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Club Alpino Accademico Italiano
Mercoledì, 16 Aprile 2025 21:25

Undici nuove vie e alcune ripetizioni storiche.

Questo il bottino della spedizione in Oman del gruppo composto dai sei ragazzi del CAI Eagle Team

Erica Bonalda, Marco Cocito, Daniele Lo Russo, Matteo Monfrini, Lorenzo Toscani e Riccardo Volpiano.

A breve, in una prossima puntata, pubblicheremo le schede tecniche con relazioni e tracciati delle 11 nuove vie aperte: sicuramente una proposta originale e stimolante per i nostri lettori.

L’avventura è stata coordinata dal Club Alpino Accademico Italiano e finanziata dal Club Alpino Italiano. Insieme a loro, tre tutor del CAAI, Marco Ghisio, Mauro Florit e Francesco Leardi.

Nel seguito riportiamo la relazione dettagliata del viaggio, redatta dal coordinatore Marco Ghisio, accompagnata dai ricordi e riflessioni personali dei membri della spedizione.

Ottimizazione e grafica A. Rampini

team oman 2025Oman 2025- Relazione generale della spedizione

di Marco Ghisio

La spedizione in Oman ha rappresentato la naturale conclusione di un progetto incentrato sulle giovani promesse del mondo dell’alpinismo e arrampicata. Giovani che finalmente hanno potuto godere dei frutti delle varie settimane di formazione e mettere in pratica quanto appreso, in un luogo opportunamente scelto non solo per collaborare allo sviluppo turistico e sportivo del territorio omanita ma anche per la quantità e qualità di pareti rocciose a disposizione ancora da esplorare. È grazie a questi due aspetti fondamentali, uniti alla voglia di fare gruppo che i ragazzi hanno messo in atto, che la spedizione può vantare gli ottimi risultati raggiunti.

In particolare, sto parlando delle 11 vie aperte, dove risulta evidente che tutti i partecipanti hanno avuto modo di apporre la propria firma su un nuovo itinerario. Qualcuno già esperto, qualcuno alle prime armi, ognuno ha trovato il giusto terreno per scatenare la fantasia e la voglia di ingaggio.

Le Al Hamra Towers

I primi giorni della spedizione hanno dato un po’ di filo da torcere, prima di tutto per un problema con il rental car che avrebbe fortemente limitato l’esito del tour. Avevamo infatti prenotato 3 jeep e ci hanno consegnato tre berlina, dettaglio non trascurabile considerando che buona parte delle strade secondarie sono sterrate e alcuni accessi alle pareti anche molto sconnessi e ripidi, senza contare la quantità di materiale e viveri che dovevamo trasportare, difficilmente stipabile nelle utilitarie.

vista su al hamraVista su Al HamraQuesto ci ha costretti a scartare la prima meta, il Wadi Bani AWF, per un’area più a portata di mano come le pareti intorno ad Al Hamra in attesa che si risolvesse il disguido.

Così, il primo giorno ci dirigiamo verso le Al Hamra Towers. Le cordate: Mauro e Francesco, Riccardo e Marco Cocito, Erica e Daniele verso la Torre est, Parete nord, in quanto Mauro, in una precedente esplorazione nel 2018, aveva adocchiato alcune linee interessanti e non ancora salite. Ecco, quindi che nascono Evening coffee e Old style. Io, Matteo e Lorenzo ci dirigiamo invece verso la Torre centrale dove, parimenti, avevamo intravisto una possibilità di nuova linea, ma nel nostro caso, dopo i primi tiri ci accorgiamo ben presto che era già stata salita, anche se non presente tra le nostre informazioni, per cui decidiamo di deviare sulla linea di Balha coi Lupi, aperta nel 2017 da Lamantia, Sanguineti ecc. in realtà, nella parte alta, apportiamo una variante di uscita.

In questi primi due giorni non sono mancanti i primi contatti con la popolazione locale, la prima sera sono venuti a trovarci al nostro accampamento un gruppo di ragazzi incuriositi che ci hanno accolto con datteri e termos di caffè aromatizzato, mentre, il giorno seguente, alla base della parete è arrivato un pastore che ci ha poi accompagnato al suo “rifugio” anch’esso offrendoci caffè e datteri. Ci ha poi fatto conoscere i suoi figli, nipoti, cugini e ci stava organizzando una grigliata per la sera successiva.

La diversità culturale e la diffidenza verso questi paesi mediorientali che noi occidentali ci portiamo dietro sicuramente ci limita fortemente in queste occasioni, soprattutto al primo impatto, ma bastano pochi minuti e si comprende chiaramente che gli intenti (almeno qui in Oman per i contatti che abbiamo avuto) sono assolutamente piacevoli e ispirati a un grande senso di ospitalità misto a curiosità.

Alla scoperta del Jabal Misfat al Abriyeen

lorenzo sfondo jabel mishtLorenzo sullo sfondo del Jabel Misht

 

Immagine1"Old Style" alla Al Hamra Tower, una delle vie aperte

Il terzo giorno di spedizione noi tre tutor avevamo fissato l’appuntamento per la sostituzione delle agognate auto e, mentre i ragazzi erano a intenti a ripetere la via Bahla coi lupi, in attesa dell’orario dell’incontro siamo andati in esplorazione al Jabal Misfat al Abriyeen, un bellissimo villaggio, immerso in un oasi verde piena di terrazzamenti, palme e canalizzazioni per l’acqua, da cui parte chiaramente un wadi dalle pareti interessanti e molto poco valorizzate.

Il giorno successivo, pertanto, decidiamo di recarci qui alla ricerca di nuove linee, lo spazio non manca, ci dividiamo in cordate e partiamo. Purtroppo, subito sul primo tiro Marco Cocito tira un pilastrino all’apparenza solido, ma che rapidamente si frattura. Risultato: caduta, ferita alla gamba, ospedale.

Ognuno scende dai propri obiettivi e ci concentriamo nell’aiutare Marco a tornare alla macchina e nell’accompagnarlo in ospedale, dove sarà curato in modo eccezionale, ma questo infortunio lo costringe ai box per 4 giorni, in attesa di riacquistare un po’ di mobilità e far guarire la ferita.

Il giorno dopo torniamo a concludere i nostri progetti e nascono Habibi ad opera di Mauro e Francesco, Feel free to create ad opera di Riccardo ed Erica, quest’ultima alla sua prima esperienza di apertura e la via Sciugomano, completamento dell’avvio di Marco, per mano di Lorenzo e Matteo che supera l’evidente pancia sopra la cengia.

Io e Daniele purtroppo non riusciamo nell’intento e siamo costretti ad abbandonare la nostra via causa roccia scadente, impareremo il mood della spedizione: evitare le zone di roccia gialla anche se esteticamente interessanti!

Sulle spettacolari pareti del Jabel Kawr

Complessivamente in questi primi giorni la roccia non convince, c’è un po’ di scetticismo nel gruppo e forse un pizzico di delusione iniziale, per cui decidiamo di spostarci verso l’area che fin da casa sembrava riservare il più alto potenziale, lo Jabel Kawr e lo Jabel Misht. Soprattutto su quest’ultimo riponevamo grandi aspettative in quanto eravamo interessati ad una via del grande Auer, ma da subito abbiamo capito che non sarebbe stato possibile ripeterla. La parete, alta 1000 m prende sole dalle 7 alle 18 e di giorno si arrivava a oltre 30 gradi, una combinazione improponibile viste anche le difficoltà della via.

Daniele su Balha coi lupiDaniele su Balha coi lupi

 

il profilo del french pillar jebel mishtIl profilo del French Pillar al Jebel Misht

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell’area del Jabel Kawr sapevamo che le pareti del Said Wall e dell’Al Kumeira wall sarebbero state una valida alternativa: nord pieno e vie di 500 metri, molto frequentate negli anni da Simon Messner e dove è presente anche Vacanze (R)omane, una via di Matteo Della Bordella e Simone Pedeferri.

Per raggiungere l’area sottostante le pareti ci attendono 40 minuti di sterrato di montagna. Arriviamo quindi nel “villaggio” di Al Kumeira, ormai disabitato, ma dove è presente una moschea immersa in una piccola oasi. È proprio qui che noi ci siamo piazzati per i giorni a venire, quelle palme e la canalizzazione di acqua, sono state la nostra salvezza in un ambiente totalmente arido e assolato.

campo base ad al kumeiraCampo base ad Al Kumeira

 

mauro su dreaming the towerMauro su "Dreaming the tower"

riccardo a gorgetteRiccardo a GorgetteSiamo al 25 febbraio, installiamo un nuovo campo base ed effettuiamo giro esplorativo verso le pareti per studiare obbiettivi e avvicinamento e poi definire le cordate per l’indomani. C’è qualche momento di tensione per via degli obiettivi discordanti ma poi, con la pazienza di tutti, troviamo la quadra e si parte. Per me, Matteo e Lorenzo destinazione Vacanze (R)omane, abbiamo voglia di scontrarci con un po’ di alta difficoltà. Erica e Daniele si dirigono su Ticket to the Moon proprio una delle vie di Messner. Riccardo e Mauro, eterni esploratori, si dirigono verso uno sperone al Said Wall, per aprire una nuova via e creano Dreaming the tower. Marco, ancora fermo per via della ferita, e Francesco si prendono la giornata per un giro turistico ma ci fanno un regalo enorme, organizzano una cena coi fiocchi, molto apprezzata da noi famelici arrampicatori. Qui gli avvicinamenti e le discese sono assai più lunghi rispetto ad Al Hamra e le giornate si fanno impegnative.

26 febbraio rest day. Ci dirigiamo al Wadi Damm perché ci hanno parlato di alcune pozze dove poterci rilassare. Ma Matteo aveva in testa una nuova linea su quel mare di calcare e insieme al nostro King Riccardo, che aveva sentito odore di avventura, prima di concedersi il riposo fanno un altro giro di esplorazione per studiare meglio la possibile linea. Anche chi si rilassa al Damm è sempre con un occhio vigile e intravede una parete sopra al wadi non presente sulla guida e in nessuna cronaca.

I piani per l’indomani sono presto fatti, ognuno di noi ha puntato nuove linee: io, Matteo e Riccardo partiamo per la linea studiata nei giorni precedenti, su una parete di cui non sappiamo neanche il nome, che rimane proprio al centro tra le due note Said e Al Kumeira Wal, con il materiale da bivacco e la determinazione di portarla a casa. Daniele ed Erica si dirigono anche loro su una linea intravista molto a destra su Al Kumeira Wall, che li obbliga a dare il tutto e per tutto, toccando i propri limiti su terreno nuovo, ma purtroppo sono costretti a scendere. Sono comunque stati molto contenti dell’esperienza portata a casa.

Marco, che il giorno prima aveva già testato la gamba, torna in pista e, insieme a tutti gli altri, si dirige verso la parete sopra il Damm, anch’essa con nome ignoto. La chiameranno Al Wal, interpretazione di un’indicazione fornita da un locale sulla possibile toponomastica del luogo. Qui tracciano Patatonia, una via destinata a diventare una classica.

Io, Matteo e Riccardo ci siamo alternati in apertura per tutta la giornata, i primi tiri ci hanno impegnato notevolmente, arriveremo molto alti ma, per pochissimo, non riusciremo ad uscire dalla via e saremo costretti al bivacco. Poco male, avevamo il necessario e percepivamo che l’indomani ci sarebbe mancato veramente poco e su difficoltà modeste. Così, alle 8 del 1° marzo, concludiamo Drips of Joy nome derivato dalla quantità di tiri esaltanti su muri a gocce.

In parete fino all’ultimo giorno!

riccardo e erika dopo feel free to createRiccardo e Erika dopo "Feel free to create"Siamo poco oltre la metà spedizione e decidiamo di spostare il campo per iniziare a riavvicinarci alla città, facendo alcune tappe lungo il percorso.

Ci piazziamo giù al Damm, posto abbastanza centrale per gli obiettivi di tutti dell’indomani. Matteo e Riccardo non digeriscono l’idea di ripartire senza aver messo mano sulla montagna simbolo del luogo, Jabel Misht. Così optano per una corsa sul classico French Pillar cercando di scappare dalla calura.

Io, Mauro e Francesco torniamo ad Al Wal per aprire Dattero d’oro. Francesco porterà anche un ottimo contributo allo sviluppo del trekking in Oman, segnando con notevole quantità di ometti una via normale della parete, utilissima per la discesa.

Lorenzo, Marco, Erica e Daniele si dirigono verso la via “Le paradis des granouilles”, sempre al Said Wall ma con differente accesso e definita come una delle più belle della zona, ma forse la cosa più bella è stata scalare senza tutor e sappiamo di una giornata di grande goliardia. Alla sera ci ritroviamo tutti soddisfatti ad Al Hamra, finalmente con la possibilità di fare una doccia dopo giorni a mimetizzarci con le capre locali.

4 marzo: ultimo giorno di vie. Matteo e Lorenzo vogliono tornare sulla loro creazione, Sciugomano, per liberare l’ultimo tiro, Matteo ci riesce e lo valuta 7c+.

Un altro gruppetto vuole andare al Wadi Nakar dove l’avvicinamento è pressoché nullo, ma, a dire di Mauro, la parete è stata scalata pochissimo rispetto alle potenzialità, come praticamente tutto in Oman.

Dopo un po’ di indecisione iniziale Erica, Marco e Daniele si dirigono verso la parete a Sud Ovest del wadi per aprire Vento del deserto, io e Riccardo optiamo per la parete a est e apriamo All you need is a date e Crack Pole, quest’ultima una linea tutta in fessura dove sembra di essere sulle nostre Alpi.

said wall e alkumeira wallSaid Wall e Alkumeira WallWadi Misfats Falaj 2Wadi Misfats Falaj

incontri con locali al jabal fokhaIncontri con locali al Jabal Fokha

tramonti omanitiTramonti omaniti

pozza al wadi dammUn po’ di turismo

Il giorno seguente avevamo già in programma di fare una giornata tutti insieme in falesia e visitare Gorgette, per poi dirigerci verso Mascate. Non ci è rimasto più un briciolo di pelle sulle mani, per cui l’ultimo giorno associamo un po’ di visita alla città e un paio d’ore di deep water solo. Eravamo però anche tutti attratti dalle notti d’oriente e questo fascino medio orientale, per cui, incuriositi, partiamo per un tour in macchina facendo tappa alla Royal Opera. Come potete immaginare, però, le costruzioni dove gli omaniti danno il meglio sono le moschee: tante, luccicanti e illuminate a giorno. La principale, quella del sultano Quaboos, è qualcosa di veramente incredibile, la più grande al mondo, prima di quella di Abu Dabi. La musalla principale (la stanza della preghiera) ospita 6500 persone, è ricoperta da un tappeto di 4343m2 e illuminata da un lampadario di 14 metri.

Dopo la visita alla moschea ci rechiamo al souk, tipico mercatino, ma a parer mio un po’ troppo commerciale e poco caratteristico. Ultimo step, un po’ di mare ma sempre con la possibilità di mettere le scarpette per chi ancora ne avesse voglia, per cui ci rechiamo al porto dove i pescatori sono ben contenti di accompagnare con le loro barche gli arrampicatori a scalare sulle scogliere. Qui l’Oman ci regala un’ultima sorpresa: l’acqua sotto le scogliere non è molto limpida, ma fra le onde si scorgono comunque tantissime tartarughe marine!

DWSDWS

 

 

 

 

 

 

 

 

in barca verso il DWSIn barca verso il DWS

 

Ricordi e impressioni dei partecipanti

I mondi differenti

Leardi Francesco 4adi Francesco Leardi Presidente Caai - Gruppo Orientale

Non parlerò di imprese e tecnicismi, piuttosto narrerò i contrasti che gli eventi propongono e spesso, in questa esperienza del CAI Eagle Team si sono interfacciati tra di loro, talvolta anche sorprendentemente.

Come risaputo, sono sempre stato favorevole ad un’iniziativa del genere e la mia partecipazione, per come l’ho vissuta, è stata rappresentativa di una generazione il cui passato è stato un momento di crescite personali ma anche di forte spinta motivazionale per le generazioni successive. Non per tutti, come si sa, anzi, molte personalità hanno sempre pensato a preservare e personalizzare la loro identità con la paura di essere sminuiti.

Ho sempre creduto nei giovani e questa esperienza mi ha permesso di affrontare una realtà materiale che, nella vita reale, è sfuggente perché propinata da social, per carità divulgativi e attuali, sempre sintonizzati sul gesto ma poco sul senso del prima e del dopo.

Così il primo “mondo differente” mi ha offerto le personalità di questi ragazzi che, al mio essere, apparivano quanto mai misteriose, e credo sia il termine giusto, perché i piani di comprensione iniziali erano lontani e diversi.

Da solitario quale sono, ho guardato con interesse, curiosità e un certo distacco, che non voleva essere un atto di presunzione, bensì un personale accrescimento, anche se potrebbe sembrare un paradosso.

La cosa sorprendente comunque è stata vivere questa situazione in un secondo “mondo differente” che è stata la realtà territoriale dell’Oman dove tutto o nulla è scontato.

Credo che la visione del differente fosse ben presente anche nei ragazzi, e non voglio assolutamente dire che la società omanita sia meglio o peggio, ma semplicemente diversa, anzi alcune peculiarità ci hanno sorpreso e, per così dire, hanno accresciuto il valore dell’elemento umano.

Strade sterrate e polverose ci hanno condotto tra le montagne, immergendoci in mondi surreali rispetto ai quali, almeno io, istintivamente e inizialmente, ho pensato che fossero un mondo a parte. Ma non era così, e la percezione di quanto detto la abbiamo avvertita girando tra le case di queste oasi, dove le persone vivono con assoluta dignità e un credo religioso invidiabile e di tutto rispetto.

Ricordo con piacere i datteri che ci hanno offerto nell’oasi di Al Kumaira, ma soprattutto mi emoziona, al di là del materiale, il gesto, compiuto con estrema delicatezza ma anche risolutezza. Il segnale era: “Ti accolgo e rispetto, ma ricorda che sei nel mio territorio!”.

Così ogni mattina arrivavano all’oasi, dopo 11 km di sterrato assai difficoltoso, dei custodi del territorio, ogni giorno diversi, per irrigare con magistrali opere idrauliche i terrazzamenti.

Un episodio che mi ha stupito è stato quando abbiamo fatto un breve periodo di istruzione per insegnare a piantare manualmente gli “spit roc” radunati intorno ad Erica che magistralmente forava la superficie di un masso. Ebbene, un giovane omanita, sorprendentemente ha sguainato il suo smartphone dalla tunica per fare un video alla nostra compagna di avventura. Il senso non era tanto la ripresa del video, ma la assoluta spontaneità con il quale il ragazzo, di ben altra cultura, ha fatto questa operazione accompagnata da uno sguardo assai sereno e compiacente. Così i “mondi differenti” si sono incontrati.

Ci sono due termini con cui definirei il gruppo dei ragazzi: competitivi, ovviamente non solo tra di loro ma molto con se stessi, e amalgamati, che poi è un termine di derivazione araba che significa impasto. Certo, questa avventura, queste prestazioni sono state un impasto di menti, volontà, entusiasmo, determinazione e capacità.

Non ho mai tenuto diari, ma ho sempre scritto per necessità, cercando di cogliere il momento opportuno. Gli aneddoti da raccontare sarebbero molti ma ritengo che il significato del “gruppo” sia emerso da queste poche righe.

Tutti noi ricorderemo con piacere la disponibilità del popolo omanita che in ogni occasione e senza rendiconto ci ha accolto. Dal nulla più totale, tra queste eterne sterrate polverose, compariva ogni tanto una jeep di omaniti che si fermava per chiedere se avevi necessità di qualche cosa o desideravi un passaggio. Un gesto semplice ma significativo ed emozionante come era il momento del saluto quando si portavano una mano al cuore e poi te la porgevano. Una semplice mano che racchiude enormi significati!

Una valigia piena di esperienze

di Riccardo Volpiano

RICCARDO VOLPIANO TOOman 2025, spedizione finale del progetto CAI Eagle Team. Per me è stata la mia prima spedizione extraeuropea e in realtà anche la mia prima spedizione alpinistica. Da subito ero molto motivato, non c'era nulla che mi preoccupasse, probabilmente perché il feeling che avevo con il gruppo era molto buono: con gli altri cinque ragazzi abbiamo avuto modo di conoscerci e fare amicizia durante le settimane di formazione del progetto, mentre i tre tutor del Club alpino accademico li ho conosciuti solo qualche mese prima di partire, ma c'è stata subito una grande intesa.

Devo ammettere che la spedizione mi ha sorpreso, nel senso più positivo del termine; la bellezza dei paesaggi, la gentilezza della popolazione locale, la quantità di pareti inesplorate, la qualità della roccia, ma soprattutto la libertà di poterci accampare dove volevamo per poter scalare ed esplorare i posti che ci affascinavano di più.

Ecco, se dovessi riassumere questa avventura con una parola sola, credo che sceglierei libertà.

Siamo partiti con un programma più o meno definito, ma senza vincoli stringenti, avevamo individuato i posti che sembravano più interessanti basandoci sul materiale trovato sulla guida e in rete, qualcuno di noi aveva qualche obiettivo preciso, tuttavia, una volta in Oman abbiamo molto spesso stravolto i piani.

Il fatto che di giorno la temperatura raggiungesse a volte i 32 gradi ci ha fatto subito scartare tutti i progetti sulle pareti sud, altri piccoli inconvenienti ci hanno costretto a modificare gli spostamenti previsti dal piano originale, ma siamo riusciti ad adattarci ed elaborare nuovi programmi in modo talmente veloce e organizzato che, riguardando indietro, sembra quasi che fosse il nostro programma fin da subito. È capitato che ragazzi diversi avessero obiettivi diversi, spesso su pareti diverse, ma con la giusta organizzazione e determinazione siamo sempre riusciti a sfruttare al meglio le tre auto e accontentare tutti, ritrovandoci poi la sera stessa o quella successiva a raccontarci a vicenda le rispettive avventure.

In Oman si può passare dalla strada asfaltata, a quella sterrata liscia, a quella sterrata sconnessa nel giro di pochi metri, per fortuna avevamo a disposizione auto 4x4 (anche se abbiamo tribolato un po' per averle) che ci hanno permesso di visitare molti luoghi che altrimenti sarebbero stati irraggiungibili.

Qualsiasi posto poteva diventare casa: sotto un albero, vicino a un fiume, nel letto di un fiume secco. Cinque tende, boccioni d'acqua, cibo, fornelletti e un'ottima compagnia: non si sentiva la mancanza dei comfort di un albergo. Inoltre la possibilità di incontrare pastori o agricoltori locali non era da sottovalutare; infatti, tutti gli Omaniti che abbiamo incontrato o che ci sono venuti incontro per salutarci, ci hanno sempre offerto del caffè o dei sacchetti di datteri o dei pancake, oltre a darci spesso delle indicazioni utili su dove trovare acqua, roccia e cibo. Sono sempre stati molto educati e cordiali, mai invasivi, sempre ospitali.

Ogni giorno, un'ora prima dell'alba, alle 12:30 e al tramonto in qualsiasi punto dell'Oman ti trovassi, si sentivano le preghiere che venivano recitate ad alta voce nelle varie città, grosse o piccole che fossero.

Ad Al Khumeira, un villaggio isolato a 11 chilometri di sterrato dalla città, dove oramai sono presenti solo più ruderi, si trova una bellissima oasi con una vasca per l'irrigazione che si riempie giornalmente e dove l'unico edificio ancora in piedi e ben tenuto è proprio una piccola moschea.

In mezzo a queste distese di terra arida, pietraie, pareti e letti dei fiumi secchi, sono presenti dei magnifici canyon, chiamati wadi, dove l'acqua riesce a dar vita a delle splendide oasi verdi, sempre ben tenute e coltivate. Le pareti rocciose di questi canyon si sviluppano solitamente per diversi chilometri e, oltre a essere estremamente suggestive, sono state spesso l'obiettivo delle nostre scalate.

Per raggiungere le pareti in generale non esistono sentieri, ma solo la motivazione e l'intuito dell'alpinista che ha individuato una linea di salita che lo ha stregato e vuole a tutti i costi arrivare alla base della parete e poi ridiscendere una volta compiuta la missione, nonostante le pietre mobili, gli arbusti spinosi (molto spinosi!) e le temperature a volte molto elevate.

Sulla scalata ci sarebbe molto da dire, ma forse è sufficiente aggiungere che gli ultimi giorni la pelle delle nostre mani era completamente consumata a causa dell'elevata abrasività della magnifica roccia omanita. Non è sempre stato facile individuare e capire quali fossero i punti con la roccia migliore e abbinare correttamente il colore della roccia alla sua solidità, ma a fine spedizione avevamo imparato. Molto spesso si partiva puntando a una zona della parete che sembrava interessante, poi giunti in prossimità, si deviava per evitarla, dal momento che non era come ce la si aspettava, ma qualche metro a fianco si trovava invece una zona con della pietra inaspettatamente bella e compatta.

È stato molto formativo e piacevole poter scalare e aprire nuove vie con tanti soci diversi, imparando da ognuno qualcosa e, soprattutto, divertendosi sempre a prescindere dal socio; una volta abbiamo anche bivaccato in parete! Certamente alcune salite mi hanno dato più soddisfazione di altre, ma quando si è in questi posti, in queste situazioni, ogni giornata è una vittoria: la difficoltà, la lunghezza, la stanchezza perdono valore e rimane solo la gioia per aver trascorso dei bei momenti, in un posto bellissimo, praticando lo sport che ci piace di più.

Abbiamo avuto la possibilità di visitare anche la capitale Muscat e la sua incredibile moschea, oltre ad abbracciare gli splendidi scogli che spuntano nell'oceano lì vicino, praticando "deep water solo" durante l'ultimo pomeriggio prima di ripartire per l’Italia, diventando l'attrazione nell'attrazione per tutti i turisti che stavano effettuando un giro in barca per ammirare gli scogli.

Torno a casa senza rimpianti, con il bagaglio pieno non solo di vestiti, materiale d'arrampicata e datteri, ma anche di bellissime esperienze formative ed esplorative che a priori non mi sarei aspettato.

Non resta che ringraziare di cuore il CAI e il CAAI per questa opportunità, sperando che si ripresenti in futuro, non solo per me, ma anche per altri giovani alpinisti che decideranno di partecipare alle prossime edizioni del CAI Eagle Team.

La sfida di fare gruppo

di Mauro Florit CAAI – Gruppo Orientale

Florit Mauro aa

 

 Che dire di questa esperienza se non che tutte le mie sensazioni sono state confermate?

Quello da sempre sostenuto anche stavolta si è rivelato come verità. No, non ho nessuna dote particolare di premonizione, nessun merito, solo una certezza: Gli alpinisti sono lo specchio della nostra società, ma, nel mondo dell’alpinismo, o più in generale dell’arrampicata, c’è una altissima percentuale di brava gente.

I sei ragazzi che ho avuto la fortuna di conoscere in questa esperienza omanita si sono dimostrati delle bellissime persone… belle persone, ancora prima che fortissimi alpinisti. Che fossero dei fuoriclasse alpinisticamente parlando non vi era nessun dubbio, anche conoscendo il lungo ed impegnativo percorso che li ha portati a questa esperienza. Ma che si dimostrassero anche delle persone grandi, non era per nulla scontato. Il loro percorso, fino al momento in cui siamo saliti sull’aereo per l’Oman era, bene o male, una continua sfida per risultare i migliori; riuscire a cambiare radicalmente registro e diventare un gruppo affiatato, che condivideva i medesimi obiettivi, è stata la sfida più impegnativa. Una sfida che hanno saputo accettare e vincere.

Ringrazio Marco e Francesco che, come tutor, hanno saputo lavorare per la riuscita di questa avventura, ma soprattutto ringrazio Erica, Lorenzo, Marco, Matteo, Daniele e Riccardo per avermi ricordato come ero io quarant’anni fa, quando la passione per questa splendida ed inutile attività mi ha contagiato. Auguro a loro, ma anche a tutti quelli per cui la Montagna è terapeutica e motivante, di vivere intensamente ogni momento che la vita ci regala.

 

 

 

 

 

Pareti nuove e nuove amicizie

di Lorenzo Toscani

LORENZO TOSCANI FIChiudo gli occhi un momento e mi addormento. Mi sembra di sentire l’odore di spezie del mercato di Muscat, il continuo vocio dei venditori che cercano di richiamare la nostra attenzione proponendoci merce completamente assurda e inutile.

Siamo in aereo verso Malpensa, mentre faccio un bilancio di questo viaggio. Le emozioni sono ancora fresche e ci vorrà qualche giorno per metabolizzarle. Il posto, le persone, i miei compagni di viaggio: tutto si è rivelato molto meglio delle aspettative, che già erano alte.

E si sa, gli attriti, la roccia brutta, gli incidenti fanno parte del percorso, non potrebbe essere diverso quando parti per scoprire pareti nuove, amicizie nuove.

Personalmente torno molto arricchito da questo viaggio; abbiamo scalato tutti i giorni disponibili, abbiamo aperto delle vie e ne abbiamo ripetute altre, ci siamo confrontati, abbiamo finito strati e strati di pelle, sfondato le scarpette.

Senza dubbio ci sono stati molti momenti da ricordare, ma uno dei più belli è stato sicuramente concludere l’apertura della via Sciugomano (7c+ max) insieme a Teo e Marco. Il crux della via supera prima un tetto orizzontale, per poi affrontare una placca a tacche e buchi. Una linea davvero particolare, tracciata in un canyon praticamente vergine.

Adesso si torna a casa, con il telefono pieno di foto di pareti inesplorate, pronti a studiare gli obiettivi del prossimo viaggio in questa terra così piena di stranezze. Una terra dove la povertà vive esattamente un passo di fianco alla ricchezza, dove chi non ha niente è pronto a dare tutto a dei passanti qualunque come noi, dove l’acqua è un bene sacro e il caldo una costante. Shukran Oman.

 

 

 

Oman, un bilancio culturale, spirituale e personale

di Daniele Lo Russo

Lorusso DanieleAOUn viaggio sicuramente atipico per gli arrampicatori. Difficile riassumere due settimane così intense in poche righe senza cadere nel banale e scontato. Ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare, ma sicuramente alcuni più di altri sono rimasti impressi nella mia memoria.

Si potrebbe dire di come sono trascorsi rapidi i primi giorni sulle Jabal Fokha, guglie di due/trecento metri ad un paio di ore da Muscat, mentre scoprivamo la tranquillità e la lentezza di un popolo sempre sorridente, intanto che aspettavamo i fuoristrada che avevamo chiesto e che: “…domani saranno pronti”.

Oppure di quando, la prima sera, mentre distavamo e rimontavamo sacconi più pesanti di noi, nel parcheggio di terra battuta dove avevamo montato le tende, siamo stati raggiunti da una decina di ragazzini. Venivano curiosi di conoscere quegli strani turisti, dalla pelle chiara e già un po’ bruciata dal sole. Dal thermos hanno riempito un sufficiente numero di bicchieri di carta con dell’ottimo caffè speziato e, con qualche misera parola di un inglese arrancante, ci hanno fatto intendere che avrebbe fatto piacere loro se lo avessimo accettato. Un paio di foto per immortalare il singolare momento e già si stavano allontanando, lasciandoci alle nostre faccende quasi imbarazzati da tanta gentilezza gratuita in quella calda serata.

Si potrebbe dare spazio all’arrampicata, raccontando di quando al Wadi di Misfah Al Abriyyin Marco Ghisio ed io, uniti dalla passione per la scalata in fessura, abbiamo provato ad aprire una linea che ripercorreva un lungo diedro giallo, con l’idea di passare solo con protezioni tradizionali, senza però farcela. Oppure di quando con Erica abbiamo iniziato ad aprire una via sul grande scudo nero verticale al Jabel Kawr. Anche qui però senza sbucare in vetta: dopo quattro tiri dove abbiamo dato tutto ciò che avevamo, infatti, abbiamo buttato giù le doppie con la consapevolezza di aver poco tempo per la difficoltà della via che volevamo aprire e per le nostre capacità. Oppure ancora di quando, uno degli ultimi giorni, al Wadi Al Nakhr, con Erica e Marco, parto tanto demotivato da non sapere nemmeno se scalare o meno e poi mi ritrovo, incitato dai miei compagni, ad aprire un bellissimo tiro di una via splendida, che mi catapulta il morale alle stelle.

Potrei perdermi in descrizioni dei tramonti che fermavano il tempo e ci lasciavano a bocca aperta a guardare l’orizzonte, oppure nel raccontare quanto siano desolanti le distese desertiche che circondano le montagne, e quanta vita contengano le oasi dove abbiamo avuto la fortuna di piantare la nostra tenda e farci un bagno. Oppure ancora potrei raccontare delle cene improvvisate con ciò che avevamo, delle partite a carte, delle sveglie traumatiche per evitare il caldo, delle serate trascorse a raccontare aneddoti, confidenze, dubbi e perplessità, dei sorrisi, delle poche ore di sonno, o dei datteri mangiati in qualsiasi forma, qualità e quantità. Potrei scrivere tutto questo, ma finirei per confondervi o, peggio ancora, annoiarvi. Sono sicuramente racconti che si prestano meglio ad accompagnare una serata davanti a un fuoco, magari nel prossimo viaggio!

Essendo appena rientrato da questa esperienza, e visto che alla fine dei periodi si tirano le somme, vi parlerò di bilanci. Tuttavia, non il classico bilancio fatto di numeri, gradi e valori! Se c’è una cosa che ho appreso da Ragioneria è che i numeri troppo spesso sono un po’ narcisisti e tendono a catturare tutta l’attenzione, oscurando il resto.

Guardando il rapporto tra risultati e tentativi, nel mio caso, questo viaggio potrebbe sembrare un flop, quando invece non è affatto così. Vorrei porre l’attenzione su tre aspetti molto più ampi: culturale, spirituale e personale. Dal punto di vista culturale, infatti, quest’esperienza mi ha sicuramente permesso di assaporare una realtà drasticamente diversa da tutte quelle che ho avuto modo di conoscere durante i miei precedenti viaggi e da quella di casa. In Oman l’estraneo ero io rispetto agli altri e questa diversità è stata accolta dai locali con curiosità ed ospitalità e non con timore. Il discorso spirituale invece è strettamente legato all’arrampicata: gli episodi che ho raccontato spesso si sono conclusi con delle ritirate, e quindi possono sembrare del “tempo perso”. Invece sono state esperienze dove mi sono spinto al limite. Un limite non facile, non difficile, semplicemente mio, dove ho dato tutto me stesso e che mi ha ricalato a terra svuotato delle energie, ma pieno di vita. Per questo non le vedo come sconfitte ma, al contrario, come alcune tra le giornate più belle, produttive e formative passate in parete, di tutta la mia carriera.

Condividere l’intensità di questi attimi assicurato o assicurando amici che provano come te la stessa forte passione per questa strana “filosofia di vita” che è la scalata, è un regalo davvero speciale. Ed è qui che entriamo nel terzo aspetto, quello personale e relazionale. In generale vivere a stretto contatto, in situazioni non sempre facili da gestire, mi ha dato modo di approfondire il rapporto con i miei compagni, creando un legame più forte e solido, permettendomi di scoprire qualcosa in più di loro ma anche di me. Allo stesso modo mi ha fatto scoprire Francesco, Marco e Mauro, tre persone speciali che hanno dedicato il loro tempo e le loro energie a questo progetto, mettendo noi ragazzi e i nostri sogni come priorità davanti alle loro ambizioni.

In conclusione, rientro da questo viaggio “carico”: carico di nuovi amici, di esperienze, di una maggiore conoscenza di me stesso, di ambizioni, di voglia di mettermi in gioco, di fame di arrampicata e di voglia di ripartire! Non potrei essere più contento! Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno dato realtà a questo progetto. In particolar modo il CAAI e il CAI, i tutor Francesco, Marco e Mauro e i miei compagni Erica, Lorenzo, Marco, Matteo, Riccardo: senza di voi tutto ciò non sarebbe stato possibile. Grazie.

Vento del deserto: diario di un’esplorazione inattesa

di Erica Bonalda

Erica BonaldaDopo due anni ricchi di nuove avventure, esperienze, amicizie, soddisfazioni, delusioni… è arrivato il momento di partire. Di partire per la tanto attesa spedizione. Direzione Oman.

Atterrati a Muscat, la capitale, mi è caduto il mondo addosso. Forse perché era tutto diverso da come mi aspettavo, forse perché fino a quando non mi ci sono trovata non ho avuto il tempo di realizzare cosa potesse significare. In questi due anni ero passata da sognare la Patagonia a iniziare ad accettare la sconfitta, il fatto che sarei rimasta a casa; un po’ perché non ci avevo neanche provato, non avevo accettato le regole del progetto, avevo combattuto per i miei ideali di montagna; un po’ forse anche per la paura di dover affrontare la Patagonia con una pressione forte come quella di andarci con l’Eagle Team, che agli occhi del mondo esterno è visto come il gruppo dei quindici alpinisti giovani più forti d’Italia. Il progetto è stato guidato da uno dei più grandi alpinisti italiani, Matteo Della Bordella, e noi siamo stati selezionati per creare un gruppo di elite giovanile dell’alpinismo.

Durante il viaggio di andata in aereo percepivo uno stato d’animo a cui non sono così abituata. Era come se la mia attenzione si fosse focalizzata sulla molteplicità di stimoli esterni che l’ambiente offriva, senza lasciarmi tregua. Le luci dei numerosi microschermi che proiettano tutti un’immagine diversa, i rumori, le voci, il pianto della bimba seduta davanti a noi, gli odori umani che si mischiano ai profumi artificiali… sommata all’impossibilità di muoversi negli spazi stretti dell’aereo. Il mio compagno di viaggio dorme e mi blocca il passaggio per alzarmi a fare due passi.

Una volta atterrati ricordo una sensazione di liberazione misto a stupore: l’aeroporto era vuoto e tutto molto pulito, intorno a me oltre ai miei otto compagni di viaggio c’erano solo uomini, ad eccezione di un gruppo di donne che credo fossero indiane, non locali… e poi il paesaggio arido, distese di roccia rotta, montagne di sassi che sembrano volersi sgretolare da un momento all’altro, luce accecante, foschia che non ti lascia percepire l’orizzonte… e poi caldo, tanto caldo…

Il mio primo pensiero è stato: ma dove ci hanno mandato? È una vacanza o siamo qui per lavorare? Siamo qui per combattere una guerra? Per conquistare un pianeta sconosciuto? Quello che riuscivo a vedere con gli occhi semi chiusi per la troppa luce era un paesaggio che ricorda il fondale di un mare senz’acqua.

Quando, dopo due ore di attesa per le auto, siamo riusciti a lasciare l’aeroporto e abbiamo raggiunto la cittadina dove iniziava la strada sterrata per andare nelle montagne, abbiamo deciso di fermarci e preparare le tende per la notte. Poco dopo l’arrivo del buio e di una temperatura che potrei con un po’ di coraggio definire fresco, abbiamo avuto i primi contatti con la popolazione locale: nella penombra ci si è avvicinato in gruppo composto da una decina di ragazzi giovani e due signori più anziani, tutti vestiti con il classico abito intero omanita e il cappello decorato con motivi geometrici. All’inizio non capivamo bene cosa stesse succedendo. Per un attimo ammetto di aver avuto anche un po’ di paura: poi abbiamo capito che loro erano venuti a salutarci, curiosi di cosa ci facessimo lì e ad offrirci datteri e caffè. Le presentazioni sono state accompagnate da una stretta di mano a tutti i miei compagni di viaggio. A me è toccato uno sguardo dapprima sorpreso, poi rispettoso, seguito da un saluto senza alcun contatto fisico.

Sono partita per l’Oman con l’idea di ripetere vie di arrampicata a più tiri. Nello specifico avevo in testa di voler ripetere una via di Hansjörg Auer sulla parete più imponente dell’Oman, lo Jebel Misht. Una volta arrivati in vista della parete mi sono subito resa conto che il mio progetto non sarebbe stato realizzabile. I mille metri di parete dello Jebel Misht dove corre la via “Fata Morgana” mi si sono presentati davanti come un gigantesco specchio riflettente luce e calore. A mezzogiorno era quasi difficile guardarla, senza occhiali da sole ti si chiudevano gli occhi e dopo poco non vedevi l’ora di risalire a bordo dei fuoristrada con l’aria condizionata. All’improvviso le pareti esposte a nord dello Jebel Kawr, sopra la località di Al Kumeira, che dalle immagini presenti sulla piccola guida di arrampicata che avevamo a disposizione non sembravano interessanti, sono entrate a far parte dei miei piani.

Prima di questo viaggio non mi era mai capitato di aprire una nuova via di arrampicata. Ad essere sincera non pensavo che mi potesse piacere, e forse fino ad ora l’avevo vista come una cosa a cui bisogna dedicare tanto tempo e che, ora come ora, non mi interessava.

E proprio sulle pareti di questo Paese tanto diverso dall’Italia, tanto lontano, su una roccia che viene definita calcare, allo stesso modo delle pareti della a me ben nota Valle del Sarca (Arco di Trento), ma che garantisco da scalare è molto diversa dalla roccia di casa, ho capito di aver voglia di provare. A dire la verità è stata anche una necessità, dato che in Oman l’arrampicata come la conosciamo noi deve ancora svilupparsi, le pareti e le linee più belle sono ancora molte volte da scoprire, da creare, da aprire. Dopo una prima esperienza su qualche tiro facile su roccia mediocre, in cui Riccardo con pazienza mi ha insegnato a usare il trapano, con Daniele abbiamo deciso di cimentarci in qualcosa di più simile a quello che rappresenta per me la scalata. Abbiamo scelto una linea dove la parete è verticale, con pochi punti deboli e abbiamo detto: proviamo qui, la roccia sembra bella, l’esposizione non mancherà, l’ingaggio sarà assicurato, la possibilità di non riuscire a passare di là non così lontana…

Arrivati sotto la parete abbiamo preparato il sacco da recupero con tutto l’occorrente: friends, chiodi, martello, spit, trapano, batterie, tanta acqua, arance, datteri… ero un po’ agitata. Sul primo tiro ho fatto fatica, non perché fosse effettivamente difficile da scalare, ma più per l’ansia che mi creava intraprendere questa nuova esperienza. Per tranquillizzarmi e avare fiducia in me stessa mi ripetevo che questa cosa la avevo già fatta tante volte. Pensavo alle volte in cui mi è capitato di perdermi in parete, di finire fuori via. Tutto inizia a non combaciare più con la relazione della via prescelta, e ci si ritrova quindi a scalare su una linea della parete meno percorsa, dove magari si è i primi a toccare la roccia in quel punto. Questo con tutte le difficoltà del caso: capire dove andare, che linea seguire, che sequenza di appigli e appoggi, verificare la tenuta delle prese, rimuovere i massi instabili, decidere se e dove mettere le protezioni di progressione, capire dove costruire la sosta per poi recuperare il compagno… E più pensavo a queste esperienze, più mi veniva in mente l’agitazione che caratterizza queste situazioni di incertezza.

Poi quando è stato il momento di aprire un tiro un po’ più difficile, tutti questi pensieri hanno lasciato la mia mente, che si è concentrata sul momento, sulle sensazioni, talmente tanto da farmi esaurire le forze e installare la sosta dopo neanche venti metri di arrampicata. Alla fine in una lunga giornata abbiamo aperto quattro tiri. Mi sono resa conto di quanto tempo, quanta concentrazione e quante energie servono per aprire anche solo una lunghezza di corda. Ricordo che, quando siamo scesi ho guardato il mio compagno di cordata, Daniele, e gli ho detto “Ma oggi dove è finito il tempo?”

La sera poi mentre scrivevo il mio diario ho capito la differenza fondamentale tra aprire una via e perdersi in parete. Forse ho anche capito perché quest’esperienza tanto intensa mi ha fatto venire voglia di riprovarci. Quando apri una via hai scelto tu di andare a infilarti in un punto della parete che non ha mai scalato nessuno, e lo hai scelto spinto dalla curiosità e dalla voglia di disegnare la tua strada, di costruire la tua opera con la tua etica e le tue regole, di lasciarci in qualche modo una parte di te; questa volta non ci sei finito per sbaglio o disattenzione. Penso che i ridotti stimoli ambientali esterni in combinazione con l’assenza di un percorso già scritto da seguire mi abbiano permesso di concentrarmi talmente tanto su ciò che stavo vivendo da permettermi di vivere uno stato di totale distacco dal mondo esterno.

E così qualche giorno dopo ci abbiamo provato di nuovo. In accordo con il mio compagno di cordata abbiamo deciso di non concludere la via che avevamo iniziato. Forse si trattava di un progetto troppo ambizioso, non tanto per le nostre capacità alpinistiche, ma più per il tempo che avremmo dovuto dedicarci. Sono felice che sia stata anche una decisione condivisa con il mio compagno di cordata. Personalmente, sono felicissima di aver sbattuto il naso contro qualcosa di difficile per me in quel momento, ma sono anche contenta di aver scelto di esplorare anche altre pareti, altri posti e condividere altre esperienze con i compagni di viaggio. Penso che per me la prima volta in cui mi trovo in un posto nuovo sia importante esplorare e dare sfogo alla mia infinita curiosità. In quel momento non sentivo il bisogno di perdermi su una sola linea di roccia.

Uno degli ultimi giorni abbiamo avuto anche una piccola sorpresa. Quella che definirei una soddisfazione anche agli occhi di chi ha seguito dall’esterno il nostro progetto: abbiamo aperto una via, e questa volta anche concluso. Cordata da tre, con Daniele e Marco C., che finalmente ha potuto tornare a scalare dopo il piccolo incidente di inizio spedizione. È stata la volta di “Vento del deserto”, una breve via aperta nel Wadi Nakhar, molto varia come stili di arrampicata e oserei anche dire molto bella. Consigliamo, in comune accordo, una ripetizione al mattino presto, fino a che la parete rimane all’ombra, a meno che non si voglia sfidare il caldo estremo per rivivere l’esperienza di noi apritori, con l’unico vantaggio di potersi svegliare tardi.

Al rientro in Italia e quindi anche alla conclusione del progetto dell’Eagle Team porto a casa due anni di esperienze intense, crescita alpinistica ma soprattutto personale. Porto nel cuore tanti ricordi e tante persone fantastiche con cui condivido una grande passione comune, ma che ognuno di noi, vive un po’ a modo suo.

Domenica, 13 Aprile 2025 19:02

Sojo d’Uderle Sojo Rosso

Arrampicate scelte raccontate dagli alpinisti che le hanno vissute

Il volume raccoglie quattordici itinerari scelti nel Sojo d’Uderle e nel Sojo Rosso in Pasubio, Prealpi Vicentine.

L’opera, edita nel maggio 2024 da ViviDolomiti Edizioni, è stata realizzata da Diana Sbabo con la collaborazione di Ivo Maistrello e Luca Giovannini.

La stessa Diana ci illustra le caratteristiche di questa singolare opera, per tanti versi innovativa nel panorama delle guide di montagna.

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Questo progetto, nato più di due anni fa, tratta le pareti del Sojo d’Uderle e Sojo Rosso in Pasubio, importanti a livello alpinistico e arrampicatorio.

Sono riportati tutti i tracciati storici esistenti (per gran parte ripetuti), concentrandosi su quattordici vie scelte che nel corso degli anni, io e Ivo, abbiamo salito e valutato meritevoli, tanto da chiedere agli apritori la possibilità di pulirle e sistemarle nella chiodatura. Ogni via scelta è accompagnata dall’intervista fatta ad ogni apritore e dalla foto ritratto, realizzata dall’amico alpinista e fotografo Luca Giovannini. Sono proprio questi racconti pieni di vita, avventura e montagna che creano il libro!

Ringrazio ViviDolomiti Edizioni e chi ha sostenuto questo progetto: Comune di Valli del Pasubio, Cai sezione di Schio, Montura, Zamberlan calzaturificio e Zamberlan Mountain Sport, Caffè Carraro, Rifugio Achille Papa, Vertical Evolution, Ecozema, Cai Sezione di Thiene; tutte le persone che mi hanno aiutata.

Alla base di tutto c’è la fortuna di essere nata a Staro in una famiglia con cui ho iniziato ad andare in montagna dove poi ho continuato con amici e compagni ed è diventata una passione grandissima. Grazie a Ivo perché siamo cresciuti insieme e in alpinismo e abbiamo potuto arrivare e ritornare qui sui Soji.

Spero che chiunque frequenti o si avvicini a questa montagna, camminando, arrampicando, ripetendo, sistemando e aprendo nuove vie lo faccia con lo stesso rispetto, etica e umiltà avuto da chi prima di noi ha veramente amato e rispettato questa montagna”.

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Martedì, 18 Marzo 2025 17:02

 

Il progetto Eagle Team, a firma CAI e CAAI, si è concluso con una spedizione. Obiettivo Patagonia, per sei dei partecipanti.

A cura di Mauro Penasa (su informazioni messe a disposizione da Ufficio Stampa CAI, Gian Luca Gasca e Guido Sassi)

 

PREMESSA

Guido Machetto, il maggiore esponente dell’alpinismo biellese, sosteneva che l’alpinismo vissuto sulle nostre Alpi e le spedizioni himalayane siano spesso soltanto lontani parenti, e che addirittura non condividano neanche la stessa base di passione. Sono pienamente d’accordo. Se non si subisce in modo profondo il fascino del viaggio, allora una spedizione è solo un incidente di percorso in una carriera alpinistica, tanto che spesso forti arrampicatori, una volta fuori dal loro ambiente di elezione, non riescono a ripetere i risultati a cui sono abituati, anzi ne escono con poco di fatto, per non dire con le ossa rotte…

John Lennon diceva che “la vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato su altri progetti”. Una spedizione è questo: il progetto è la salita, il difficile è di certo scalare ma soprattutto quanto di inconsueto ed inaspettato devi superare per arrivare fino alla montagna e da qui in cima mantenendo, da una rivoluzione di programma ad un’altra, una concentrazione assoluta ed una determinazione feroce, senza le quali l’obiettivo rimarrà un sogno. 

CAI Eagle Team è stato pensato per terminare con una spedizione. Un finale eccitante che è certamente molto impegnativo, ma anche una sollecitazione indispensabile per verificare la crescita e soprattutto per indirizzare il futuro dei giovani partecipanti.

Purtroppo, l’idea della spedizione finale in Patagonia all’inizio è sembrata a qualcuno una superflua concessione al vero protagonista del CAI Eagle Team, Matteo della Bordella, più che la classica ciliegina sulla torta di un progetto obiettivamente sentito, di cui da tempo si sentiva la mancanza…

O più semplicemente c’era la sensazione che il viaggio in Patagonia non fosse davvero necessario, vista la grande attività proposta ai ragazzi durante le settimane alpine.

Un po’ per volta, anche parlando con gli interessati, è stato però possibile rendersi conto dell’importanza di un simile sogno nell’orizzonte di chi sta costruendo la propria carriera alpinistica. CAI Eagle Team ha dato ai ragazzi la possibilità di fare in un anno e mezzo l’esperienza che avrebbero potuto raccogliere in 5 o 6 anni di impegno: la spedizione finale è in prospettiva in grado di riproporre lo stesso risultato e di dare un forte impulso a quanti hanno vissuto questa avventura, ma soprattutto offrire loro la consapevolezza che si tratti di una strada percorribile nel futuro. 

Non credo che la Patagonia fosse un ingrediente indispensabile, mentre invece l’idea di scalare una serie di pareti da sogno è stata un richiamo irresistibile, e sono convinto che questa vada riproposta all’interno delle nuove edizioni del progetto.

E’ ovvio che le guglie della Patagonia hanno un enorme rilievo nell’alpinismo odierno. Peraltro, come dice anche Matteo, si è trattato solo di un passo in più – beh, un bel passo comunque – rispetto alle modalità di salita che abbiamo sulle Alpi: in effetti, avvicinamenti molto lunghi e condizioni spesso difficili non sono nulla di davvero rivoluzionario rispetto al vero isolamento ed alle incertezze che questo può provocare.

D’altro canto, una spedizione lontana dal mondo sarebbe stata di impegno davvero gravoso ed avrebbe proposto rischi non facili da accettare, se non dai protagonisti, almeno da una certa fetta dell’opinione pubblica…

Inoltre, trovare obiettivi diversi da un singolo Campo Base sarebbe stato difficile: in Patagonia il numero delle possibilità ha garantito una pluralità di obiettivi, fondamentale per una azione indipendente dei ragazzi, e la loro crescita non potrà non beneficiarne. 

Che dire, sarebbe stato bello mandarli tutti. Ma l’idea di fondo era premiare chi si è più distinto… Peraltro tutti, ragazzi e ragazze, hanno messo un profondo impegno, tanto che si è voluto mandare un altro gruppo in Oman. Un viaggio più breve, meno impegnativo, ma anch’esso pieno di soddisfazioni per chi ha potuto partecipare, e per l’Accademico che ne ha curato la realizzazione. Ben fatto!

Che anche questo sia di ispirazione per il futuro…

Mauro Penasa

PATAGONIA, IL SOGNO

Il progetto CAI Eagle Team si è concluso con una spedizione. Obiettivo Patagonia, per sei dei partecipanti, selezionati dopo un anno e mezzo di salite in diversi luoghi delle Alpi, due alpiniste e quattro alpinisti. Avventura, il coronamento di mesi di impegno e passione per raggiungere il sogno di scalare sulle pareti di granito, spettacolari e affascinanti, delle grandi montagne della Patagonia, insieme a specialisti che possono aprire un mondo di possibilità.

Immagine1Il gruppo del CAI Eagle Team al completo, presso la sede centrale del CAI a Milano © CAIAlessandra Prato (milanese classe 1995), Camilla Reggio (torinese, 1996), Marco Cordin (trentino, 1999), Luca Ducoli (originario di Breno, in provincia di Brescia, 2001), Dario Eynard (bergamasco, 2000) e Giacomo Meliffi (originario di Urbania, in provincia di Pesaro, 1996) si sono ritrovati ai primi di febbraio nella cittadina di El Chalten, pronti per prendere parte alle battute finali del progetto. A guidarli Matteo Della Bordella insieme a Massimo Faletti, Silvia Loreggian e Luca Schiera, affiancati poi anche da Mirco Grasso.

“La Patagonia è la conclusione logica del cammino intrapreso dai ragazzi”, afferma Matteo Della Bordella. “La Patagonia di oggi, pur presentando una logistica complessa, è un punto di transizione ideale: più accessibile rispetto a Groenlandia o Himalaya, ma sicuramente un passo avanti rispetto alle Alpi. Non c'è una vera e propria preparazione per la Patagonia, qui conta l'esperienza sul posto, da costruire, faticosamente, di spedizione in spedizione. Il tempo a disposizione è sempre poco, e non ci si può permettere il lusso di pasticciare, perché il meteo è imprevedibile e le distanze sono grandi.

Per me queste montagne hanno un valore personale enorme e credo possano aiutare i ragazzi a completare il loro percorso di apprendimento. Mi auguro di riuscire a trasmettere loro la mia passione. Se riusciremo a scalare tre volte e i ragazzi si innamoreranno di queste cime, avrò raggiunto il mio obiettivo. Qualsiasi risultato in più sarà solo un bonus”.

“Vedere una nuova generazione di alpinisti, cresciuti in questi ultimi anni all’interno del CAI, affrontare le pareti della Patagonia è motivo di grande orgoglio”, dichiara il Presidente generale del CAI Antonio Montani. “È il segno che il lavoro di formazione svolto sta dando i suoi frutti. Auguro a tutto il team buona fortuna: che questa esperienza li arricchisca non solo tecnicamente, ma anche umanamente. Torneranno con nuove competenze, ma soprattutto con gli occhi pieni di meraviglia. Il loro percorso è un esempio per tutti i giovani che sognano l’alpinismo di esplorazione”.

Il programma indicativo era dividere il gruppo in tre cordate autonome, ciascuna con obiettivi e strategie differenti. Faletti insieme a Meliffi e a Cordin e si doveva concentrare sulla zona del Cerro Torre,
Loreggian, Prato e Ducoli nel gruppo del Fitz Roy, infine Della Bordella, Schiera, Eynard e Reggio, avevano come obiettivo una nuova linea sul Cerro Piergiorgio. “La valle del Cerro Piergiorgio è molto meno frequentata rispetto a Cerro Torre e Fitz Roy e ci sono ancora molte possibilità per esplorare e aprire vie nuove, anche sulla spettacolare muraglia del Piergiorgio, alta quasi mille metri, senza dubbio una delle pareti più belle e difficili della Patagonia. Completare il tentativo di Maurizio Giordani e Luca Maspes su questa cima sarebbe il top del top, ma forse sto sognando ad occhi aperti”, commentava Della Bordella alla partenza. 

E ancora: “Non ho mai vissuto la Patagonia di Ermanno Salvaterra, quando non c'erano le previsioni ed El Chalten non esisteva. La prima volta che sono stato alla Torre Egger con Berna abbiamo passato dieci giorni in truna, per nostra scelta, perchè il villaggio c'era già… E’ stata un'esperienza profonda, dalla quale ho capito che non mi era possibile seguire l’esempio di Salvaterra. Scalare nelle bufere, magari in artificiale ma in qualunque condizione, si trattava di uno stile big wall che non era il mio… io cercavo più la libera, lo stile alpino, che però richiede condizioni ragionevoli.

Immagine2I 6 del CAI Eagle Team, con Della Bordella e i tutor, a El Chaltén © Mirco Grasso

PRIMI APPROCCI

Alcuni partecipanti si sono recati in Sudamerica in anticipo. Matteo, Alessandra e Giacomo erano già lì all’arrivo dei compagni di avventura, all’inizio di febbraio.

“Ora che siamo tutti insieme, finalmente si parte! I ragazzi non vedono l’ora di mettersi alla prova, anche se per il momento il meteo non è dei migliori. Abbiamo già fatto un briefing per organizzare al meglio i primi giorni e sfruttare al massimo ogni finestra di bel tempo”.

Già da subito, infatti, una breve tregua meteo sembrava poter consentire al gruppo di prendere confidenza con il granito patagonico… I primi giorni sono fondamentali per ambientarsi e testare il terreno, in attesa di condizioni migliori che permettano di puntare agli obiettivi più ambiziosi della spedizione. Ma la finestra è risultata troppo breve per avere qualche risultato.

Meno di una decina di giorni dopo le possibilità sono sembrate più rilevanti…

Immagine3Il Fitz Roy © Luca DucoliLuca Ducoli e Silvia Loreggian hanno scelto come obiettivo l’Aguja Poincenot (3002 m), su cui hanno tentato la salita della via Potter-Davis (400m, 75°, 7a) sulla parete nord, iconica via aperta nel 2001 da Steph Davis e Dean Potter in 25 ore andata e ritorno dal Passo Superior.

Racconta Ducoli. “Siamo saliti al Passo Superior il 12 febbraio, partendo la mattina da El Chalten. È stato bellissimo avvicinarsi attraverso il ghiacciaio scoprendo il Fitz Roy. Da qui praticamente hai accesso a tutto il gruppo”. Arrivati al passo hanno trascorso la notte per poi attaccare. “Siamo partiti il 13 alle 3.40 del mattino dalla tenda. Abbiamo risalito sei tiri di roccia, ma erano tutti intasati di ghiaccio e facevamo una faticaccia. In più abbiamo preso vento e non abbiamo mai visto il sole, avevamo freddissimo ed era impossibile continuare a scalare. Così ci siamo ritirati e siamo rientrati alla tenda”.

Con un po’ di delusione, ma consapevoli che era la cosa giusta da fare i due hanno ricalcolato le possibilità, decidendo così di cambiare obiettivo. “Il mattino dopo siamo ripartiti, sempre con obiettivo l’Aguja Poincenot, ma questa volta con assetto invernale. Abbiamo salito la Whillans-Cochrane, una via classica per la vetta. Era tutto completamente pieno di ghiaccio, così abbiamo scalato con picche e ramponi. Praticamente non abbiamo mai tolto i guanti, nemmeno a scalare su roccia”. Ci troviamo in questo caso sulla parete est dell’Aguja Poincenot, su una via del 1962 aperta da Don Whillans e Frank Cochrane. Un itinerario abbastanza frequentato che ha però presentato qualche difficoltà in più rispetto a quella che sarebbe stata l’esperienza vissuta in condizioni ottimali. “Per me è stata la prima cima patagonica, è stato bellissimo”.

Dario Eynard si è invece mosso insieme a Matteo Della Bordella e a Mirco Grasso sulla parete nord-ovest del Cerro Piergiorgio, con l’obiettivo di aprirvi una nuova via. Un obiettivo che Della Bordella ha voluto condividere con i ragazzi del CAI Eagle Team. Mirco Grasso, già presente in Patagonia con altre cordate e con altri obiettivi, ha scelto di unirsi a loro in questo tentativo. Questo giovane Accademico del CAI, classe 1993, è oggi uno degli esponenti di spicco dell’alpinismo di ricerca ed è diventato sul campo componente effettivo della spedizione patagonica del CAI Eagle Team. Succede spesso, nelle spedizioni patagoniche, che quando si condividono obiettivi, idee e progetti, si creino cordate nuove e motivate. 

Nel caso di Mirco lo sprone a unirsi alla spedizione arriva dall’ambizioso progetto sul Piergiorgio: completare la via iniziata da Maurizio Giordani e Luca Maspes nel 1995 sul versante nord-ovest della montagna. La stessa via su cui Grasso già aveva messo le mani in un tentativo di qualche anno fa. 

Così i 3 si sono portati ai piedi della parete, dove hanno installato il loro campo base e, sfruttando appieno le giornate di bel tempo, sono riusciti a scalare metà della parete. Rientrati a El Chaltén con il sopraggiungere di nuvole e vento, sono rimasti in attesa di una nuova finestra che, se abbastanza lunga e stabile, avrebbe potuto permettere di completare la via.

“È stata la prima vera occasione e direi che la nostra cordata l'ha sfruttata alla grande, abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati e se siamo fortunati con il meteo il progetto si potrebbe concludere”, commenta Dario Eynard. “Il Cerro Piergiorgio è spaventosamente grande e isolato, però sento che nella cordata c'è stato affiatamento e abbiamo remato tutti verso lo stesso obiettivo. Ho ancora molto da imparare sulla logistica in contesti come questi, completamente differenti dalle Alpi, e i miei compagni mi hanno trasmesso veramente molta esperienza. Sono molto contento di come si è svolta questa seconda uscita”.

Immagine4Il Cerro Piergiorgio © Francesco Quaglino/Enrico Luoni

Immagine5In scalata sul Cerro Piergiorgio © Francesco Quaglino/Enrico Luoni

FINALE DI PARTITA

Dopo aver a lungo atteso una nuova finestra di bel tempo, il 25 febbraio le cordate hanno ripreso l’attività. "Finalmente i giovani del CAI Eagle Team tornano in parete, fremono dalla voglia di partire” ha commentato Matteo. “Per quanto riguarda la nostra cordata, speriamo che si uniscano tutti i fili per chiudere questo capolavoro sul Piergiorgio, immaginato già 30 anni fa. Per l’occasione ci ha raggiunti dall’Italia anche Maurizio Giordani, il primo insieme a Luca Maspes a intuire questa linea. La nord-ovest del Piergiorgio è unica: uno scudo di roccia liscio privo di fessure o linee evidenti, dove è richiesta fantasia e creatività".

Immagine11La parete Cerro Piergiorgio, dove corre la nuova via “Gringos Locos”

piergiorgio NWCerro Piergiorgio Parete NW: la situazione all'arrivo dell'Eagle Team. Itinerario nr. 5: i 21 tiri di Gringos Locos saliti nel 1995 da Giordani e Maspes. Courtesy Pataclimbing

Relazione gringos locos Foto Della Bordella Eynard GrassoRelazione Gringos Locos. Foto Della Bordella-Eynard-Grasso

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Mirco, Dario e Matteo hanno infine raggiunto la vetta del Cerro Piergiorgio (2719 m), completando “Gringos Locos”. La via ha uno sviluppo totale di 27 tiri, con difficoltà massima di 7a/A2. Nei tratti più difficili, i tre hanno alternato passaggi in libera a tratti in artificiale mediante skyhook. Negli ultimi cinque tiri la via si ricongiunge alla “Via dell'Hermano”, tentata più volte dai Ragni di Lecco e salita nel 2008 da Hervè Barmasse e Christian Brenna.

La cordata è arrivata in vetta alle 3 del mattino di venerdì 28 febbraio, per poi scendere immediatamente, evitando così l'arrivo del maltempo. “Non poteva esserci miglior conclusione del progetto CAI Eagle Team. Abbiamo realizzato una spedizione complessa, che ha messo alla prova tutti i partecipanti nel loro battesimo con le montagne più belle al mondo”.

IMG 20250306 WA0013Anche Maurizio Giordani si è complimentato con i ragazzi: «questo risultato è la perfetta conclusione di un progetto storico, che rimane nei miei ricordi come un'avventura irripetibile».

Per l’Accademico poi la soddisfazione è grande: la cordata che ha aperto “Gringos Locos” è composta da tre Accademici, segno che i giovani sui quali si sta puntando meritano davvero l’attenzione a loro dedicata.

Camilla Reggio e Giacomo Meliffi hanno invece aperto sulla Aguja Media Luna (massiccio del Cerro Torre) “Jineteada” una variante di 200 metri della “Rubio y Azul”. La nuova via, composta da cinque tiri con difficoltà massima 7a, parte sullo strapiombo del versante sud-est della Aguja Media Luna, per poi girare lo spigolo e ricongiungersi alla “Rubio y Azul”. Per Reggio e Meliffi “Jineteada” consente un'arrampicata tutta in fessura, pulita, piena di incastri bellissimi su tutti i tiri.

Marco CordinAlessandra Prato e Massimo Faletti, che erano con Camilla e Giacomo, sono stati invece colpiti da una violenta influenza intestinale ai piedi delle pareti e hanno dovuto rinunciare alle salite.

L’ultima cordata, composta da Luca Ducoli e da Silvia Loreggian, che stava tentando la vetta del Cerro Torre per la Via dei Ragni giovedì scorso, si è dovuta calare senza raggiungere la vetta a causa della presenza in parete di ben dieci cordate, un numero davvero elevato.

La spedizione all'altro capo del mondo è stata simile a una jineteada – una sorta di rodeo argentino – per Camilla e Giacomo: "Mentre eravamo sulla via alla Aguja Media Luna ci siamo sentiti dentro un turbinio di emozioni, come se il gioco fosse rimanere in sella ad un cavallo imbizzarrito, il nome viene da lì".

Camilla ha cambiato i suoi obiettivi durante la spedizione: Siamo arrivati il 31 gennaio, il 3 febbraio con Dario siamo andati all'Aguja Guillament per fare il couloir Amy. Le condizioni non erano un gran che, quindi abbiamo scelto questa via di misto sulla sud-est. Siamo dovuti tornare indietro perché il meteo è peggiorato, la scelta giusta era quella di rinunciare. Nei giorni successivi mi è venuta qualche bolla ai piedi, poi ho preso una distorsione.”

Immagine8El Mocho © C. Reggio

Trascorso qualche giorno, con Alessandra e Max, abbiamo provato a sfruttare la seconda finestra di bel tempo per andare a scalare su El Mocho. Ma la via era in condizioni molto invernali, intasata di neve e di ghiaccio e non siamo arrivati in cima nemmeno in quell'occasione.

In realtà non per forza bisogna arrivare in cima, l'esperienza è stata comunque incredibile, anche solo per la bellezza dei luoghi. La sera del 26 Alessandra, Max e Marco sono stati male e così il 27 ho fatto squadra con Jack, che aveva visto una bella linea sulla Aguja Media Luna, così abbiamo aperto una variante alla via “Rubio y azul” su una faccia vergine. Sono circa 200 metri di fessure, verticali e strapiombanti, difficoltà fino a 7a, che abbiamo scalato in trad, fino a ricongiungerci alla linea principale sulla prima spalla... Anche le soste erano rimovibili, abbiamo lasciato tutto pulito.

In Patagonia mi sono sentita molto piccola. Grandi spazi e tanto vento: dopo un mese che soffiava tutti i giorni, qua a casa tutto sembra estremamente calmo.

Giacomo Meliffi e Marco Cordin avevano puntato invece sulla Torre Egger, ma le cose non sono girate nel verso giusto…

Poincenot Luca Ducoli Silvia LoreggianPoincenot - Luca Ducoli e Silvia Loreggian


Giacomo: “Abbiamo avuto un impatto duro con la
Patagonia, tutta la gamma di esperienze che una spedizione può offrire a un alpinista. Brutto tempo, avvicinamenti infiniti, qualche litigio e qualche legame che invece ne è uscito rafforzato. La prima finestra di bel tempo non era una vera finestra, così siamo andati al campo Nipo Nino, ma non abbiamo scalato.

C'è poi stata una operazione di salvataggio, la cosa più intensa che abbiamo vissuto. Subito dopo il primo tentativo ci è arrivata la notizia di tre ragazzi cileni che non si muovevano da un paio di giorni sul Fitz Roy. Al terzo invece hanno ripreso, quando sembravano ormai spacciati. Io e Marco siamo andati davanti al club alpino, sapevamo che c'era già una cordata formata da Tasio, un ragazzo basco e Facu, argentino. Ne chiedevano altre due...anche se belli stanchi ci siamo lanciati subito, la speranza che ce la potessero fare ci ha dato forza. E poi sapevo che ero con Marco, la cosa poteva mettersi giù brutta mai lui era un punto di forza in questa faccenda per me e viceversa. Poi c'era l'altra cordata, con Sean Villanueva e Juan, medico alpinista di El Chalten. Siamo saliti il giorno stesso, fin sotto la breccia degli italiani, ma non c'è stato bisogno di salire, loro sono riusciti a calarsi con una sola corda per incontrare i soccorsi. Noi abbiamo scavato una truna, allestito il campo base, abbiamo fatto da mangiare. Avevano principi di congelamento, ma stavano bene, considerando che erano fuori da 6 giorni. La cosa che mi è rimasta di più è il senso di solidarietà, ci davamo forza a vicenda, per un obiettivo molto più importante che scalare, si trattava di salvare delle vite. Per fortuna il meteo in questo caso ha aiutato, l'elicottero è riuscito a venire a prenderli, altrimenti non sarebbero stato tanto facile portarli giù...”

Anche Marco è rimasto colpito da quanto successo: “È stata un’esperienza fortissima, fortunatamente finita bene. È stato anche un assaggio del vero ambiente patagonico, dove non esiste un soccorso organizzato, ma nel giro di pochi secondi un'intera comunità si mobilita, e si va. Pensavamo di dover scalare per aiutarli a scendere, invece siamo finiti a cucinare – insieme a un fuoriclasse come Sean Villanueva, tra l’altro. E va bene così, perché in quel momento era quello di cui c’era bisogno.

È stato molto formativo, mi ha insegnato quanto sia importante mettere da parte il proprio ego per dare una mano, qualunque cosa serva. Invece di scalare ho fatto il cuoco, di quello c'era bisogno. Ed è giusto così”.

Immagine9Sul primo tiro della variante alla “Rubio y azul”

Immagine10In apertura di “Jineteada” © C.

 

Ancora Giacomo: Siamo tornati in zona Torre con cordate divise, io e Marco volevamo scalare la Torre Egger, abbiamo avuto un po' di disguidi con Max. A Marco non piaceva troppo la situazione, l'idea nostra era di fare la “Marc-Andrés Vision” più la “Titanic”. Comunque, non siamo riusciti a scalare quello che volevamo e alla fine siamo andati a fare la “Rubio y azul”, una bella via non troppo difficile di Ermanno Salvaterra, sulla Aguja di Media Luna.

Poi abbiamo anche provato a fare un tentativo finale. Sembrava che ci fosse quest'ultima finestra, eravamo solo io e Marco. Eravamo carichi per fare la salita one push, ma poi la finestra si è accorciata e la notte prima di attaccare…in tenda c'era gente che vomitava ovunque. Colpa dell'acqua che avevamo bevuto, comunque è stato male anche Marco. Io sono stato l'unico che si è salvato, comunque non c'era possibilità di tentare in quelle condizioni. A quel punto ho scalato con Camilla e siamo riusciti ad aprire una nuova via sulla faccia sud-est della Aguja di Media Luna.

I componenti della spedizione sono rientrati in Italia ad inizio marzo, dopo un mese di avventure sulle pareti della Patagonia. Di sicuro con tanta esperienza e consapevolezza in più. E state pur certi che in futuro sentiremo ancora parlare di questi giovani…

 

Sabato, 15 Marzo 2025 21:51

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 Appuntamento a Padova con due film di avventura/esplorazione girati da Manrico Dell'Agnola:

Immenso Blu Antartide

Il film documentario, girato nel 2020, racconta l’esperienza di tre alpinisti che, digiuni di avventure nautiche, attraversano lo Stretto di Drake a bordo della Ice Bird, una barca a vela di 29 metri, per esplorare alcune porzioni della Penisola Antartica. Membri della spedizione gli Accademici Marcello Sanguineti, Gian Luca Cavalli e lo stesso Manrico Dell’Agnola.

ANTARCTICA 2020

Donna Fugata

Sulla famosa via sportiva aperta nel 2004 da Cristoph Hainz sulla Parete Sud della Torre Trieste in Civetta.

 

 

Scarica qui la locandina

 

 

Sabato, 01 Marzo 2025 21:11

Il fascino del Greuvetta

Ugo Manera ripercorre la storia delle prime salite alla Parete Est

Ottimizzazione e grafica A. Rampini

Domenica 14 luglio 2024, sulla parete Est del Mont Greuvetta nel massiccio del Monte Bianco, una caduta di pietre ha travolto Marco Bagliani e Luca Giribone strappandoli da una sosta nella parte alta della parete e facendoli precipitare fino sul ghiacciaio. Della cordata faceva parte anche Luciano Peirano che al momento dell’incidente stava arrampicando. Non è stato trascinato nella caduta solo perché le pietre hanno tranciato la corda che lo legava ai due sfortunati compagni. Peirano è stato soccorso e portato in salvo dall’intervento dell’elicottero del Soccorso Alpino.

Tutti e tre erano soci del Club Alpino Accademico Italiano. Il più giovane, Luca Giribone, era appena entrato nel Club ed io lo avevo conosciuto alla presentazione dei nuovi soci. Scorrendo la sua cospicua attività alpinistica avevo scoperto il suo interesse per le selvagge pareti del Massif des Ecrins, passione che, in passato, aveva tanto spinto anche me verso quelle severe pareti. Conoscevo invece Marco Bagliani da molti anni, era anch’egli istruttore alla scuola di alpinismo Giusto Gervasutti ed avevo presentato io la sua proposta di ammissione all’ Accademico.

1 Mont Greuverra parete EstMont Greuvetta Parete EstLuciano Peirano mi aveva chiesto un anno prima notizie sulle vie che avevo aperto sulla parete Est del Greuvetta manifestando il suo interesse per quell’angolo affascinante ed un po’ misterioso del Monte Bianco. Io, che conservo ancora le relazioni tecniche scritte a mano di quasi tutte le vie che ho aperto, le avevo scansionate e gliele avevo spedite.

La tragedia del 14 luglio è avvenuta sulla prima delle vie aperte sulla parete Est, quella tracciata da me e da Claudio Sant’Unione nel lontano 1974. Ciò accresce ancora, se possibile, il mio rammarico per quanto è successo.

Il vallone di Greuvetta è tributario della val Ferret ed è incastrato tra i più lunghi valloni di Freboudze e del Triolet. È relativamente corto ma selvaggio ed impervio e racchiude un ghiacciaio non ampio ma molto tormentato. È dominato dalla parete Est che, dopo l’appicco sottostante la cima principale, si prolunga verso Sud fino al Piccolo Greuvetta.

Feci la scoperta del Greuvetta scorrendo il secondo volume, appena uscito, della guida del Monte Bianco edizione 1968. Allora ero già contagiato dalla mania della scoperta e la pubblicazione di ogni guida alpinistica era l’occasione per scoprire qualche parete non ancora salita. A pagina 229 il pregevole schizzo di Renato Chabod della Est del Greuvetta attirò la mia attenzione. Su tutta l’ampia parete non vi erano indicate vie di scalata. L’unica via a raggiungere la cima principale era quella tracciata sullo spigolo meridionale da una forte cordata di militari di stanza ad Aosta nel 1942.

Iniziò così la mia infatuazione per il Greuvetta. Già nell’estate del 1969 convinsi tre amici, Ezio Comba, Ennio Cristiano e Pierin Danusso, ad effettuare un tentativo. Dopo aver rischiato di essere travolti dalle acque nell’attraversamento del torrente della Val Ferret, salimmo direttamente nel vallone del Greuvetta. Non vi erano tracce di sentiero ma ovunque erano visibili segni di pietre cadute dall’alto, era evidente che eventuali pietre provenienti dalle pareti sovrastanti, non trovando interruzioni lungo il ripido pendio, giungevano fino in fondo. Fu con un bel po’ di apprensione che salimmo fino alla morena del ghiacciaio, intanto il tempo era cambiato e cominciò a piovere.

In tutto l’alto vallone non vi sono anfratti dove trovare riparo, sulla morena vi era un solo grande masso contro il quale trovammo alcune pietre accatastate a forma di riparo, tracce di qualche nostro predecessore, forse i salitori dello spigolo nel 1942. Cercammo di migliorare il riparo con scarso successo e lì trascorremmo due notti ed un giorno nella vana speranza di un miglioramento che non giunse. Non riuscimmo neanche a vedere la parete oggetto dei nostri desideri, sempre avvolta dalle nebbie. Delusi scendemmo a valle con la preoccupazione di vederci arrivare alle spalle qualche pietra proveniente dall’alto.

Il Greuvetta restò nei miei pensieri ma vi feci ritorno solo nel 1974; il complicato approccio, la convinzione che non vi fossero molti concorrenti per quella parete e tanti altri obiettivi che avevo in testa contribuirono a tenermi lontano. Un giorno però, in occasione di una camminata in val Ferret con Claudia, la mia bambina, mi portai appresso un potente binocolo proprio per osservare la Est del Greuvetta. Quel giorno, grazie allo strumento, feci due scoperte: sulla parete mi parve di scorgere il possibile tracciato di una via e, relativamente all’approccio, vidi che nell’alto vallone di Greuvetta si poteva accedere passando dal Triolet, evitando così i rischi della salita diretta della prima parte del vallone. In quel momento avevo anche un socio pronto ad accogliere la mia proposta: Claudio Sant’Unione.

5 SantUnione sulla prima lunghezza della via 1974Claudio Sant'Unione sulla prima lunghezza della Via del 1974

 

6 Sulla via del 1974Sulla via del 1974

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 12 agosto 1974 ci avventurammo lungo il vallone del Triolet cercando sui fianchi del massiccio del Greuvetta un passaggio che ci consentisse di salire sufficientemente in alto da poter raggiungere, con traversata orizzontale, la morena del ghiacciaio di Greuvetta. Trovammo il passaggio e, sebbene non ci fossero tracce, salimmo abbastanza agevolmente lungo ripidi prati e qualche zona detritica. Fascino su fascino: trovare ancora, diretti verso un angolo del Monte Bianco bello e selvaggio, un accesso senza alcuna traccia di passaggio umano. Da allora quel percorso è diventato l’accesso al Greuvetta e recentemente è stata posta una passerella per attraversare l’impetuoso torrente che scende dal Triolet.

 

Dalla mia precedente esperienza sapevo di non trovare ripari per la notte per cui ci portammo una tendina che contavamo di ricuperare dopo la salita della parete Est e la discesa dalla “normale” sul versante Ovest, con una lunga traversata orizzontale dal vallone del Freboudze che, secondo Renato Chabod, era fattibile; compimmo effettivamente quella traversata per ricuperare la tendina, ma fu una vera avventura che ci richiese ben 5 ore.

A parte una fresca doccia dovuta ad una cascatella che pioveva sulla fessura di attacco, fu una magnifica scalata lungo un percorso logico ed impegnativo, arrampicata che scatenò il nostro entusiasmo. Giungemmo in vetta al tramonto e quella bella giornata si concluse con un comodo bivacco in vetta al Greuvetta. Avevamo anche visto da vicino che in quel vallone vi erano altri tesori da scoprire per cui bisognava farci ritorno. 

Scarica qui la relazione originale della Via della Parete Est 1974 Manera/Sant'Unione.

Furono degli scalatori francesi di Lione a precedere un nostro ritorno. Jean Bernard e Frédéric Favre ripeterono la nostra via e, successivamente, ne aprirono un’altra con attacco in comune e con successivo sviluppo sulla sinistra della via del 1974: la via Domino.

3 Greuvetta EstMont Greuvetta Parete Est

 

9 isidoro Meneghin sul Mont Rouge de GreuvettaIsidoro Meneghin sul Mont Rouge de Greuvetta

L’incursione francese sul Greuvetta Est non attenuò il mio interesse per il selvaggio vallone, ma esso momentaneamente si orientò verso la parete che sottende la lunga cresta che dalla cima principale si protende verso Sud. Con quell’obiettivo due volte risalii il percorso che avevamo scoperto Claudio ed io. Una volta erano con noi Andrea Castellero e Pietro Giglio ma fummo ricacciati dal peggioramento del tempo. Una seconda volta, sempre con Claudio, risalimmo nel pomeriggio un lungo e facile sperone che portava alla base della lunga parete più o meno nel suo tratto centrale. Quivi giunti notammo, proprio sopra il punto che avevamo scelto per porre il nostro bivacco, uno spezzone di corda e due staffe appese a dei vecchi chiodi, residui di un tentativo molto antico perché corda e cordini erano ancora di canapa. Neanche quella volta fummo fortunati, nella notte cadde una spanna di neve ed al comparire del giorno dovemmo ridiscendere lo sperone facendo molta attenzione a non scivolare sulle facili placche bagnate.

8 Greuvetta Est e Mont Rouge di GreuvettaParete Est del Greuvetta e Mont Rouge di Greuvetta

7 Greuvetta parete EstMont Greuvetta Parete Est

 

 

Quel giro poco fortunato non fu del tutto inutile: salendo il facile sperone avevo notato che dal lato opposto del vallone il Mont Rouge de Greuvetta presentava un pilastro rivolto a Sud Ovest dall’aspetto molto interessante. Divenne un nuovo obiettivo e con Isidoro Meneghin decidemmo una nuova visita. Il 4 agosto 1981 eravamo nuovamente lì a salire per l’ormai, per me, familiare percorso verso il ghiacciaio di Greuvetta. La nuova via ci riservò una arrampicata di soddisfazione su ottimo granito. Mentre ero fermo alle soste ebbi modo di osservare e fotografare l’imponente parete Est della cima principale e di tracciare con la fantasia nuovi itinerari molto promettenti, soprattutto mi colpì un evidente pilastro posto a sinistra delle due vie allora esistenti. Scarica qui la relazione originale della Via del Pilastro Sud Ovest del Mont Rouge de Greuvetta.

La mia curiosità per quel luogo non era rivolta esclusivamente verso il nuovo, mi interessava anche porre le mani sulla via del 1942 lungo lo spigolo che delimita a sud la parete, così, in compagnia di Antonio Cotta, Mario Ogliengo e Dante Vota, vi feci un tentativo in una bella giornata di agosto. Un tragicomico incidente, che non sto a descrivere, successe alla seconda cordata composta da Ogliengo e Cotta e a causa di esso Antonio si rifiutò di proseguire. Io, che non mi fidavo troppo del mio secondo, decisi a mia volta di interrompere la scalata.

Proprio nel periodo in cui elaboravo nuovi progetti sul Greuvetta mi cercò Gian Carlo Grassi chiedendomi se avevo da suggerire qualche luogo degno nel massiccio del Monte Bianco ove porre un bivacco fisso a ricordo del monregalese Gianni Comino. La sezione CAI di Mondovì aveva infatti intenzione di costruire un bivacco dedicato al forte ghiacciatore caduto sui seracchi della Poire della parete della Brenva il 28 febbraio 1980. Senza esitazioni suggerii il vallone di Greuvetta indicando, come luogo idoneo, la spalla che si affaccia verso il Triolet. Successivamente non ebbi occasione di seguire l’evoluzione di tale iniziativa.

 

 

10 Laura Ferrero sulla morena del Ghiacciaio di GreuvettaLaura Ferrero sulla morena del Ghiacciaio di GreuvettaIl 1982 fu un anno ricco di belle realizzazioni alpinistiche ma verso la metà di agosto, mentre ero in vacanza con la famiglia in valle d’Aosta, mi trovai momentaneamente senza compagni per combinare qualche salita impegnativa. Avevo in mente di tentare il pilastro che avevo notato l’anno prima sulla Est del Greuvetta ed allora iniziai a girare per i campeggi della val Ferret alla ricerca di un compagno di cordata. Al campeggio Grandes Jorasses incontrai Laura Ferrero, anche lei era lì da sola con il medesimo mio problema. Circa un mese prima, insieme a Franco Ribetti e Giovanni Bosio avevamo realizzato una gran bella salita: il primo percorso integrale della cresta di Tronchey alle Grandes Jorasses. Laura, in cordata con Bosio, si era sobbarcata egregiamente il gravoso compito di recuperare i chiodi infissi dalla prima cordata.

La mia proposta destò entusiasmo in Laura così decidemmo di partire al più presto, destinazione Greuvetta. Contavamo di bivaccare sotto le stelle negli ultimi ripiani prativi prima della morena ma ancora una volta il tempo si dimostrò inclemente, quando eravamo già molto in alto cominciò a piovere. Sapevo benissimo che su quei pendii non esistevano ripari atti a proteggerci dalla pioggia ma comunque feci scorrere lo sguardo verso l’alto alla ricerca di qualche anfratto tra le rocce. Ad un tratto il mio sguardo si fermò su una costruzione nuova di zecca: era il bivacco Comino, appena eretto dalla Sezione di Mondovì del CAI; iniziativa della quale non avevo più seguito lo sviluppo. Fu per noi una gran bella sorpresa. Anche se ancora sprovvista di ogni arredo, la nuova costruzione ci consentiva di trascorrere la notte al riparo dalla pioggia. Piovve tutta la notte ma al mattino seguente il tempo diede qualche segno di miglioramento, decidemmo così di trascorrere la giornata al nuovo bivacco e di tentare la salita il giorno successivo.

11 Laura Ferrero sul Pilastro del SorrisoLaura Ferrero sul Pilastro del Sorriso12 Manera sul Pilastro del SorrisoUgo Manera sul Pilastro del Sorriso

 

14 In discesa dal Pilastro del SorrisoIn discesa dal Pilastro del SorrisoPartimmo che era ancora notte fonda e la prima luce del nuovo giorno ci raggiunse quando eravamo già sul tormentato ghiacciaio. Non ebbi difficoltà ad individuare un possibile attacco del pilastro nostro obiettivo. Superata la crepaccia tra ghiaccio e roccia lasciammo appesi ad un chiodo scarponi, picozze e ramponi ed indossammo le scarpette d’arrampicata. Una sorpresa ci attendeva sui primi metri di scalata su roccia: trovai alcuni chiodi infissi nelle prime fessure, qualcuno era passato prima di noi proprio in quel punto. La mia preoccupazione di essere stati preceduti ebbe però fine pochi metri più in alto quando trovai due chiodi con cordino: chiaramente una sosta da corda doppia. Il tentativo precedente al nostro era terminato lì. Il pilastro ci riservò una arrampicata superlativa su un granito perfetto: placche, fessure, strapiombi, ci impegnarono seriamente ma destarono in noi un grande entusiasmo per la scalata. La mia compagna, sempre sorridente, recuperava con perizia e decisione i chiodi che io infiggevo.

Al tramonto non eravamo ancora fuori dalle difficoltà e ci toccò approntare un bivacco su un esile terrazzino ancorati ai chiodi. Per la mia compagna di cordata, che già aveva provato un bivacco ad alta quota in vetta alle Grandes Jorasses, dopo l’integrale alla Tronchey, era il primo bivacco veramente in parete.

Il mattino seguente, sempre con tempo splendido, superammo le ultime difficoltà fino al termine della via, poi una lunga serie di calate in corda doppia ci riportò alla base della parete ove avevamo lasciato l’attrezzatura non necessaria per la scalata. Scendendo soddisfatti per i due giorni trascorsi in parete mi parve doveroso dedicare la nuova via alla mia compagna che, sempre con il sorriso sulle labbra, si era comportata così bene. Avevamo tracciato la via del “Pilastro del Sorriso.” Scaria qui la relazione originale della Via del Pilastro del Sorriso al Mont Greuvetta.

La Parete Est del Greuvetta presenta, a circa un terzo della sua altezza, una serie di strapiombi molto problematici da superare. Due punti deboli li avevo individuati con la via del 1974 e con il Pilastro del Sorriso. Proprio alla destra del Pilastro, ove gli strapiombi nerastri appaiono più pronunciati, mi incuriosiva trovare un altro passaggio per superarli. Scendendo dopo il Pilastro del Sorriso e successivamente esaminando le fotografie che avevo scattato, mi era parso di scorgere un diedro/conca di roccia più grigia che sembrava offrire qualche possibilità. Ancora preso dall’entusiasmo per quella parete non ebbi difficoltà a trovare l’appoggio per un nuovo tentativo da parte di due compagni di tante scalate, Isidoro Meneghin e Franco Ribetti.

Il 30 luglio 1983 con Franco ed Isidoro ero nuovamente lì a salire l’ormai arcinoto percorso di accesso al vallone di Greuvetta, ma conscio di trovare ottimo riparo nel bivacco Comino. Nel bivacco, ormai equipaggiato con tutto il necessario per ospitare gli scalatori, trovammo anche un libro del rifugio con sopra dei commenti entusiastici da parte di ripetitori del Pilastro del Sorriso.

15 Franco Ribetti sulla via della Conca GrigiaFranco Ribetti sulla Via della Conca Grigia

Il ghiacciaio del Greuvetta, non esteso ma piuttosto “cattivo” già allora (non ho idea di come si presenti oggi a causa del riscaldamento globale) ci riservava una sorpresa: dove eravamo passati agevolmente un anno prima, un crepaccio insuperabile ci costrinse a complicate manovre per raggiungere la base della parete. Lì giunti potei costatare che quella che avevo individuato come conca grigia esisteva veramente e si insinuava tra gli strapiombi. Attaccammo in direzione della conca e, con arrampicata molto impegnativa, con passi in artificiale dalla difficile e precaria chiodatura, superammo gli strapiombi raggiungendo le cenge sovrastanti. Al di sopra delle cenge dovemmo superare un tratto difficile con roccia non perfetta, poi una sequenza di placche e muri di ottimo granito. Il tramonto giunse quando ci trovavamo in una zona poco favorevole per un bivacco. Quasi appesi ai chiodi trascorremmo una notte tutto sommato tranquilla e con temperature accettabili. Riprendemmo la scalata alle prime luci dell’alba e portammo a termine la via in un punto poco discosto da dove finiva il Pilastro del Sorriso. Senza difficoltà raggiungemmo la linea di calate in corda doppia che avevo attrezzato un anno prima e lungo tale via di discesa ci calammo fino al ghiacciaio. Ancora una volta il Greuvetta ci aveva offerto la possibilità di vivere una bella avventura. Scarica qui la relazione originale della Via della Conca Grigia al Mont Greuvetta.

16 Bastionata Est della catena del GreuvettaBastionata Est della catena del Greuvetta

Negli anni a seguire mi capitò più volte di volgere i miei pensieri alla parete del Greuvetta, avevo immaginato anche un nuovo tracciato che appariva come sicuramente interessante ma poi, passati anni ad inseguire altri obiettivi, quando ci ripensai seriamente era ormai troppo tardi e l’ipotetica nuova via rimase confinata nei desideri non realizzati.

Con l’emozione ancora viva per la tragedia dell’estate 2024, sulla via del 1974, voglio dedicare questi miei ricordi a Luca Giribone che non ho avuto il tempo di conoscere bene ed a Marco Bagliani, amico di antica data.

PS: Relazioni tecniche. Ho conservato le relazioni tecniche scritte a mano di quasi tutte le vie che ho aperto. Sono relazioni datate non più attuali, ora gran parte dei passaggi dati in artificiale sarebbero superabili in libera. Uno stimolo in più per andare a riscoprire molte antiche vie.

Lunedì, 24 Febbraio 2025 09:16

SERATE ALPINE 2025 – CAI di Alba

E’ alla settima edizione il ciclo di incontri con i personaggi dell’alpinismo e della montagna proposti da COESIONI SOCIALI in collaborazione con il CAI di Alba. Questo anno il titolo della rassegna è: LA STORIA SIAMO NOI. Si tratta di quattro serate con personaggi che con la loro attività alpinistica e di esplorazione testimoniano un pezzo importante dell’alpinismo regionale e nazionale.

Locandina Alba OK page 0001

 

 

 

 

Venerdì 28 febbraio 2025

Presso la sede del CAI di Alba (CN), Piazza Cristo Re 5

Silvia Mazzani e Alberto Rampini

presentano

ARRAMPICATA TRAD DALLA NORVEGIA ALL’ANTIATLANTE

Le immagini di anni di scalate ed esplorazioni in mondi iconici dell’arrampicata in stile pulito dalle Terre Artiche al Marocco

 

 

 

 

 

 

 

Vol la storia siamo noi def  

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L’iniziativa gode del patrocinio del Club Alpino Accademico Italiano e del Gruppo Scrittori di Montagna, della Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti e del Comune di Alba.

Ecco il programma completo della manifestazione

  • Venerdì 21 Febbraio 2025 - ore 21.00
    • Dafne Munaretto e Gianni Lanza

Titolo della serata: CONNESSIONI VERTICALI TRA DUE GENERAZIONI.

  • Venerdì 28 Febbraio 2025 – ore 21.00
    • Silvia Mazzani e Alberto Rampini

Titolo della serata: ARRAMPICATA TRAD DALLA NORVEGIA ALL’ANTI-ATLANTE.

  • Venerdì 14 Marzo – ore 21.00
    • Fulvio Scotto

Titolo della serata: SCARASON, L’ANIMA DEL MARGUAREIS….E ALTRE STORIE

  • Venerdì 21 Marzo – ore 21.00
    • Romeo Uries

Titolo della serata: DAGLI ABISSI ALLE NUVOLE.

Mercoledì, 19 Febbraio 2025 20:46

Torre Carlo 1 tiro

 

 

“Montagne, falesie, massi, la Corsica è un terreno di gioco fantastico e inesauribile.

Sulla roccia tutto è possibile fino all’estremo. Persino sulle fessure ad incastro.

Un terreno in gran parte da esplorare, pareti come pagine bianche ancora da scrivere”

Questo scriveva Gianni Ghiglione in un articolo pubblicato alcuni anni fa su questo sito.

Oggi è disponibile la guida delle vie aperte da Ghiglione in Corsica negli ultimi anni.

Un’occasione importante per sognare e per programmare una visita a questi angoli di montagna fuori dalle rotte più conosciute. Gli avvicinamenti non brevi e spesso complessi faranno da filtro importante e auspichiamo che chi vorrà seguire queste tracce lo faccia con discrezione e con il massimo rispetto.

 

 

 

 Scarica qui la guida in formato elettronico.

Questa guida è in versione “leggera”. Sono disponibili copie originali a stampa che l’autore sarà lieto di spedire gratuitamente a chi gliene farà richiesta Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

  Tour Charles con tracciato page 0001 Tour Charles

 

 

Quota 1488 Dove danza la luna Vista generale con tracciato page 0001Quota 1488 - Dove danza la luna

Les Aiguilles de PopolascaLes Aiguilles de Popolasca

 

Lunedì, 17 Febbraio 2025 09:26

 

OMAN 2025 OVVERO “C.A.I. EAGLE TEAM PARTE SECONDA”

di Francesco Leardi C.A.A.I. Gruppo Orientale

Prima puntata

Occorre fare una premessa sul gruppo C.A.I. Eagle Team voluto da C.A.I. e C.A.A.I. sulla base della felice intuizione dell’accademico Matteo Della Bordella e del Presidente Generale del C.A.I. Antonio Montani.

L’obiettivo iniziale era creare un gruppo di alcuni elementi giovani selezionati accuratamente per coinvolgerli in attività di alto livello su grandi pareti e vie di alta difficoltà con la possibilità di partecipare ad una spedizione in Patagonia.

Uno stimolo verso giovani generazioni realizzando un evento visibile e coinvolgente per sensibilizzare l’opinione pubblica verso la montagna e l’alpinismo in particolare.

C.A.I. e C.A.A.I. hanno creduto fortemente in questo progetto abbinando altri eventi non meno importanti che sono stati i vari Eagle Meet organizzati dai tre Gruppi dell’accademico con giovani arrampicatori provenienti da tutto il territorio italiano.

20240511 190609Eagle Meet in Valle del SarcaQuando il presidente del C.A.A.I. Mauro Penasa introdusse l’iniziale progetto e il suo significato al nostro Consiglio Generale fummo stupiti di un’iniziativa che rappresentava per il nostro gruppo una novità da tempo desiderata in quanto c’era e c’è necessità di rinnovamento e cambio generazionale.

Motivi tecnici, caratteriali, numerici e logistici hanno portato alla scelta di alcuni membri destinati alla spedizione Patagonia, che si sta svolgendo in queste settimane.

Dopo la scelta operata su chi sarebbe partito per il Sudamerica, ci siamo chiesti se non valesse la pena di sfruttare appieno l’energia sviluppata nel progetto. Ed ecco quindi spuntare un altro gruppo di giovani scalatori e come obiettivo le pareti dell’Oman.

Il mio ruolo è parlare del gruppo Oman 2025 del quale faccio parte, dei suoi componenti e di come si è sviluppata la sua storia.

Partenza Oman 2025 fissata il 20 Febbraio ritorno il 7 Marzo.

Il gruppo C.A.I. Eagle Team Patagonia seguirà altri momenti di diffusione mediatica.

Devo iniziare dal momento di prima aggregazione che è stato l’apprendimento tecnico alla Torre di Padova il 31 Agosto 2023 da parte di tutti i componenti selezionati del C.A.I. Eagle Team seguiti dalla competente e coinvolgente esposizione di Giuliano Bressan (C.A.A.I. staff torre di Padova), Andrea Lazzaro (I.A. staff torre di Padova) e Alessandro Baù (C.A.A.I. e A.G.A.I.).

Manovre, prove di caduta, test sui materiali hanno accresciuto il bagaglio culturale dei ragazzi in una giornata densa di spunti tecnici.

 

 

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2 Andrea LazzaroAndrea Lazzaro dello staff Torre di Padova 1 Giuliano BressanGiuliano Bressan dello staff Torre di Padova5 Eagle team alla Torre di PadovaEagle team alla Torre di PadovaVarie giornate di alpinismo sull’arco alpino, come si è accennato prima, hanno portato l’organizzazione a creare il primo gruppo per la Patagonia e successivamente il secondo con l’opportunità della spedizione in Oman.

La logistica di Oman 2025 prevede di muoversi tramite 3 vetture 4x4, alternando momenti di campeggio libero in prossimità delle pareti a tappe in alloggio durante gli spostamenti per consentire i rifornimenti.

Viaggeremo insieme per tutta la durata della spedizione, dividendoci al massimo in 2 gruppi, con cordate da definire sul posto in funzione degli obiettivi.

Gli obiettivi alpinistici sono situati in zone diverse che pensiamo di visitare in sequenza: Wadi Bani AWF, Jabal Fokahe Nizwa, Jabal Misht e Kawr. Su queste pareti si ha in progetto l’apertura di nuove vie di arrampicata e la ripetizione di alcune vie di alto livello già esistenti.

Inizieremo dal Wadi Bani AWF: è la miglior area dove approcciarsi all’arrampicata omanita, è presente di tutto, sia le falesie più rinomate (Snake gorge e La gorgettes), sia vie lunghe, sportive e trad . Dopo un paio di giorni di ambientamento in funzione delle possibilità individuate, ci sposteremo verso una seconda area dove ci sono ampie possibilità, soprattutto in apertura, sulle pareti del Jabal Fokah e delle Torri di Nizwa.

La tappa più attesa e desiderata è però la parete sud del Jabal Misht, con i suoi 1000 metri di altezza, su cui sono presenti vie impegnative aperte da arrampicatori famosi. Zona interessante anche per le prospettive di apertura sulle pareti nell’area Al Kumeira ed in quella del Jabal Kawr.

Veniamo ora al nostro gruppo Oman 2025 i cui sei componenti e relativi curricula sono:

Erica Bonalda

 

 

 

 

Erica Bonalda

classe 1998, vive a Trento ed è una fisioterapista appassionata di montagna e arrampicata. Solare, precisa e determinata, ha sviluppato il suo legame con la montagna fin da bambina, grazie al padre che la portava con sé in escursione, spingendola a sperimentare percorsi esposti e impegnativi. L’arrampicata sportiva è entrata nella sua vita durante il liceo, attraverso un corso scolastico, e da allora si è trasformata in una passione che l'ha portata a scalare in falesia e in montagna, in Trentino e in altre celebri destinazioni alpine.

Erica ha ampliato le sue competenze frequentando diverse aree di scalata, dall’arrampicata su granito in Valle dell’Orco e Val di Mello, fino a vie in alta montagna nel Brenta e in Val di Fassa. Ha conseguito il titolo di istruttrice FASI, dedicandosi all’allenamento di giovani atleti, con l’obiettivo di trasmettere la sua passione per l’arrampicata outdoor.

Nel tempo libero si allena e lavora per migliorarsi, con un’attenzione crescente verso il ghiaccio e il misto. Per Erica, arrampicata e alpinismo sono esperienze di condivisione, crescita personale e scoperta dei propri limiti, più che una competizione.

 

 

 

 

 

 

Marco CocitoCN

 

 

 

 

Marco Cocito

classe 1995, nato ad Alba (CN), è un appassionato di montagna e sportivo da sempre. Inizia a giocare a calcio all’età di sei anni e, fin da bambino, sviluppa una forte passione per la montagna grazie ai suoi genitori, che lo portano spesso a fare escursioni. A dieci anni, incontra il padre di un compagno di calcio, guida di alpinismo giovanile del C.A.I., che lo introduce al mondo dell’alpinismo. È lui a spingerlo a partecipare a uscite di alpinismo giovanile, durante le quali Marco inizia a praticare ciaspolate e arrampicate in falesia.

La sua passione cresce con gli anni, e durante il periodo delle scuole superiori conosce quelli che oggi considera i suoi compagni di avventure. Insieme vivono esperienze indimenticabili, che rafforzano l’amicizia e insegnano valori fondamentali come condivisione, fiducia e supporto reciproco, valori che Marco considera essenziali sia nelle relazioni che nelle esperienze in montagna.

Con il tempo, Marco amplia la sua esperienza praticando arrampicata su roccia, su ghiaccio, scialpinismo e alpinismo. Si distingue per la sua dedizione, che gli vale l’ingresso come membro aspirante nel Club Alpino Accademico Italiano (C.A.A.I.) Gruppo Occidentale.

 

 

 

 

 

DANIELE LO RUSSO AO

 

 

 

 

 

Daniele Lo Russo

26 anni, originario della Valle Camonica, ha scoperto l’arrampicata all’età di dieci anni, grazie alla palestra vicino casa. Dopo aver salito la sua prima via in montagna a 14 anni, ha iniziato a esplorare le falesie della Val di Mello e della Valle del Sarca, dove ha scoperto stili di arrampicata diversi da quelli della sua zona. Un anno scolastico negli USA e un'esperienza in Canada a Squamish, dove ha scoperto l’arrampicata sportiva e il boulder, sono stati momenti cruciali nella sua crescita. Nel 2017 si è trasferito in Valle d'Aosta per conciliare gli studi con la montagna, scalando anche il Monte Bianco. Durante l'Erasmus a Tarragona, ha avuto l'opportunità di arrampicare a Siurana, approfondendo ulteriormente la sua passione. Laureato in Scienze e Tecniche Psicologiche con una tesi sulla percezione del rischio nell’alpinismo, Daniele ha deciso di dedicarsi completamente alla montagna.

 

 

 

 

Matteo Maonfrini MN

 

 

 

 

 

Matteo Monfrini

appassionato di alpinismo e arrampicata, sta concludendo il quinto anno di Ingegneria dell’Automazione Industriale e dedica da 12 anni la sua vita alla scalata. Allena cinque atleti nel circuito Nazionale, tra cui Federica Papetti, vincitrice di numerosi podi anche a livello Europeo. L’alpinismo è entrato nella sua vita grazie a Lorenzo D’Addario e Claudio Migliorini, che lo hanno guidato in numerose vie.

Matteo ha partecipato a gare di arrampicata sportiva fino a 14 anni, per poi dedicarsi all’alpinismo e all’arrampicata su roccia. Ha iniziato con vie alpinistiche in valle del Sarca e valle dell’Adige, e successivamente ha esplorato l’arrampicata su ghiaccio e misto. Con gli studi universitari, si è avvicinato all’arrampicata tradizionale, praticata in vari luoghi come la valle dell’Orco e la Sardegna. Recentemente, insieme a Mauro Monfrini, si è appassionato all’apertura di vie alpinistiche a più tiri, seguendo un’etica rigorosa e conservativa della natura. Ha scalato in numerosi contesti, dalle Dolomiti al Verdon, Briancon e Tarragona.

 

 

 

 

 

 

LORENZO TOSCANI FI

 

 

 

 

 

Lorenzo Toscani

Classe 1999, ha scoperto il mondo verticale a 11 anni, muovendo i primi passi nella palestra indoor gestita dal C.A.I. di Firenze. Nonostante le difficoltà logistiche, grazie al fratello ha potuto frequentare con costanza la palestra, avviandosi così verso un percorso che lo ha portato a gareggiare nel circuito regionale e nazionale. Tuttavia, non si è mai appassionato davvero al mondo delle competizioni su plastica.

Parallelamente, si è avvicinato alla falesia e alla montagna, esplorando inizialmente le vicine Alpi Apuane e le falesie camaioresi. Con la patente e i primi lavori, ha ampliato gli orizzonti, scalando nell'arco alpino e in celebri destinazioni di arrampicata sportiva, raggiungendo livelli di scalata a vista fino al 7c+ e lavorato fino all’8b.

Attualmente vive e lavora lontano da Firenze, dividendo l’anno tra due grandi passioni: l’inverno dedicato alla falesia, agli allenamenti e al ghiaccio/misto, e l’estate prevalentemente alla roccia.

 

 

 

 

 

 

Riccardo VolpianoTO

 

 

 

 

 

Riccardo Volpiano

24 anni, nato a Ciriè, è un appassionato di montagna e sport, con una laurea magistrale in Ingegneria Meccanica-Automazione al Politecnico di Torino. Ha praticato arrampicata sportiva fino a 14 anni, per poi concentrarsi sull’arrampicata in montagna, affrontando vie sempre più impegnative fino al grado ED+. Appassionato anche di sci, ha praticato gare fino ai 18 anni per poi dedicarsi allo sci alpinismo, diventando istruttore al C.A.I. di Chivasso e scalando il Monte Bianco nel 2022.

Si trova a suo agio su roccia fino al grado 7a e affronta gite sci-alpinistiche con dislivelli fino a 2500 m. Ha recentemente iniziato a praticare il ghiaccio, arrivando al grado IV, ed è stato ammesso come membro aspirante del Club Alpino Accademico Italiano (C.A.A.I.) Gruppo Occidentale.

Il Presidente Generale del C.A.A.I. Mauro Penasa inoltre ha fornito a tre componenti del nostro sodalizio l’opportunità di aggregarsi al progetto come tutor.

Marco Ghisio del Gruppo Occidentale (che è in un gran momento della sua carriera alpinistica) e Mauro Florit del Gruppo Orientale (che è già stato in Oman, il che sarà di grande aiuto) si sono aggregati in prima battuta come Tutor e a loro si è poi aggiunto il sottoscritto. Per quanto mi riguarda e con ironia potrei ribaltare i ruoli definendo “tutor” nei miei confronti i ragazzi del progetto C.A.I. Eagle Team.

 

 

 

Membri C.A.A.I. Tutor

Marco Ghisio: 37 anni nato a Vercelli dove ho frequentato i corsi di arrampicata e alpinismo all’età di 17 anni, attività a 360 gradi

Ho salito le vie iconiche delle Alpi, dall’Eiger alle Grandes Jorasses (Macintyre-Colton , Walker), dal Pilone Centrale del Freney al Couloir Nord dei Dru, e molte altre.

In arrampicata ho salito vie trad fino all’ 8b come la famosa Greenspit, vie multipitch fino all’8a in libera e in falesia fino al 7c a vista. Su ghiaccio e misto ho salito cascate fino al 6+ e M9 .

Molto attivo sull’area del Monte Bianco in estate e inverno, ho viaggiato e scalato in Europa e Yosemite

Collaboro con la Scuola di alpinismo del C.A.I. di Vercelli e dal 2024 sono membro del C.A.A.I., Gruppo Occidentale.

 

FLORIT Mauro: nato ed abitante a Staranzano, paesino sulla costa dell’alto Adriatico presso Trieste, arrampico da più di quarantacinque anni, circa millecinquecento ripetizioni in tutto l’arco alpino, con più di cento vie nuove, salite invernali, cascate di ghiaccio ed attività di ricerca. Collaboro come istruttore presso la Scuola Nazionale di Alpinismo Emilio Comici della Società Alpina delle Giulie e sono Accademico del Club Alpino Italiano Orientale dal 1994.

Parecchie spedizioni all’attivo dal Sud America (Aconcagua, Patagonia, Perù) al Medio Oriente (Turchia, Giordania, Oman) e Asia (Kirghizistan, Tagikistan, Thailandia).

Francesco Leardi: classe 1956, membro del C.A.A.I. dal 1993 e Presidente del suo Gruppo Orientale. Genovese di nascita e come mi definisco da sempre “figlio del finalese”.

Arco e il Camaiorese sono stati i siti scelti dal gruppo Oman 2025 per unire maggiormente il gruppo sia a livello sociale che tecnico con prestazioni di alto livello che hanno dato fiducia per la riuscita della spedizione.

Alcuni sponsor hanno fornito contributi in materiale assai apprezzati. A loro va il ringraziamento da parte dei componenti della spedizione.

@Wildclimb, @Grivel, @Lazyghost, @rudyproject

Ringraziamo quanti hanno contribuito ad ideare, organizzare e condurre il progetto C.A.I. Eagle Team, a partire dal C.A.I. che lo ha sostenuto, e dal C.A.A.I. che ne ha curato la gestione, includendo tutti i tutor che hanno aiutato i ragazzi in questi ultimi due anni.

Ringraziamo anche la rivista on-line Lo Scarpone e il suo referente e coordinatore Gian Luca Gasca che ha curato anche la parte mediatica del progetto C.A.I. Eagle Team.

Venerdì, 24 Gennaio 2025 20:10

Come nasce una prima ascensione?

La via scalabile esiste già fin dall'inizio in natura o si giustifica solo grazie alla forza delle idee della coscienza umana?

Heinz Grill affronta questa domanda filosofica di alto livello con una sua personale interpretazione

Sabato, 14 Dicembre 2024 21:03

I caschi per alpinismo - norme e test di resistenza: cosa sappiamo?

- Prima parte -

Nota della Redazione: lo studio di seguito pubblicato espone i risultati di anni di prove e sperimentazioni sui caschi da alpinismo e giunge ad alcune importanti conclusioni. Una ulteriore serie di test volta a verificare le eventuali conseguenza derivanti dall'esposizione prolungata ai raggi solari in quota verrà completata nel corso del 2025  e quindi  una integrazione a questo interessante studio verrà pubblicata verosimilmente nei primi mesi del 2026.

Bressan Giuliano CSMT CAI - CAAI

Polato Massimo CSMT - CAI Sez. Mirano

Ottimizzazione e grafica A. Rampini

Introduzione

A distanza di quasi vent’anni da un primo studio effettuato dall’allora CCMT (Commissione Centrale Materiali e Tecniche) del CAI, il CSMT ha voluto riprendere in considerazione il fatto di svolgere una nuova ricerca sui caschi da alpinismo.

Dal 2006, infatti, anche per questo tipo di DPI, c’è stato un notevole sviluppo sia nella progettazione che nei processi produttivi dovuti in gran parte, oltre che all’esperienza maturata dai produttori in collaborazione con il mondo alpinistico, anche al fatto che la ricerca su nuovi materiali nel campo dei polimeri è notevolmente progredita e si sono ulteriormente affinate le tecniche di stampaggio ad iniezione dei polimeri stessi.

In termini pratici il CSMT ha in programma di eseguire nel 2025 una serie di test su vari modelli di caschi ad oggi presenti sul mercato, dopo che sono stati lasciati per un periodo a completa esposizione solare in due luoghi che si trovano ad altitudini diverse.

Terminato il periodo di “invecchiamento” i caschi verranno portati in laboratorio e testati secondo una delle prove previste dalla norma EN 12492:2002 e che è il riferimento per la progettazione per i caschi da alpinismo: lo sottolineiamo perché altre tipologie di caschi (sci, equitazione ecc.), devono sottostare ai requisiti prescritti da altre specifiche norme.

A differenza di quanto avvenuto nei test eseguiti nei primi anni duemila, non prenderemo in considerazione caschi usati, ma solamente caschi nuovi che verranno scelti tra i brand maggiormente utilizzati dal mondo alpinistico e differenziandoli per quelle che sono le tipologie principali ad oggi utilizzate, ovvero quelli costruiti secondo queste tre macrocategorie:

  • una calotta costituita da Polistirene Espanso Sinterizzato (EPS) o Polipropilene Espanso sinterizzato (EPP) e da una copertura esterna in ABS
  • una calotta in EPS o EPP e una copertura esterna costituita da uno strato più leggero di Policarbonato
  • una calotta in EPS o EPP rinforzata nella parte superiore e per un’area limitata da uno strato di Policarbonato e altri elementi che vedremo nello specifico quando tratteremo più approfonditamente i risultati del nuovo studio.

Lo studio condotto tra il 2003 e il 2006

Come accennato precedentemente, anche il casco è da tempo entrato a far parte degli studi sui materiali utilizzati in alpinismo e in arrampicata e di conseguenza le successive prove hanno dato origine alla normativa UIAA-106 e in seguito alla corrispettiva norma EN-12492 (Mountaineering equipment - Helmets for mountaineers - Safety requirements and test methods).

Nel corso del 2006, l’allora Commissione Centrale Materiali e Tecniche del CAI (CCMT), ha svolto presso lo storico laboratorio del Dipartimento di Costruzioni e Trasporti dell’Università di Padova un’interessante e approfondita analisi sulle prestazioni meccaniche di un casco.

L’idea di “testare” i caschi è sorta soprattutto dalla necessità di verificarne la durata delle prestazioni col passare del tempo, di valutarne i comportamenti strutturali a seconda della tipologia costruttiva e di chiarire il senso dei requisiti di sicurezza richiesti dalla normativa EN-12492.

Lo studio è stato esposto nella tesi di laurea magistrale in Ingegneria Civile dal titolo “Studio parametrico di ottimizzazione del comportamento ad impatto di un casco da alpinismo”, presentata il 25 ottobre dello stesso anno dal laureando Michele Titton, attualmente Ingegnere Civile, Libero Professionista e Guida Alpina. Una sintesi della tesi è stata pubblicata nel 2008 sulla Rivista del Club Alpino Italiano [1-2].

In questa prima parte dell’articolo sono presentate e commentate le prove e i dati acquisiti negli anni duemila. Il motivo per cui abbiamo scelto di riesporre quei risultati risiede nel fatto che riteniamo utile riprenderli e analizzarli per comprendere meglio quelli che otterremo e, quindi, fare le giuste considerazioni ed eventuali comparazioni tra i due studi del 2006 e del 2025.

La sperimentazione si è svolta in diverse fasi ed in successivi periodi. Inizialmente è stato raccolto il materiale principale per la sperimentazione (8 caschi nuovi di fabbrica forniti dalla CAMP e 6 caschi “usati” forniti dalla CCMT) e si sono definite le linee su cui indirizzare lo studio: analizzare la risposta ad impatto dei caschi da alpinismo in funzione del loro stato di usura nel tempo e valutare il relativo decadimento delle proprietà meccaniche dei materiali.

Il deterioramento dei materiali sintetici avviene sia per cause meccaniche (sfregamento, attrito, ecc.), sia a causa delle azioni climatiche o conseguenti ad esse (cottura da UV, muffe, surriscaldamento, ecc.), e rappresenta il principale motivo per cui l’attrezzatura da alpinismo va ciclicamente sostituita.

Lo studio ha comportato la necessità di testare diverse tipologie di caschi ed in diversi stati di conservazione; per ricavare dei confronti sulla durata delle proprietà meccaniche si sono state fatte prove di rottura su caschi d'alpinismo nuovi, usurati (da solo irraggiamento) e vecchi.

1 Rifugio KostnerFig 1 - Rifugio KostnerAllo scopo la CCMT ha procurato sei caschi utilizzati in ambiente alpino per diversi anni in varie attività (roccia, ghiaccio, soccorso), mentre la CAMP ha fornito quattro nuovi caschi modello Rock-Star e altri quattro modello Silver-Star. Gli otto elmetti dell’azienda di Premana sono stati utilizzati, in primo luogo, per studiarne le differenziazioni di risposta alle prove di assorbimento di energia a causa di urti verticali in funzione della quota di esposizione: per questo motivo erano state opportunamente collocate coppie di Rock-Star e di Silver-Star presso i sottotetti dei rifugi B. Carestiato (1843 m), Lavaredo (2343 m) e F. Kostner (2536 m - Fig. 1). Il periodo di permanenza in cui i sei caschi potevano rimanere custoditi 24 ore al giorno era quello classico dei rifugi alpini: dalle ore 12 del 20 giugno 2003 alle 12 del 20 settembre 2003. I restanti due caschi sono stati utilizzati, da nuovi, per test di confronto (Tabella pag 1).

I sei “vecchi” caschi sono serviti invece a completare delle considerazioni riguardanti il legame assorbimento di energia-tempo di esposizione-quota di esposizione, ma soprattutto a dare dei responsi riguardanti la durata delle prestazioni nel tempo specialmente in funzione della loro tipologia strutturale (Tabella pag 2).

 

Nel frattempo sempre in riferimento alla normativa EN 12492:2002, veniva realizzata ed allestita in laboratorio, seguendo l’accurata progettazione preliminare, una specifica apparecchiatura per le prove di assorbimento degli urti. La struttura era così costituita:

  • Un portale costituente lo scheletro portante dell’intero sistema (Fig. 2).
  • Un sistema di guida formato da un tubo in pvc, opportunamente centrato grazie ad un meccanismo di tiranti, in grado di consentire la caduta libera e guidata della massa con una velocità di impatto superiore al 95% di quella che si otterrebbe teoricamente in una caduta libera (Fig. 3 - 3a).
  • Una testa di prova costruita con massa e densità simili alla testa umana in modo che le tensioni generate durante l’impatto abbiano una distribuzione il più possibile analoga alla realtà (Fig. 4).
  • Una massa in acciaio di 5 kg con la faccia di percussione emisferica (Fig. 5).
  • Un trasduttore di forza (cella di carico) fissato rigidamente tra la testa di prova e la base del pavimento; la cella, posizionata con l’asse baricentrico della testa, permette di rilevare forze e deformazioni con un campionamento di 3200 segnali al secondo (Fig. 6).
  • Uno strumento di condizionamento del segnale per trasformare il segnale nel formato richiesto (in questi casi trasforma differenze di potenziale in deformazioni e poi in chilogrammi-forza) in modo da renderlo subito utilizzabile attraverso un PC (Fig. 7).

2 Struttura proveFig 2 - Struttura prove

 

3 Sistema di guidaFig 3 - Sistema di guida

3a Sistema di guidaFig 3a - Sistema di guida

 

          Fig 4 - Testa di prova

 

5 Massa di acciaioFig 5- Massa di acciaio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6 Cella di caricoFig 6 - Cella di carico

 

7 Strumentazione acquisizione datiFig 7 - Strumentazione acquisizione dati

 

 

 

 

Infine sono state eseguite tutte le prove di rottura necessarie (anche più d’una per alcuni modelli di casco), e sono state tratte le considerazioni riguardanti le differenze tra caschi di nuova e vecchia generazione, l’energia assorbita nell’urto dal sistema casco-testa, la forza trasmessa alla colonna vertebrale durante l’urto in funzione della condizione dell’elmetto, l’influenza dell’esposizione ai raggi del Sole sulla capacità di assorbire energia durante un urto.

 

 

 

 

 

 

 

La normativa EN-12492, UIAA-106

8 EN12492 UIAA106 HelmetsFig 8 - EN12492 UIAA106 HelmetsLa rappresentazione grafica della normativa (Fig. 8), presenta sinteticamente i metodi di prova per i caschi di protezione utilizzati dagli alpinisti e non contiene quindi tutti i dettagli dei metodi di prova e dei requisiti di questi standard; per maggiori dettagli è necessario consultare le norme EN-12492:2002.

Si richiamano in questo ambito solo alcuni punti attinenti all’assorbimento degli urti verticali:

“…la protezione fornita da un casco dipende dalle circostanze in cui si verificano gli incidenti e il fatto di indossarlo non può sempre consentire di evitare la morte o invalidità prolungata. Il casco riesce comunque ad assorbire parte dell’energia prodotta dall’urto, riducendo l’intensità del trauma subito dalla testa. Poiché tale assorbimento di energia può danneggiare la struttura del casco, è necessario che questo sia sostituito sempre in caso di forti colpi, anche quando il danno non è evidente…”

“…lo svolgimento di ogni prova prevede che ciascun tipo di casco venga sottoposto a prova nelle condizioni in cui è messo in commercio, che venga regolato in base alle dimensioni della testa di prova e secondo le istruzioni del fabbricante, ed infine che venga condizionato come indicato in un apposito prospetto…”

“… per eseguire la prova di urto sulla parte superiore la norma richiede l’utilizzo di tre caschi condizionati in modo differente (uno invecchiato all’UV e stabilizzato per 24 h ad una temperatura di (20 ± 2)°C e umidità relativa del (65 ± 5)%, uno condizionato alla temperatura di (35 ± 2)°C, e uno alla temperatura di ( -20 ± 2)°C) e posizionati su teste di prova prestabilite e di taglie conformi alla EN 960 (Headforms for use in the testing of protective helmets)…”

La rappresentazione grafica espone i test che i caschi devono superare per ottenere la certificazione; i primi tre si riferiscono alla capacità di assorbimento degli urti e alla resistenza alla penetrazione, gli altri due alla resistenza del sottogola e alla resistenza, frontale e dorsale, del sistema di ritenzione.

La “capacità di assorbimento di energia verticale” viene valutata facendo cadere una massa di 5 kg da un’altezza di 2 m; la forza trasmessa alla sagoma della testa di prova non può superare 10 kN per la normativa EN (8 kN per la direttiva UIAA).

La “capacità di assorbimento di energia frontale, laterale e dorsale” viene valutata con gli stessi metodi, facendo cadere la massa di 5 kg da 0,5 m; la forza trasmessa alla testa di prova non può superare 10 kN per la normativa EN (8 kN per la direttiva UIAA).

La “resistenza alla penetrazione” si effettua facendo cadere sul casco una massa di forma conica di 3 kg da un'altezza di 1 m. Il percussore conico non deve toccare la sagoma della testa di prova.

La “resistenza del sottogola” viene verificata ponendo il casco su un dispositivo di prova. Una forza di 0,03 kN viene applicata ad entrambi i cilindri che simulano una mascella artificiale e si misura la posizione delle cinghie; la forza viene applicata per un periodo di 30 secondi fino a 0,5 kN (500 N) e mantenuta per 120 secondi. L’allungamento massimo del sistema di ritenzione non deve superare 25 mm.

La “resistenza, frontale e dorsale, del sistema di ritenzione” si verifica montando il casco su una testa di prova. Una massa di 10 kg viene fatta cadere da un'altezza di 175 mm; il casco non deve staccarsi dalla forma della testa di prova.

I test: generalità e descrizione

In riferimento alla normativa esposta si precisa che i vari test si sono svolti presso il laboratorio del Dipartimento di Costruzioni e Trasporti, avente una temperatura di 19°C ed un'umidità relativa del 70% costantemente per tutto il periodo dell'anno. Inoltre i test hanno riguardato solo la “capacità di assorbimento di energia verticale”, valutata facendo cadere una massa di 5 kg da un’altezza di 2 m.

9 Test di provaFig 9 - Test di provaInizialmente, montata l'apparecchiatura come spiegato nel paragrafo precedente, sono stati effettuati alcuni test di prova atti a calibrare i vari dispositivi su alcuni elmetti da cantiere (Fig. 9). Una volta verificato che tutto funzionasse correttamente, ogni casco è stato posizionato nella testa di prova in maniera accurata e ben allacciato in modo da garantirne la stabilità durante l'impatto.

Successivamente, si lasciava cadere liberamente la massa di acciaio dall'altezza prevista, cioè 2 m dall'estradosso della calotta, all'interno del tubo guida, in modo da garantire l'impatto sempre nella sommità del casco (l'assialità era fondamentale in quanto si voleva valutare il massimo sforzo naturale di compressione possibile sulla colonna vertebrale); avvenuto l'impatto si memorizzavano e si archiviavano i dati ottenuti dalla cella per poter procedere successivamente ai loro confronti. Quasi tutti i caschi sono stati sottoposti a più di una prova: tra la prima e le successive ogni elmetto veniva tolto dalla testa di prova e successivamente rimesso in modo da eliminare le deformazioni residue dovute all'eventuale incastro generato dall'urto; questo, infatti, avrebbe falsato le prove poiché parte dei movimenti dissipativi che il meccanismo del casco avrebbe dovuto fare sarebbero mancati causando maggiori sforzi sulla cella.

Risultati

Nella sperimentazione sono stati utilizzati, come già esposto in tabella 1 e 2, i seguenti caschi:

- CAMP Rock Star, modello classico dal design semplice, leggero e confortevole, costituiti da una calotta stampata ad iniezione in polietilene HD di spessore variabile da 2 mm fino a 3 mm ed una struttura interna in fettucce di nylon. La calotta esterna deve essere in grado di scaricare l'energia d'impatto al telaio; sistema di regolazione rapida semplice ed efficace (Fig. 10 - 10a).  

- CAMP Silver Star Casco compatto e leggero e confortevole, dotato di un sistema di regolazione rapida semplice ed efficace. Calotta in ABS stampata ad iniezione, con top interno in polistirolo ad alta densità. Struttura interna in nylon ricoperta con mesh traspirante in vellutino antisudore con trattamento antibatterico Dri-lex (Fig. 11).

10 CAMP Rock Star casco nuovo 2002Fig 10 - CAMP Rock Star casco nuovo 2002

 

10a CAMP ROCK Star linterno dopo il testFig 10a - CAMP ROCK Star l'interno dopo il test

11 CAMP Silver Star casco nuovo 2002Fig 11 - CAMP Silver Star casco nuovo 2002

 

12 EDELRID Full Carbon casco del 1996Fig 12 - EDELRID Full Carbon casco del 1996

 

La CCMT ha procurato sei caschi usati: tre EDELRID Full Carbon (Fig. 12), un GRIVEL The Cap Carbon (Fig. 13) e due vecchi CASSIN (Fig. 14). Lo stato di conservazione era molto vario: buono per gli Edelrid ed il Grivel e scarso invece per i Cassin, di molto datati (circa 15-25 anni di più).

13 GRIVEL The Cap Carbon casco del 1998Fig 13 - GRIVEL The Cap Carbon casco del 1998

 

14 CASSIN Classic Rock anni 80Fig 14 - CASSIN Classic Rock anni 80

 

Lo studio avrebbe voluto avere un ampio sviluppo, sia per quello che concerne la sperimentazione che l’invecchiamento del materiale ed è quindi indiscutibile che per una ricerca più ampia e precisa non sia sufficiente un numero di caschi troppo limitato; inoltre, proprio per la valutazione dell’invecchiamento, si sarebbero dovuto utilizzare strumentazioni e metodologie apposite per sottoporre i materiali a cicli di invecchiamento accelerati rispetto all’esposizione naturale. Si evidenzia comunque come tutta la ricerca sia stata centrata sull’assorbimento di energia dovuto all’impatto per caduta di gravi e non a riprodurre in fedeltà le stesse prove utilizzate per certificare i caschi di protezione utilizzati dagli alpinisti. Quindi i commenti dei risultati e le considerazioni fatte si devono valutare criticamente tenendo conto dei limiti su cui si è svolta la sperimentazione; proprio per questo non si parlerà di un casco migliore rispetto ad un altro. Le prove che sono state effettuate in laboratorio sono molto complesse dal punto di vista fisico: i fenomeni che legano forza ed energia sono comunque evenienze non facilmente comprensibili con l’esperienza della quotidianità.

Ciò nonostante, avendo a disposizione venticinque prove è stato possibile fare un confronto diretto dal punto di vista del massimo sforzo raggiunto nelle singole prove. Sono stati eseguiti tutti i test di rottura necessari (anche più d'uno per alcuni modelli di caschi), sono state tratte le considerazioni riguardanti le differenze che ci sono tra i caschi di nuova e vecchia generazione, la forza che viene trasmessa alla colonna vertebrale durante l'urto in funzione della condizione del casco, l'energia che viene assorbita nell'urto dal sistema casco-testa e, infine, su quanto l'esposizione ai raggi del sole possa influenzare la capacità di assorbire energia durante un urto.

Dalle prove di laboratorio effettuate si è visto che ogni casco ha rispettato le attese ed in molti casi le ha anche superate (Tabella 3 - vedi nota). Infatti, i valori del primo drop test sono stati tutti inferiori ai 10 kN come richiesto dalla normativa e nella maggior parte dei casi anche il secondo e addirittura il terzo impatto sono stati assorbiti in maniera eccellente. Positivi risultati si sono ottenuti dalla determinazione della tenuta in funzione dell’usura dei materiali sintetici: infatti si è visto come gli elmetti invecchiati si comportino verosimilmente come quelli nuovi. L’invecchiamento è stato fatto in modo naturale per 6 caschi (3 Rock Star e 3 Silver Star ) ed i risultati si sono confrontati con quelli degli stessi modelli nuovi. Si sono anche eseguiti drop test su caschi “vecchi” ed utilizzati in ambiente alpino per diversi anni (dai 3 ai 5 anni) e anche in questo caso le risposte sono state più che soddisfacenti.

È da tener inoltre presente come i due vecchi elmetti Cassin erano visibilmente deteriorati ed i loro apporti non si sono presi in considerazione per ottenere giustificate analisi.

Tabella pag 3 - Risultati test laboratorio

 Conclusioni

Il binomio confort-leggerezza è la principale caratteristica tecnica su cui si basa l’acquirente medio al momento dell’acquisto del casco da alpinismo. Al giorno d’oggi l’ottimizzazione degli spessori, salvaguardando comunque e sempre le prescrizioni della normativa, permettono di rendere i caschi più leggeri e allo stesso tempo più confortevoli ed indossabili. Attualmente ogni costruttore ha lanciato nel mercato come casco di punta quello costruito con la tecnologia in-moulding. La rincorsa globale alle tendenze del mercato non ha comunque fatto perdere di vista i fondamentali requisiti che devono soddisfare gli elmetti nel corso della loro vita. Dalle prove svolte si intuisce come lo spessore troppo sottile della calotta non sia in grado di assicurare un’adeguata rigidezza e faccia sì che il materiale espanso (nel caso di caschi moderni o composti), riceva il colpo in una zona localizzata raggiungendo rapidamente condizioni estreme (fase di densificazione del polistirene espanso), per cui l’accelerazione rilevata è alta. Il punto ottimale, caratterizzato da un minimo dell'accelerazione e della forza trasmessa al capo, si intuisce sia per uno spessore della calotta di circa 0,5 mm. Si può affermare che le limitazioni di garanzia per funzionalità dei caschi che le ditte forniscono, sono periodi validi, sicuramente non al limite, invece piuttosto prudenziali.

Il fattore tempo è fondamentale, anche se sicuramente un casco ancora imballato e rimasto al buio per 10 anni risponderà meglio al drop test rispetto ad uno stesso modello utilizzato magari per soli due anni ma da un professionista della montagna. La vita media di un elmetto è di circa 4 anni per una persona che fa abbondante attività alpinistica: infatti, soprattutto i caschi moderni proprio per come sono concepiti e costruiti, dopo un certo quel periodo iniziano a mostrare segni di cedimenti e imperfezioni come rotture della calotta per piccoli urti o perdite di tenuta dei collanti a causa dei cicli di caldo-freddo.

Nel caso dei caschi, le certificazioni delle ditte durano 3 o 4 anni: questo non vuole assolutamente affermare che superata quella soglia i caschi non funzionino più, ma si è visto che caschi utilizzati frequentemente per periodi superiori ai 3-4 anni presentano uno stato di degrado molto più avanzato.

Sebbene avvengano spesso incidenti, al giorno d’oggi non è pensabile che questi siano causati da trascuratezza nella cura e nella scelta dei materiali: l’alpinista e/o l’arrampicatore devono rendersi conto di quando è ora di rinnovare la propria attrezzatura. Consapevoli di ciò e che il casco serve e può salvare la vita, ricordate sempre di tenerlo ben allacciato.

Bibliografia

[1]   Titton Michele, I caschi da alpinismo 1a parte, La Rivista del CAI luglio-agosto 2008

[2]   Titton Michele, I caschi da alpinismo 2a parte, La Rivista del CAI settembre-ottobre 2008

Nota

Il newton - "N" - è un'unità di misura della forza nel Sistema Internazionale; un N è la forza che applicata a una massa di 1 kg le imprime l'accelerazione di 1 m/s^. Un decanewton - "daN" (10 newton) viene spesso usato perché equivale a circa 1 kg peso.

Un kilonewton "kN" (1000 newton) equivale quindi a circa 100 kg peso.

Venerdì, 06 Dicembre 2024 09:22

Breve resoconto non puntuale del convegno, da parte del “provato” moderatore Claudio Inselvini.

Martedì, 29 Ottobre 2024 18:20

Resoconto del Convegno del Gruppo Orientale - GROPADA 20 ottobre 2024

di Francesco Leardi

ottimizzazione e grafica A. Rampini

Il giorno 20 Ottobre si è svolto nella rilassante e intima località di Gropada (TS) il convegno-assemblea del Gruppo Orientale.

In realtà il mio coinvolgimento per questo evento è stato dal giorno 18 nel quale ho iniziato il mio cammino sul suolo triestino e goriziano.

Ovviamente andava oltre il mio ruolo di presidente.

Su consiglio di Mauro Florit ho puntato l’interesse sulla mostra di “Julius Kugy e donne in quota” a Gorizia al palazzo Coronini che tra l’altro resterà aperta alla visita fino al 6 Gennaio 2025.

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1 Mostra KugyLa mostra su Kugy

 

0 Sentiero RilkeSul Sentiero Rilke

Con 2 euro per i soci C.A.I. si accede a due sale con pannelli che illustrano con fotografie e frasi la vita di Julius Kugy e la situazione sociale delle donne in quota sia alpiniste che “portatrici” ai tempi della guerra, argomento che peraltro si adattava perfettamente al tema del nostro convegno pomeridiano.

Una breve visita mattutina sul sentiero Rilke a Duino e il trasferimento successivo a Gorizia ci hanno permesso di aspettare l’apertura della mostra e quindi radunarci nel tardo pomeriggio con Jennifer Dall’Armellina, nostra moderatrice al convegno e Alessandra Gaffuri accademica del gruppo centrale con la preziosa testimonianza che avrebbe portato al convegno di donna a confronto in un mondo maschilista.

Con un tempo inaspettatamente clemente alla mattina di sabato 19 ci attende all’inizio della strada Napoleonica Giorgio Ramani storico “passaggista” ma soprattutto memoria storica del movimento di arrampicatori che si sono avvicendati e spellati le dita sui passaggi andando ad altezze che oserei definire proibitive letteralmente “senza rete” rischiando non le sole caviglie ma ben altre fratture.

4 Giorgio RamaniGiorgio Ramani

 

6Giorgio Ramani indica la mitica "X"

5 Sulla XSulla X

 

6 bis

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Scorrendo lungo la Napoleonica siamo stati avvolti dalle leggende di nomi e volti alcuni conosciuti altri famosi ma solo ai locali e non per questo meno abili.

Insieme a noi la disponibile e solare Giuliana Pagliari INAL di Trieste e relatrice della domenica, preziosa compagna di escursioni storiche e naturalistiche che andò poi ad elencare.

Sotto gli occhi attenti di Ramani e Florit sulla mitica “X” di Ramani si avvicendavano Maistrello e Dalle Nogare verso l’”incognito”e per fortuna con un buon pad sotto le caviglie.

Nel frattempo ci aspettavano il “custode” Aldo Fedel della grotta Gigante e il presidente della SAG  Paolo Toffanin.

 

All’interno della grotta veramente gigantesca è stato attrezzato un itinerario di arrampicata mista ci circa 170 metri da parte del “custode” e Paolo Pezzolato detto “Fossile”,  molto suggestivo e che richiede ovviamente un sapiente uso delle staffe e la relativa tecnica per non arrivare alla balaustra finale come degli zombi.

Ovviamente poteva aprire questo itinerario in una grotta solamente un personaggio soprannominato “Fossile”.

Le cordate si stavano formando e cioè nell’ordine di partenza Ivo Maistrello e Marco Davoli, Carlo Dalle Nogare e Giuliano Bressan, Giuseppe Tararan e Mauro Moretto il tutto sotto la attenta supervisione di Mauro Florit ottimo coordinatore dell’evento.

Pronti partenza e via e così Ivo è la cavia che affronta questa via nella penombra di un ambiente veramente singolare.

Nel frattempo insieme ad altri convenuti risaliamo i cento metri gradinati di dislivello verso l’uscita affascinati dalla grandezza dell’ambiente.

9Luci ed ombre danno rilievo alle fantastiche strutture della Grotta Gigante

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Prossima destinazione per noi che abbiamo scelto una giornata di relax, il paesino di San Lorenzo dal quale si sovrasta la splendida Val Rosandra, attendendo per le 20 l’arrivo delle cordate alla balaustra, fine dell’itinerario.

Un dolce pensiero per il nostro collega Maurizio Fermeglia che qua ha concluso il suo cammino avvolge di commozione il nostro gruppetto.

Per fortuna la Giuliana, grande conoscitrice della valle, ci fa volare oltre, sfiorando con lo sguardo spigoli, aggirando creste e salendo strapiombi.

Un vento non fastidioso e un cielo grigio molto suggestivo ci accompagnano in questa visita in un luogo così carico di significato per l’ambiente triestino.

Poi con la macchina verso le Grotte di San Canziano per ammirare la maestosa bellezza del fiume Timavo che entra nella terra e nel suo percorso carsico sotterraneo arriva a San Giovanni di Duino per gettarsi nel mare dopo 39 chilometri di anonimato sotto terra incrociando l’abisso di Trebiciano che come un comignolo è uno sbocco verso il cielo.

Pensate che ci sono speleologi ed ovviamente speleo sub che per trovare sbocchi carsici hanno fatto una ragione di vita di questo loro impegno oserei dire anche assai pericoloso ma molto avventuroso.

Altro trasferimento alla grotta Gigante ormai chiusa al pubblico che apro io con le chiavi che mi ha lasciato l’Aldo Fedel.

Quante persone nella loro vita possono dire di avere avuto a propria disposizione la chiave di una grotta e che grotta?

Oramai sono le 20 e sollecitando i ragazzi impegnati in parete li invitiamo a sbrigarsi per il buio ormai imminente: ovviamente il tutto nella grotta!

Grande cena in splendida compagnia e armonia e poi la notte porterà consiglio per l’assemblea e il successivo convegno.

La mattinata del 20 Ottobre è splendida e di primo mattino con Mauro arriviamo a Gropada dove già il buon “Calice”, al secolo Stefano Zaleri, sta predisponendo le indicazioni per arrivare alla sala del Pub Skala nel cui interno Roby Valenti allestisce la parte per così dire informatica.

E veniamo alla parte del Convegno in quanto la parte congressuale va agli atti per così dire istituzionali.

16 Jennifer DallArmellinaJennifer Dall'Armellina conduce il Convegno

 

14 Da sinistra Stefanelli. Gaffuri MeroiDa sinistra Stefanelli. Gaffuri e Meroi

17 Sara Avoscan e Omar Genuin e la piccola Lia17 Sara Avoscan, Omar Genuin e la piccola Lia

18 Nives e OmarNives e Romano

 

20 Assemblea istituzionale alla mattina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

21 Assemblea istituzionale alla mattinaL'Assemblea istituzionale della mattinaDa presidente ormai agli sgoccioli con la tensione per gli eventi così incalzanti, saluto il pubblico e lascio la parola alla moderatrice Jennifer Dall’Armellina che da subito ci accompagna con la sua simpatia e preparazione alla scoperta delle vite ed esperienze delle relatrici.

Giuliana Pagliari ci lega alla sua corda lungo la sua via fatta di arrampicate estreme e insegnamenti ad allievi della scuola Comici della quale è la direttrice.

Le parole di Giuliana così distaccata dall’autocelebrativo ci riempiono di commozione per il suo percorso di affermazione personale.

Da triestina ci introduce poi ad un sorprendente filmato gentilmente concesso dalla famiglia Rauber depositaria di un archivio fotografico pregevolissimo con inedite immagini di Emilio Comici poi donne sensuali in costume da bagno dell’epoca e singolari pose in arrampicate e discese in corda doppia.

 

 

 

 

 

 

 

Entra poi in gioco Alessandra Gaffuri con il suo entusiasmante percorso personale non solo legato alla montagna ma anche cammino di vita tra gioie e apprensioni, mamma, moglie e veterinaria.

Un vulcano ancora in attività che Jennifer, noto, scruta quasi con ammirazione.

Jennifer poi ci concede una frizzante intervista con Sara Avoscan e Omar Genuin e la loro piccola Lia che gattona in ogni dove sul palco mentre papà e mamma ci fanno vedere delle meravigliose immagini di gattonate verticali in Marmolada con la ripetizione della via Steps across the border/Senkrecht ins Tao (X-) un itinerario percorso in prima ascensione da Prem Darshano (al secolo Luggi Rieser) e Ingo Knapp l’11 ottobre 1995 e che conta, compresa la loro salita solo 5 ripetizioni.

Locandina convegnoMentre si avvicina a me gli occhi vigili e attenti di Omar mi scrutano e con molta delicatezza si scusa della breve permanenza della sua famigliola ma lo rassicuro perché tutti abbiamo notato che la piccola Lia oggi era ingestibile: forse le manca il pannello da arrampicata?

Entrano poi in ballo Nives e Romano che oserei definire la coppia di ferro e sulle immagini del loro quattordicesimo ottomila, l’Annapurna, ci lasciano ancora senza fiato, e non è un eufemismo, immergendo il nostro essere in quel mare di solitudine così pregnante.

Poi la sempre presente e brillante Jennifer comincia con le domande alla coppia che evidenzia la loro situazione personale e cioè il “soli ma uniti” che li ha portati in giro per il mondo.

E il litigio in vetta all’Annapurna? Chi aveva ragione? Romano afferma di avere lui sempre ragione ma ho l’impressione che la Nives, con quello sguardo così vispo, attento e contemporaneamente dolce abbia la testa adatta per tenere banco al “suo uomo”.

Sempre belli e brillanti nonché affascinanti.

Un attimo di pausa e ci viene offerta da Franco Toso che si è prestato anche per l’assistenza tecnica, la visione del film “Signora delle cime” su Bianca di Beaco che ci immerge in un alpinismo di altri tempi proiettandoci anche volti ben noti a noi accademici.

Con una certa commozione, oltre ad altri personaggi triestini dell’epoca, compare il mitico Jose Baron e poi Walter Mejak che però non ho conosciuto e sappiamo che in sala a vedere il film c’è la moglie Fioretta Tarlao , un tipetto singolare di 86 anni assai frizzante e molto coinvolgente.

Il film di Franco Toso ci trascina in un mondo così lontano ma anche così attuale lasciandoci stupiti dai profondi sentimenti e riflessioni di Bianca, donna sensibile ma soprattutto LIBERA.

E questo è stato il senso dato al nostro convegno rivolto alle nostre compagne che siano di vita, di cordata, di qualsiasi cosa con la consapevolezza di tributare il nostro rispetto verso di loro.

Un grazie molto sentito a Paolo Toffanin presidente della SAG e Piero Mozzi presidente della XXX Ottobre che hanno favorito questo progetto.

Aldo Fedel, custode della grotta, ci ha fatto capire come si può amare con passione il proprio lavoro.

Un ringraziamento ai colleghi accademici che mi hanno fatto da capocordata su questa via verso Gropada, Florit, Valenti e Zaleri.

Legate a questa cordata, alle quali sono debitore, anche la sempre presente Anna Bressan,  l’infaticabile Sofia Beltrami e la mia ragioniera e scrutinatrice Fiammetta Curcio.

E grazie ai convenuti!

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