Il progetto Eagle Team, a firma CAI e CAAI, si è concluso con una spedizione. Obiettivo Patagonia, per sei dei partecipanti.
A cura di Mauro Penasa (su informazioni messe a disposizione da Ufficio Stampa CAI, Gian Luca Gasca e Guido Sassi)
PREMESSA
Guido Machetto, il maggiore esponente dell’alpinismo biellese, sosteneva che l’alpinismo vissuto sulle nostre Alpi e le spedizioni himalayane siano spesso soltanto lontani parenti, e che addirittura non condividano neanche la stessa base di passione. Sono pienamente d’accordo. Se non si subisce in modo profondo il fascino del viaggio, allora una spedizione è solo un incidente di percorso in una carriera alpinistica, tanto che spesso forti arrampicatori, una volta fuori dal loro ambiente di elezione, non riescono a ripetere i risultati a cui sono abituati, anzi ne escono con poco di fatto, per non dire con le ossa rotte…
John Lennon diceva che “la vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato su altri progetti”. Una spedizione è questo: il progetto è la salita, il difficile è di certo scalare ma soprattutto quanto di inconsueto ed inaspettato devi superare per arrivare fino alla montagna e da qui in cima mantenendo, da una rivoluzione di programma ad un’altra, una concentrazione assoluta ed una determinazione feroce, senza le quali l’obiettivo rimarrà un sogno.
CAI Eagle Team è stato pensato per terminare con una spedizione. Un finale eccitante che è certamente molto impegnativo, ma anche una sollecitazione indispensabile per verificare la crescita e soprattutto per indirizzare il futuro dei giovani partecipanti.
Purtroppo, l’idea della spedizione finale in Patagonia all’inizio è sembrata a qualcuno una superflua concessione al vero protagonista del CAI Eagle Team, Matteo della Bordella, più che la classica ciliegina sulla torta di un progetto obiettivamente sentito, di cui da tempo si sentiva la mancanza…
O più semplicemente c’era la sensazione che il viaggio in Patagonia non fosse davvero necessario, vista la grande attività proposta ai ragazzi durante le settimane alpine.
Un po’ per volta, anche parlando con gli interessati, è stato però possibile rendersi conto dell’importanza di un simile sogno nell’orizzonte di chi sta costruendo la propria carriera alpinistica. CAI Eagle Team ha dato ai ragazzi la possibilità di fare in un anno e mezzo l’esperienza che avrebbero potuto raccogliere in 5 o 6 anni di impegno: la spedizione finale è in prospettiva in grado di riproporre lo stesso risultato e di dare un forte impulso a quanti hanno vissuto questa avventura, ma soprattutto offrire loro la consapevolezza che si tratti di una strada percorribile nel futuro.
Non credo che la Patagonia fosse un ingrediente indispensabile, mentre invece l’idea di scalare una serie di pareti da sogno è stata un richiamo irresistibile, e sono convinto che questa vada riproposta all’interno delle nuove edizioni del progetto.
E’ ovvio che le guglie della Patagonia hanno un enorme rilievo nell’alpinismo odierno. Peraltro, come dice anche Matteo, si è trattato solo di un passo in più – beh, un bel passo comunque – rispetto alle modalità di salita che abbiamo sulle Alpi: in effetti, avvicinamenti molto lunghi e condizioni spesso difficili non sono nulla di davvero rivoluzionario rispetto al vero isolamento ed alle incertezze che questo può provocare.
D’altro canto, una spedizione lontana dal mondo sarebbe stata di impegno davvero gravoso ed avrebbe proposto rischi non facili da accettare, se non dai protagonisti, almeno da una certa fetta dell’opinione pubblica…
Inoltre, trovare obiettivi diversi da un singolo Campo Base sarebbe stato difficile: in Patagonia il numero delle possibilità ha garantito una pluralità di obiettivi, fondamentale per una azione indipendente dei ragazzi, e la loro crescita non potrà non beneficiarne.
Che dire, sarebbe stato bello mandarli tutti. Ma l’idea di fondo era premiare chi si è più distinto… Peraltro tutti, ragazzi e ragazze, hanno messo un profondo impegno, tanto che si è voluto mandare un altro gruppo in Oman. Un viaggio più breve, meno impegnativo, ma anch’esso pieno di soddisfazioni per chi ha potuto partecipare, e per l’Accademico che ne ha curato la realizzazione. Ben fatto!
Che anche questo sia di ispirazione per il futuro…
Mauro Penasa
PATAGONIA, IL SOGNO
Il progetto CAI Eagle Team si è concluso con una spedizione. Obiettivo Patagonia, per sei dei partecipanti, selezionati dopo un anno e mezzo di salite in diversi luoghi delle Alpi, due alpiniste e quattro alpinisti. Avventura, il coronamento di mesi di impegno e passione per raggiungere il sogno di scalare sulle pareti di granito, spettacolari e affascinanti, delle grandi montagne della Patagonia, insieme a specialisti che possono aprire un mondo di possibilità.
Il gruppo del CAI Eagle Team al completo, presso la sede centrale del CAI a Milano © CAIAlessandra Prato (milanese classe 1995), Camilla Reggio (torinese, 1996), Marco Cordin (trentino, 1999), Luca Ducoli (originario di Breno, in provincia di Brescia, 2001), Dario Eynard (bergamasco, 2000) e Giacomo Meliffi (originario di Urbania, in provincia di Pesaro, 1996) si sono ritrovati ai primi di febbraio nella cittadina di El Chalten, pronti per prendere parte alle battute finali del progetto. A guidarli Matteo Della Bordella insieme a Massimo Faletti, Silvia Loreggian e Luca Schiera, affiancati poi anche da Mirco Grasso.
“La Patagonia è la conclusione logica del cammino intrapreso dai ragazzi”, afferma Matteo Della Bordella. “La Patagonia di oggi, pur presentando una logistica complessa, è un punto di transizione ideale: più accessibile rispetto a Groenlandia o Himalaya, ma sicuramente un passo avanti rispetto alle Alpi. Non c'è una vera e propria preparazione per la Patagonia, qui conta l'esperienza sul posto, da costruire, faticosamente, di spedizione in spedizione. Il tempo a disposizione è sempre poco, e non ci si può permettere il lusso di pasticciare, perché il meteo è imprevedibile e le distanze sono grandi.
Per me queste montagne hanno un valore personale enorme e credo possano aiutare i ragazzi a completare il loro percorso di apprendimento. Mi auguro di riuscire a trasmettere loro la mia passione. Se riusciremo a scalare tre volte e i ragazzi si innamoreranno di queste cime, avrò raggiunto il mio obiettivo. Qualsiasi risultato in più sarà solo un bonus”.
“Vedere una nuova generazione di alpinisti, cresciuti in questi ultimi anni all’interno del CAI, affrontare le pareti della Patagonia è motivo di grande orgoglio”, dichiara il Presidente generale del CAI Antonio Montani. “È il segno che il lavoro di formazione svolto sta dando i suoi frutti. Auguro a tutto il team buona fortuna: che questa esperienza li arricchisca non solo tecnicamente, ma anche umanamente. Torneranno con nuove competenze, ma soprattutto con gli occhi pieni di meraviglia. Il loro percorso è un esempio per tutti i giovani che sognano l’alpinismo di esplorazione”.
Il programma indicativo era dividere il gruppo in tre cordate autonome, ciascuna con obiettivi e strategie differenti. Faletti insieme a Meliffi e a Cordin e si doveva concentrare sulla zona del Cerro Torre,
Loreggian, Prato e Ducoli nel gruppo del Fitz Roy, infine Della Bordella, Schiera, Eynard e Reggio, avevano come obiettivo una nuova linea sul Cerro Piergiorgio. “La valle del Cerro Piergiorgio è molto meno frequentata rispetto a Cerro Torre e Fitz Roy e ci sono ancora molte possibilità per esplorare e aprire vie nuove, anche sulla spettacolare muraglia del Piergiorgio, alta quasi mille metri, senza dubbio una delle pareti più belle e difficili della Patagonia. Completare il tentativo di Maurizio Giordani e Luca Maspes su questa cima sarebbe il top del top, ma forse sto sognando ad occhi aperti”, commentava Della Bordella alla partenza.
E ancora: “Non ho mai vissuto la Patagonia di Ermanno Salvaterra, quando non c'erano le previsioni ed El Chalten non esisteva. La prima volta che sono stato alla Torre Egger con Berna abbiamo passato dieci giorni in truna, per nostra scelta, perchè il villaggio c'era già… E’ stata un'esperienza profonda, dalla quale ho capito che non mi era possibile seguire l’esempio di Salvaterra. Scalare nelle bufere, magari in artificiale ma in qualunque condizione, si trattava di uno stile big wall che non era il mio… io cercavo più la libera, lo stile alpino, che però richiede condizioni ragionevoli.
I 6 del CAI Eagle Team, con Della Bordella e i tutor, a El Chaltén © Mirco Grasso
PRIMI APPROCCI
Alcuni partecipanti si sono recati in Sudamerica in anticipo. Matteo, Alessandra e Giacomo erano già lì all’arrivo dei compagni di avventura, all’inizio di febbraio.
“Ora che siamo tutti insieme, finalmente si parte! I ragazzi non vedono l’ora di mettersi alla prova, anche se per il momento il meteo non è dei migliori. Abbiamo già fatto un briefing per organizzare al meglio i primi giorni e sfruttare al massimo ogni finestra di bel tempo”.
Già da subito, infatti, una breve tregua meteo sembrava poter consentire al gruppo di prendere confidenza con il granito patagonico… I primi giorni sono fondamentali per ambientarsi e testare il terreno, in attesa di condizioni migliori che permettano di puntare agli obiettivi più ambiziosi della spedizione. Ma la finestra è risultata troppo breve per avere qualche risultato.
Meno di una decina di giorni dopo le possibilità sono sembrate più rilevanti…
Il Fitz Roy © Luca DucoliLuca Ducoli e Silvia Loreggian hanno scelto come obiettivo l’Aguja Poincenot (3002 m), su cui hanno tentato la salita della via Potter-Davis (400m, 75°, 7a) sulla parete nord, iconica via aperta nel 2001 da Steph Davis e Dean Potter in 25 ore andata e ritorno dal Passo Superior.
Racconta Ducoli. “Siamo saliti al Passo Superior il 12 febbraio, partendo la mattina da El Chalten. È stato bellissimo avvicinarsi attraverso il ghiacciaio scoprendo il Fitz Roy. Da qui praticamente hai accesso a tutto il gruppo”. Arrivati al passo hanno trascorso la notte per poi attaccare. “Siamo partiti il 13 alle 3.40 del mattino dalla tenda. Abbiamo risalito sei tiri di roccia, ma erano tutti intasati di ghiaccio e facevamo una faticaccia. In più abbiamo preso vento e non abbiamo mai visto il sole, avevamo freddissimo ed era impossibile continuare a scalare. Così ci siamo ritirati e siamo rientrati alla tenda”.
Con un po’ di delusione, ma consapevoli che era la cosa giusta da fare i due hanno ricalcolato le possibilità, decidendo così di cambiare obiettivo. “Il mattino dopo siamo ripartiti, sempre con obiettivo l’Aguja Poincenot, ma questa volta con assetto invernale. Abbiamo salito la Whillans-Cochrane, una via classica per la vetta. Era tutto completamente pieno di ghiaccio, così abbiamo scalato con picche e ramponi. Praticamente non abbiamo mai tolto i guanti, nemmeno a scalare su roccia”. Ci troviamo in questo caso sulla parete est dell’Aguja Poincenot, su una via del 1962 aperta da Don Whillans e Frank Cochrane. Un itinerario abbastanza frequentato che ha però presentato qualche difficoltà in più rispetto a quella che sarebbe stata l’esperienza vissuta in condizioni ottimali. “Per me è stata la prima cima patagonica, è stato bellissimo”.
Dario Eynard si è invece mosso insieme a Matteo Della Bordella e a Mirco Grasso sulla parete nord-ovest del Cerro Piergiorgio, con l’obiettivo di aprirvi una nuova via. Un obiettivo che Della Bordella ha voluto condividere con i ragazzi del CAI Eagle Team. Mirco Grasso, già presente in Patagonia con altre cordate e con altri obiettivi, ha scelto di unirsi a loro in questo tentativo. Questo giovane Accademico del CAI, classe 1993, è oggi uno degli esponenti di spicco dell’alpinismo di ricerca ed è diventato sul campo componente effettivo della spedizione patagonica del CAI Eagle Team. Succede spesso, nelle spedizioni patagoniche, che quando si condividono obiettivi, idee e progetti, si creino cordate nuove e motivate.
Nel caso di Mirco lo sprone a unirsi alla spedizione arriva dall’ambizioso progetto sul Piergiorgio: completare la via iniziata da Maurizio Giordani e Luca Maspes nel 1995 sul versante nord-ovest della montagna. La stessa via su cui Grasso già aveva messo le mani in un tentativo di qualche anno fa.
Così i 3 si sono portati ai piedi della parete, dove hanno installato il loro campo base e, sfruttando appieno le giornate di bel tempo, sono riusciti a scalare metà della parete. Rientrati a El Chaltén con il sopraggiungere di nuvole e vento, sono rimasti in attesa di una nuova finestra che, se abbastanza lunga e stabile, avrebbe potuto permettere di completare la via.
“È stata la prima vera occasione e direi che la nostra cordata l'ha sfruttata alla grande, abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati e se siamo fortunati con il meteo il progetto si potrebbe concludere”, commenta Dario Eynard. “Il Cerro Piergiorgio è spaventosamente grande e isolato, però sento che nella cordata c'è stato affiatamento e abbiamo remato tutti verso lo stesso obiettivo. Ho ancora molto da imparare sulla logistica in contesti come questi, completamente differenti dalle Alpi, e i miei compagni mi hanno trasmesso veramente molta esperienza. Sono molto contento di come si è svolta questa seconda uscita”.
Il Cerro Piergiorgio © Francesco Quaglino/Enrico Luoni
In scalata sul Cerro Piergiorgio © Francesco Quaglino/Enrico Luoni
FINALE DI PARTITA
Dopo aver a lungo atteso una nuova finestra di bel tempo, il 25 febbraio le cordate hanno ripreso l’attività. "Finalmente i giovani del CAI Eagle Team tornano in parete, fremono dalla voglia di partire” ha commentato Matteo. “Per quanto riguarda la nostra cordata, speriamo che si uniscano tutti i fili per chiudere questo capolavoro sul Piergiorgio, immaginato già 30 anni fa. Per l’occasione ci ha raggiunti dall’Italia anche Maurizio Giordani, il primo insieme a Luca Maspes a intuire questa linea. La nord-ovest del Piergiorgio è unica: uno scudo di roccia liscio privo di fessure o linee evidenti, dove è richiesta fantasia e creatività".
La parete Cerro Piergiorgio, dove corre la nuova via “Gringos Locos”
Cerro Piergiorgio Parete NW: la situazione all'arrivo dell'Eagle Team. Itinerario nr. 5: i 21 tiri di Gringos Locos saliti nel 1995 da Giordani e Maspes. Courtesy Pataclimbing
Relazione Gringos Locos. Foto Della Bordella-Eynard-Grasso
Mirco, Dario e Matteo hanno infine raggiunto la vetta del Cerro Piergiorgio (2719 m), completando “Gringos Locos”. La via ha uno sviluppo totale di 27 tiri, con difficoltà massima di 7a/A2. Nei tratti più difficili, i tre hanno alternato passaggi in libera a tratti in artificiale mediante skyhook. Negli ultimi cinque tiri la via si ricongiunge alla “Via dell'Hermano”, tentata più volte dai Ragni di Lecco e salita nel 2008 da Hervè Barmasse e Christian Brenna.
La cordata è arrivata in vetta alle 3 del mattino di venerdì 28 febbraio, per poi scendere immediatamente, evitando così l'arrivo del maltempo. “Non poteva esserci miglior conclusione del progetto CAI Eagle Team. Abbiamo realizzato una spedizione complessa, che ha messo alla prova tutti i partecipanti nel loro battesimo con le montagne più belle al mondo”.
Anche Maurizio Giordani si è complimentato con i ragazzi: «questo risultato è la perfetta conclusione di un progetto storico, che rimane nei miei ricordi come un'avventura irripetibile».
Per l’Accademico poi la soddisfazione è grande: la cordata che ha aperto “Gringos Locos” è composta da tre Accademici, segno che i giovani sui quali si sta puntando meritano davvero l’attenzione a loro dedicata.
Camilla Reggio e Giacomo Meliffi hanno invece aperto sulla Aguja Media Luna (massiccio del Cerro Torre) “Jineteada” una variante di 200 metri della “Rubio y Azul”. La nuova via, composta da cinque tiri con difficoltà massima 7a, parte sullo strapiombo del versante sud-est della Aguja Media Luna, per poi girare lo spigolo e ricongiungersi alla “Rubio y Azul”. Per Reggio e Meliffi “Jineteada” consente un'arrampicata tutta in fessura, pulita, piena di incastri bellissimi su tutti i tiri.
Marco Cordin, Alessandra Prato e Massimo Faletti, che erano con Camilla e Giacomo, sono stati invece colpiti da una violenta influenza intestinale ai piedi delle pareti e hanno dovuto rinunciare alle salite.
L’ultima cordata, composta da Luca Ducoli e da Silvia Loreggian, che stava tentando la vetta del Cerro Torre per la Via dei Ragni giovedì scorso, si è dovuta calare senza raggiungere la vetta a causa della presenza in parete di ben dieci cordate, un numero davvero elevato.
La spedizione all'altro capo del mondo è stata simile a una jineteada – una sorta di rodeo argentino – per Camilla e Giacomo: "Mentre eravamo sulla via alla Aguja Media Luna ci siamo sentiti dentro un turbinio di emozioni, come se il gioco fosse rimanere in sella ad un cavallo imbizzarrito, il nome viene da lì".
Camilla ha cambiato i suoi obiettivi durante la spedizione: “Siamo arrivati il 31 gennaio, il 3 febbraio con Dario siamo andati all'Aguja Guillament per fare il couloir Amy. Le condizioni non erano un gran che, quindi abbiamo scelto questa via di misto sulla sud-est. Siamo dovuti tornare indietro perché il meteo è peggiorato, la scelta giusta era quella di rinunciare. Nei giorni successivi mi è venuta qualche bolla ai piedi, poi ho preso una distorsione.”
El Mocho © C. Reggio
Trascorso qualche giorno, con Alessandra e Max, abbiamo provato a sfruttare la seconda finestra di bel tempo per andare a scalare su El Mocho. Ma la via era in condizioni molto invernali, intasata di neve e di ghiaccio e non siamo arrivati in cima nemmeno in quell'occasione.
In realtà non per forza bisogna arrivare in cima, l'esperienza è stata comunque incredibile, anche solo per la bellezza dei luoghi. La sera del 26 Alessandra, Max e Marco sono stati male e così il 27 ho fatto squadra con Jack, che aveva visto una bella linea sulla Aguja Media Luna, così abbiamo aperto una variante alla via “Rubio y azul” su una faccia vergine. Sono circa 200 metri di fessure, verticali e strapiombanti, difficoltà fino a 7a, che abbiamo scalato in trad, fino a ricongiungerci alla linea principale sulla prima spalla... Anche le soste erano rimovibili, abbiamo lasciato tutto pulito.
In Patagonia mi sono sentita molto piccola. Grandi spazi e tanto vento: dopo un mese che soffiava tutti i giorni, qua a casa tutto sembra estremamente calmo.
Giacomo Meliffi e Marco Cordin avevano puntato invece sulla Torre Egger, ma le cose non sono girate nel verso giusto…
Poincenot - Luca Ducoli e Silvia Loreggian
Giacomo: “Abbiamo avuto un impatto duro con la Patagonia, tutta la gamma di esperienze che una spedizione può offrire a un alpinista. Brutto tempo, avvicinamenti infiniti, qualche litigio e qualche legame che invece ne è uscito rafforzato. La prima finestra di bel tempo non era una vera finestra, così siamo andati al campo Nipo Nino, ma non abbiamo scalato.
C'è poi stata una operazione di salvataggio, la cosa più intensa che abbiamo vissuto. Subito dopo il primo tentativo ci è arrivata la notizia di tre ragazzi cileni che non si muovevano da un paio di giorni sul Fitz Roy. Al terzo invece hanno ripreso, quando sembravano ormai spacciati. Io e Marco siamo andati davanti al club alpino, sapevamo che c'era già una cordata formata da Tasio, un ragazzo basco e Facu, argentino. Ne chiedevano altre due...anche se belli stanchi ci siamo lanciati subito, la speranza che ce la potessero fare ci ha dato forza. E poi sapevo che ero con Marco, la cosa poteva mettersi giù brutta mai lui era un punto di forza in questa faccenda per me e viceversa. Poi c'era l'altra cordata, con Sean Villanueva e Juan, medico alpinista di El Chalten. Siamo saliti il giorno stesso, fin sotto la breccia degli italiani, ma non c'è stato bisogno di salire, loro sono riusciti a calarsi con una sola corda per incontrare i soccorsi. Noi abbiamo scavato una truna, allestito il campo base, abbiamo fatto da mangiare. Avevano principi di congelamento, ma stavano bene, considerando che erano fuori da 6 giorni. La cosa che mi è rimasta di più è il senso di solidarietà, ci davamo forza a vicenda, per un obiettivo molto più importante che scalare, si trattava di salvare delle vite. Per fortuna il meteo in questo caso ha aiutato, l'elicottero è riuscito a venire a prenderli, altrimenti non sarebbero stato tanto facile portarli giù...”
Anche Marco è rimasto colpito da quanto successo: “È stata un’esperienza fortissima, fortunatamente finita bene. È stato anche un assaggio del vero ambiente patagonico, dove non esiste un soccorso organizzato, ma nel giro di pochi secondi un'intera comunità si mobilita, e si va. Pensavamo di dover scalare per aiutarli a scendere, invece siamo finiti a cucinare – insieme a un fuoriclasse come Sean Villanueva, tra l’altro. E va bene così, perché in quel momento era quello di cui c’era bisogno.
È stato molto formativo, mi ha insegnato quanto sia importante mettere da parte il proprio ego per dare una mano, qualunque cosa serva. Invece di scalare ho fatto il cuoco, di quello c'era bisogno. Ed è giusto così”.
Sul primo tiro della variante alla “Rubio y azul”
In apertura di “Jineteada” © C.
Ancora Giacomo: “Siamo tornati in zona Torre con cordate divise, io e Marco volevamo scalare la Torre Egger, abbiamo avuto un po' di disguidi con Max. A Marco non piaceva troppo la situazione, l'idea nostra era di fare la “Marc-Andrés Vision” più la “Titanic”. Comunque, non siamo riusciti a scalare quello che volevamo e alla fine siamo andati a fare la “Rubio y azul”, una bella via non troppo difficile di Ermanno Salvaterra, sulla Aguja di Media Luna.
Poi abbiamo anche provato a fare un tentativo finale. Sembrava che ci fosse quest'ultima finestra, eravamo solo io e Marco. Eravamo carichi per fare la salita one push, ma poi la finestra si è accorciata e la notte prima di attaccare…in tenda c'era gente che vomitava ovunque. Colpa dell'acqua che avevamo bevuto, comunque è stato male anche Marco. Io sono stato l'unico che si è salvato, comunque non c'era possibilità di tentare in quelle condizioni. A quel punto ho scalato con Camilla e siamo riusciti ad aprire una nuova via sulla faccia sud-est della Aguja di Media Luna.
I componenti della spedizione sono rientrati in Italia ad inizio marzo, dopo un mese di avventure sulle pareti della Patagonia. Di sicuro con tanta esperienza e consapevolezza in più. E state pur certi che in futuro sentiremo ancora parlare di questi giovani…