingua di neve che, probabilmente, gli salvò la vita. Ne uscì con fratture multiple e lesioni interne. Non era ancora l’epoca dei soccorsi con elicottero e venne trasportato a valle adagiato su una scala a pioli a mo’ di barella, reperita in una grangia.
Impiegò due anni a guarire, provò a riprendere l’arrampicata ma poi decise di smettere con l’alpinismo continuando però con lo sci alpinismo, la bicicletta, la corsa a piedi. A metà circa degli anni ’70 suo zio Dionisi, sempre impegnato ad organizzare spedizioni nelle Ande Peruviane, lo convinse a partecipare ad una spedizione; l’evento risvegliò la sua passione alpinistica e riprese a scalare.
Allora io facevo parte della direzione della scuola Gervasutti, prima come vicedirettore, poi come direttore, Dionisi, che aveva ancora legami con la scuola pur essendo uscito dall’organico istruttori, mi disse che Franco era ritornato alle scalate e che andava forte come prima del lontano incidente. Io gli proposi subito di convincerlo a rientrare nella scuola e Ribetti ritornò tra di noi con una grande voglia di recuperare gli anni perduti.
Io ero alla perenne ricerca di compagni di cordata per realizzare i miei obiettivi, al vedere tanto entusiasmo in Franco, gli proposi presto di combinare una salita per conoscerci meglio e per collaudarci a vicenda. La nostra prima salita insieme fu un po’ particolare: Una via nuova di roccia su una parete nord alta quasi 1000 metri in inverno. Era il mese di gennaio del 1982 e la parete la Nord dell’Albaron di Sea in valle di Lanzo. Un bivacco in parete e l’uscita in vetta sotto una nevicata. Fummo soddisfatti dell’impresa ed il sodalizio era formato, da allora innumerevoli furono le salite effettuate insieme. Io avevo una fissa per la scoperta del terreno nuovo che rasentava la paranoia, Franco non poneva mai limiti ai miei progetti ed era disponibile a tutto: il compagno ideale.
Ma ritorniamo a Balma Fiorant ed alla Parete delle Aquile: la parete era stata salita per la prima volta da me con Corradino Rabbi e Claudio Sant’Unione ed il nome era scaturito dal fatto che allora la parete era abitata da due aquile che ci giravano intorno mentre noi salivamo sotto il loro nido. Successivamente su quella parete tracciai altre tre vie con compagni diversi; c’era ancora un settore caratterizzato da muri grigi e strapiombi che mi incuriosiva. Era ormai stagione avanzata: il mese di novembre 1982. Franco accolse la mia proposta senza esitazione così un sabato dal tempo incerto partimmo da Torino all’alba che già cadeva qualche goccia di pioggia. Il nostro ottimismo era però senza confini. A Rivarolo qualche dubbio si affacciò in noi e decidemmo di telefonare ad un bar a Ceresole Reale per informazioni sulle condizioni locali del tempo. Ci risposero che tra le nuvole c’era qualche squarcio di sereno, fu sufficiente per noi, malgrado tutto era la giornata giusta. Lasciammo la vettura al solito posto sui tornanti della strada di Ceresole e ci avviammo senza più badare alle condizioni meteo; eravamo carichi di materiale e per economizzare sul peso non prendemmo nessun indumento oltre a quelli che avevamo indosso. Trovammo l’attacco logico della nuova via ove avevo previsto ed iniziai io lungo un vago diedro con fessure superficiali di difficile chiodatura. Salii parte in artificiale e parte in libera fino ad un discreto ripiano. Sopra di noi si scorgevano muri grigi compatti con qualche ruga superficiale, Franco si avviò cercando le zone più arrampicabili; dopo 5 metri cercò di piantare un chiodo ma non vi riuscì, proseguì 10 metri; non so lui ma io cominciavo a preoccuparmi, lo esortai a piazzare una protezione ma non vi riuscì, le chiodature complesse non sono mai state la sua specialità, preferiva proseguire arrampicando piuttosto che fermarsi in posizione precaria ad infiggere qualcosa nelle crepe superficiali della roccia. Non era più possibile ritornare in dietro, bisognava andare avanti fino a trovare una fessura; rividi in azione il Ribetti giovane senza paura. Finalmente trovò una fessura per un chiodo, era ad oltre 15 metri dalla sosta, tirai un sospiro di sollievo.
La salita proseguì sempre molto impegnativa, il tempo volava e noi non ce ne rendemmo conto. Franco raggiunse un microscopico ripiano in mezzo ad un’enorme placca sormontata da tetti e fece sosta. Io lo raggiunsi e continuai lungo un vago spigolo sulla sinistra, solcato da fessure che portava sotto un marcato tetto. La progressione fu lenta, prevalentemente in artificiale, con ampio impiego di materiale. Quando arrivai sotto i tetti mi accorsi con sorpresa che era quasi buio e stava calando la notte; Franco dalla sua scomoda sosta mi gridò: << Cosa facciamo adesso >>. Oltre a non avere indumenti aggiuntivi non avevamo, naturalmente, neanche portato le pile. Risposi: << Non ci resta che aspettare l’alba battendo i denti >>. Il terrazzino di Franco era piccolo ma almeno poteva sedersi, io invece ero sulle staffe appeso ai chiodi. Cominciò una interminabile notte di novembre. Il cielo, nero dalle nubi, decise di inasprire la nostra meritata punizione e ad un tratto iniziò a piovere. Io ero riparato dal tetto che mi sovrastava mentre Franco era colpito in pieno da un rivolo d’acqua che cadeva dagli strapiombi, in breve si trovò completamente inzuppato.
A circa metà della notte la pioggia si trasformò in nevischio con un brusco calo della temperatura, in breve la parete bagnata si ricopri di un velo di ghiaccio, la nostra situazione cominciava a diventare preoccupante soprattutto per Franco i cui vestiti fradici cominciavano a trasformarsi in uno scafandro di ghiaccio. Una drammatica invocazione mi raggiunse nella buia notte: << Ugo se non ci muoviamo io muoio assiderato, ho i piedi insensibili e non riesco più a muovere le gambe >>.
Bisognava per forza fare qualche cosa: a tentoni mi slegai ed unii le due corde, le fissai all’ancoraggio ove ero appeso, mi misi in posizione di discesa a corda doppia e, staccatomi dall’ancoraggio, cominciai a scendere liberando man mano le corde dai chiodi e nuts che avevo fissato per salire, ancoraggi che rimasero in parete. Le corde erano gelate e la roccia ricoperta da verglas, tanto che, come appoggiavo i piedi, scivolavo e pendolavo appeso alle corde. Pazientemente, dopo numerosi pendoli, riuscii a raggiungere il mio compagno. Io mi ero riscaldato un po’ con tutte quelle manovre ma Franco era talmente intirizzito da non riuscire a muoversi. Ricuperai le corde e sistemai una seconda calata, ma il mio socio non era in grado di scendere autonomamente così lo legai al capo di una corda, lo spinsi nel vuoto e lo calai appeso usando come freno il mezzo barcaiolo e dicendogli: << quando trovi un ripiano o cengia che ti consente di stare in piedi senza cadere fermati che ti raggiungo >>. Il tutto nella più completa oscurità. Cosi fece ed io lo raggiunsi in corda doppia. A tentoni trovai delle fessure che chiodai per l’ancoraggio della doppia successiva. Ripetemmo l’operazione laboriosa ma con maggior tranquillità perché Franco, grazie al movimento, si era un po’ riscaldato e riusciva a collaborare. Cominciò ad affiorare qualche battuta sulla nostra tragicomica situazione. Un’ ultima calata ci portò quasi alla base, la corda era però finita ed il mio compagnò si trovò appeso a sfiorare il terreno, era ancora buio, valutò che gli mancava meno di un metro a toccare e mi disse di mollarlo, così feci ed egli si trovò a terra tra i massi e senza danni. Con le manovre ormai collaudate scesi anch’io e toccai la base mentre cominciava ad albeggiare.
Franco aveva ancora i piedi insensibili ma aveva riacquistato la mobilità; i massi della pietraia erano coperti da un velo di ghiaccio ed era impossibile reggersi in piedi, cominciammo a scendere praticamente a quattro zampe ma finalmente eravamo sani e salvi fuori dai guai. Divallammo molto lentamente e quando raggiungemmo la strada di Ceresole era giorno fatto. Anche la strada era coperta da un insidioso velo di ghiaccio ed era totalmente deserta; un rumore d’auto ci testimoniò che, malgrado il tempo infame, qualcheduno stava salendo. << Vuoi vedere che stanno cercando noi? >>. Dissi al mio compagno. Infatti, erano Enrico Pessiva e Claudio Sant’Unione che, allarmati dai famigliari, si erano mossi alla nostra ricerca.
Con la consueta sua schiettezza Claudio, come ci vide integri, ci apostrofò: << Siete proprio due Pirla >>.
L’avventura era finita bene nostro malgrado, risultò che Franco non aveva congelamenti ai piedi, ma la nostra via non era finita ed inoltre avevamo lasciato del materiale in parete, così nella primavera successiva ritornammo con Sant’Unione alla Parete delle Aquile. Dalla cima scendendo in doppia, raggiungemmo il terrazzino ove tanto aveva sofferto Franco e completammo la via ricuperando il materiale che era rimasto in parete. Ritenemmo il suggerimento di Claudio giusto per cui denominammo la nuova via: “Via della Doppia P….” con chiaro riferimento ai due poco saggi protagonisti.
Ugo Manera
PARETE DELLE AQUILE
INCOMPIUTA
PREMESSA
Una domenica sera di molti anni fa, di ritorno da una scalata con Franco Ribetti, ricevetti una telefonata da un amico che, con la voce rotta dall’emozione, mi comunicava che Isidoro Meneghin era caduto alla Rocca Sbarua. Con Franco ci precipitammo all’ospedale dove la sorella di Isidoro ci disse che il fratello era talmente grave che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Cessò di vivere infatti poco dopo mentre lo trasferivano da un reparto all’altro. Con Isidoro avevo compiuto innumerevoli scalate, sempre alla ricerca di nuovi problemi da affrontare e risolvere. Era un personaggio particolare, tendenzialmente solitario e per vari aspetti introverso ma, al di là delle apparenze, attento osservatore degli aspetti sociali della vita. Nelle tante ore passate insieme sulle pareti, a volte durante scomodi bivacchi, abbiamo discusso molto, non solo di scalate ma di tutti gli aspetti del vivere quotidiano.
17 Febbraio 2017, da un notiziario radiofonico apprendo che sullo Chaberton, in Valle di Susa, in tre erano morti, travolti da una slavina, tra di essi una guida alpina di Torino. Poco dopo vengo a sapere che la guida era Adriano Trombetta, e con lui c’erano: Antonio Lovato, istruttore della scuola di alpinismo G. Gervasutti e Margerita Beria, maestra di sci.
Conoscevo bene Adriano e tante volte abbiamo parlato di scalate, sempre in modo scherzoso ed allegro. Abbiamo scalato una volta sola insieme sulla Parete delle Aquile sopra al Caporal.
Proprio della Parete delle Aquile voglio raccontare, di una via che accomuna, a molti anni di distanza, questi due sfortunati amici che occupano un ruolo importante nella storia dell’alpinismo torinese.
….e rimase Incompiuta
Se si parla dei Dirupi di Balma Fiorant nessuno sa di cosa si tratta né dove si trovano, se invece nominiamo il “Caporal”, l’universo degli arrampicatori sa benissimo dove collocarlo sia geograficamente che nel contesto storico; ebbene sono la stessa cosa, solo che il primo è un nome locale che identifica l’insieme di dirupi tra i quali si colloca la parete del Caporal ed il secondo invece è l’appellativo alpinistico da me coniato nell’ottobre 1972 sull’onda dell’entusiasmo conseguente alla prima ascensione di quel magnifico scoglio. Da come si evince dall’introduzione, Balma Fiorant comprende, oltre al Caporal, altri importanti dirupi che successivamente presero nomi altisonanti come: “Parete delle Aquile” e “Parete dei Falchi”.
La scoperta del Caporal l’ho già raccontata, ora mi soffermo un attimo sulle altre due. Come per il più celebre Caporal, anche la denominazione: “Parete delle Aquile” fu opera mia. Quando con Dino Rabbi e Claudio Sant’Unione tracciammo la prima via su quel formidabile dirupo, sopra di noi, per tutto il giorno, volteggiarono due grandi aquile, avevano il nido in uno stretto camino che noi evitammo per non arrecare disturbo ai maestosi volatili e, passando poco al di sotto del nido, raccolsi una lunga e bella piuma che ancora conservo. Quando successivamente mi accinsi a stendere la relazione della nuova via la scelta del nome della parete fu praticamente obbligata.
La “Parete dei Falchi” fu così denominata (credo da Isidoro Meneghin) non perché abitata dai falchi ma semplicemente perché più piccola e più in basso di quella delle aquile; quasi un senso di dovere nel rispetto delle gerarchie.
Negli anni che seguirono il 1972, in quell’angolo della Valle dell’Orco, divenuto ormai celebre tra gli arrampicatori, la mia attenzione fu costantemente monopolizzata dall’apertura di nuovi itinerari, spesso in competizione con altri scalatori. Sulla Parete delle Aquile aprimmo tre itinerari di cui almeno uno di grande respiro: la “Via del Plenilunio”; ma non ci bastava, cercavamo altre linee sempre più ardite. Con Isidoro Meneghin individuai una possibilità nella zona più ripida della parete lungo una linea di diedri rossastri tra grandi strapiombi. All’apparenza sembrava veramente un osso duro per cui ci armammo del miglior materiale tecnico a nostra disposizione ad eccezione del punteruolo perché avevamo scelto di non praticare fori nella roccia, e partimmo per un tentativo, era il 1979.
Carichi di ferraglia salimmo il disagevole canalone che porta sotto la parete e dopo un passaggio delicato raggiungemmo un terrazzo erboso alla base di un diedro obliquo dall’aspetto ostico che saliva verso gli strapiombi giallo-rossastri. Attaccai io ma subito mi trovai in difficoltà perché l’accenno di fessura sul fondo era completamente cieco. Dovetti ricorrere a tutta la mia esperienza di chiodatore usando micro lamette di acciaio trattato e prendendomi qualche rischio ma riuscii a raggiungere la sommità del diedro ove sostai alla base di uno strapiombo rosso scoraggiante. Sullo strapiombo Isidoro si impegnò in una lotta senza quartiere, la roccia per giunta non era salda, mi pare ancora di vederlo, appeso sulle staffe, nel tentativo di fissare qualche cosa alla roccia, con il casco appeso all’imbragatura (sopportava malvolentieri il casco in testa), lanciando esclamazioni ad ogni metro guadagnato. Piantò varie “rurp” nelle rughe della roccia e si sollevò con estrema delicatezza sui gradini più alti delle staffe per non far crollare castello e castellano. Qualche scheggia si stacco e rimbalzò vicino a me, poi finalmente riuscì a piazzare un buon chiodo Cassin (che lasciammo a testimonianza del nostro passaggio). Ancora parecchi metri di estrema precarietà su ancoraggi fantasiosi ed aleatori poi riuscì a vincere lo strapiombo rosso, trovò un punto ove piazzare la sosta, prese fiato e mi urlò: << Non ho mai fatto artificiale così difficile, credo si possa dare tranquillamente A4>>. Lo raggiunsi togliendo il materiale infisso con estrema facilità, poi toccò a me affrontare un tratto altrettanto difficile su ottima roccia però pressoché priva di fessure: altri numeri su micro lame di acciaio e invenzioni varie poi giungemmo sotto una fessura strapiombante sporca di licheni. Percorremmo tutta la fessura dapprima larga poi sempre più sottile fino ad uscire su una placca inclinata e compatta. La parete finiva con questa placca lunga 15 o 20 metri. Non appariva difficile ma era totalmente priva di fessure, nessuna possibilità di piazzare ancoraggi di assicurazione. Ricorremmo a tutte le nostre risorse di esperti chiodatori ma non ci fu nulla da fare, senza i chiodi a pressione non si passava e noi, volutamente, li avevamo da tempo esclusi dal nostro equipaggiamento. Dopo vari inutili tentativi ci dichiarammo sconfitti e ripercorremmo a doppie, in discesa, la nostra via che per pochi metri rimase “incompiuta”.
Passarono gli anni ma il ricordo di quella difficile lotta con la Parete delle Aquile rimase in me ed ogni tanto raccontavo delle nostre fatiche a qualche amico. Nel 1998 accompagnai Maurizio Oviglia a rivisitare alcune pareti in preparazione di: “Rock Paradise”, la raccolta di ascensioni scelte nel Gran Paradiso. Lo convinsi ad una puntata alla Parete delle Aquile per vedere se la via “incompiuta” poteva essere trasformata in una via di arrampicata libera di elevata difficoltà. Dopo tanta fatica a causa dei sacchi pesanti e, alla base della parete, l’emozione di aver posato gli stessi su due vipere, ci rendemmo conto che tale itinerario non si prestava all’arrampicata libera seppure estrema, ritenemmo poco saggio perciò usare il trapano e piazzare dei fix dove si doveva poi comunque salire in artificiale; meglio perciò lasciare la via cosi, allo stato originale, per chi volesse cimentarsi ancora con l’artificiale estremo di una volta. Abbandonammo l’ ”incompiuta” al suo destino ci rivolgemmo ad un altro progetto.
Passarono altri anni e nel 2004 mi ritrovai in numerosa compagnia sulle rocce del Caporal per girare le riprese del documentario “Cannabis Rock”. Il gruppo era composto dal sottoscritto e da Piero Pessa in veste di attori, e da cineoperatori assistiti da due guide: Enzo Luzi ed Adriano Trombetta. Le riprese furono effettuate sulla via “del Sole Nascente”, per due giorni lavorammo con il bel tempo ed in grande allegria; al termine delle riprese, in cima al Caporal, sostammo ad ammirare e commentare le pareti che ci circondavano. La Parete delle Aquile spiccava proprio di fronte con le sue strutture evidenziate dalle ombre pomeridiane, raccontai ad Adriano delle vie che vi avevo aperto soffermandomi sulla storia dell’ “incompiuta” e manifestando il mio rammarico per non averla completata. Gli indicai dove passava e poi scendemmo a valle.
Passò l’estate ed un giorno, diretto ad arrampicare a Frassiniere nel Briançonnais, passando sotto le pareti, mi sentii chiamare, alzai gli occhi e scorsi Adriano Trombetta appeso sotto un grande strapiombo mentre provava un tiro di elevata difficoltà; mi urlò che era andato a provare la via “incompiuta” alla Parete delle Aquile ma non era riuscito a passare. Molto incuriosito attesi il suo ritorno a terra e mi feci raccontare del suo tentativo. Conquistato dal mio racconto sulla cima del Caporal, era andato a provare la nostra via con un amico.
Aveva superato la prima lunghezza di corda in arrampicata libera dove io ero salito in artificiale, si era preso qualche rischio perché non riuscendo ad infiggere chiodi, era partito in libera sulla placca allontanandosi dal fondo del diedro e per almeno dieci metri non era riuscito a piazzare protezioni. Alla seconda lunghezza di corda però erano stati respinti. Adriano non era riuscito a raggiungere il vecchio chiodo Cassin da noi lasciato 25 anni prima e che rappresentava l’unico ancoraggio sicuro che Isidoro era riuscito a piazzare in quella lunghezza estrema. Trombetta era ridisceso e, deciso a ripetere il tentativo con materiale più sofisticato, aveva lasciato una corda fissa sulla prima lunghezza di corda.
Tra Adriano e me ci sono 40 anni di differenza e sentire raccontare da lui, talento emergente dell’alpinismo, di uno scacco subito su una mia via, fece balenare in me un lampo di orgoglio e mi vidi proiettato all’indietro a battagliare con Isidoro su quelle rocce. D’istinto proposi al giovane amico di andare a ripetere il tentativo insieme, precisando però che il mio ruolo sarebbe stato quello di “spalla” non essendo ormai più in grado di fare il protagonista su quelle difficoltà.
Detto fatto, qualche giorno dopo salivamo carichi di pesanti sacchi di fianco al Caporal, nel canalone che porta alla Parete delle Aquile. Quante volte avevo salito quella pietraia tanti anni prima; sempre con qualche progetto nuovo in testa, verso avventure che mentre salivo lentamente mi ritornavano in mente nei minimi particolari. Ricordi avvolti in un sottile velo di nostalgia.
Giungemmo alla base della parete nel punto che io ben ricordavo, la corda lasciata da Adriano penzolava lungo il diedro della prima lunghezza e noi la risalimmo con gli autobloccanti; Adriano si sistemò indosso il materiale da scalata e si avviò verso il passo che lo aveva respinto. La roccia in quel tratto, oltre ad essere strapiombante e priva di fessure, è anche friabile, il mio giovane amico ne staccò dei pezzi mentre cercava di fissare qualche cosa per progredire; io attento ad arrestare eventuali cadute per la possibile fuoriuscita di ancoraggi precari, osservavo anche i materiali che impiegava: i “clif” e le “rurp” le usavo anch’io ai miei tempi, le ancorette invece non le avevo mai impiegate; ciò che notavo di molto diverso erano le staffe: io usavo staffe con tre gradini, raramente quattro, e cercavo di salire quasi sempre anche sul primo gradino; ora vedevo che le staffe moderne hanno molti gradini, questi sono ravvicinati ed Adriano evitava di salire su quelli più in alto. Oggi nell’artificiale moderno si usano spesso ancoraggi più aleatori che ai nostri tempi per cui le sollecitazioni debbono essere più soft, cosa non garantita dalla nostra tecnica molto più rude. Il tempo scorreva, il mio compagno saliva lento ed ogni tanto invece di Adriano mi sembrava di rivedere Isidoro con il suo casco appeso alla cintura ad imprecare perché la roccia lo respingeva.
Adriano superò il punto che lo aveva fermato nel suo primo tentativo, raggiunse il nostro vecchio chiodo ancora saldo, e sempre costretto al massimo dell’impegno, riuscì ad ultimare la difficile lunghezza. Io lo raggiunsi passando con difficoltà da un ancoraggio all’altro e ricuperando tutto il materiale tranne il nostro vecchio chiodo.
Un tratto poco difficile ci consentì di raggiungere lo strapiombo che difende l’accesso alla fessura finale; due vaghi diedri privi di fessure lo solcano, qui la roccia è perfetta, mancano solo le fessure, mi ricordavo che in questo tratto ero dovuto ricorrere a tutta la mia “arte” di chiodatore per riuscire a salire. Anche Adriano si impegnò al massimo per infiggere qualche cosa in quelle rughe superficiali ma comunque salì e raggiunse la base della fessura finale. Il tempo era però volato e quando lo raggiunsi era ormai tardi, difficilmente saremmo riusciti a giungere in cima prima di sera.
Decidemmo di ripiegare lasciando delle corde fisse per poi ritornare a completare l’opera; avevamo con noi il trapano per la placca che mi aveva fermato nel 1979 per cui attrezzammo le soste con fix, vi fissammo le corde che dovevano rimanere in parete e ridiscendemmo alla base.
Le cose però non andarono secondo le nostre intenzioni: Adriano si infortunò ad un ginocchio, subì un intervento che lo costrinse ad un periodo di inattività così non ritornammo più. Sulla Parete delle Aquile sono rimaste le nostre corde ormai inutilizzabili e la via continua ad essere incompiuta. Non mi sento neanche troppo dispiaciuto per questa conclusione, in fondo ho rivissuto una vecchia avventura in chiave moderna ed il punto interrogativo è ancora là, forse qualcuno troverà la voglia di andare a cancellarlo.
In fine non mi rimane che formulare una considerazione: nel 1979 in un giorno avevamo aperto la via salvo gli ultimi pochi metri, 25 anni dopo, in due tentativi non si è giunti ove eravamo arrivati allora, è probabile che la nostra “incompiuta” sia la più difficile via in artificiale aperta sui dirupi di Balma Fiorant prima dell’avvento dell’artificiale moderno di Valerio Folco.
Recentemente la storia dell’incompiuta si è arricchita di un nuovo capitolo. Due giovani istruttori della scuola Gervasutti, molto bravi, Fabio Ventre e Mirko Vigorita, hanno effettuato un nuovo tentativo nel 2020. Ci sono ancora appese le nostre corde deteriorate ed inutilizzabili. Anche questo recente tentativo è andato fallito, sono stati respinti dal secondo tiro di artif molto difficile. Mi auguro che abbiano ancora voglia di ritentare perché il problema diventa sempre più intrigante.
UNA SALITA INVERNALE
di Luca Enrico
Inverno strano quello di fine 2015, un dicembre secco, quasi privo di neve, relegata solo in quantità modesta sulle vette più alte.