ALPINISMO IN APPENNINO CENTRALE – IL GRAN SASSO
Parte prima – dal 1573 al 1940
Di Massimo Marcheggiani
Massimo Marcheggiani, classe 1952, Accademico e profondo conoscitore delle vicende e dell’ambiente del Gran Sasso, sulle cui pareti ha tracciato e ripetuto innumerevoli itinerari, fissa in queste pagine la storia alpinistica di questo importante Gruppo montuoso.
Oltre cinque secoli fa.
Abruzzo, terra di mare e soprattutto di montagna.
Entroterra scarsamente popolato, villaggi spesso isolati nelle campagne e figuriamoci sulle montagne.
Vita dura, fatta di pastorizia e agricoltura, pecore a milioni e boschi infiniti. Praticamente poco altro. Villaggi molto spesso “nascosti” sulle montagne agli occhi di briganti e razziatori di ogni bene che la terra dà.
Teramo e Aquila (oggi L'Aquila) ambedue città di antica storia sono i due centri principali divisi tra loro da una grande catena di montagne ma uniti dal reciproco scambio di merci. Un mercato ambulante che vede l'attraversamento della grande montagna che li divide. Merci portate a dorso di muli, asini o sulle spalle, fatiche bestiali in cambio di soldi. Fatiche bestiali perché la montagna la attraversano al Passo della Portella, e chi sa dove sta si renderà conto di cosa significasse.
Aquila nel 1500 ha una posizione strategica per svariati motivi, principalmente militari. Un Capitano, ingegnere militare bolognese esperto in fortificazioni, vi risiede da tempo per conto di Margherita D'Austria figlia dell'imperatore Carlo V.
Ora, con tutto il rispetto per Balmat e Paccard e sperando che non se la prendano a male, 213 anni prima della loro salita alla massima vetta del Monte Bianco qualcuno fece dell'alpinismo non sulle alte vette alpine, ma bensì in Italia centrale, ed esattamente su una montagna appenninica.
Il “Capitano” Francesco De Marchi, di ben 69 anni, per motivi immagino strategici e di opportunità militare salì, nell'agosto del 1573, la più alta vetta dell'intera catena appenninica. Assoldati due cacciatori di camosci oltre che pastori nel villaggio dell'attuale Assergi e in compagnia di due altri amici, probabili militari anch'essi, risalgono a cavallo (i militari) fin dove possibile, poi necessariamente a piedi superano l'angusto e ripido Passo della Portella per poi scendere all'attuale Campo Pericoli. Oltre questo, il gruppo sale lungo desolate e assolate pietraie, ripide rocce e infine, non sappiamo esattamente per dove, il Capitano Francesco De Marchi diventa il primo salitore della massima vetta appenninica: Il Gran Sasso D'Italia, allora semplicemente chiamato dai villici abruzzesi Monte Corno, a 2912 metri sul mare. Il Capitano incide a scalpello il suo nome, ormai invisibile, a suggello della sua salita e annota che si trova più in alto di qualsiasi altra montagna che lo circonda, che volteggiano in aria aquile, sparvieri e falconi. Annota la presenza sotto i loro piedi di una grande e ripida distesa di neve (il ghiacciaio del Calderone) e di una infinita e immensa pianura con massiccia presenza di pecore (Campo Imperatore). Non ultimo scrive che non lontano “Con somma maraviglia” si vede il mare (Adriatico). A cosa possa essere servito in seguito aver scalato la montagna non ci è dato sapere, rimane però il fascino di poter pensare cosa possano aver provato, il Capitano e i suoi seguaci, a superare il limite dei luoghi dove la vita aveva senso e logica.
Un salto di centinaia di anni, durante il quale la parte alta della montagna ricade nel suo naturale oblio fatto di camosci e rari cacciatori ad eccezione di altre sporadiche presenze “alpinistiche” (Tra i pochi Orazio Delfico e Pasquale De Virgilis, seconda meta del '700) ci porta oltre la metà del 1800, quando l'interesse per la salita delle vette è diventata ormai moda, facilitata da “villici” o “guide cosiddette” al soldo di borghesi in cerca di prestigio tanto sulla catena alpina quanto in Appennino dove il massimo interesse è per i 2912 metri del Gran Sasso e le sue numerose cime circostanti.
I britannici, che tanto si distinguono sulle Alpi, vengono a conoscenza di questa montagna dalla quale al mattino si vede distintamente il mare Adriatico. Il primo anglosassone a visitare la massima vetta appenninica è nientemeno che Douglas Freshfield, già autore di diverse salite ed esplorazioni in Asia. Nella primavera del 1875 dopo un lungo pellegrinare insieme alla sua guida francese Francois Devouassoud tra le Alpi Apuane e interminabili viaggi in treno, in diligenze e calessi arrivano al microscopico villaggio di Casale San Nicola, esattamente ai piedi del versante orientale della montagna e ad appena 660 m. sul mare. Vengono ospitati dal canonico del paese da cui attingono informazioni sulla grande montagna. Dal villaggio, salendo in parte di notte si avviano lungo il fianco destro della grande montagna sovrastati dall'immensa muraglia del cosiddetto (oggi) Paretone.
Tra chiazze di neve e numerosi camosci entrano nel grande Vallone delle Cornacchie, rasentano per intero la verticale parete Est del Corno Piccolo e, ancora più in alto, lungo una scoscesa cresta rocciosa nella tarda primavera del 1875 ed in sole sei ore l'intraprendente Freshfield e il fido Devouassoud toccano la vetta Occidentale del Gran Sasso, oltre 2000 metri dal loro punto di partenza, senza tracce di sentiero e pendii nevosi scalinati dalla brava Guida. Ammirano il mare Adriatico, le articolate pareti, il sottostante ghiacciaio del Calderone: “Il Grande Corno è una vera montagna” dice l'inglese al francese. Dopo una dovuta pausa, in sole due ore e più veloci dei camosci fanno ritorno a Casale San Nicola.
Il Gran Sasso diventa sempre più meta ambita, il CAI di L'Aquila ospita nel 1875 il congresso nazionale del sodalizio e la sempre più intensa frequentazione della montagna porterà in seguito alla costruzione del primo rifugio nella conca di Campo Pericoli ad opera del CAI di Roma, intitolato poi a Giuseppe Garibaldi nel 1886. La scelta logistica si rivelerà in seguito fortemente infelice poiché il rifugio nella stagione invernale viene costantemente e completamente sommerso dalla neve.
Il 1880 vede la prima salita invernale del Corno Grande. E' gennaio e due “nomi illustri” si avventurano salendo dal villaggio di Assergi, sotto il versante sud della montagna. Di solito si saliva con l'ausilio di muli e cavalli fin dove possibile, ma l'inverno questo non lo permette di certo. Due giovanissimi cugini del primo ministro e fondatore del CAI Quintino Sella, Corradino e Gaudenzio Sella accompagnati da “presunte guide” locali tra cui Giovanni Acitelli (diversi itinerari oggi portano il suo nome) si inerpicano lungo i ripidi pendii innevati e ghiacciati. Della comitiva uno solo, Corradino, è attrezzato di piccozza e grossolani ramponi mentre gli altri si arrangiano come possono e le “guide” si affidano ai loro famosi “clienti”. Lungo quella che oggi è la via normale del Gran Sasso, tutti arrivano in vetta. I Sella restano stupiti e ammirati alla vista del mare Adriatico, cosa mai vista da nessun'altra montagna da loro salita e ammirano, data la giornata fredda e tersa, la Maiella, i monti Sibillini, il Velino, il lontano Terminillo e non ultima l'immensa, bianca distesa di Campo Imperatore.
Venti ore dopo aver lasciato Assergi la piccola comitiva vi fa ritorno ed in seguito non mancheranno di scrivere elogi sulla bellezza della montagna accompagnate da critiche benevole sulla inadeguata preparazione delle guide, incapaci di affrontare la montagna d'inverno.
Numerose altre cime piuttosto semplici del massiccio abruzzese vengono salite e risalite; scalare montagne, anche se riguarda ancora una umanità più che benestante, si diffonde sempre più, per moda o ambizione personale ma comunque sia è un'umanità che cresce, si confronta e tecnicamente evolve. Una sola di queste montagne resiste ancora inviolata, ormai ambita data la sua forma ardita: ovunque la si guardi spaventa gli alpinisti dell'epoca. Ripide e insormontabili pareti ed erti e angusti canaloni sono l'ostacolo da superare. Si chiama Corno Piccolo ed è la più bella vetta rocciosa del Gran Sasso. Dalle forme eleganti e una roccia formidabile è tutt'ora la montagna più frequentata dagli scalatori e dagli escursionisti esperti.
Sulle montagne della catena alpina si parla già di quarto e quinto grado di difficoltà, mentre al Gran Sasso si è ancora a livello di escursioni, lunghe e complicate ma pur sempre escursioni. I primi un po’ più intraprendenti sono il già noto Giovanni Acitelli di Assergi ed Enrico Abbate, romano e segretario della sezione CAI capitolina. Abbate con Acitelli come guida sono dunque i primi a osare e riuscire nell'impresa. Salgono dal versante Nord. Dal villaggio di Pietracamela con i muli raggiungono la località Prati di Tivo: da qui a piedi salgono gli interminabili e ripidissimi pendii erbosi che dai Prati portano alle prime rocce levigate della parete Nord. Lungo un profondo e roccioso canale escono in alto su una grande comba di detriti ed erba sottostante la vetta. Da qui i due piegano decisamente verso Ovest raggiungendo una facile cresta e lungo questa la vetta. Abbate relaziona la salita e parla di secondo grado, ma a prescindere dalla difficoltà apre, e con lui Acitelli, le porte all'alpinismo di avventura. Giornata lunghissima quella del romano e dell'abruzzese: saliti appunto dai Prati di Tivo i due scendono dalla vetta di 2655m. non sappiamo esattamente come, lungo la profonda Valle dei Ginepri, poi seguono in discesa la valle Maone e fanno ritorno a Pietracamela lungo il fosso del Rio Arno, immagino stravolti di stanchezza. Fare ancora oggi un giro del genere risulta infinito e presuppone grandissima resistenza anche se non ci sono più segreti di orientamento. I fianchi “difficili” quindi cominciano a capitolare; il protagonista principale è Giovanni Acitelli. Nel 1892 insieme a Orlando Gualerzi sale l'inviolata vetta Centrale del Corno Grande con astuta arrampicata. Sempre con Gualerzi, Abbate e C. Gavini compie la prima invernale del Corno Piccolo nonostante la scarsa attrezzatura ed esperienza. Ancora Acitelli con Gualerzi, Gavina e V. Ribaudi salgono d'estate la parete Sud della vetta massima del Corno Grande lungo la via chiamata “direttissima”, ad oggi la più frequentata in assoluto da chi vuole usare oltre i piedi anche le mani. L'inverno successivo vede ancora l'immancabile guida di Assergi accompagnare Gualerzi e E.Scifoni nella prima invernale alla Vetta Orientale, seconda cima più alta del massiccio. E' ormai la fine dell'800 e le guide abruzzesi lavorano molto con i signori, sopratutto romani. Vista la massiccia frequentazione della montagna e la illogica ubicazione del rifugio Garibaldi, la sezione di Roma si adopera di nuovo per la costruzione di un rifugio costruendolo sullo spartiacque tra Campo Imperatore e Campo Pericoli. Il nuovo rifugio eretto nel 1908 e dedicato al Duca degli Abruzzi è in posizione diametralmente opposta al Garibaldi: posizione molto panoramica sulla cresta della Portella ma di contro esposto a violenti venti tipici del Gran Sasso e totale assenza di acqua.
I primi 20/30 anni del '900 vedono diverse interessanti realizzazioni. Nel 1910 due austriaci danno un altro notevole impulso alla ricerca di itinerari sempre più complessi. I due alpinisti d'oltralpe Schmidt e Riebeling compiono la lunga e articolata traversata delle tre vette del Corno Grande: passata la notte al rifugio Garibaldi raggiungono la vetta Occidentale, da questa percorrono l'articolato filo di cresta in discesa che li porta alla Forchetta del Calderone, poi tramite un marcato camino sembra che salgano in vetta al Torrione Centrale (oggi T. Cambi, ma di questa loro salita non si ha assoluta certezza) scalano poi la Vetta Centrale, ne discendono il breve fianco Est e per finire sono sulla vetta Orientale a 2903 m. Questa traversata in continuo sali-scendi è ancora oggi una stupenda, panoramica e tutt'altro che banale ascensione che, volendo, si può integrare e completare con la salita del Torrione Cambi quasi sempre evitato lungo un tipico “terrazzo” sospeso sopra il ghiacciaio del Calderone. Di norma non la si percorre quasi mai dall'Occidentale alla Orientale bensì al contrario, percorso molto più logico e sicuro. La traversata, di difficoltà medio bassa, necessita però di intuito nella scelta del percorso, sapersi muovere su roccia anche friabile e stabilità meteorologica.
Quasi in risposta agli austriaci la guida Francesco Acitelli insieme al romano Paolo Haas sale l'infinito canalone che porta oggi il loro nome. Questa salita inizia dalla isolata e remota Valle dell'Inferno e con un percorso non difficile e molto evidente conduce, dopo 1200 metri di salita sulla Vetta Orientale. La vetta ancora inviolata (?) del Torrione Cambi viene salita nel' '14 dalla Guida F. Acitelli con A. Allevi e E. Gallina. In questi anni la SUCAI di Roma torna ad una sua continua presenza sulla montagna, firmando diverse prime salite ormai senza, o quasi, l'appoggio delle guide. Nell'immediato dopoguerra 15/18 i romani C. Chiaraviglio e E. Berthelet salgono per primi l'articolata cresta Sud del Corno Piccolo, altro magnifico itinerario costantemente sospeso sulla precipite parete Est. Fa in seguito furore la salita della più grande, isolata e selvaggia parete dell'intero massiccio del Gran Sasso e di tutto l'Appennino Centrale, oggi conosciuto come “Il Paretone”.
Un giovane e intraprendente romano (di adozione) si distingue su tutti decretando la stagione dell'alpinismo senza guide anche su grandi itinerari. Nel '19 Enrico Jannetta, ex tenente degli alpini, apre una nuova via sul Torrione Cambi alzando ancora, anche se modesto, il livello di difficoltà. Nell'estate del '22 prende forma però la sua più importante impresa alpinistica dell'epoca; Enrico Jannetta, insieme a cinque coetanei parte in corriera da Roma fino ad Assergi. Il gruppo dei sei ragazzi attraversa il massiccio del Gran Sasso e dopo quattro giorni dalla partenza raggiunge infine con tende, coperte, cibo e materiale alpinistico la base della immensa parete Est della vetta Orientale. Qui c'è un piccolo corso d'acqua e si fermano per riposare un giorno intero. All'alba del sesto giorno i sei giovani e coraggiosi ragazzi, legati in due cordate da tre affrontano un terreno vasto e ricco di incognite tra canalini, pendii erbosi, placche di roccia a volte friabile e a volte ottima. Scalano ricchi di coraggio e determinazione; la parete è immensa e isolatissima. Un lungo traverso obliquo verso destra con sulla testa gli immensi strapiombi della Farfalla (oggi e non allora chiamata così) porta i ragazzi alla base di slanciati ed evidentissimi pilastri. Li evitano ovviamente continuando nell’interminabile obliquo verso destra da dove, dopo infinite 14 ore di arrampicata e 1500 metri di parete sotto il sedere, escono finalmente in cima alla vetta Orientale. E' un fulmine a ciel sereno perché mai prima di allora si era osato tanto. La via Jannetta al Paretone, con i suoi 1500 metri di sviluppo ancora oggi viene ripetuta ma mai frequentemente. E' senza dubbio, a prescindere dalla bassa difficoltà, un ingaggio di tutto rispetto.
L'instancabile Enrico Jannetta nello stesso anno è il primo a superare la impervia e ripida parete Est del Corno Piccolo. L'anno seguente, insieme al conte piemontese Aldo Bonacossa apre una lunga via sulla cresta Nord e il giorno seguente l'articolata cresta Ovest della stessa montagna. Un altro importantissimo merito di Jannetta è la precedente scoperta e valorizzazione della palestra di arrampicata del Monte Morra sui monti Lucretili non particolarmente lontani dalla capitale e che in seguito e per quasi 60 anni sarà il riferimento maggiore per intere generazioni di scalatori, in grandissima parte romani.
E' dell'estate del 1925 la prima solitaria, e forse la prima in assoluto di un certo rilievo, della traversata delle tre (o quattro?) vette del Corno Grande da parte di Giuseppe Bavona che desta un interesse generale, tanto che in seguito ci saranno altre diverse solitarie della bellissima traversata. Oltre lo specifico Corno Grande e Corno Piccolo c'è un’ altra imponente ma secondaria parete che attira gli sguardi di altri due giovani scalatori. Sono Alberto Herron e Piero Franchetti a superare per primi nel 1927 la grande bastionata del Pizzo Intermesoli, che si innalza ripida dalle pendici della tranquilla e amena Valle Maone. I due superano una profonda e lunga spaccatura che divide il secondo dal terzo Pilastro. La via oggi pressoché ignorata termina, come tutte le successive vie aperte in seguito, su dei ripidi prati e rocce friabili sottostanti la vetta.
La montagna, che aveva già visto alcune salite invernali inaugurate dai due cugini Sella, desta nuovamente interesse. Va detto che fino ad allora le salite erano state piuttosto semplici, risalendo vie normali e quindi pendii o semplici e larghi canaloni. E' nell'inverno del 1929 che finalmente si tenta una scalata tecnicamente più impegnativa, dando il via ad un alpinismo molto più avventuroso di quanto non sia stato fatto precedentemente.
Due ragazzi poco più che ventenni, ma già tra i più bravi e intraprendenti della SUCAI di Roma, Mario Cambi e Paolo Cichetti partono dalla capitale in corriera arrivando ad Assergi il giorno stesso del funerale della nota guida alpina Giovanni Acitelli. L'8 febbraio si avviano quindi verso la montagna già abbondantemente coperta di neve ( l'inverno 1928/1929 verrà censito come uno dei più freddi e nevosi del secolo) nonostante una meteo incerta, e arrivano, probabilmente superando il Passo della Portella, al rifugio Garibaldi. Questo è sommerso di neve e lo trovano oltretutto con la porta aperta; l'interno è invaso di neve. Manca una pala e non riescono a liberare la porta, il camino non funziona e non riescono ad accendere nemmeno un po' di fuoco. Passano la notte come se stessero all'aperto. Il 9, a giorno già avanzato, si avviano lungo pendii colmi di neve verso la Sella dei due Corni superando il Passo del Cannone. Nonostante il forte ritardo sulla ipotetica tabella di marcia Cambi e Cichetti non demordono e dalla sella attaccano le rocce della via Chiaraviglio – Bertelhet. Questa, facile d'estate è letteralmente trasformata e la salita risulta difficilissima e penosa. I due ragazzi stanno inanellando errori su errori. Nel frattempo perdono uno zaino, uno dei due (Cambi) non ha più guanti ma nonostante tutto continuano verso la vetta. Solo poco prima del tramonto, ancora lontani dalla meta decidono di arrendersi. Riescono a tornare alla sella che è già notte. Oggi noi ci chiediamo perché, invece che tornare al rifugio, lontanissimo e stremati e mezzi congelati, non siano scesi per il facile Vallone delle Cornacchie e senza difficoltà alcuna raggiungere l'albergo in costruzione a sole un paio d'ore di cammino e qui trovare rifugio per poi scendere facilmente a Pietracamela.
No, invece dopo aver cercato e recuperato lo zaino perso risalgono faticosamente al Passo del Cannone, attraversano la Conca degli Invalidi e infine a notte fonda il Garibaldi. Tutto con la neve oltre le ginocchia. Togliendo gli scarponi realizzano di avere ambedue avanzati stati di congelamento ai piedi e Cambi ad una mano. Il 10 restano fermi, non riescono a calzare gli scarponi e fuori si è scatenata una tormenta che accumula neve su neve. L11 febbraio non cambia nulla e restano fermi, senza ormai cibo e infreddoliti fino alle ossa. Il 12 non hanno più alternativa: scavano con le mani un pertugio per uscire dal rifugio letteralmente sommerso dalla neve e tentano disperatamente di scendere a Pietracamela. La marcia è assolutamente penosa, Mario Cambi non ce la fa più, si ferma e muore di stenti tra le braccia del suo amico Cichetti non può fare altro che provare a salvarsi, continua la sua disperata discesa ma è arrivato alla fine di ogni più piccola risorsa fisica. Crolla nella neve fonda anche lui, nel bosco a ormai due soli chilometri dal piccolo paese. Le ricerche dei due si avviano quanto prima ma senza esito. Cichetti viene ritrovato intorno al 20 Febbraio. Il corpo di Mario Cambi verrà invece ritrovato molto più in alto, soltanto nel mese di aprile. La ricostruzione di questo primo, tragico e drammatico evento si è resa possibile grazie ad alcuni scritti che i due sfortunati ragazzi hanno lasciato nel rifugio Garibaldi, scritti che fanno pensare avessero ormai sentore della loro imminente fine.
L'alpinismo in Abruzzo e in centro Italia in quegli anni viveva di una notevole inferiorità sia tecnica che culturale in confronto all'enorme e intraprendente movimento che cresceva sulle Alpi dove italiani, tedeschi, austriaci e francesi si rincorrevano e sfidavano nella soluzione di già grandi problemi. Basti pensare al sesto grado della via di Solleder e Lettenbauer sulla immensa parete nord Ovest del Civetta salita nel 1925 confrontandola con quanto scritto sopra, dove il quarto o il quinto grado non si sapeva ancora cosa fossero. Per quanto riguarda invece l'alpinismo invernale degli anni a seguire aprirò un capitolo a parte.
Ci pensano alpinisti aquilani a colmare, anche se con l'evidente ritardo, il gap tecnico ormai in continua evoluzione sulle Alpi quando le “grandi” scalate al Gran Sasso erano ancora limitate alla salita di Jannetta al Paretone e oggettivamente poco altro. I fratelli Domenico e Dario D'Armi, insieme a Manlio Sartorelli nell'estate del 1931 salgono in due giorni la lunga e imponente cresta Nord della vetta Orientale, che con i suoi 1150 metri fa da spartiacque tra il Paretone e il vasto Vallone delle Cornacchie; salgono dalla base superando un ostico camino con un breve tunnel, oltre una marcata cengia (cengia dei fiori oggi) seguono la non lineare cresta con problemi di orientamento, fatta di muri, creste, camini di roccia mai particolarmente solida ma innalzano improvvisamente il livello tecnico fino al quarto grado, con un verticale muro che sfiora il quinto. Domenico D'Armi era senz'altro il migliore tra gli alpinisti abruzzesi ormai molto presenti sulla grande montagna, mentre i romani, forse memori della precedente tragedia sono di nuovo quasi assenti. Domenico, detto “Mimì” D'Armi sembra quasi scatenarsi nel realizzare prime salite e ad affrontare difficoltà senza timori reverenziali.
Bruno Marsili, futuro medico condotto di Pietracamela (poi medico in alcune spedizioni abruzzesi in Himalaya negli anni dopo la guerra) e D'Armi aprono una elegante via su un evidente torrione chiamato in seguito Punta dei Due in loro onore. Ancora D'Armi nel '33 apre con Antonio Giancola lo spigolo Sud Sud Est della vetta occidentale (oggi ripetutissimo) con un passaggio che fa pensare ad un ipotetico sesto grado, cosi come nella salita della via dei Pulpiti alla Vetta Centrale aperta dagli stessi nel '34 con difficoltà complessive maggiori rispetto allo spigolo, sfiora o raggiunge il fatidico sesto grado. A introdurre ufficialmente questo mitico grado è nientemeno che “il Fortissimo” Giusto Gervasutti che insieme al conte Bonacossa sale l'aereo spigolo della Punta dei Due. A tale proposito va detto che il passaggio più duro della via dei Pulpiti non è affatto inferiore al sesto grado di Gervasutti.
Se dal versante aquilano D'Armi ha il suo da fare, di contro dal piccolo paese di Pietracamela non stanno certo con le mani in mano. Già nel 1925 l'allora medico condotto e alpinista Ernesto Sivitilli fonda, diversi anni prima dei Ragni di Lecco e degli Scoiattoli di Cortina, il gruppo “Aquilotti del Gran Sasso” riunendo intorno a se alcuni ragazzi del paese e li introduce all'alpinismo. In uno sperduto villaggio lontano da tutto e tutti Sivitilli porta una ventata di rinnovamento sportivo e culturale. Tra gli “Aquilotti” i più intraprendenti si chiamano Bruno Marsili, Antonio Giancola, Antonio Panza che apriranno importanti itinerari, ancora oggi ripetuti per logica ed estetica.
Nel massiccio del Gran Sasso, verso il termine della catena orientale troneggia il Monte Camicia. Con la sua tetra e friabile parete Nord sovrasta il paese di Castelli, da sempre antagonista di Pietracamela. Era opinione comune che la vasta e repulsiva parete in questione fosse impossibile. A mettere in discussione “l'impossibile” ci pensa l'intraprendente Bruno Marsili con il forte Antonio Panza. Nel mese di ottobre del '34 i due affrontano decisi la parete. Un dedalo di canalini, balze rocciose miste ad erba, pilastrini di dubbia tenuta e tanti sfasciumi creano difficoltà non tanto di grado quanto di intuito e attenzione, la roccia friabile non garantirebbe affatto la tenuta di un volo. Marsili e Panza superano infine un facile canale sotto una fastidiosa pioggia ma dopo 2000 metri di arrampicata giungono finalmente in vetta. Non sia mai!!! I pochi scalatori di Castelli e paesani vari non vogliono assolutamente credere che i due di Pietracamela possano aver superato l'immensa parete, non è possibile! In paese vengono addirittura derisi e presi per sbruffoni. Anche a Teramo in ambiente CAI nessuno crede a Marsili e Panza. Toccati nell'orgoglio abruzzese il 15 di agosto del '36 Marsili e Panza si portano di nuovo sotto la Nord con tanto di testimoni. I due “Aquilotti” scalano di nuovo l'intera parete e a conferma e dispetto dei castellani, lasciano un evidente drappo rosso molto in alto. La prova inconfutabile della loro impresa, che verrà ripetuta per la prima volta soltanto 31 anni dopo dai forti ascolani Francesco Bachetti e Giuseppe Fanesi.
Pochissimi anni dopo, il 10 giugno del 1940 da un balcone di Piazza Venezia a Roma un uomo al potere porta l'Italia intera in una devastante guerra e l'alpinismo viene momentaneamente messo da parte.
Foto Archivio M. Marcheggiani