Undici nuove vie e alcune ripetizioni storiche: questo il bottino della spedizione in Oman del gruppo composto dai sei ragazzi del CAI Eagle Team Erica Bonalda, Marco Cocito, Daniele Lo Russo, Matteo Monfrini, Lorenzo Toscani e Riccardo Volpiano.
A breve, in una prossima puntata, pubblicheremo le schede tecniche con relazioni e tracciati delle 11 nuove vie aperte: sicuramente una proposta originale e stimolante per i nostri lettori.
L’avventura è stata coordinata dal Club Alpino Accademico Italiano e finanziata dal Club Alpino Italiano. Insieme a loro, tre tutor del CAAI, Marco Ghisio, Mauro Florit e Francesco Leardi.
Nel seguito riportiamo la relazione dettagliata del viaggio, redatta dal coordinatore Marco Ghisio, accompagnata dai ricordi e riflessioni personali dei membri della spedizione.
Ottimizzazione e grafica A. Rampini
Oman 2025- Relazione generale della spedizione
di Marco Ghisio
La spedizione in Oman ha rappresentato la naturale conclusione di un progetto incentrato sulle giovani promesse del mondo dell’alpinismo e arrampicata. Giovani che finalmente hanno potuto godere dei frutti delle varie settimane di formazione e mettere in pratica quanto appreso, in un luogo opportunamente scelto non solo per collaborare allo sviluppo turistico e sportivo del territorio omanita ma anche per la quantità e qualità di pareti rocciose a disposizione ancora da esplorare. È grazie a questi due aspetti fondamentali, uniti alla voglia di fare gruppo che i ragazzi hanno messo in atto, che la spedizione può vantare gli ottimi risultati raggiunti.
In particolare, sto parlando delle 11 vie aperte, dove risulta evidente che tutti i partecipanti hanno avuto modo di apporre la propria firma su un nuovo itinerario. Qualcuno già esperto, qualcuno alle prime armi, ognuno ha trovato il giusto terreno per scatenare la fantasia e la voglia di ingaggio.
Le Al Hamra Towers
I primi giorni della spedizione hanno dato un po’ di filo da torcere, prima di tutto per un problema con il rental car che avrebbe fortemente limitato l’esito del tour. Avevamo infatti prenotato 3 jeep e ci hanno consegnato tre berlina, dettaglio non trascurabile considerando che buona parte delle strade secondarie sono sterrate e alcuni accessi alle pareti anche molto sconnessi e ripidi, senza contare la quantità di materiale e viveri che dovevamo trasportare, difficilmente stipabile nelle utilitarie.
Vista su Al HamraQuesto ci ha costretti a scartare la prima meta, il Wadi Bani AWF, per un’area più a portata di mano come le pareti intorno ad Al Hamra in attesa che si risolvesse il disguido.
Così, il primo giorno ci dirigiamo verso le Al Hamra Towers. Le cordate: Mauro e Francesco, Riccardo e Marco Cocito, Erica e Daniele verso la Torre est, Parete nord, in quanto Mauro, in una precedente esplorazione nel 2018, aveva adocchiato alcune linee interessanti e non ancora salite. Ecco, quindi che nascono Evening coffee e Old style. Io, Matteo e Lorenzo ci dirigiamo invece verso la Torre centrale dove, parimenti, avevamo intravisto una possibilità di nuova linea, ma nel nostro caso, dopo i primi tiri ci accorgiamo ben presto che era già stata salita, anche se non presente tra le nostre informazioni, per cui decidiamo di deviare sulla linea di Balha coi Lupi, aperta nel 2017 da Lamantia, Sanguineti ecc. in realtà, nella parte alta, apportiamo una variante di uscita.
In questi primi due giorni non sono mancanti i primi contatti con la popolazione locale, la prima sera sono venuti a trovarci al nostro accampamento un gruppo di ragazzi incuriositi che ci hanno accolto con datteri e termos di caffè aromatizzato, mentre, il giorno seguente, alla base della parete è arrivato un pastore che ci ha poi accompagnato al suo “rifugio” anch’esso offrendoci caffè e datteri. Ci ha poi fatto conoscere i suoi figli, nipoti, cugini e ci stava organizzando una grigliata per la sera successiva.
La diversità culturale e la diffidenza verso questi paesi mediorientali che noi occidentali ci portiamo dietro sicuramente ci limita fortemente in queste occasioni, soprattutto al primo impatto, ma bastano pochi minuti e si comprende chiaramente che gli intenti (almeno qui in Oman per i contatti che abbiamo avuto) sono assolutamente piacevoli e ispirati a un grande senso di ospitalità misto a curiosità.
Alla scoperta del Jabal Misfat al Abriyeen
Lorenzo sullo sfondo del Jabel Misht
"Old Style" alla Al Hamra Tower, una delle vie aperte
Il terzo giorno di spedizione noi tre tutor avevamo fissato l’appuntamento per la sostituzione delle agognate auto e, mentre i ragazzi erano a intenti a ripetere la via Bahla coi lupi, in attesa dell’orario dell’incontro siamo andati in esplorazione al Jabal Misfat al Abriyeen, un bellissimo villaggio, immerso in un oasi verde piena di terrazzamenti, palme e canalizzazioni per l’acqua, da cui parte chiaramente un wadi dalle pareti interessanti e molto poco valorizzate.
Il giorno successivo, pertanto, decidiamo di recarci qui alla ricerca di nuove linee, lo spazio non manca, ci dividiamo in cordate e partiamo. Purtroppo, subito sul primo tiro Marco Cocito tira un pilastrino all’apparenza solido, ma che rapidamente si frattura. Risultato: caduta, ferita alla gamba, ospedale.
Ognuno scende dai propri obiettivi e ci concentriamo nell’aiutare Marco a tornare alla macchina e nell’accompagnarlo in ospedale, dove sarà curato in modo eccezionale, ma questo infortunio lo costringe ai box per 4 giorni, in attesa di riacquistare un po’ di mobilità e far guarire la ferita.
Il giorno dopo torniamo a concludere i nostri progetti e nascono Habibi ad opera di Mauro e Francesco, Feel free to create ad opera di Riccardo ed Erica, quest’ultima alla sua prima esperienza di apertura e la via Sciugomano, completamento dell’avvio di Marco, per mano di Lorenzo e Matteo che supera l’evidente pancia sopra la cengia.
Io e Daniele purtroppo non riusciamo nell’intento e siamo costretti ad abbandonare la nostra via causa roccia scadente, impareremo il mood della spedizione: evitare le zone di roccia gialla anche se esteticamente interessanti!
Sulle spettacolari pareti del Jabel Kawr
Complessivamente in questi primi giorni la roccia non convince, c’è un po’ di scetticismo nel gruppo e forse un pizzico di delusione iniziale, per cui decidiamo di spostarci verso l’area che fin da casa sembrava riservare il più alto potenziale, lo Jabel Kawr e lo Jabel Misht. Soprattutto su quest’ultimo riponevamo grandi aspettative in quanto eravamo interessati ad una via del grande Auer, ma da subito abbiamo capito che non sarebbe stato possibile ripeterla. La parete, alta 1000 m prende sole dalle 7 alle 18 e di giorno si arrivava a oltre 30 gradi, una combinazione improponibile viste anche le difficoltà della via.
Daniele su Balha coi lupi
Il profilo del French Pillar al Jebel Misht
Nell’area del Jabel Kawr sapevamo che le pareti del Said Wall e dell’Al Kumeira wall sarebbero state una valida alternativa: nord pieno e vie di 500 metri, molto frequentate negli anni da Simon Messner e dove è presente anche Vacanze (R)omane, una via di Matteo Della Bordella e Simone Pedeferri.
Per raggiungere l’area sottostante le pareti ci attendono 40 minuti di sterrato di montagna. Arriviamo quindi nel “villaggio” di Al Kumeira, ormai disabitato, ma dove è presente una moschea immersa in una piccola oasi. È proprio qui che noi ci siamo piazzati per i giorni a venire, quelle palme e la canalizzazione di acqua, sono state la nostra salvezza in un ambiente totalmente arido e assolato.
Campo base ad Al Kumeira
Mauro su "Dreaming the tower"
Riccardo a GorgetteSiamo al 25 febbraio, installiamo un nuovo campo base ed effettuiamo giro esplorativo verso le pareti per studiare obbiettivi e avvicinamento e poi definire le cordate per l’indomani. C’è qualche momento di tensione per via degli obiettivi discordanti ma poi, con la pazienza di tutti, troviamo la quadra e si parte. Per me, Matteo e Lorenzo destinazione Vacanze (R)omane, abbiamo voglia di scontrarci con un po’ di alta difficoltà. Erica e Daniele si dirigono su Ticket to the Moon proprio una delle vie di Messner. Riccardo e Mauro, eterni esploratori, si dirigono verso uno sperone al Said Wall, per aprire una nuova via e creano Dreaming the tower. Marco, ancora fermo per via della ferita, e Francesco si prendono la giornata per un giro turistico ma ci fanno un regalo enorme, organizzano una cena coi fiocchi, molto apprezzata da noi famelici arrampicatori. Qui gli avvicinamenti e le discese sono assai più lunghi rispetto ad Al Hamra e le giornate si fanno impegnative.
26 febbraio rest day. Ci dirigiamo al Wadi Damm perché ci hanno parlato di alcune pozze dove poterci rilassare. Ma Matteo aveva in testa una nuova linea su quel mare di calcare e insieme al nostro King Riccardo, che aveva sentito odore di avventura, prima di concedersi il riposo fanno un altro giro di esplorazione per studiare meglio la possibile linea. Anche chi si rilassa al Damm è sempre con un occhio vigile e intravede una parete sopra al wadi non presente sulla guida e in nessuna cronaca.
I piani per l’indomani sono presto fatti, ognuno di noi ha puntato nuove linee: io, Matteo e Riccardo partiamo per la linea studiata nei giorni precedenti, su una parete di cui non sappiamo neanche il nome, che rimane proprio al centro tra le due note Said e Al Kumeira Wal, con il materiale da bivacco e la determinazione di portarla a casa. Daniele ed Erica si dirigono anche loro su una linea intravista molto a destra su Al Kumeira Wall, che li obbliga a dare il tutto e per tutto, toccando i propri limiti su terreno nuovo, ma purtroppo sono costretti a scendere. Sono comunque stati molto contenti dell’esperienza portata a casa.
Marco, che il giorno prima aveva già testato la gamba, torna in pista e, insieme a tutti gli altri, si dirige verso la parete sopra il Damm, anch’essa con nome ignoto. La chiameranno Al Wal, interpretazione di un’indicazione fornita da un locale sulla possibile toponomastica del luogo. Qui tracciano Patatonia, una via destinata a diventare una classica.
Io, Matteo e Riccardo ci siamo alternati in apertura per tutta la giornata, i primi tiri ci hanno impegnato notevolmente, arriveremo molto alti ma, per pochissimo, non riusciremo ad uscire dalla via e saremo costretti al bivacco. Poco male, avevamo il necessario e percepivamo che l’indomani ci sarebbe mancato veramente poco e su difficoltà modeste. Così, alle 8 del 1° marzo, concludiamo Drips of Joy nome derivato dalla quantità di tiri esaltanti su muri a gocce.
In parete fino all’ultimo giorno!
Riccardo e Erika dopo "Feel free to create"Siamo poco oltre la metà spedizione e decidiamo di spostare il campo per iniziare a riavvicinarci alla città, facendo alcune tappe lungo il percorso.
Ci piazziamo giù al Damm, posto abbastanza centrale per gli obiettivi di tutti dell’indomani. Matteo e Riccardo non digeriscono l’idea di ripartire senza aver messo mano sulla montagna simbolo del luogo, Jabel Misht. Così optano per una corsa sul classico French Pillar cercando di scappare dalla calura.
Io, Mauro e Francesco torniamo ad Al Wal per aprire Dattero d’oro. Francesco porterà anche un ottimo contributo allo sviluppo del trekking in Oman, segnando con notevole quantità di ometti una via normale della parete, utilissima per la discesa.
Lorenzo, Marco, Erica e Daniele si dirigono verso la via “Le paradis des granouilles”, sempre al Said Wall ma con differente accesso e definita come una delle più belle della zona, ma forse la cosa più bella è stata scalare senza tutor e sappiamo di una giornata di grande goliardia. Alla sera ci ritroviamo tutti soddisfatti ad Al Hamra, finalmente con la possibilità di fare una doccia dopo giorni a mimetizzarci con le capre locali.
4 marzo: ultimo giorno di vie. Matteo e Lorenzo vogliono tornare sulla loro creazione, Sciugomano, per liberare l’ultimo tiro, Matteo ci riesce e lo valuta 7c+.
Un altro gruppetto vuole andare al Wadi Nakar dove l’avvicinamento è pressoché nullo, ma, a dire di Mauro, la parete è stata scalata pochissimo rispetto alle potenzialità, come praticamente tutto in Oman.
Dopo un po’ di indecisione iniziale Erica, Marco e Daniele si dirigono verso la parete a Sud Ovest del wadi per aprire Vento del deserto, io e Riccardo optiamo per la parete a est e apriamo All you need is a date e Crack Pole, quest’ultima una linea tutta in fessura dove sembra di essere sulle nostre Alpi.
Said Wall e Alkumeira Wall
Wadi Misfats Falaj
Incontri con locali al Jabal Fokha
Tramonti omaniti
Un po’ di turismo
Il giorno seguente avevamo già in programma di fare una giornata tutti insieme in falesia e visitare Gorgette, per poi dirigerci verso Mascate. Non ci è rimasto più un briciolo di pelle sulle mani, per cui l’ultimo giorno associamo un po’ di visita alla città e un paio d’ore di deep water solo. Eravamo però anche tutti attratti dalle notti d’oriente e questo fascino medio orientale, per cui, incuriositi, partiamo per un tour in macchina facendo tappa alla Royal Opera. Come potete immaginare, però, le costruzioni dove gli omaniti danno il meglio sono le moschee: tante, luccicanti e illuminate a giorno. La principale, quella del sultano Quaboos, è qualcosa di veramente incredibile, la più grande al mondo, prima di quella di Abu Dabi. La musalla principale (la stanza della preghiera) ospita 6500 persone, è ricoperta da un tappeto di 4343m2 e illuminata da un lampadario di 14 metri.
Dopo la visita alla moschea ci rechiamo al souk, tipico mercatino, ma a parer mio un po’ troppo commerciale e poco caratteristico. Ultimo step, un po’ di mare ma sempre con la possibilità di mettere le scarpette per chi ancora ne avesse voglia, per cui ci rechiamo al porto dove i pescatori sono ben contenti di accompagnare con le loro barche gli arrampicatori a scalare sulle scogliere. Qui l’Oman ci regala un’ultima sorpresa: l’acqua sotto le scogliere non è molto limpida, ma fra le onde si scorgono comunque tantissime tartarughe marine!
DWS
In barca verso il DWS
Ricordi e impressioni dei partecipanti
I mondi differenti
di Francesco Leardi Presidente Caai - Gruppo Orientale
Non parlerò di imprese e tecnicismi, piuttosto narrerò i contrasti che gli eventi propongono e spesso, in questa esperienza del CAI Eagle Team si sono interfacciati tra di loro, talvolta anche sorprendentemente.
Come risaputo, sono sempre stato favorevole ad un’iniziativa del genere e la mia partecipazione, per come l’ho vissuta, è stata rappresentativa di una generazione il cui passato è stato un momento di crescite personali ma anche di forte spinta motivazionale per le generazioni successive. Non per tutti, come si sa, anzi, molte personalità hanno sempre pensato a preservare e personalizzare la loro identità con la paura di essere sminuiti.
Ho sempre creduto nei giovani e questa esperienza mi ha permesso di affrontare una realtà materiale che, nella vita reale, è sfuggente perché propinata da social, per carità divulgativi e attuali, sempre sintonizzati sul gesto ma poco sul senso del prima e del dopo.
Così il primo “mondo differente” mi ha offerto le personalità di questi ragazzi che, al mio essere, apparivano quanto mai misteriose, e credo sia il termine giusto, perché i piani di comprensione iniziali erano lontani e diversi.
Da solitario quale sono, ho guardato con interesse, curiosità e un certo distacco, che non voleva essere un atto di presunzione, bensì un personale accrescimento, anche se potrebbe sembrare un paradosso.
La cosa sorprendente comunque è stata vivere questa situazione in un secondo “mondo differente” che è stata la realtà territoriale dell’Oman dove tutto o nulla è scontato.
Credo che la visione del differente fosse ben presente anche nei ragazzi, e non voglio assolutamente dire che la società omanita sia meglio o peggio, ma semplicemente diversa, anzi alcune peculiarità ci hanno sorpreso e, per così dire, hanno accresciuto il valore dell’elemento umano.
Strade sterrate e polverose ci hanno condotto tra le montagne, immergendoci in mondi surreali rispetto ai quali, almeno io, istintivamente e inizialmente, ho pensato che fossero un mondo a parte. Ma non era così, e la percezione di quanto detto la abbiamo avvertita girando tra le case di queste oasi, dove le persone vivono con assoluta dignità e un credo religioso invidiabile e di tutto rispetto.
Ricordo con piacere i datteri che ci hanno offerto nell’oasi di Al Kumaira, ma soprattutto mi emoziona, al di là del materiale, il gesto, compiuto con estrema delicatezza ma anche risolutezza. Il segnale era: “Ti accolgo e rispetto, ma ricorda che sei nel mio territorio!”.
Così ogni mattina arrivavano all’oasi, dopo 11 km di sterrato assai difficoltoso, dei custodi del territorio, ogni giorno diversi, per irrigare con magistrali opere idrauliche i terrazzamenti.
Un episodio che mi ha stupito è stato quando abbiamo fatto un breve periodo di istruzione per insegnare a piantare manualmente gli “spit roc” radunati intorno ad Erica che magistralmente forava la superficie di un masso. Ebbene, un giovane omanita, sorprendentemente ha sguainato il suo smartphone dalla tunica per fare un video alla nostra compagna di avventura. Il senso non era tanto la ripresa del video, ma la assoluta spontaneità con il quale il ragazzo, di ben altra cultura, ha fatto questa operazione accompagnata da uno sguardo assai sereno e compiacente. Così i “mondi differenti” si sono incontrati.
Ci sono due termini con cui definirei il gruppo dei ragazzi: competitivi, ovviamente non solo tra di loro ma molto con se stessi, e amalgamati, che poi è un termine di derivazione araba che significa impasto. Certo, questa avventura, queste prestazioni sono state un impasto di menti, volontà, entusiasmo, determinazione e capacità.
Non ho mai tenuto diari, ma ho sempre scritto per necessità, cercando di cogliere il momento opportuno. Gli aneddoti da raccontare sarebbero molti ma ritengo che il significato del “gruppo” sia emerso da queste poche righe.
Tutti noi ricorderemo con piacere la disponibilità del popolo omanita che in ogni occasione e senza rendiconto ci ha accolto. Dal nulla più totale, tra queste eterne sterrate polverose, compariva ogni tanto una jeep di omaniti che si fermava per chiedere se avevi necessità di qualche cosa o desideravi un passaggio. Un gesto semplice ma significativo ed emozionante come era il momento del saluto quando si portavano una mano al cuore e poi te la porgevano. Una semplice mano che racchiude enormi significati!
Una valigia piena di esperienze
di Riccardo Volpiano
Oman 2025, spedizione finale del progetto CAI Eagle Team. Per me è stata la mia prima spedizione extraeuropea e in realtà anche la mia prima spedizione alpinistica. Da subito ero molto motivato, non c'era nulla che mi preoccupasse, probabilmente perché il feeling che avevo con il gruppo era molto buono: con gli altri cinque ragazzi abbiamo avuto modo di conoscerci e fare amicizia durante le settimane di formazione del progetto, mentre i tre tutor del Club alpino accademico li ho conosciuti solo qualche mese prima di partire, ma c'è stata subito una grande intesa.
Devo ammettere che la spedizione mi ha sorpreso, nel senso più positivo del termine; la bellezza dei paesaggi, la gentilezza della popolazione locale, la quantità di pareti inesplorate, la qualità della roccia, ma soprattutto la libertà di poterci accampare dove volevamo per poter scalare ed esplorare i posti che ci affascinavano di più.
Ecco, se dovessi riassumere questa avventura con una parola sola, credo che sceglierei libertà.
Siamo partiti con un programma più o meno definito, ma senza vincoli stringenti, avevamo individuato i posti che sembravano più interessanti basandoci sul materiale trovato sulla guida e in rete, qualcuno di noi aveva qualche obiettivo preciso, tuttavia, una volta in Oman abbiamo molto spesso stravolto i piani.
Il fatto che di giorno la temperatura raggiungesse a volte i 32 gradi ci ha fatto subito scartare tutti i progetti sulle pareti sud, altri piccoli inconvenienti ci hanno costretto a modificare gli spostamenti previsti dal piano originale, ma siamo riusciti ad adattarci ed elaborare nuovi programmi in modo talmente veloce e organizzato che, riguardando indietro, sembra quasi che fosse il nostro programma fin da subito. È capitato che ragazzi diversi avessero obiettivi diversi, spesso su pareti diverse, ma con la giusta organizzazione e determinazione siamo sempre riusciti a sfruttare al meglio le tre auto e accontentare tutti, ritrovandoci poi la sera stessa o quella successiva a raccontarci a vicenda le rispettive avventure.
In Oman si può passare dalla strada asfaltata, a quella sterrata liscia, a quella sterrata sconnessa nel giro di pochi metri, per fortuna avevamo a disposizione auto 4x4 (anche se abbiamo tribolato un po' per averle) che ci hanno permesso di visitare molti luoghi che altrimenti sarebbero stati irraggiungibili.
Qualsiasi posto poteva diventare casa: sotto un albero, vicino a un fiume, nel letto di un fiume secco. Cinque tende, boccioni d'acqua, cibo, fornelletti e un'ottima compagnia: non si sentiva la mancanza dei comfort di un albergo. Inoltre la possibilità di incontrare pastori o agricoltori locali non era da sottovalutare; infatti, tutti gli Omaniti che abbiamo incontrato o che ci sono venuti incontro per salutarci, ci hanno sempre offerto del caffè o dei sacchetti di datteri o dei pancake, oltre a darci spesso delle indicazioni utili su dove trovare acqua, roccia e cibo. Sono sempre stati molto educati e cordiali, mai invasivi, sempre ospitali.
Ogni giorno, un'ora prima dell'alba, alle 12:30 e al tramonto in qualsiasi punto dell'Oman ti trovassi, si sentivano le preghiere che venivano recitate ad alta voce nelle varie città, grosse o piccole che fossero.
Ad Al Khumeira, un villaggio isolato a 11 chilometri di sterrato dalla città, dove oramai sono presenti solo più ruderi, si trova una bellissima oasi con una vasca per l'irrigazione che si riempie giornalmente e dove l'unico edificio ancora in piedi e ben tenuto è proprio una piccola moschea.
In mezzo a queste distese di terra arida, pietraie, pareti e letti dei fiumi secchi, sono presenti dei magnifici canyon, chiamati wadi, dove l'acqua riesce a dar vita a delle splendide oasi verdi, sempre ben tenute e coltivate. Le pareti rocciose di questi canyon si sviluppano solitamente per diversi chilometri e, oltre a essere estremamente suggestive, sono state spesso l'obiettivo delle nostre scalate.
Per raggiungere le pareti in generale non esistono sentieri, ma solo la motivazione e l'intuito dell'alpinista che ha individuato una linea di salita che lo ha stregato e vuole a tutti i costi arrivare alla base della parete e poi ridiscendere una volta compiuta la missione, nonostante le pietre mobili, gli arbusti spinosi (molto spinosi!) e le temperature a volte molto elevate.
Sulla scalata ci sarebbe molto da dire, ma forse è sufficiente aggiungere che gli ultimi giorni la pelle delle nostre mani era completamente consumata a causa dell'elevata abrasività della magnifica roccia omanita. Non è sempre stato facile individuare e capire quali fossero i punti con la roccia migliore e abbinare correttamente il colore della roccia alla sua solidità, ma a fine spedizione avevamo imparato. Molto spesso si partiva puntando a una zona della parete che sembrava interessante, poi giunti in prossimità, si deviava per evitarla, dal momento che non era come ce la si aspettava, ma qualche metro a fianco si trovava invece una zona con della pietra inaspettatamente bella e compatta.
È stato molto formativo e piacevole poter scalare e aprire nuove vie con tanti soci diversi, imparando da ognuno qualcosa e, soprattutto, divertendosi sempre a prescindere dal socio; una volta abbiamo anche bivaccato in parete! Certamente alcune salite mi hanno dato più soddisfazione di altre, ma quando si è in questi posti, in queste situazioni, ogni giornata è una vittoria: la difficoltà, la lunghezza, la stanchezza perdono valore e rimane solo la gioia per aver trascorso dei bei momenti, in un posto bellissimo, praticando lo sport che ci piace di più.
Abbiamo avuto la possibilità di visitare anche la capitale Muscat e la sua incredibile moschea, oltre ad abbracciare gli splendidi scogli che spuntano nell'oceano lì vicino, praticando "deep water solo" durante l'ultimo pomeriggio prima di ripartire per l’Italia, diventando l'attrazione nell'attrazione per tutti i turisti che stavano effettuando un giro in barca per ammirare gli scogli.
Torno a casa senza rimpianti, con il bagaglio pieno non solo di vestiti, materiale d'arrampicata e datteri, ma anche di bellissime esperienze formative ed esplorative che a priori non mi sarei aspettato.
Non resta che ringraziare di cuore il CAI e il CAAI per questa opportunità, sperando che si ripresenti in futuro, non solo per me, ma anche per altri giovani alpinisti che decideranno di partecipare alle prossime edizioni del CAI Eagle Team.
La sfida di fare gruppo
di Mauro Florit CAAI – Gruppo Orientale
Che dire di questa esperienza se non che tutte le mie sensazioni sono state confermate?
Quello da sempre sostenuto anche stavolta si è rivelato come verità. No, non ho nessuna dote particolare di premonizione, nessun merito, solo una certezza: Gli alpinisti sono lo specchio della nostra società, ma, nel mondo dell’alpinismo, o più in generale dell’arrampicata, c’è una altissima percentuale di brava gente.
I sei ragazzi che ho avuto la fortuna di conoscere in questa esperienza omanita si sono dimostrati delle bellissime persone… belle persone, ancora prima che fortissimi alpinisti. Che fossero dei fuoriclasse alpinisticamente parlando non vi era nessun dubbio, anche conoscendo il lungo ed impegnativo percorso che li ha portati a questa esperienza. Ma che si dimostrassero anche delle persone grandi, non era per nulla scontato. Il loro percorso, fino al momento in cui siamo saliti sull’aereo per l’Oman era, bene o male, una continua sfida per risultare i migliori; riuscire a cambiare radicalmente registro e diventare un gruppo affiatato, che condivideva i medesimi obiettivi, è stata la sfida più impegnativa. Una sfida che hanno saputo accettare e vincere.
Ringrazio Marco e Francesco che, come tutor, hanno saputo lavorare per la riuscita di questa avventura, ma soprattutto ringrazio Erica, Lorenzo, Marco, Matteo, Daniele e Riccardo per avermi ricordato come ero io quarant’anni fa, quando la passione per questa splendida ed inutile attività mi ha contagiato. Auguro a loro, ma anche a tutti quelli per cui la Montagna è terapeutica e motivante, di vivere intensamente ogni momento che la vita ci regala.
Pareti nuove e nuove amicizie
di Lorenzo Toscani
Chiudo gli occhi un momento e mi addormento. Mi sembra di sentire l’odore di spezie del mercato di Muscat, il continuo vocio dei venditori che cercano di richiamare la nostra attenzione proponendoci merce completamente assurda e inutile.
Siamo in aereo verso Malpensa, mentre faccio un bilancio di questo viaggio. Le emozioni sono ancora fresche e ci vorrà qualche giorno per metabolizzarle. Il posto, le persone, i miei compagni di viaggio: tutto si è rivelato molto meglio delle aspettative, che già erano alte.
E si sa, gli attriti, la roccia brutta, gli incidenti fanno parte del percorso, non potrebbe essere diverso quando parti per scoprire pareti nuove, amicizie nuove.
Personalmente torno molto arricchito da questo viaggio; abbiamo scalato tutti i giorni disponibili, abbiamo aperto delle vie e ne abbiamo ripetute altre, ci siamo confrontati, abbiamo finito strati e strati di pelle, sfondato le scarpette.
Senza dubbio ci sono stati molti momenti da ricordare, ma uno dei più belli è stato sicuramente concludere l’apertura della via Sciugomano (7c+ max) insieme a Teo e Marco. Il crux della via supera prima un tetto orizzontale, per poi affrontare una placca a tacche e buchi. Una linea davvero particolare, tracciata in un canyon praticamente vergine.
Adesso si torna a casa, con il telefono pieno di foto di pareti inesplorate, pronti a studiare gli obiettivi del prossimo viaggio in questa terra così piena di stranezze. Una terra dove la povertà vive esattamente un passo di fianco alla ricchezza, dove chi non ha niente è pronto a dare tutto a dei passanti qualunque come noi, dove l’acqua è un bene sacro e il caldo una costante. Shukran Oman.
Oman, un bilancio culturale, spirituale e personale
di Daniele Lo Russo
Un viaggio sicuramente atipico per gli arrampicatori. Difficile riassumere due settimane così intense in poche righe senza cadere nel banale e scontato. Ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare, ma sicuramente alcuni più di altri sono rimasti impressi nella mia memoria.
Si potrebbe dire di come sono trascorsi rapidi i primi giorni sulle Jabal Fokha, guglie di due/trecento metri ad un paio di ore da Muscat, mentre scoprivamo la tranquillità e la lentezza di un popolo sempre sorridente, intanto che aspettavamo i fuoristrada che avevamo chiesto e che: “…domani saranno pronti”.
Oppure di quando, la prima sera, mentre distavamo e rimontavamo sacconi più pesanti di noi, nel parcheggio di terra battuta dove avevamo montato le tende, siamo stati raggiunti da una decina di ragazzini. Venivano curiosi di conoscere quegli strani turisti, dalla pelle chiara e già un po’ bruciata dal sole. Dal thermos hanno riempito un sufficiente numero di bicchieri di carta con dell’ottimo caffè speziato e, con qualche misera parola di un inglese arrancante, ci hanno fatto intendere che avrebbe fatto piacere loro se lo avessimo accettato. Un paio di foto per immortalare il singolare momento e già si stavano allontanando, lasciandoci alle nostre faccende quasi imbarazzati da tanta gentilezza gratuita in quella calda serata.
Si potrebbe dare spazio all’arrampicata, raccontando di quando al Wadi di Misfah Al Abriyyin Marco Ghisio ed io, uniti dalla passione per la scalata in fessura, abbiamo provato ad aprire una linea che ripercorreva un lungo diedro giallo, con l’idea di passare solo con protezioni tradizionali, senza però farcela. Oppure di quando con Erica abbiamo iniziato ad aprire una via sul grande scudo nero verticale al Jabel Kawr. Anche qui però senza sbucare in vetta: dopo quattro tiri dove abbiamo dato tutto ciò che avevamo, infatti, abbiamo buttato giù le doppie con la consapevolezza di aver poco tempo per la difficoltà della via che volevamo aprire e per le nostre capacità. Oppure ancora di quando, uno degli ultimi giorni, al Wadi Al Nakhr, con Erica e Marco, parto tanto demotivato da non sapere nemmeno se scalare o meno e poi mi ritrovo, incitato dai miei compagni, ad aprire un bellissimo tiro di una via splendida, che mi catapulta il morale alle stelle.
Potrei perdermi in descrizioni dei tramonti che fermavano il tempo e ci lasciavano a bocca aperta a guardare l’orizzonte, oppure nel raccontare quanto siano desolanti le distese desertiche che circondano le montagne, e quanta vita contengano le oasi dove abbiamo avuto la fortuna di piantare la nostra tenda e farci un bagno. Oppure ancora potrei raccontare delle cene improvvisate con ciò che avevamo, delle partite a carte, delle sveglie traumatiche per evitare il caldo, delle serate trascorse a raccontare aneddoti, confidenze, dubbi e perplessità, dei sorrisi, delle poche ore di sonno, o dei datteri mangiati in qualsiasi forma, qualità e quantità. Potrei scrivere tutto questo, ma finirei per confondervi o, peggio ancora, annoiarvi. Sono sicuramente racconti che si prestano meglio ad accompagnare una serata davanti a un fuoco, magari nel prossimo viaggio!
Essendo appena rientrato da questa esperienza, e visto che alla fine dei periodi si tirano le somme, vi parlerò di bilanci. Tuttavia, non il classico bilancio fatto di numeri, gradi e valori! Se c’è una cosa che ho appreso da Ragioneria è che i numeri troppo spesso sono un po’ narcisisti e tendono a catturare tutta l’attenzione, oscurando il resto.
Guardando il rapporto tra risultati e tentativi, nel mio caso, questo viaggio potrebbe sembrare un flop, quando invece non è affatto così. Vorrei porre l’attenzione su tre aspetti molto più ampi: culturale, spirituale e personale. Dal punto di vista culturale, infatti, quest’esperienza mi ha sicuramente permesso di assaporare una realtà drasticamente diversa da tutte quelle che ho avuto modo di conoscere durante i miei precedenti viaggi e da quella di casa. In Oman l’estraneo ero io rispetto agli altri e questa diversità è stata accolta dai locali con curiosità ed ospitalità e non con timore. Il discorso spirituale invece è strettamente legato all’arrampicata: gli episodi che ho raccontato spesso si sono conclusi con delle ritirate, e quindi possono sembrare del “tempo perso”. Invece sono state esperienze dove mi sono spinto al limite. Un limite non facile, non difficile, semplicemente mio, dove ho dato tutto me stesso e che mi ha ricalato a terra svuotato delle energie, ma pieno di vita. Per questo non le vedo come sconfitte ma, al contrario, come alcune tra le giornate più belle, produttive e formative passate in parete, di tutta la mia carriera.
Condividere l’intensità di questi attimi assicurato o assicurando amici che provano come te la stessa forte passione per questa strana “filosofia di vita” che è la scalata, è un regalo davvero speciale. Ed è qui che entriamo nel terzo aspetto, quello personale e relazionale. In generale vivere a stretto contatto, in situazioni non sempre facili da gestire, mi ha dato modo di approfondire il rapporto con i miei compagni, creando un legame più forte e solido, permettendomi di scoprire qualcosa in più di loro ma anche di me. Allo stesso modo mi ha fatto scoprire Francesco, Marco e Mauro, tre persone speciali che hanno dedicato il loro tempo e le loro energie a questo progetto, mettendo noi ragazzi e i nostri sogni come priorità davanti alle loro ambizioni.
In conclusione, rientro da questo viaggio “carico”: carico di nuovi amici, di esperienze, di una maggiore conoscenza di me stesso, di ambizioni, di voglia di mettermi in gioco, di fame di arrampicata e di voglia di ripartire! Non potrei essere più contento! Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno dato realtà a questo progetto. In particolar modo il CAAI e il CAI, i tutor Francesco, Marco e Mauro e i miei compagni Erica, Lorenzo, Marco, Matteo, Riccardo: senza di voi tutto ciò non sarebbe stato possibile. Grazie.
Vento del deserto: diario di un’esplorazione inattesa
di Erica Bonalda
Dopo due anni ricchi di nuove avventure, esperienze, amicizie, soddisfazioni, delusioni… è arrivato il momento di partire. Di partire per la tanto attesa spedizione. Direzione Oman.
Atterrati a Muscat, la capitale, mi è caduto il mondo addosso. Forse perché era tutto diverso da come mi aspettavo, forse perché fino a quando non mi ci sono trovata non ho avuto il tempo di realizzare cosa potesse significare. In questi due anni ero passata da sognare la Patagonia a iniziare ad accettare la sconfitta, il fatto che sarei rimasta a casa; un po’ perché non ci avevo neanche provato, non avevo accettato le regole del progetto, avevo combattuto per i miei ideali di montagna; un po’ forse anche per la paura di dover affrontare la Patagonia con una pressione forte come quella di andarci con l’Eagle Team, che agli occhi del mondo esterno è visto come il gruppo dei quindici alpinisti giovani più forti d’Italia. Il progetto è stato guidato da uno dei più grandi alpinisti italiani, Matteo Della Bordella, e noi siamo stati selezionati per creare un gruppo di elite giovanile dell’alpinismo.
Durante il viaggio di andata in aereo percepivo uno stato d’animo a cui non sono così abituata. Era come se la mia attenzione si fosse focalizzata sulla molteplicità di stimoli esterni che l’ambiente offriva, senza lasciarmi tregua. Le luci dei numerosi microschermi che proiettano tutti un’immagine diversa, i rumori, le voci, il pianto della bimba seduta davanti a noi, gli odori umani che si mischiano ai profumi artificiali… sommata all’impossibilità di muoversi negli spazi stretti dell’aereo. Il mio compagno di viaggio dorme e mi blocca il passaggio per alzarmi a fare due passi.
Una volta atterrati ricordo una sensazione di liberazione misto a stupore: l’aeroporto era vuoto e tutto molto pulito, intorno a me oltre ai miei otto compagni di viaggio c’erano solo uomini, ad eccezione di un gruppo di donne che credo fossero indiane, non locali… e poi il paesaggio arido, distese di roccia rotta, montagne di sassi che sembrano volersi sgretolare da un momento all’altro, luce accecante, foschia che non ti lascia percepire l’orizzonte… e poi caldo, tanto caldo…
Il mio primo pensiero è stato: ma dove ci hanno mandato? È una vacanza o siamo qui per lavorare? Siamo qui per combattere una guerra? Per conquistare un pianeta sconosciuto? Quello che riuscivo a vedere con gli occhi semi chiusi per la troppa luce era un paesaggio che ricorda il fondale di un mare senz’acqua.
Quando, dopo due ore di attesa per le auto, siamo riusciti a lasciare l’aeroporto e abbiamo raggiunto la cittadina dove iniziava la strada sterrata per andare nelle montagne, abbiamo deciso di fermarci e preparare le tende per la notte. Poco dopo l’arrivo del buio e di una temperatura che potrei con un po’ di coraggio definire fresco, abbiamo avuto i primi contatti con la popolazione locale: nella penombra ci si è avvicinato in gruppo composto da una decina di ragazzi giovani e due signori più anziani, tutti vestiti con il classico abito intero omanita e il cappello decorato con motivi geometrici. All’inizio non capivamo bene cosa stesse succedendo. Per un attimo ammetto di aver avuto anche un po’ di paura: poi abbiamo capito che loro erano venuti a salutarci, curiosi di cosa ci facessimo lì e ad offrirci datteri e caffè. Le presentazioni sono state accompagnate da una stretta di mano a tutti i miei compagni di viaggio. A me è toccato uno sguardo dapprima sorpreso, poi rispettoso, seguito da un saluto senza alcun contatto fisico.
Sono partita per l’Oman con l’idea di ripetere vie di arrampicata a più tiri. Nello specifico avevo in testa di voler ripetere una via di Hansjörg Auer sulla parete più imponente dell’Oman, lo Jebel Misht. Una volta arrivati in vista della parete mi sono subito resa conto che il mio progetto non sarebbe stato realizzabile. I mille metri di parete dello Jebel Misht dove corre la via “Fata Morgana” mi si sono presentati davanti come un gigantesco specchio riflettente luce e calore. A mezzogiorno era quasi difficile guardarla, senza occhiali da sole ti si chiudevano gli occhi e dopo poco non vedevi l’ora di risalire a bordo dei fuoristrada con l’aria condizionata. All’improvviso le pareti esposte a nord dello Jebel Kawr, sopra la località di Al Kumeira, che dalle immagini presenti sulla piccola guida di arrampicata che avevamo a disposizione non sembravano interessanti, sono entrate a far parte dei miei piani.
Prima di questo viaggio non mi era mai capitato di aprire una nuova via di arrampicata. Ad essere sincera non pensavo che mi potesse piacere, e forse fino ad ora l’avevo vista come una cosa a cui bisogna dedicare tanto tempo e che, ora come ora, non mi interessava.
E proprio sulle pareti di questo Paese tanto diverso dall’Italia, tanto lontano, su una roccia che viene definita calcare, allo stesso modo delle pareti della a me ben nota Valle del Sarca (Arco di Trento), ma che garantisco da scalare è molto diversa dalla roccia di casa, ho capito di aver voglia di provare. A dire la verità è stata anche una necessità, dato che in Oman l’arrampicata come la conosciamo noi deve ancora svilupparsi, le pareti e le linee più belle sono ancora molte volte da scoprire, da creare, da aprire. Dopo una prima esperienza su qualche tiro facile su roccia mediocre, in cui Riccardo con pazienza mi ha insegnato a usare il trapano, con Daniele abbiamo deciso di cimentarci in qualcosa di più simile a quello che rappresenta per me la scalata. Abbiamo scelto una linea dove la parete è verticale, con pochi punti deboli e abbiamo detto: proviamo qui, la roccia sembra bella, l’esposizione non mancherà, l’ingaggio sarà assicurato, la possibilità di non riuscire a passare di là non così lontana…
Arrivati sotto la parete abbiamo preparato il sacco da recupero con tutto l’occorrente: friends, chiodi, martello, spit, trapano, batterie, tanta acqua, arance, datteri… ero un po’ agitata. Sul primo tiro ho fatto fatica, non perché fosse effettivamente difficile da scalare, ma più per l’ansia che mi creava intraprendere questa nuova esperienza. Per tranquillizzarmi e avare fiducia in me stessa mi ripetevo che questa cosa la avevo già fatta tante volte. Pensavo alle volte in cui mi è capitato di perdermi in parete, di finire fuori via. Tutto inizia a non combaciare più con la relazione della via prescelta, e ci si ritrova quindi a scalare su una linea della parete meno percorsa, dove magari si è i primi a toccare la roccia in quel punto. Questo con tutte le difficoltà del caso: capire dove andare, che linea seguire, che sequenza di appigli e appoggi, verificare la tenuta delle prese, rimuovere i massi instabili, decidere se e dove mettere le protezioni di progressione, capire dove costruire la sosta per poi recuperare il compagno… E più pensavo a queste esperienze, più mi veniva in mente l’agitazione che caratterizza queste situazioni di incertezza.
Poi quando è stato il momento di aprire un tiro un po’ più difficile, tutti questi pensieri hanno lasciato la mia mente, che si è concentrata sul momento, sulle sensazioni, talmente tanto da farmi esaurire le forze e installare la sosta dopo neanche venti metri di arrampicata. Alla fine in una lunga giornata abbiamo aperto quattro tiri. Mi sono resa conto di quanto tempo, quanta concentrazione e quante energie servono per aprire anche solo una lunghezza di corda. Ricordo che, quando siamo scesi ho guardato il mio compagno di cordata, Daniele, e gli ho detto “Ma oggi dove è finito il tempo?”
La sera poi mentre scrivevo il mio diario ho capito la differenza fondamentale tra aprire una via e perdersi in parete. Forse ho anche capito perché quest’esperienza tanto intensa mi ha fatto venire voglia di riprovarci. Quando apri una via hai scelto tu di andare a infilarti in un punto della parete che non ha mai scalato nessuno, e lo hai scelto spinto dalla curiosità e dalla voglia di disegnare la tua strada, di costruire la tua opera con la tua etica e le tue regole, di lasciarci in qualche modo una parte di te; questa volta non ci sei finito per sbaglio o disattenzione. Penso che i ridotti stimoli ambientali esterni in combinazione con l’assenza di un percorso già scritto da seguire mi abbiano permesso di concentrarmi talmente tanto su ciò che stavo vivendo da permettermi di vivere uno stato di totale distacco dal mondo esterno.
E così qualche giorno dopo ci abbiamo provato di nuovo. In accordo con il mio compagno di cordata abbiamo deciso di non concludere la via che avevamo iniziato. Forse si trattava di un progetto troppo ambizioso, non tanto per le nostre capacità alpinistiche, ma più per il tempo che avremmo dovuto dedicarci. Sono felice che sia stata anche una decisione condivisa con il mio compagno di cordata. Personalmente, sono felicissima di aver sbattuto il naso contro qualcosa di difficile per me in quel momento, ma sono anche contenta di aver scelto di esplorare anche altre pareti, altri posti e condividere altre esperienze con i compagni di viaggio. Penso che per me la prima volta in cui mi trovo in un posto nuovo sia importante esplorare e dare sfogo alla mia infinita curiosità. In quel momento non sentivo il bisogno di perdermi su una sola linea di roccia.
Uno degli ultimi giorni abbiamo avuto anche una piccola sorpresa. Quella che definirei una soddisfazione anche agli occhi di chi ha seguito dall’esterno il nostro progetto: abbiamo aperto una via, e questa volta anche concluso. Cordata da tre, con Daniele e Marco C., che finalmente ha potuto tornare a scalare dopo il piccolo incidente di inizio spedizione. È stata la volta di “Vento del deserto”, una breve via aperta nel Wadi Nakhar, molto varia come stili di arrampicata e oserei anche dire molto bella. Consigliamo, in comune accordo, una ripetizione al mattino presto, fino a che la parete rimane all’ombra, a meno che non si voglia sfidare il caldo estremo per rivivere l’esperienza di noi apritori, con l’unico vantaggio di potersi svegliare tardi.
Al rientro in Italia e quindi anche alla conclusione del progetto dell’Eagle Team porto a casa due anni di esperienze intense, crescita alpinistica ma soprattutto personale. Porto nel cuore tanti ricordi e tante persone fantastiche con cui condivido una grande passione comune, ma che ognuno di noi, vive un po’ a modo suo.