ALPINISMO IN APPENNINO CENTRALE – IL GRAN SASSO
Parte seconda – Il RISVEGLIO ALPINISTICO - Dal '40 ai primi anni '70
Di Massimo Marcheggiani
Massimo Marcheggiani, classe 1952, Accademico e profondo conoscitore delle vicende e dell’ambiente del Gran Sasso, sulle cui pareti ha tracciato e ripetuto innumerevoli itinerari, fissa in queste pagine la storia alpinistica di questo importante Gruppo montuoso nel periodo dal 1940 ai primi anni '70. Il periodo precedente, dagli albori al 1940, è stato già pubblicato. Leggi qui.
La guerra, anche se in maniera marginale, tocca anche il Gran Sasso. La storia riporta un’azione tedesca finalizzata alla liberazione del Duce Benito Mussolini tenuto prigioniero in un albergo costruito appena pochi anni prima a quota 2100 m e con esso una funivia, esattamente nel 1934. Senza la guerra l'alpinismo avrebbe continuato il suo decorso anche più agevolmente vista la funivia e la strada sterrata che ormai univa il versante aquilano a Campo imperatore e che avrebbero risparmiato agli alpinisti o escursionisti 1200 metri di dislivello e una grande fatica supplementare. Lo stesso non si può dire però del versante opposto, dove una semplice seggiovia sarebbe stata costruita soltanto nel 1966.
E' un aquilano uno dei primissimi a rimettere le mani sulla ruvida roccia del Gran Sasso: a guerra ancora in atto, nel 1943, quando viene pubblicata la prima guida del Gran Sasso a cura di CAI e TCI, Andrea Bafile con Domenico Antonelli apre una via sullo Sperone Centrale della Vetta Occidentale. Questa via, molto logica e tutt'altro che banale, è una delle più significative salite compiute da Bafile. Benché non molto lunga (circa 250 m) presenta il penultimo tiro su una bellissima e compattissima placca. A mio avviso con un passo di 6° grado pieno. Con un unico chiodo messo su 25 metri Bafile superò sè stesso (oggi è comparso l'immancabile spit a sminuire un capolavoro). Andrea Bafile ha avuto un immenso ruolo nello sviluppo della sicurezza degli alpinisti e non solo: ingegnere meccanico, nei primissimi anni 80 ha studiato, inventato e realizzato l'odierno dissipatore. Questo nasce come una semplice piastrina in lega leggera dotata di 8 fori entro i quali far scorrere una corda per dissipare energia in caso di caduta. Con le successive modifiche commerciali oggi il dissipatore è d'obbligo sulle ferrate. Fa piacere pensare che l'intero mondo degli scalatori, e non solo, oggi usufruisce di una maggiore sicurezza grazie all'inventiva e onoscenza tecnica di quest'uomo intelligente e poliedrico. Insieme al coetaneo Bruno Marsili, medico di Pietracamela, apre in seguito delle bellissime vie sulle Fiamme di Pietra e su pareti minori ancora oggi molto ripetute, sia sul versante aquilano che su quello teramano.
Andrea Bafile, personaggio affascinante e vulcanico, durante le sue incursioni sulla montagna si rende conto della grande difficoltà logistica per realizzare ascensioni senza un valido punto di appoggio. Se dal versante aquilano sono ormai presenti i rifugi Garibaldi (sempre meno utilizzato), il Duca Degli Abruzzi e non ultimo l'albergo di Campo Imperatore, sul versante opposto è tutto molto più complicato. Bafile si ingegna e costruisce con le sue mani, portando a spalla malta e attrezzi vari, un ricovero di pietre cementate tra loro sotto un enorme masso sulla morena del ghiacciaio del Calderone. Ben riparato da pioggia e vento, dotato anche di una rudimentale porta in legno e finestrella, il “rifugio Bafile” sarà il ricovero notturno di numerosi alpinisti fino al 1959, quando il CAI di Roma si fa carico della costruzione del Rifugio Carlo Franchetti. Questo, edificato in posizione logica e panoramica su una spalla del Vallone delle Cornacchie, è ubicato poche centinaia di metri al di sotto dal vecchio ricovero ed è oggi il rifugio per antonomasia per scalatori ed escursionisti. Quasi nessuno ormai sa dell’esistenza del vecchio “Rifugio Bafile”, ma un occhio attento e curioso lo può ancora individuare, e non può non suscitare meraviglia e stupore l'idea ingegnosa ed altruistica dell'Ingegnere Andrea.
Sono quindi gli abruzzesi a dare nuovo impulso alle scalate, ma quasi contemporaneamente anche i romani cominciano a rivedersi sulla grande montagna. Chiaramente la fine della disgraziata guerra ha portato di nuovo serenità d'animo nonostante la diffusa crisi economica e giovani studenti o lavoratori tornano alle scalate. La ormai consolidata SUCAI romana anima un alpinismo più all'avanguardia. All'interno del gruppo c'è spirito di appartenenza, confronti costruttivi e probabilmente un agio sociale maggiore che facilita incursioni sulle grandi montagne dell'arco alpino e non ultimo conoscenze, frequentazione e confronti con “nomi” illustri dell'alpinismo.
Diversi tra gli alpinisti che sto per citare faranno ascensioni principalmente sulle Dolomiti, aprendo anche itinerari diventati poi classici, un esempio per tutti è la bella via “ Consiglio -Dall'Oglio” alla Cima Del Lago nel gruppo di Fanis. Consiglio è forse l'alpinista più innovativo e intraprendente, ma nella SUCAI Franco Alletto (burbero veneto dal cuore immenso trapiantato a Roma e per anni Presidente della sezione CAI, Accademico e in seguito anche vice presidente generale del CAI), Bruno Morandi (che per anni sarà un vero e proprio leader carismatico) Franco Cravino, Marino Dall'Oglio, Luigi Mario, Silvio Jovane sono solo alcuni dei giovani talenti che si cimentano e risolvono un'infinità di problemi. Il Gran Sasso offre ancora moltissime opportunità, ma per quanto l'ambiente alpinistico sia cresciuto, le realizzazioni sono pur sempre relative. Il rapporto uomini e quantità di pareti è ancora fortemente, ed ovviamente, sbilanciato e gli abruzzesi con i romani risultano essere quasi gli esclusivi apritori e ripetitori di nuovi itinerari. Non va dimenticato che il Gran Sasso, in quanto montagna appenninica, era considerato assolutamente secondario a qualsiasi altra cima del Nord, anche se, logicamente e storia alla mano, negli ultimi anni del '900 la ribalta alpinistica ha colmato in gran parte questo gap tecnico/culturale.
Quindi rari romani e credo pochissimi altri in centro Italia dedicavano le loro maggiori energie fisiche ed economiche alle scalate alpine mentre i ritagli di tempo fuori stagione erano per il Gran Sasso.
Tempo. Era solo questione di tempo. Lentamente si scopriva che anche in Appennino si potevano trovare ingaggi di tutto rispetto. Bastava guardare le montagne con occhi diversi. Il Gran Sasso non era affatto una “palestra” preparatoria alle Alpi. Aveva ed ha una sua propria indubbia validità.
La bella, assolata ed inviolata parete Est della vetta Occidentale vede la sua prima salita nel 1948 da parte di Paolo Consiglio, Dall'Oglio, L. Sbarigia e R. Beghè. In realtà sembra che questa prima salita sia stata un ripiego ad un progetto più ambizioso... I quattro dopo lo studio del progetto iniziale scoprirono a giorno già avanzato una seconda possibilità. Non si scoraggiarono visto l'orario un pò avanzato. Attaccarono decisi dal lato destro la parete, poi un lungo traverso, con tratti verticali e altri traversi ancora e vista la bassa difficoltà e la bravura sia di Consiglio che di Dall'Oglio sbucarono in vetta compiendo quindi la prima salita della intera parete. I giovani sucaini vollero dare il nome del loro gruppo alla nuova e prima via; la via SUCAI è oggi uno dei banchi di prova di numerose cordate esordienti. Principalmente Consiglio, il più agguerrito tra i romani, non diede poi tregua alla sua idea iniziale. Dopo tre tentativi, nell'estate del '54 riuscì nel suo intento: accompagnato da un giovanissimo Luigi Mario (di cui più avanti ci sarà di che raccontare) e da Giorgio Schanzer aprì la più bella via della parete.
La “diretta Consiglio” per molti anni fu la più dura via del Gran Sasso, con un 6° grado assoluto e tratti di artificiale per la prima volta messo in pratica sulla montagna abruzzese. Scoperta la potenzialità, l'anno seguente anche Franco Cravino e Silvio Jovane si diedero da fare superando lo spigolo Nord all'estrema destra della parete mentre Bruno Morandi con Emanuela Pivetta aprivano un'altra via sul lato sinistro. Sul versante opposto, quello teramano, fu preso quasi d'assalto il Corno Piccolo, dove diverse pareti pressoché inviolate e roccia di ottima qualità aspettavano le prime salite, ovviamente sempre di un discreto impegno tecnico. Nel '56 sempre Consiglio, Morandi e De Ritis superarono la super classica (oggi) della seconda spalla; Franco Cravino e Silvio Jovane aprirono la via “A destra della crepa” sulla verticale parete Est. Successivamente con l'abruzzese Lino D'Angelo (degli Aquilotti del Gran Sasso e prima guida alpina abruzzese) firmarono un capolavoro: la prima salita del Monolito, un ripidissimo scudo di roccia fantastica culminante nei 2655 m del Corno Piccolo. I romani si erano scatenati! Alletto e Cravino per primi superano l'ancora inviolata parete Ovest della Vetta Orientale (per essere precisi la vetta dell'Anticima). Franco Cravino comincia a distinguersi per una nutrita serie di prime solitarie, pratica ancora molto rara in Appennino. Va da sé che il fermento e le notevoli realizzazioni compiute sono fortemente stimolanti e gli attori sono ancora e principalmente i soliti nomi. Gli occhi attenti e curiosi di Consiglio e Alletto cominciano a scrutare con maggiore attenzione la grande montagna. Al di là delle pareti già enunciate e salite ce n’è una ancora più impegnativa, più grande, più selvaggia, più... più! La Vetta Orientale, ormai nota come “il Paretone” è ancora lo spauracchio di tutti. Oltre la via di Jannetta del '22 e un percorso su ripidi pendii erbosi di Sivitilli, Giancola e Panza del 1930 che non ha grande storia, c'è ancora un terreno assolutamente vergine.
I selvaggi versanti Sud ed Est sono da grandi imprese.
Se il versante Est volendo è faticosamente ma facilmente raggiungibile dal paese di San Nicola (fermo restando che la parete vera e propria non fa sconti a nessuno), il versante Sud è invece molto ostico da raggiungere. C'è una cresta che nel 1957 attira l'attenzione di Alletto e Consiglio. Molto complicata e lunga da raggiungere su un terreno molto articolato ed infido, da una certa quota in poi diventa una bella e impegnativa scalata che i due affrontano sfidando un ambiente davvero remoto e selvaggio; da lì si è invisibili a chiunque e nessuna richiesta di aiuto è minimamente ascoltabile. Non dimentichiamo altresì abbigliamento e attrezzatura di quei tempi. Armati di coraggio e determinazione scalano i 500 metri della via con difficoltà fino al 6° grado e tratti in artificiale che Consiglio aveva già dimostrato di saper fronteggiare nella sua diretta alla vetta Occidentale. Alletto, per parte sua, si era già messo in mostra per una delle prime ripetizioni della via Solleder in Civetta. Con questa salita spalancano le porte verso un alpinismo di alto livello, e non solo tecnico. A distanza di pochi anni, infatti, Consiglio e Alletto e pochi altri romani scopriranno anche le grandi montagne in Himalaya, Groenlandia, Caucaso, Africa dove saliranno importanti vette inviolate e apriranno notevoli vie di roccia, come per esempio in Hoggar.
Al Torrione Cambi, sulla assolata parete Sud, Consiglio, Jovane e G. Macola aprono la via della Gran Placca, inventandosi per l'occasione un pendolo (Ah! gli americani...) per risolvere il passaggio chiave. Ancora lo stesso anno abbiamo una vera e propria performance di Franco Cravino che da solo sale la lunga cresta Nord all'Orientale; una volta in vetta compie la lunga traversata delle tre vette, scende alla lontana Sella dei due Corni e da qui sale la cresta Sud del Corno Piccolo. In vetta immagino si sia riposato un po'! Da qui supera in discesa la cresta Nord: complessivamente un’arrampicata di 2600 metri fino al 5° grado. Cravino, piccolo e compatto (e molto simpatico) era senza dubbio uno dei più intraprendenti e innovativi scalatori di quegli anni. Ma non era finita: non c'era ancora la seggiovia per scendere ai Prati di Tivo e vanno aggiunti perciò altri 700 metri di dislivello (io feci lo stesso identico percorso 30 anni dopo e tornai in ginocchio alla macchina).
Nel '58 si superano altri tabù ed il livello tecnico fa un notevole balzo avanti.
Prima dicevamo che di Luigi Mario ne avremmo riparlato: eccome se ne riparliamo! Luigi, detto Gigi, è romano, smilzo, grandi occhiali da miope, una folta capigliatura rossa. Si fa le ossa da ragazzetto seguendo i vari Consiglio, Alletto e altri bravi sucaini. Trova lavoro in banca, dove la norma era essere molto eleganti, formali e rinchiusi per 6/7 ore tra quattro mura illuminate a neon. Non può essere! A “Gigi” una vita così sta stretta da subito, molto più stretta degli abiti gessati che deve per forza indossare. La sostanziale peculiarità di “Gigi” è stata quella di uscire dai canoni tradizionali della vita e del lavoro. Negli anni '60 licenziarsi dal lavoro fisso in banca, che era il sogno di un italiano su due, equivaleva a una bestemmia gridata forte nella basilica di San Pietro, ma Gigi lo fa. Fa diversi altri lavori precari per vivere, non ha le spalle protette provenendo da una famiglia proletaria ma diventa sempre più un bravissimo scalatore mentre scopre essere questo l'indirizzo da dare alla sua vita. Interminabili viaggi a bordo di Fiat 600 o motociclette carichi di tutto lo portano dall'Appennino alle Dolomiti e sulle Alpi in genere dove scala principalmente con Alletto, Jovane e pochi altri. Prende in gestione l'appena costruito rifugio Carlo Franchetti eretto nel '59 nello spettacolare Vallone delle Cornacchie. Nel 1967, dopo aver conosciuto una donna giapponese che lo avvicina al mondo buddista, si trasferisce in Giappone, in un monastero Zen dove a distanza di pochi anni viene nominato a tutti gli effetti monaco buddista Zen, con il nome di Engaku Taino. Torna in Italia, diventa guida alpina e nel frattempo compra un casolare che trasforma in monastero dove passerà il resto della sua vita ad insegnare buddismo e arrampicata ai suoi numerosi allievi fino alla sua prematura morte nel Novembre del 2021.
Torniamo indietro, a “Gigi Mario detto il Bonzo” e alle sue importanti scalate. Eravamo rimasti alla fine degli anni '50. Luigi Mario è cresciuto, diventa sempre più bravo e intraprendente. Il Gran Sasso non è più montagna di ripiego ma ha una sua precisa validità. Tutte le pareti ormai sono state salite su itinerari di cui alcuni molto difficili: una sola di queste ancora presenta incognite di livello tecnico, è il Paretone della Vetta Orientale. La via di Jannetta del '22 la attraversa con la sua lunga diagonale, evitando a destra quelli che Silvio Jovane, curioso e attento, aveva definito i quattro Pilastri. Questi sorreggono la vetta massima dell'Orientale e due di questi si ergono slanciati sopra i grandi strapiombi della Farfalla. Sono questi Pilastri ormai i veri problemi da risolvere insieme alla inviolata parete Est dell'Anticima Nord. Uno spazio enorme, ricco di grandissime potenzialità. Sono proprio Mario e Jovane ad aprire le danze, Salendo da Casale San Nicola, superando quindi un enorme dislivello, lungo la via Jannetta giungono sul bordo destro dei grandi strapiombi della Farfalla. Qui attaccano la direttrice più logica e scalano fino ad intersecare la evidente cengia obliqua, la seguono verso sinistra con facile arrampicata e successivamente superano interamente l'evidente pilastro con una esposizione a volte inquietante: sotto il loro sedere ci sono oltre mille metri di vuoto. E' il secondo dei quattro Pilastri. Era il 2 giugno del 1958.
Gli abruzzesi si sentono toccati nell'orgoglio! Pur avendo assoluta amicizia con i romani, è chiaro che la “loro” montagna non può essere appannaggio esclusivo dei capitolini. E' il piccolo e bravissimo Lino D'Angelo a raccogliere il guanto della sfida quando l'11 agosto insieme a Clorindo Narducci affronta il terzo dei Pilastri. Questo è senza dubbio il più evidente e slanciato di tutti. D'Angelo è capocordata, supera quasi con disinvoltura gli oltre 500 metri della parete, ma portato a seguire ovviamente i punti di minore resistenza, obliqua troppo a sinistra dalla linea ideale del pilastro. Supera comunque un terreno molto articolato e a volte insidioso fino in vetta, firmando a nome degli Aquilotti del Gran Sasso una bellissima realizzazione. Competizione o no, il 14 settembre Mario, Alletto ed Emilio Caruso puntano all'ultima parete ancora inviolata. La parete Est dell'Anticima Nord della Vetta Orientale è molto diversa dai vicini Pilastri da cui è divisa dalla lunga linea obliqua della via Jannetta. Questa parete è molto più complessa da raggiungere, ed inoltre ha una forma quasi a conchiglia, con una più difficile individuazione di una logica via di salita. La consolidata esperienza e bravura di Mario e Alletto però hanno ragione della parete scalando un lungo sperone obliquo fino in centro parete, da dove poi in parete aperta raggiungono la vetta dell'ultima parete ancora mai salita. Con questa “conquista” non si conclude nessun capitolo, anzi! Gli anni 50 sono solo il preludio a un alpinismo fortemente in crescita che a breve non sarà più appannaggio dei romani.
“Gigi il bonzo” è rapito dall'alpinismo, che è diventata la linea guida della sua vita. In cordata con Emilio Caruso nel '59 affronta e supera il ripidissimo spigolo a destra della “crepa”: Questa definizione sarà poi il nome della difficile via aperta sulla parete Est del Corno Piccolo. Due mesi dopo un altro capolavoro prende vita a firma Mario / Caruso. Il quarto Pilastro del Paretone capitola alla consolidata bravura di Mario, che con tecnica e fantasia usa rudimentali ganci per superare sezioni artificiali (Ah! Sapessero gli americani...). Comunque le difficoltà in libera sono veramente alte e si tratta di una scalata davvero all'avanguardia, che verrà ripetuta soltanto a quasi 20 anni di distanza. Le vie di Gigi Mario erano severi banchi di prova e per 15 anni resteranno le più difficili in assoluto.
Viene costruito il rifugio Carlo Franchetti che diverrà il più importante e logico dell'intero massiccio montuoso. Luigi Mario, come detto, ne diviene, per quanto mi risulta, il primo gestore in linea con le sue sempre più precise e coraggiose scelte di vita.
Nello stesso anno escono alla ribalta due alpinisti di Ascoli Piceno: Marco Florio e Maurizio Calibani. Sono i primi ad uscire da un contesto di alpinismo provinciale quando con coraggio si avventurano nella prima ripetizione della via al 3° Pilastro. Riescono parzialmente a seguire la via aperta da D'Angelo e Narducci quando superata da poco la cengia obliqua, si discostano da questo e puntano decisamente a sinistra, più di quanto non abbiano fatto i due Aquilotti del Gran Sasso l'anno prima.
Se la via di D'Angelo poi in alto piega verso la vetta del 3° Pilastro, la lunga variante degli ascolani sale più sul 2° che non sul 3° dei Pilastri. Va detto che da quell'anno anche gli alpinisti di Ascoli Piceno saranno una costante e proficua presenza sulla montagna. Essi, in evidente polemica rottura con la loro sezione del CAI, costituiscono in alternativa il GAP, Gruppo Alpinisti Piceni, di cui i maggiori esponenti, oltre Florio e Calibani, saranno anche Francesco Saladini, Francesco Bachetti, Giuseppe “Peppe” Fanesi che con pochi altri ancora apriranno molte vie negli anni '60. Soprattutto la parete Nord del Corno Piccolo vede l'apertura di numerosi itinerari a loro firma, di cui alcuni molto difficili. Tra i tanti si distingueranno principalmente Bachetti e Fanesi che da lì a pochi anni saranno i primi a ripetere (nel 1967) la parete Nord del Monte Camicia, salita nel 1934. Saranno praticamente anche i primi a valorizzare le grandi e assolate pareti del Pizzo Intermesoli, fino ad allora ben poco considerate. Nei primi anni '60 Luigi Mario, durante la gestione del rifugio Franchetti, fa ancora parlare di se quando con Fernando Di Filippo apre nello stesso giorno due vie particolarmente difficili. Attacca prima la parete Nord della Seconda Spalla nel suo punto più basso lungo diedri e fessure di roccia pressoché magnifica uscendone in vetta dopo aver superato alte difficoltà; da qui, invece che ritenersi soddisfatto, si sposta più in alto tramite una comoda cengia che porta alla base della grande e assolata parete Ovest della Prima Spalla. Attacca lungo una fessura in comune con la via Federici-Antonelli del'39 da cui si distacca subito dopo. Il tiro successivo vede una grande fessura molto svasata e quasi improteggibile da superare con incastri e brutalità. I tiri superiori rientrano nella norma ma sono ricchi di esposizione e bellezza. Ancora oggi questa via, nonostante sia data di V+, non va assolutamente sottovalutata data l'anomalia del secondo tiro davvero difficile da gestire.
Il Primo Pilastro al Paretone, che è il più lontano da raggiungere ma anche il più facile e corto nonché l'unico ancora non salito, trova nei sucaini Carlo Alberto Pinelli, Paolo Gradi e Mario Lopriore i risolutori nell'estate del 1962.
Ancora l'anno dopo, siamo quindi nel 1963, L. Mario si supera di nuovo. Chi di voi lettori ha visitato il Gran Sasso, avrà notato come la vetta del Corno Piccolo ad Est è costituita da un enorme scudo di compattissimo e lucente calcare; questo è conosciuto come “Il Monolito” e mai denominazione fu più azzeccata. Nel '56 era stato superato da Cravino, Jovane e D'Angelo tramite il grande diedro fessurato posto sul lato sinistro, mentre il grande spazio a destra di questo è solo e soltanto placca, compattissima, verticale e pure strapiombante. Bene, Mario insieme a Giancarlo Adinolfi supera il grande scudo con elevate difficoltà. La compattezza della roccia spesso inchiodabile induce “Gigi” a fare dei buchi, piantare corti tondini di ferro da cantiere su cui strozza dei cordini e così progredisce in libera o artificiale molto precaria. In alto li attende il grande strapiombo, fortunatamente percorso da una lunga obliqua fessura aggettante. Con obbligata e difficile tecnica artificiale Mario supera il marcato strapiombo mentre supera di nuovo se stesso. La via Rosy sarà l'ultimo capolavoro di “Gigi il Bonzo” al Gran Sasso. Poi chiude con il rifugio, si dedica alla religione buddista Zen, diventa Monaco, diventa guida alpina e vive felice e contento insegnando, meditando e arrampicando oltre il moderno 7A fino ai suoi ultimi giorni di vita. In soli 5 anni Luigi Mario aveva indiscutibilmente rivoluzionato lo standard alpinistico del centro Italia.
Ancora gli anni '60 vedono belle realizzazioni, anche se nessuna di queste raggiunge il livello tecnico di Luigi Mario. Gli Ascolani già nominati sono la nuova generazione rivolta più verso la ricerca che non il superamento delle attuali difficoltà. Sono quindi gli stessi di cui sopra ad aprire numerosi itinerari ancora oggi molto ripetuti. Il maggiore livello tecnico ascolano in quegli anni è appannaggio di Francesco Bachetti, ma non sarà solo la bravura che lo farà diventare personaggio, ma tutta una serie di vicissitudini alpinistiche e non, saranno la traccia spesso amara della sua travagliata vita. Esce dal corso di roccia tenuto dal GAP nel '65 e praticamente è già un talento. Un talento naturale che non avrebbe avuto bisogno di nessun corso se non per imparare due nodi e poco altro. Con “Peppe” Fanesi (altro talento) dopo appena due anni di scalate ripete la mai ripetuta via Marsili / Panza alla selvaggia e friabile parete Nord del monte Camicia aprendo una lunga variante di 5°. Apre con compagni diversi altre numerose vie, quasi tutte fortemente sottogradate data la semplicità con cui risolveva i problemi. Una per tutte la via Umberto Cattani, gradata da Bachetti 4°+ e data oggi 5°+ / 6°. Francesco è passionale e istintivo, molto preso da scalate e politica con idee di sinistra, molto a sinistra (come quasi tutti nel gruppo GAP) e tendenzialmente anarchico.
Nel 1972 viene arrestato a soli 24 anni per turbativa ad un comizio del MSI e fa mesi di galera. Ne esce fortemente provato, amareggiato e forse depresso. Uscito dal carcere non ha più lavoro, perde quasi un braccio in un incidente d'auto. Non scala più, in parte ormai isolato o dimenticato da molti ex compagni, perde il senno per diverso tempo poi si riprende intagliando legno ma non esce più da casa se non per l'osteria. Muore nel 2004 a soli 56 anni di cui 30 passati in un amaro oblio. Sul comodino di fianco al suo letto di morte una pila di libri: tutte le guide del Gran Sasso, compresa l'ultima. Il suo compagno preferito, “Peppe” Fanesi, è stato l'altro capo fila dell'alpinismo ascolano. Un ragazzo nato nel '42 particolarmente intelligente, ironico, istintivo e con una carica umana incredibile. E' un pò il riferimento principale delle giovani leve, con le quali Fanesi si lega ben volentieri, svezzando l'iniziale grossolanità dei suoi “allievi”. Apre numerose vie belle, eleganti e molto logiche e credo sia l'unico (oltre i primi salitori) ad aver superato per due volte la parete Nord del Camicia (perché salirla una volta basta ed avanza). Fanesi ha l'indole dell'istruttore, ma con finalità assolutamente amichevoli, e sarà lui a far crescere i migliori della generazione successiva, tra cui si distinguerà su tutti Tiziano Cantalamessa, il più grande in assoluto. Fanesi, come quasi tutto l'ambiente alpinistico ascolano è fortemente impegnato nel sociale militando senza tentennamenti nel Partito Comunista in cui si distingue per le sue idee innovative e per esserne lo sprone principale, tanto che il Partito intitolerà a suo nome la locale sezione.
Il Gran Sasso si trova ad essere il principale riferimento alpinistico del centro Italia. Vero che si scala anche altrove tra Sibillini, i Monti Reatini, il Monte Sirente e quanto altro ma chi vuole il vero “ingaggio” non può non confrontarsi con la montagna più alta dell'Appennino centrale e con la sua superba roccia e le sue selvagge e smisurate pareti.
La fine degli anni 60 e la prima metà degli anni 70 sono un pò la linea di demarcazione tra l'alpinismo tradizionale, fatto, senza sarcasmi, da scarponi rigidi e pantaloni alla zuava, e un alpinismo ben più moderno. Cresce proprio in quegli anni il numero di alpinisti provenienti dall'Abruzzo, dalle Marche, dal Lazio, poi Umbri, rari toscani e addirittura compaiono rari campani e pugliesi. Mentre i romani della SUCAI vanno man mano scomparendo, sono soprattutto gli abruzzesi e i marchigiani a fare la parte del leone. Domenico “Mimì” Alessandri è forse quello che si distingue più di altri. Arriva già adulto all'alpinismo e dimostra talento istintivo come certi ascolani sopra citati. Apre la Diretta Alessandri con C. Leone sulla parete Est della Vetta Occidentale, via mista artificiale e libera. Successivamente con Roberto Furi e Carlo Leone apre la via più logica e bella dell'intero Paretone superando il terzo Pilastro con una via che sarà (ed è) la più ambita per chi si avventura sul Paretone. L'intraprendenza di “Mimì” lo porta poi sulla friabile parete Nord del monte Camicia dove apre una via diretta durante la terza ripetizione della via classica del 34. Sulla stessa parete Alessandri vivrà poi una terribile e drammatica esperienza durante la prima salita invernale della stessa, ma che vedremo in un apposito capitolo sull'alpinismo invernale. Degli ascolani abbiamo già detto, mentre gli “Aquilotti del Gran Sasso” vivono una nuova primavera con l'inossidabile Lino D'Angelo che quasi sempre con il giovane Enrico De Luca, anch'egli Guida Alpina, apre itinerari ancora oggi molto ripetuti, valorizzando ulteriormente le Spalle del Corno Piccolo, vera miniera di opportunità per futuri e disinibiti scalatori.
E. De Luca con D. Nibid e Diego D'Angelo (tutti Aquilotti) si avventurano sulla sezione più verticale, strapiombante ed impegnativa della parete Est del Corno Piccolo, aprendo la via del Cinquantenario in arrampicata mista libera ed artificiale, la quale coinciderà in parte con la via dei Tetti aperta immediatamente dopo, in chiaro antagonismo con gli Aquilotti, da Pasquale Jannetti, Guida Alpina e gestore del rifugio Franchetti, in più riprese e compagni diversi. Tutto si concentra ancora nella soluzione di itinerari da aprire via via sempre più impegnativi ma con logica tradizionale. Come avrete notato gli attori sono ancora pochi, e spesso sempre gli stessi. L'alpinismo di “massa” doveva ancora vedere la sua nascita, che avverrà inevitabilmente dopo la metà degli anni 70, con l'avvento di una generazione ormai senza più scarponi nè zavorre culturali, priva di inibizioni e sudditanze, mentre la vicina ma ancora in gran parte ignorata grande parete Est del Pizzo Intermesoli aspetta sorniona il suo tempo dopo le sporadiche incursioni degli Ascolani.