SARCA CLIMBING MEET - Una positiva esperienza di confronto e collaborazione tra Accademici e giovani promettenti alpinisti
di Alberto Rampini
Più di 30 giovani alpinisti provenienti da ogni parte d’Italia si sono incontrati in Valle del Sarca il 10, 11 e 12 maggio per scalare assieme, condividere esperienze e magari programmare futura attività con nuovi amici.
L’evento è stato organizzato dal Club Alpino Accademico Italiano – Gruppo Orientale per offrire una opportunità di conoscenza e di crescita a giovani alpinisti motivati provenienti in genere dalle Scuole del CAI. Di età compresa tra i 18 e i 30 anni, molti erano istruttori o aspiranti istruttori, altri semplicemente giovani entusiasti e interessati ad entrare a pieno titolo e con grande consapevolezza nel mondo dell’alpinismo.
L’evento si inserisce nella più ampia programmazione di attività rivolte ai giovani alpinisti promossa negli ultimi tempi dal CAAI. Queste attività spaziano dal Progetto Eagle Team, in collaborazione con il CAI per la formazione di alpinisti al top, al più diffuso Eagle Meet, rivolto ad un target sempre di livello ma con obiettivi meno esclusivi, fino ai diversi Meeting di carattere più inclusivo organizzati in collaborazione con le Scuole di Alpinismo del CAI, come il Meeting di febbraio in Mercantour e quello di aprile in Valle dell’Orco.
Con queste iniziative l’Accademico si è posto l’obiettivo di promuovere i più importanti aspetti culturali e i valori storici dell’alpinismo ad integrazione della preparazione tecnica dei giovani, oggi generalmente molto alta. Si tratta in sostanza di un recupero della tradizione storica dell’Associazione, che è nata proprio per fare scuola e promuovere un alpinismo tecnicamente autonomo e culturalmente consapevole.
Sede del meeting è stata la Casa della Bellezza a Tenno, dove i ragazzi hanno incontrato tanti Accademici e seguito le due serate in programma.
Venerdì sera dopo il saluto del coordinatore dell’evento Guido Casarotto, Vicepresidente del Gruppo Orientale, il past president Alberto Rampini ha dato il benvenuto in Valle ai partecipanti, ricordando come oggi più che mai la pratica dell’arrampicata in zone fortemente antropizzate come la Valle del Sarca e tante altre, frequentate da un numero sempre maggiore di praticanti, richieda un approccio consapevole e una sensibilità particolarmente attenta. Il Presidente della CNSASA Mauro Loss ha portato il saluto della struttura didattica del CAI.
A seguire, Heinz Grill ha coinvolto i giovani negli aspetti più romantici, sentimentali ed estetici dell’arte di arrampicare dipingendo un mondo fatato che si colloca agli antipodi del tecnicismo imperante. Ha tracciato anche una breve storia “ideale” dello sviluppo dell’arrampicata in Valle negli ultimi decenni. L'atmosfera della serata è stata particolarmente suggestiva anche per l'accompagnamento musicale e canoro predisposto.
"Canto della Marmolada" testo Heinz Grill, compositore Stephan Wunderlich cantato da Claudia Zrenner e "Tocco la roccia" testo di Heinz Grill, compositore Stephan Wunderlich cantato da Lisa Quispe.
Alessandro Gogna e Marco Furlani, con la proiezione del film La Valle della Luce e la presentazione del libro omonimo, hanno approfondito alcuni aspetti della storia alpinistica della Valle del Sarca. L’organizzazione ha fornito una copia del volume a tutti i partecipanti, come stimolo a documentarsi e leggere per essere sempre ben informati su tutto quello che riguarda l’attualità e la storia alpinistica dei posti in cui si scala.
La serata di sabato si è aperta con un breve documentario presentato da Giuliano Bressan sulle attività del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI, organismo che svolge attività sperimentale sulle caratteristiche dei materiali per alpinismo e sul loro corretto utilizzo, fornendo un valido supporto all’attività didattica delle Scuole, oltre che un bagaglio importante di conoscenze per i singoli alpinisti.
Alessandro Beber, guida alpina, con la proiezione di un interessante film e un accattivante parlato ha voluto suscitare nei giovani l’interesse, e perché no? lo stimolo per l’apertura di vie nuove. Dall’idea allo studio, dalla realizzazione alla comunicazione, ponendo particolare attenzione sui diversi stili di apertura e sulla loro influenza sul “valore” della prestazione.
Le giornate di venerdì, sabato e domenica sono state dedicate all’arrampicata. I ragazzi hanno composto in autonomia le cordate, a volte tra di loro, a volte in compagnia degli Accademici presenti, per percorrere vie di diverso livello e carattere sulle pareti della Valle.
Non erano stati prefissati obiettivi, non si erano dati limiti di difficoltà né in basso né in alto, non si erano suggerite “le migliori vie...”. Tutto è stato lasciato all’iniziativa dei ragazzi, per stimolarne spirito di ricerca e programmazione autonoma, anche se i numerosi locals e Accademici presenti erano naturalmente a disposizione per informazioni. Si è chiesto solo di scrivere sul REGISTRO DEL MEETING la destinazione scelta e riportare poi al rientro le impressioni sull’itinerario percorso e l’esperienza vissuta.
Il registro testimonia l’intensa attività svolta e l’entusiasmo di chi ha partecipato a questa avventura.
Il meeting si è concluso domenica pomeriggio a Pietramurata con uno scambio di impressioni, una ricca lotteria, i saluti delle autorità e la proiezione del film MADRE ROCCIA, fresco dai successi al Trento Film Festival. Il film racconta con grande naturalezza e vena poetica l’apertura di una nuova difficilissima via sull’immensa parete Sud della Marmolada ad opera di una cordata ideale composta da alpinisti di 4 generazioni, tra i quali la giovanissima fuoriclasse Iris Bielli. Il film è stato presentato da uno dei protagonisti, Maurizio Giordani, Accademico e Guida Alpina, massimo conoscitore della Parete Sud della Marmolada, sulla quale ha aperto una cinquantina di vie nuove e fatto solitarie che hanno segnato la storia dell’alpinismo. La vicenda raccontata e le splendide immagini hanno creato un’atmosfera molto suggestiva. Un bel regalo, che i ragazzi hanno particolarmente gradito.
Il Club Alpino Accademico ringrazia i soci che si sono fatti carico dell’organizzazione e quelli che hanno preso parte all’evento, oltre ai relatori delle serate e Heinz Grill per aver messo a disposizione la Casa della Bellezza.
Il Comune di Tenno per il patrocinio e quello di Dro per il patrocinio e per aver messo a disposizione la sala di Pietramurata.
Gli sponsor, in primis Garda Trentino, e i numerosi altri menzionati sulla locandina ufficiale dell'evento.
CHIODO D’ORO 2024
Premiate le famiglie MAZZALAI e GENUIN/AVOSCAN
Testo e foto di A. Rampini
Nella prestigiosa cornice del Salone di Rappresentanza di Palazzo Geremia a Trento ieri 2 maggio è stato consegnato il Chiodo d’Oro 2024, nell’ambito delle manifestazioni collegate al Trentofilmfestival.
Il riconoscimento, da vent’anni tradizione importante dell’alpinismo trentino, si apre al futuro e, senza abbandonare il suo stretto legame con l’ambiente di origine, guarda ad un panorama alpinistico più ampio, con l’ambizione di diventare un riconoscimento di riferimento a livello nazionale.
Questa evoluzione del premio nasce dalla collaborazione tra Sosat e Club Alpino Accademico, che ha messo a disposizione della Commissione giudicatrice del Premio l’esperienza dei membri della propria Commissione Tecnica.
Premiate quest’anno una famiglia trentina, composta da Caterina Mazzalai, dal fratello Riccardo e dal figlio di questo Elio, e una famiglia veneta, composta da Sara Avoscan e Omar Genuin. I due gruppi famigliari si sono distinti per la pratica di un alpinismo in linea con i principi fondanti della SOSAT, amicizia, solidarietà, rispetto per l’ambiente e sono state considerate un esempio importante di come alpinismo e legami familiari possano convivere e arricchirsi reciprocamente.
La serata, condotta dalla giornalista Fausta Slanzi, ha visto l’intervento del Sindaco di Trento Franco Ianeselli, del Presidente del Trentofilmfestival Mauro Leveghi, del Presidente del CAAI Gruppo Orientale Francesco Leardi oltre che del Presidente della Sosat Luciano Ferrari.
L’attore Renzo Fracalossi ha declamato un originale ritratto delle due famiglie premiate.
SARA AVOSCAN di Falcade (BL) con un passato di forte arrampicatrice sportiva (ha vinto anche la Coppa Italia nel 2010) si dedica da anni ad un alpinismo di altissimo livello soprattutto in Dolomiti, spesso in cordata con il marito OMAR GENUIN, fortissimo alpinista e sciatore, allenatore e Accademico del CAI.
CATERINA MAZZALAI è una delle più forti alpiniste trentine in attività, istruttrice della Scuola Graffer e già Presidente della Sezione SAT di Ravina. RICCARDO MAZZALAI in tantissimi anni di alpinismo ad alto livello con grande entusiasmo ha avvicinato alla scalata molti giovani, a cominciare dalla sorella Caterina per finire poi con il figlio ELIO MAZZALAI, giovane promettente alpinista del gruppo familiare.
Un pubblico attento di appassionati ha gremito la sala e seguito con attenzione la manifestazione, allietata anche dagli interventi musicali del maestro Claudio Valdagnini e dalla soprano Victoria Burneo Sanchez.
Una serata ufficiale ma vissuta in amicizia e ottimamente organizzata dalla Sosat.
MIRANO 14 aprile 2024 – Convegno di primavera del Gruppo Orientale
Testo e foto di A. Rampini - Le foto della mostra sono dell'archivio F. Leardi, le panoramiche sono di S. Mazzani
Numerosa presenza di soci, ospiti e pubblico all’incontro organizzato dalla Presidenza di Gruppo in collaborazione con la Scuola di Alpinismo A. Leonardo del CAI di Mirano, che ha festeggiato con noi il quarantennale della sua fondazione con questo importante e ben riuscito impegno organizzativo.
Molto caratteristica la location, presso il Teatro di Villa Belvedere, al centro di un ampio parco cittadino.
La mattinata è stata dedicata all’incontro con i soci con una fitta scaletta di argomenti di interesse della nostra Sezione Nazionale e del Gruppo. E’ stato presentato il nuovo socio ammesso quest’anno, Nicolò Geremia, giovane bellunese dal brillante curriculum e dalle potenzialità di alto livello. Infine Silvio Agostini, con una narrazione estremamente coinvolgente, ha presentato il suo libro “Gli imprudenti”.
Dopo il pranzo sociale, il pomeriggio è stato dedicato ad un approfondimento culturale e storico sulla figura di Emilio Comici inquadrata nel periodo storico del “sesto grado”. Ricordiamo che Comici fu Accademico e segnò una svolta importante nell’evoluzione dell’arrampicata introducendo concetti per allora nuovi o comunque non diffusi, quali l’aspetto sportivo e l’allenamento sistematico. Rimase comunque una personalità dai sentimenti profondi e spesso tormentati, la cui complessa figura è stata indagata con l’aiuto di documentazione originale e mai pubblicata, fornita in buona parte da Livio Fabjan, figlio di Giordano Bruno Fabjan, Accademico e compagno di Comici in diverse scalate. Altri importanti contributi sono stati portati dal regista Marco Calabrese con il film “Sulla via della goccia d’acqua”, dagli studiosi/narratori Mirco Gasparetto, caporedattore della rivista “Le Alpi Venete”, e Mario Busana, docente di scienze naturali, e da Davide Melchiori, docente e divulgatore di cultura classica. Conclude l’intenso pomeriggio l’Accademico Stefano Zaleri “Calicetto” con una carrellata di foto e impressioni da una sua ripetizione di una delle vie più famose e meno ripetute di Comici, la Direttissima alla Nord-Ovest del Civetta. Numeroso il pubblico esterno presente a questa seconda parte del Convegno.
In occasione del Convegno è stata allestita una mostra su Comici con attrezzatura, abiti originali e altri cimeli del grande scalatore e bellissime foto ad opera di Manrico Dell’Agnola.
Il CAAI ringrazia i relatori, la Sezione di Mirano e la Scuola di Alpinismo A. Leonardi per l’ottima organizzazione logistica, il Comune di Mirano e la Città di Bassano del Grappa che ha patrocinato la manifestazione.
Convegno primaverile del Gruppo Orientale
MIRANO - 14 aprile 2024
Scarica qui la locandina in formato pdf
SARCA CLIMBING MEET 2024
Il Club Alpino Accademico Italiano Gruppo Orientale organizza un meeting alpinistico in Valle del Sarca nei giorni 10/11/12 Maggio.
All’evento parteciperanno giovani arrampicatori/alpinisti nella fascia di età tra i 18 e 30 anni provenienti da tutto il territorio italiano e proposti dalle scuole di alpinismo del C.A.I.
Saranno presenti Accademici che svolgeranno la funzione di tutor. Serate di contenuto storico, culturale e tecnico completeranno il programma.
LA TRACCIA DI TONI
Giovedì 11 aprile 2024 ore 20.45 presso la Sala Quadrivium – Piazza Santa Marta 2, Genova
Il CLUB ALPINO ACCADEMICO ITALIANO
in collaborazione con la sezione genovese della GIOVANE MONTAGNA e del GISM-GRUPPO ITALIANO SCRITTORI DI MONTAGNA
da' proprio patrocinio alla serata dedicata a Toni Gobbi con la proiezione del film
LA TRACCIA DI TONI prodotto da GRIVEL srl
Giovedì 11 aprile 2024 ore 20.45 presso la Sala Quadrivium – Piazza Santa Marta 2, Genova
Con il patrocinio di REGIONE LIGURIA Assessorato Tempo Libero
Presente in sala Oliviero Gobbi, nipote di Toni e AD di Grivel.
Conduce la serata Guido Papini, Direttore di Giovane Montagna – Rivista di Vita Alpina.
La maggior parte degli appassionati di montagna e di alpinismo ha conosciuto Toni Gobbi e ricorda il suo nome per averlo incontrato sui libri di Walter Bonatti, soprattutto per la prima salita del Pilier d’Angle al Monte Bianco. Oppure per le sue settimane di scialpinismo che proponeva come Guida Alpina.
Ma Toni Gobbi é molto di più. E il film “La traccia di Toni” ce lo farà conoscere come uomo, alpinista e Guida Alpina di grande personalità.
Antonio Gobbi nasce a Pavia nel 1914, ma cresce a Vicenza dove la famiglia, appartenente all’alta borghesia, si sposta quando lui è ancora bambino. Il papà è un affermato avvocato, come da tradizione famigliare. Anche Toni, come viene chiamato da quando arriva in Veneto, si laurea in Giurisprudenza all’Università di Padova nel 1940. Già da giovane si appassiona all’alpinismo frequentando il gruppo vicentino della Giovane Montagna già dagli anni 30. Nel ’38 inizia il servizio militare alla Scuola Allievi Ufficiali di Bassano del Grappa, specialità Alpini. L’Europa si avvia ad un periodo molto burrascoso, scoppia la guerra con l’invasione della Polonia da parte della Germania e nell’aprile del ’40 Toni è assegnato alla Scuola Militare Alpina di Aosta, sottotenente istruttore di alpinismo. Poi anche l’Italia entra in guerra e lui in forza al Battaglione Monte Bianco. Le grandi montagne occidentali lo affascinano e in quegli anni conosce anche Romilda, la figlia dei gestori del Rifugio Pavillon sotto il Colle del Gigante. La funivia che sale al rifugio Torino ancora non esiste, e non c’è ancora neppure il traforo del Bianco che aprirà solo nel 1965.
Nel ’43 Toni e Romilda si sposano e lui decide di stabilirsi a Courmayeur. La passione per la montagna è grande e Toni decide di farne la sua professione, così in quello stesso ’43 diventa Portatore (gli attuali Aspiranti Guida) e nel ’46 consegue il brevetto da Guida Alpina, cui fa seguito un paio di anni dopo il brevetto da Maestro di Sci e di Istruttore delle Guide. Nel contempo apre, nel ’48, un negozio di articoli sportivi per alpinisti e sciatori a Courmayeur che diverrà negli anni sempre più un punto di riferimento per gli alpinisti diretti al Monte Bianco.
Quella di Guida Alpina sarà la sua professione, ma nella sua attività alpinistica personale troviamo uno spirito di tipo accademico, nella ricerca del nuovo e con importanti ascensioni invernali. Già da giovane in Dolomiti aveva compiuto una bella attività, compresa una via nuova sul Monte Pasubio facendo nel contempo delle puntate nelle Alpi Occidentali con salite del Cervino e Monte Rosa. Nel Bianco nel ’43 traccia una via nuova al Pic Gamba e una nuova variante alla Cresta des Hirondelles alle Grandes Jorasses, cresta di cui farà poi la prima salita invernale nel ’48. Un anno dopo realizza la prima invernale della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey e nel ’53 la prima invernale della via Major sulla parete della Brenva al Monte Bianco con Arturo Ottoz.
Dalla fine degli anni ‘40 fa la sua comparsa nell’ambiente del Monte Bianco Walter Bonatti. I due divengono amici, legati da una stima reciproca che li unirà per tutta la vita. Insieme realizzano nel ’57 la prima salita del maestoso Pilier d’Angle del Monte Bianco e nel ’58 sono insieme (Gobbi vice capo spedizione) nella spedizione nazionale italiana al Gasherbrum IV capitanata da Riccardo Cassin. La vetta sarà raggiunta dalla cordata di punta, Bonatti e Mauri, ma l’apporto di Toni sarà determinante per la riuscita dell’impresa.
In precedenza, nel ’57, Toni aveva partecipato ad una spedizione (diretta da Guido Monzino e di cui faceva parte un gruppo di Guide del Cervino) nelle Ande Patagoniche con la prima salita assoluta del Paine Grande.
Ancora insieme a Bonatti fece parte della squadra che nel ’57 realizzò la prima traversata sciistica delle Alpi.
Proprio le traversate di scialpinismo divennero il punto di forza della sua attività professionale di guida, infatti a partire dall’inizio degli anni 50 ideò, con autentica visione imprenditoriale, le “Settimane nazionali sci alpinistiche di Alta Montagna” con tanto di catalogo, un gran lavoro di organizzazione, inaugurando una iniziativa che riscosse negli anni un grande successo.
Toni individuerà tutta una serie di percorsi di durata settimanale lungo l’intero arco alpino e anche fuori di esso (Caucaso con la salita dell’Elbrus nel ‘66 e Groenlandia nel ’67 e ‘69) e su di essi accompagnerà gruppi di clienti per un ventennio, fino al giorno della sua scomparsa, nel 1970, per un incidente di montagna al Sasso Piatto in Dolomiti. Pochi giorni dopo avrebbe dovuto partire con un gruppo di clienti per il Damavand in Iran.
Toni è stato un grande innovatore. Enrico Camanni, Accademico del CAI, giornalista, scrittore e storico dell’alpinismo, dice: “Toni Gobbi ha rinnovato totalmente il mestiere di Guida Alpina, ha portato una cultura che non era quella del montanaro, ma era quella di uno nato a Pavia, cresciuto a Vicenza, che ha studiato all’università, che ha visto tante realtà e tanti ambienti diversi.” E per questo divenne un punto di riferimento per i suoi colleghi in Valle e per l’intera categoria.
Toni Gobbi fu ammesso a far parte del GHM, il Groupe Haute Montagne francese, corrispondente al Club Alpino Accademico Italiano, e analogamente in Inghilterra dell’Alpine Club. In Italia fu dapprima presidente del Comitato Guide Valdostane e poi presidente nazionale delle Guide Alpine e a livello internazionale fu anche uno degli ideatori dell’UIAGM l’Union International des Associations de Guides de Montagnes la federazione che raggruppa le varie associazioni nazionali di guide alpine, con reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali e collaborazione internazionale.
Il film La traccia di Toni, che ha già riscosso notevole successo è firmato dal regista Antonio Bocola ed è prodotto da Grivel srl, ditta di cui Oliviero Gobbi, nipote di Toni, è titolare e Amministratore Delegato. Oliviero Gobbi che è altresì autore e produttore del film sarà presente in sala e si intratterrà con il pubblico al termine della proiezione.
Per un approfondimento della storia di uomo, di alpinista e di guida di Toni Gobbi si rimanda alla lettura di una serie cronologica di articoli, firmati da Oliviero Gobbi, illustrati da belle foto d’epoca e pubblicati sul sito Grivel
Per quanto riguarda Oliviero Gobbi, anche lui alpinista con all’attivo salite come l’Innominata al Bianco o il Cervino in invernale, si rimanda all’intervista di Elio Bonfanti pubblicata da Alessandro Gogna
Ottimizzazione e grafica A. Rampini
MERCANTOUR CLIMBING MEET 15-18 FEBBRAIO 2024
Testo di Serafino Ripamonti
Ottimizzazione a cura di A. Rampini
Organizzare un meeting di scalata è sempre un’impresa epica. Per pensare di farlo su vie di ghiaccio e misto in montagna ci vuole un filo di incoscienza. Per scegliere come destinazione un’area a poche decine di chilometri dal mare come il Mercantour occorre pure una certa dose di follia!
A volte però basta poco per immaginare come fattibili anche i sogni più improbabili e lanciarsi in un nuovo progetto, in barba ai dubbi e alle incertezze.
Questa volta sono stati sufficienti il bell’articolo scritto dall’Accademico Matteo Faganello per l’Annuario 2022 del CAAI e poi la relazione tenuta da lui stesso, assieme ai forti alpinisti nizzardi Stéphane Benoist e Jean Gounand, nel Convegno Nazionale organizzato nel 2022 a Genova dal Gruppo Occidentale.
Poi è arrivato un pranzo al Monte dei Cappuccini durante il quale il socio Serafino Ripamonti, grande appassionato di ravanamenti glaciali, ha lanciato l’idea: “Ragazzi, perché non organizziamo un meeting nel Mercantour?”.
Il presidente del Gruppo Occidentale Fulvio Scotto non se l’è fatto ripetere due volte: “OK, buttiamo giù un progettino e lo condividiamo con il Consiglio Generale del CAAI!”.
Così quel primo stimolo, un poco alla volta, ha cominciato a divenire un minimo comune e poi a moltiplicarsi… Anche il Presidente Generale Mauro Penasa ci ha messo del suo: “Perché limitarsi ad un meeting solo per gli occidentali? Dai, apriamo la partecipazione a tutti gli accademici e anche ai ragazzi dell’Eagle Meet e agli istruttori della scuola CAI!”.
La frittata ormai era fatta. Ben presto la follia e l’entusiasmo hanno contagiato i colleghi accademici che hanno approvato il progetto e pure il CAI Centrale, resosi disponibile a sostenere i costi di vitto e alloggio dei partecipanti.
Così è nato l’MCM, acronimo di Mercantour Climbing Meet, ma anche di Minimo Comune Multiplo, ovvero di un momento di incontro e condivisione, un minimo comune, appunto, che però potesse fungere da catalizzatore e moltiplicatore dei sogni, delle idee e delle esperienze di ciascuno.
Ci sono volute tante ore dedicate all’organizzazione e anche qualche notte insonne trascorsa a rimuginare sull’incertezza delle condizioni delle vie di misto laggiù sulle rive del Mediterraneo, in un inverno che di invernale ha davvero ben poco…
Alla fine il D-Day (Dry Day?) è arrivato e, fra il 15 e il 18 febbraio, un gruppone di giovani promesse dell’alpinismo e di diversamente giovani ha potuto assaggiare il sapore salmastro della scalata fra le rocce e il ghiaccio (pochino in realtà) del Mercantour.
Al campo base del Gite d’Etape del Boreon (ottimamente gestito dalla Guida Nicolas Feraud) si sono ritrovati in totale 44 partecipanti di cui 36 italiani (11 dei quali gli Accademici, 4 Aspiranti, 6 ragazzi dell’Eagle Meet e 15 istruttori LPV) e i francesi rappresentanti del Groupe Espoir, guidati da Stéphane Benoist e Jean Gounand, impeccabili padroni di casa. Entrambi si sono resi disponibili per raccontare le loro montagne e fornire tutte le informazioni utili a orientarsi su un terreno decisamente selvaggio. Un “terrain d’aventure” per dirla alla francese, dove soste attrezzate e chiodi in via, anche sugli itinerari più impegnativi, sono merce rara (per non dire introvabile!) e le discese sono spesso altrettanto ingaggiose delle salite.
Stéphane, in particolare, ha messo subito in chiaro che le condizioni erano un po’ quelle che erano, ma che, d’altra parte, nel Mercantour le condizioni sono sempre un po’ quelle che sono e la regola aurea è “adattarsi e improvvisare”…
Spirito che tutti i partecipanti hanno saputo fare proprio, riuscendo a ripetere diversi interessanti itinerari sulle pareti del Pèlago, del Cayre Nègres du Pèlago (Couloir Ben Novice e il Couloir En attendant Godot), del Cayre des Erps, Cime de Juisse (Couloir Yeti), Mount Neiglier (Benoist-Cateland directe ‘89), Cayre Nègre du Mercantour (canale est) e Cayre de Cougourda ove è stata anche aperta una via nuova.
Nel rispetto dell’idea con cui il meeting era stato concepito ogni cordata si è e mossa in autonomia, senza accompagnatori e accompagnati, ma lasciando a ciascuno la responsabilità e la libertà di scegliere obiettivi e compagni in base all’affinità, alla propria esperienza e alle proprie capacità.
Ogni salita e ogni momento trascorsi insieme sono divenuti occasione per ritrovare vecchi amici e conoscerne di nuovi e, come auspicava il nome dato al progetto, per mettere in comune e moltiplicare esperienze e progetti futuri…
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno preso parte e dato senso e valore a questo evento, con il loro spirito di amicizia e condivisione.
Un ringraziamento speciale agli accademici Matteo Faganello, Serafino Ripamonti, Fulvio Scotto e Mauro Penasa, che si sono presi carico dell’organizzazione e del coordinamento.
Grazie, infine, a df Sport Specialist che ha fornito i gilet personalizzati con il logo MCM: un bel ricordo di queste quattro giornate fra le Alpi del Mare.
L'INVERNO DEL GRAN SASSO - Parte prima - Dagli albori al 1980
Storia dell'alpinismo invernale sulla più alta montagna dell'Appennino - di Massimo Marcheggiani
Ottimizzazione e grafica A. Rampini
La più grande montagna dell’Appennino Centrale cambia veste, arriva l’autunno e poi come sempre segue l’inverno che ricopre tutto con la sua coltre immacolata. Masse di neve si accumulano nei valloni, canaloni o pendii e di quando in quando la neve si deposita anche sulle balze delle verticali pareti. La montagna, a volte grazie all’azione del vento, si trasforma in una vera e propria effimera scultura naturale e l’uomo ne subisce il fascino. Per questo, e per altri mille motivi, nasce l’alpinismo invernale.
Dal 1880 al 1900 – Gli albori - Sulle tracce di Corradino e Gaudenzio Sella
L'alpinismo invernale nel gruppo del Gran Sasso non vede il suo inizio con alpinisti del Centro Italia, bensì con due illustri nomi piemontesi: Corradino e Gaudenzio Sella, rampolli di quella grande famiglia Sella tra cui il ben più famoso Quintino che, oltre che ministro delle finanze, fu l'artefice della fondazione del Club Alpino Italiano il 23 ottobre del 1863.
È l'alba del 9 gennaio del 1880 quando i due Sella, accompagnati da Giovanni Acitelli e dal portatore Zaccaria si avventurano, prima di ogni altro, verso la salita invernale della massima vetta dell'Appennino Centrale. Due altri precedenti tentativi il Corradino Sella li aveva tentati invano esattamente un anno prima, nell'inverno del 1879. Non bisogna credere che i Sella facessero la spola Piemonte/Gran Sasso ogni volta: in quegli anni erano viaggi interminabili; invece, i rampolli Sella vivevano a Roma in casa dello zio Quintino, iscritti alla facoltà di ingegneria.
Dopo un interminabile viaggio Roma-Terni in treno, Terni-L'Aquila in diligenza, L'Aquila-Assergi con un'altra vettura i due cugini trovano da dormire e reclutano la “guida” Giovanni Acitelli e il portatore Zaccaria. All'una e mezza di notte si incamminano e all'alba raggiungono il Passo della Portella con neve stabile e una temperatura accettabile. Scendono nel sottostante Campo Pericoli e si dirigono alla volta del Corno Grande. Risalendo il ripido pendio verso la Sella del Brecciaio trovano opportuno legarsi (i due Sella) con una corda di manila da 25 metri invitando le due “guide” a stare nel mezzo e aggrapparsi alla corda in caso di necessità. Il solo che avesse una sottospecie di ramponi era il Corradino che dovette gradinare per l'intero pendio con il resto della comitiva attaccato all’ unica corda. Una volta raggiunta la sella le due “guide” molto spaventate dalla situazione preferirono rinunciare ad accompagnare i loro facoltosi clienti che, ben felici della loro rinuncia, continuarono da soli l'ascensione. Seguendo quella che è oggi la normale, alle 11 e 30 raggiunsero più agevolmente e velocemente la cima del Corno Grande. I due rimasero incantati dalla magnificenza del panorama: l'immensa distesa di Campo Imperatore, i dirupi del versante Nord, la vista dell'elegante Corno Piccolo ma prima di ogni altra cosa la inaspettata vista del mare Adriatico, che da nessun'altra montagna i due avevano mai potuto scorgere. Una relazione dei Sella suscitò inevitabilmente il giusto clamore, soprattutto negli ambienti romani e abruzzesi. Oltre i dettagli tecnici i cugini piemontesi sottolinearono la inadeguatezza delle “guide cosiddette” abruzzesi che giustamente si piccarono del giudizio negativo, ma va detto che in effetti gli Acitelli e altri abruzzesi erano sì conoscitori della montagna, ma il loro livello tecnico era praticamente nullo.
L'impresa dei Sella non fu solo “sportiva” dal momento che gli ambienti alpinistici del Centro Italia ne ebbero un effetto culturalmente positivo, risvegliandosi da un torpore sul quale erano adagiati praticando un alpinismo tendente più all'escursionismo estivo e tecnicamente relativamente facile. Maturò così una ricerca più intraprendente volta ad affrontare coraggiosamente salite più impegnative. La prima reazione fu la presa di coscienza che un rifugio sarebbe stato più che necessario, ed essendo la sezione romana la più “ricca” fu questa a finanziare la costruzione del primo rifugio sul Gran Sasso, che vide la inaugurazione il 16 settembre del 1886 intitolato a Giuseppe Garibaldi. Il Rifugio, costruito nella grande valle di Campo Pericoli, fu in seguito base operativa soprattutto per le “guide” abruzzesi.
L'8 dicembre del 1888 i romani Abbate, Pascarella, Stauffer, Tognini ed Ugolini con la guida Giovanni Acitelli compirono la seconda salita invernale del Corno Grande seguendo lo stesso itinerario dei Sella. Tre anni dopo seguì una terza salita invernale, esattamente il 5 aprile del 1891. Una cordata composta dai due torinesi Demaison e Manaira, il genovese Risso e Broglio di Verbano sicuramente avvezzi ad un alpinismo più d'avventura, salirono di nuovo i 2912 m della vetta massima del Corno Grande ma senza l'ausilio di guide, a dimostrazione che al nord si stava senza dubbio un passo avanti dal punto di vista tecnico. I quattro si trovavano a Roma per ben altri motivi, e approfittando della conoscenza dell'allora presidente del CAI capitolino, riuscirono a rimediare il materiale necessario. Raggiunta Assergi a notte fonda raggiungono il passo della portella, scendono nella conca di Campo Pericoli e successivamente a giorno fatto e contrariamente ai loro predecessori salgono in vetta lungo la cresta sud-ovest, itinerario senza dubbio più difficile (o meno facile) della via normale. Da notare che le salite invernali non si rifacevano, come succede oggi, fiscalmente all'inverno da calendario (21 dicembre-21 marzo) bensì alle condizioni della montagna innevata. Vediamo così che la salita delle montagne d'inverno in centro Italia diventa, come al nord, quasi un “dovere” alpinistico. Il Gran Sasso è montagna diversa dal resto dell'appennino, non è solo la più alta, ma presenta molteplicità di vette, versanti, grandi dislivelli ed esteticamente non ha confronto alcuno con il restante appennino. Era ed è ancora oggi la Montagna più ambita dagli alpinisti del centro Italia.
Salito ormai più volte il Corno Grande, l'attenzione si rivolge inevitabilmente al Corno Piccolo, dalle forme molto più ardite e che risulta essere il problema per eccellenza. La prima salita nella stagione invernale avviene nel 1893. Il 7 febbraio la comitiva composta dall'infaticabile Enrico Abbate, E. Gavini, O. Gualerzi, accompagnati dalla solita guida Giovanni Acitelli ed un portatore, raggiunge il rifugio Garibaldi. A notte inoltrata si avventurano per primi sul versante meridionale arrivando in vetta nel pomeriggio inoltrato su un percorso non molto chiaro (presumibilmente l'attuale via normale da sud). Restano in vetta una manciata di minuti poiché la successiva discesa non è affatto scontata visto che avviene quasi completamente di notte alla luce di lanterne a petrolio. La comitiva, infatti, raggiunge di nuovo il rifugio intorno alle 23, dopo quasi 20 ore di faticosa attività per scendere il giorno successivo ad Assergi.
Una importante salita, anche se tecnicamente semplice fu la traversata della montagna da nord a sud. Concepire una “traversata” nel 1895 fu un'idea senza dubbio all'avanguardia: artefici furono la solita Guida G. Acitelli con O. Gualerzi e E. Scifoni. Il gruppetto preparò minuziosamente “l'impresa”: si portarono al rifugio Garibaldi e qui lasciarono provviste nel caso di eventuali necessità. Ridiscesero la sottostante Valle Maone e raggiunsero Pietracamela, dove sostarono un intero giorno per riposare. Alle 2,30 di notte del 23 marzo lasciarono il piccolo villaggio posto a 1030 m e raggiunsero prima l'Arapietra a quota 1650m. Saliti poi lungo la larga cresta est raggiunsero quello che oggi viene comunemente chiamato “la Madonnina” a 2030 m e da qui, scalinando superarono il ripidissimo ingresso nel vallone delle Cornacchie (oggi Passo delle Scalette) raggiungendo il ghiacciaio del Calderone. Da questo, seguendo presumibilmente la via percorsa circa 200 anni prima da Orazio Delfico, raggiunsero per primi in inverno la Vetta Orientale a 2903m intorno alle ore 12. Scesi rapidamente di nuovo al Calderone, lo risalirono sul suo fianco sinistro fino in vetta all'Occidentale (2912m). Probabilmente il gruppetto era ottimamente allenato visto che, dopo aver sceso la cresta sud-est, alle 16 raggiunse il Rifugio Garibaldi e dopo una breve pausa la sera stessa raggiunse Assergi a 870 m. Dal punto di vista tecnico niente di nuovo, ma la performance fisica fu eccezionale visti i circa 4000 metri di dislivello superati tra salite e discese tanto che l'impresa venne celebrata sulla Rivista Mensile del CAI nell'agosto del 1895. La figura di Giovanni Acitelli, definita “presunta guida” dai Sella non molti anni prima, grazie alla sua fama e notorietà diventa leggendaria, tanto che diventano guide anche i suoi due figli, Berardino e Domenico.
Dal 1900 al 1915 – Inizia la frequentazione dei senza guida
Il XIX secolo si chiude in relativa sordina. L'Abruzzo, grazie alla sua più grande montagna, vede quasi con sorpresa un turismo alpinistico non più “casareccio” ma, grazie alle relazioni dei Sella, anche se sporadicamente, un interesse in crescendo da parte di alpinisti del nord che scendono al sud per conoscere questa montagna da cui “si vede il mare”. Questo scambio culturale tra nord e centro Italia porta con sé innovazioni “sportive”. Se da una parte vediamo la tecnica alpinistica crescere di anno in anno, di contro lo stile di scalare senza guide crea un danno professionale a chi aveva puntato (gli Acitelli e non solo) a questa professione come alternativa all'essere pastore, contadino o boscaiolo. Le risorse lavorative nelle zone montane appenniniche non davano certo grandi opportunità. Non ultimo, la costruzione del rifugio Duca degli Abruzzi nel 1908 sulla cresta del monte Aquila, a differenza del Garibaldi che d'inverno veniva letteralmente sommerso dalla neve, faciliterà ancora di più l'approccio al Corno Grande così come la frequentazione dei “senza guide”. Infatti, con o senza guide partendo dal “Duca” nel 1910 fu tentata una salita al Corno Piccolo, l'anno successivo fu salito in prima invernale l'odierno Canalone Bissolati, ancora nel dicembre del 1912 si vide la salita della parete sud del Corno Grande presumibilmente lungo l'attuale Direttissima e nel 1914 fu effettuato il primo tentativo di salita alla vetta massima con gli sci. A proposito dello sci un grande contributo alla ricerca di nuove salite fu dato dal conte Aldo Bonacossa, che da grande appassionato dello sci come dell'arrampicata portò ad un ulteriore ribalta il Gran Sasso cominciando proprio con la prima salita in sci del Corno Grande.
A proposito di Bonacossa, nato a Vigevano (Pavia), va sottolineata altresì la sua attività innovativa su roccia quando insieme ad Enrico Jannetta apre diverse vie nuove sul Corno Piccolo, tra cui la bellissima cresta nord. La continua presenza al Gran Sasso del “conte” fu di grande stimolo, e fece scalpore la salita con il “Fortissimo” Giusto Gervasutti quando nell'ottobre del '34 aprirono lo spigolo sud alla Punta dei Due con un passaggio di 6°grado che resterà per anni il più duro dell'intera montagna. Il conte Bonacossa in seguito, per i suoi meriti alpinistici divenne Accademico del CAI, e ne fu anche presidente generale.
Le sezioni CAI di L'Aquila e di Roma non stettero certo a guardare, rocciatori e sciatori ebbero una crescita tecnica notevole, colmando in parte il gap con gli stessi ambienti alpini. Il fermento fu tale che in seguito (nel 1925) Ernesto Sivitilli, medico condotto di Pietracamela oltre che valido scalatore, creò il gruppo alpinistico “Aquilotti del Gran Sasso” ancora prima dei più famosi Ragni di Lecco o degli Scoiattoli di Cortina.
Dal 1915 al 1942 – Il periodo tra le due Guerre e la tragica epopea della cordata Cambi-Cichetti
Dal 1915 al 1918 la mortale Prima guerra mondiale mette a tacere gli eventi alpinistici. Non succede nulla di importante per diversi anni, fino a quando una terribile tragedia sconvolge l'ambiente alpinistico centro italiano e soprattutto romano. Due ragazzi, poco più che ventenni ma già tra i più promettenti scalatori in seno alla sezione romana del CAI, partono come era normale in corriera dalla capitale arrivando ad Assergi il giorno stesso del funerale della nota guida alpina Giovanni Acitelli. Sono Mario Cambi e Paolo Cichetti. L'inverno in corso (1928/1929) verrà censito come uno dei più freddi e nevosi del secolo. È l'8 febbraio quando i due si avviano verso la montagna già abbondantemente coperta di neve. Nonostante una meteo non particolarmente favorevole risalgono il lungo pendio fino a raggiungere il Passo della Portella. Scesi a Campo Pericoli raggiungono il rifugio Garibaldi trovandolo come sempre d'inverno semisommerso dalla neve, trovando oltretutto la porta aperta. L'interno è ovviamente invaso dalla neve, non trovano la pala in dotazione al rifugio e non riescono quindi a liberare la porta, il camino intasato dalla neve non funziona e perciò niente fuoco. Passano la notte come se stessero all'aperto patendo il freddo intenso. È giorno avanzato quando si avviano lungo i pendii colmi di neve verso la Sella dei due Corni superando il Passo del Cannone. Nonostante il forte ritardo sulla tabella di marcia Cambi e Cichetti non demordono dal loro progetto della prima invernale alla cresta Chiaraviglio-Berthelet. Questa, facile d'estate, è letteralmente trasformata e, nonostante ciò, attaccano la via trovandola difficilissima e penosa data la già evidente stanchezza del lungo avvicinamento. I due giovani scalatori stanno inconsciamente inanellando errori su errori. Perdono uno zaino che cade nel sottostante Vallone delle Cornacchie, Cambi si ritrova non sappiamo come senza guanti ma decisi a tutto continuano, penosamente e lentamente verso la vetta. Soltanto poco prima del tramonto si rendono conto che non ce la faranno mai a toccare la cima della montagna, sono ancora troppo lontani e finalmente si arrendono. È notte quando raggiungono la Sella dei due Corni. Oggi ci chiediamo perché, invece che tornare al lontanissimo Garibaldi, già stanchi e mezzi congelati, non siano scesi per il facile Vallone delle Cornacchie e da qui, tutto in discesa e senza difficoltà alcuna raggiungere in meno di due ore l'albergo in costruzione sulla cresta dell'Arapietra, passarvi la notte e sempre facilmente raggiungere poi Pietracamela.
No! Invece dopo aver cercato e recuperato lo zaino perso risalgono faticosamente al Passo del Cannone, attraversano la Conca degli Invalidi e quasi all'alba arrivano stremati al Garibaldi. Tutto con la neve oltre le ginocchia. Entrano, tolgono gli scarponi e realizzano ambedue di avere avanzati stati di congelamento ai piedi e Cambi ad una mano. È il 10 febbraio e restano fermi perché non riescono a calzare gli scarponi e fuori si è scatenata una tormenta accumulando neve su neve. Porta aperta, niente fuoco, cibo ormai agli sgoccioli. L'11 febbraio non cambia nulla e stanno ancora fermi, ormai senza cibo né acqua, infreddoliti fino alle ossa. Il 12 non hanno più alternativa se non calzare dolorosamente gli scarponi, scavare con le mani un pertugio per uscire dal rifugio ormai sommerso dalla neve e tentare disperatamente di scendere a Pietracamela. La marcia è penosa oltre ogni limite, Mario Cambi non ce la fa più, si arrende, si ferma e muore di stenti tra le braccia del suo amico. Paolo Cichetti non può fare altro che provare a salvarsi, continua la sua disperata discesa ma è ormai alla fine di ogni sua più piccola risorsa fisica. Crolla nella neve fonda a soli due chilometri dal piccolo paese e qui esala il suo ultimo respiro.
Le ricerche dei due sventurati ragazzi si avviano quanto prima ma senza esito. Paolo Cichetti viene ritrovato il 20 febbraio. Il corpo di Mario Cambi verrà ritrovato, molto più in alto soltanto nel mese di aprile. La ricostruzione di questo primo, tragico e drammatico evento si è resa possibile grazie ad alcuni scritti che i due ragazzi hanno lasciato nel rifugio Garibaldi, scritti che fanno pensare avessero ormai sentore della loro imminente fine.
Dopo la tragica fine dei due giovani Cambi e Cichetti, non ci furono salite invernali per diversi anni. Unica eccezione fu quella di Ernesto Sivitilli con De Carolis, Costantini e Fondaconi che da Pietracamela salirono il Picco dei Caprai, sulla sponda sinistra orografica della Valle Maone, l'8 dicembre del 1929 , “prima invernale alpinistica” di una certa rilevanza dalla fine della Prima guerra mondiale al 1943. Negli anni di mezzo, grazie alla costruzione della prima funivia nel 1934 che da Assergi portava a Campo Imperatore, ci fu esclusivamente una ricerca sciistica sulle montagne del Gran Sasso. Furono saliti per la prima volta il monte Prena, il monte Brancastello, il San Franco, il Cefalone e furono compiute alcune interessanti traversate, ma con valore tecnico alpinistico praticamente nullo. Forse la tragedia dei due romani aveva lasciato un pessimo ricordo e non ultimo una disgraziata Seconda guerra mondiale aveva messo in ginocchio l'Italia intera, con milioni di morti e città devastate da bombardamenti. L'alpinismo, con la sua potenziale pericolosità, probabilmente era l'ultimo dei pensieri degli scalatori.
Dal 1943 al 1963 – Venti anni di intensa attività
Il primo a rimettere le mani sulle pareti del Gran Sasso, d'estate e d'inverno, fu Andrea Bafile. Nato a L'Aquila nel 1923, oltre ad aver effettuato importanti salite su roccia al Corno Grande e al Corno Piccolo, Bafile dal 1943 si dedicò in maniera sistematica alla pratica invernale. Non realizzò niente di particolarmente importante ma salì con compagni diversi molte delle vie classiche di quegli anni; la via Gualerzi-Acitelli alla vetta Centrale, la cresta sud-est del Torrione Cambi (intitolato a Mario Cambi di cui sopra), la via Chiaraviglio-Berthelet al Corno Piccolo (tentata appunto invano da Cambi e Cichetti), lo spigolo sud-sud est del Corno Grande ed altre salite ancora. Fu senza dubbio un anticipatore di quella che sarebbe diventata negli anni a venire un'attività perseguita dai più intraprendenti scalatori della seguente generazione ed è riconosciuto come un valido caposcuola di un alpinismo poliedrico e tecnicamente avanzato. Anche alcuni romani ripresero in mano le scalate invernali: nel 1953 G. Malagodi, L. Camponeschi e G. Bonini compirono la prima invernale della cresta est nord est della vetta Occidentale mentre pochi giorni dopo, era il 12 dicembre, S. Bastianello e S. De Simoni ripeterono lo stesso itinerario ma con una variante d'attacco diretta.
Verso la fine degli anni 40, all'interno della sezione capitolina del CAI, poco più di una manciata di studenti universitari chiede e ottiene dal Consiglio Direttivo di potersi costituire in Sottosezione Universitaria per svolgere in maniera autonoma un’attività alpinistica di stampo tecnico avanzato. Il nefasto ventennio del fascismo e la stupida guerra da questo voluta sono ormai alle spalle, un'aria nuova comincia a respirarsi e la neonata SUCAI diventa il motore pulsante della sezione romana, così distante dalla catena alpina e con una tradizione alpinistica ancora molto scarsa. I giovani sucaini diventano loro malgrado un veicolo sportivo/culturale di prim'ordine, la sezione ne ha benefici così come le altre realtà alpinistiche del centro Italia.
Si comincia a parlare di alpinismo moderno anche in Appennino. Informazioni e rare incursioni sulle lontane Alpi portano ad un confronto con l'alpinismo del 6° grado, con l'alpinismo di grande avventura e dove l'alpinismo invernale presuppone “un cammino della sofferenza”, parafrasando Gian Piero Motti nella sua Storia dell'Alpinismo. Le “piccole” montagne appenniniche vengono viste con occhi diversi, c'è bisogno di un concetto nuovo di esplorazione e i giovani sucaini ne sono, dalla seconda metà degli anni '40, i maggiori protagonisti. Roma è città grande, tra i due/ tre milioni di abitanti è facile trovare più scalatori che non in piccole città come L'Aquila, Teramo o addirittura in piccoli paesi come possono essere Assergi o Pietracamela. Tra i tanti nella sezione CAI romana di bravi e intraprendenti ce ne sono. Va aggiunto che spesso tra i tanti è presente una discreta borghesia, quindi una disponibilità economica che permette lunghi viaggi e permanenze sulle Alpi con realizzazioni e incontri/confronti con alpinisti di altre culture. L'Appennino Centrale è una lunga e articolata catena di montagne, ma per lo più troviamo “grandi colline” con scarse possibilità di trovare pareti da scalare; la dovuta eccezione è data dal Gran Sasso che come già visto e letto offre pareti in quantità, grandi dislivelli e roccia su alcune pareti di primissima qualità. Anche i monti Sibillini offrono pareti ma non reggono certo il confronto con il Gran Sasso, così come i monti Reatini, il gruppo del Velino/Sirente e così via. Il Gran Sasso è il riferimento principale.
Nonostante tutto l'atavico ritardo rispetto allo sviluppo alpinistico estivo o invernale che fosse sulle Alpi, non lo si poteva certo negare. Probabilmente il concetto che l'alpinismo in Appennino fosse di serie B portava ad una visione riduttiva del proprio operato, ma i tempi dovevano maturare, bisognava “fare” per potersi mettere al passo con i “bravi” del nord. Grazie alla scossa che il bravo Andrea Bafile aveva dato, i sucaini romani diventano lentamente i principali protagonisti di un alpinismo tecnicamente più avanzato. Nel marzo del 1957 sembra che i romani si scatenino: Silvio Jovane, Luigi Mario e l'abruzzese Lino D'Angelo compirono la prima invernale della “via delle Spalle” il 16 del mese; il giorno dopo Franco Alletto, Enrico Leone e F. Della Valle salirono primi in inverno il lungo canalone Herron/Franchetti sulla parete est del Pizzo Intermesoli; il giorno dopo ancora, siamo al 18 marzo, G. Bulferi ed E. Mercurio salirono la via “Abbate/Acitelli” sulla parete nord del Corno Piccolo; il 19 Franco Cravino e F. Dupré compirono la prima traversata invernale delle tre vette del Corno Grande. Cravino con altri compagni aveva già salito giorni prima la via “Franchi/Terigi” al monte Corvo. Due abruzzesi di Pescara, Luigi Barbuscia e S. Lucchesi non stettero certo a guardare e salirono per primi d'inverno la lunga “cresta nord-est” del Corno Piccolo. I romani e pochi altri si erano scatenati! Nel mese di gennaio del 1958 continua la corsa alle prime invernale ed ancora i romani della SUCAI risultano esserne i protagonisti. Luigi “Gigi” Mario e Silvio Jovane salirono la via “Jannetta-Bonacossa” sulle Spalle del Corno Piccolo; E. Leone e Panegrossi il “canalone Jacobucci” all'Intermesoli mentre C.A. Pinelli, M. Lopriore e G. Macola salgono il sinuoso canale “Sivitilli” alla prima Spalla. Pinelli sarà il principale salitore delle vie dette “grandes courses”, la sua mentalità più “occidentale” lo porta appunto a cercare quegli itinerari meno tecnici ma di più grande respiro di cui il Gran Sasso non è certo avaro.
“...Lo scorso anno furono compiute le prime salite invernali delle creste nord-est e ovest e della parete nord del Corno Piccolo oltre la est del Pizzo Intermesoli: restava da salire ancora la ripida e articolata parete est del Corno Piccolo; non potevamo rassegnarci a non essere noi abruzzesi di Pietracamela a compierne la prima invernale...” Così scrive Bruno Marsili in “L'ultima prima, Aquilotti del Gran Sasso” del 1976. Infatti, Bruno Marsili (medico condotto di Pietracamela), Lino D'Angelo (prima guida alpina abruzzese) e Clorindo Narducci degli Aquilotti del Gran Sasso, il 15 febbraio del 1958 compirono la prima invernale assoluta della parete più dolomitica della montagna lungo il” Costolone Divisorio”. I tre abruzzesi probabilmente si sentirono scippati dal protagonismo dei romani e cercarono il giusto riscatto in una “sana” e naturale competizione con i forestieri capitolini.
Grazie alle vedute più ampie di Pinelli si cominciano a buttare occhiate alla più grande parete del Gran Sasso. La lunghissima via Jannetta al Paretone diventa così il problema principale; stando ai principi che la pratica invernale si orientava soprattutto su canali più o meno ripidi e rare vie di roccia “facili”, ecco che la “Jannetta” attira le attenzioni dei più agguerriti. Sparuti tentativi precedenti al '61 non salgono che il facile pendio che porta al “forcellino” comodo spazio che negli anni a seguire diventerà un ottimo punto da bivacco esente da pericoli oggettivi ed avamposto per facilitare la salita di questo lunghissimo itinerario. Il 29 febbraio del '61 i “soliti” romani Pinelli, Jovane, Cravino e Lopriore, stipati come sardine a bordo di una modesta FIAT 600, partono da Roma. Non esiste autostrada e il viaggio lungo la via Salaria toccando Rieti, Antrodoco, Vado di Corno, poi il Passo delle Capannelle, Montorio al Vomano ed infine il minuscolo villaggio di Casale San Nicola sfinirebbe chiunque. Passano metà notte in una stalla di conoscenti e ben prima dell'alba si avviano verso la incombente parete salita per la prima volta 40 anni prima. Risalgono il lungo fosso che termina esattamente contro la parete, da qui facilmente raggiungono il “forcellino” e dopo non molto si legano in due cordate distinte. Il primo sole li trova già poco oltre i due muri più ripidi e impegnativi da dove si obliqua ora lungamente verso destra. L'immane strapiombo della “Farfalla” alla loro sinistra incombe sulle loro teste e devono accelerare visto che ogni tanto qualche pietra o piccole slavine cadono dall'alto. La lunghissima salita non comporta grandi difficoltà, anzi, ma l'isolamento e la grandezza ambientale rendono la scalata a suo modo impegnativa. Franco Cravino in seguito ebbe a scrivere:”... comincio a pensare che questa salita sia infinita, dovrò continuare a salire, salire e salire per il resto della mia vita...” La progressione ha però un buon ritmo e sono ormai in alto quando però il tempo è ormai cambiato ed è minaccioso.
E' tardo pomeriggio quando le due cordate escono finalmente in vetta, uscita complicata però dall'arrivo di una fitta nebbia, vento forte, neve e il buio ormai incipiente. Stanchi e senza visibilità decidono per il bivacco, riescono a montare una tendina e a fatica infilarsi dentro tutti e quattro al riparo del forte vento. Scomodi come sono non chiudono occhio, e quando a notte fonda il vento si è placato e le stelle tornate visibili calzano di nuovo i ramponi e facilmente raggiungono il rifugio Franchetti ovviamente chiuso, continuano l'interminabile discesa nel vallone delle cornacchie ed infine l'agognata FIAT 600. Pochi giorni dopo la salita di Pinelli e compagni, Luigi “Gigi” Mario ed E. Caruso della Sucai di Roma si portano alla base della stessa grande parete. Qui nel buio incontrano due tra i migliori scalatori di Ascoli Piceno: sono Marco Florio e Maurizio Calibani che con i due romani compiono quindi la seconda salita invernale della “Jannetta”. I marchigiani, molto attivi sui monti Sibillini, saranno in seguito l'altro polo del protagonismo sul Gran Sasso sia estivo ma soprattutto invernale quando a pochi anni di distanza apparirà sulle scene la figura di Tiziano Cantalamessa.
Pinelli e Jovane un mese dopo la salita al Paretone si ripeterono con un’altra grande salita di stampo occidentale superando i 1250 metri della via Haas-Acitelli, sull'isolatissimo versante Sud della vetta Orientale. Anche questo bellissimo itinerario, come la via Jannetta, non presenta particolari difficoltà tecniche, ma di nuovo l'isolamento e il lungo avvicinamento lo rendono senza dubbio una “grande course” appenninica da non sottovalutare mai.
La forte cordata di Florio e Calibani, una settimana dopo lo Jannetta, sale la breve ma difficile via di Gervasutti alla Punta dei Due. Vero che la via è relativamente breve e di facile accesso, ma il 6° grado affrontato e superato dimostrò la maturità dei due ascolani, maturità che destabilizzò romani e abruzzesi quando i soliti due Florio e Calibani alzarono e di molto l'asticella delle difficoltà, spingendo in avanti il livello tecnico raggiunto fino ad allora quando nel mese di marzo 1963 attaccarono i 1150 metri della cresta Nord della Vetta Orientale. Come per la via Jannetta al Paretone più di una cordata aveva tentato, invano, di salire il difficile e lungo itinerario. I due ascolani all'alba del 17 marzo si trovarono alla base del lungo camino che supera la prima sezione della cresta. Le condizioni non erano delle migliori, ma la determinazione dei marchigiani non venne meno e con una difficile arrampicata su un misto molto complicato (la roccia non è delle migliori) raggiungono la “Cengia dei Fiori” che chiude il primo terzo della via. Attrezzati con tendina e sacchi piuma bivaccarono al freddo ma comodamente in quanto la cengia offre spazio sufficiente. Il secondo giorno li vide maggiormente impegnati: un fastidioso nevischio e non pericolose piccole slavine aggiunsero ulteriori difficoltà alla lunga scalata fatta di misto, assenza di sole, rocce a volte friabili e diversi muri verticali. Nel tardo pomeriggio raggiunsero il termine della cresta, intersecando quella che oggi è la ferrata Ricci e dalla quale si scende al rifugio Franchetti (costruito solo due anni prima) e da qui ai Prati di Tivo senza difficoltà alcuna. Una salita invernale così difficile non era mai stata portata a termine e i due ascolani dettero prova di una avanzata maturità. Questo tipo di evento non poteva che stimolare ulteriori tentativi e realizzazioni sulla grande montagna appenninica; infatti, già l'anno seguente si ebbero due salite tecnicamente impegnative: la vetta massima del Corno Grande viene raggiunta lungo la ancora inviolata parete est. Questa viene salita per la prima volta nel gennaio del 1964. Dopo infruttuosi tentativi di cordate capitoline, la articolata via SUCAI viene vinta da C.A. Pinelli e M. Lopriore. La via, con i suoi lunghi traversi e risalti appoggiati presenta numerose croste di ghiaccio. Lopriore supera queste difficili sezioni con decisione e padronanza tali che Pinelli ebbe a definire “Ottima tecnica di ghiaccio” la progressione del suo compagno di cordata, che in seguito scrisse sul numero unico della SUCAI 1957/1967 “... parto io e trovo le placche fortunatamente pulite, ma nelle fessure e appoggi c'è ghiaccio duro, e più mi avvicino al nevaio di uscita e più questo aumenta. Diventa sempre più difficile evitarlo, finché arrivo sotto il nevaio e non trovo nessun punto di sosta. Da sotto la neve ripida scopro una lastra di ghiaccio duro che copre ogni cosa; mi scavo a fatica un terrazzino con la piccozza e creo una scomodissima sosta dalla quale recupero Betto a spalla...”. Il mese successivo, esattamente l'11 febbraio altri due romani sono all'opera: la verticale parete est del Corno Piccolo viene superata per la seconda volta da M. Caparelli e R. Ferrante lungo il “Camino a nord della vetta”. Certo, il confronto con quanto succedeva sulle Alpi non poteva avere storia; un esempio per tutti: nel gennaio del 1963 un “certo” Walter Bonatti aveva salito la mitica via Cassin alla parete nord delle Grandes Jorasses, che con i suoi 1200 metri di grandi difficoltà aveva messo un grande punto fermo alla pratica dell'alpinismo invernale. Sicuramente le notizie viaggiavano rapidamente, probabilmente anche in centro Italia si cercava di emulare il mitico Walter accontentandosi ovviamente di quanto si riusciva a concludere facendo i conti con il forte ritardo culturale e tecnico che si aveva. Nonostante ciò, si nota però una crescita indubbia anche sulle modeste montagne appenniniche. La scarsità numerica di scalate invernali fino agli anni '60 e le basse difficoltà tecniche allora affrontate venivano pian piano superate. Florio e Calibani avevano senz'altro scosso l'ambiente, la cresta nord dell'Orientale aveva messo un deciso punto fermo.
Dal 1964 al 1970 – L’epopea del Monte Camicia
I romani, molto più numerosi degli abruzzesi o marchigiani, erano i maggiori risolutori dei problemi invernali. Nel '65 quattro romani, Pinelli, Lopriore, Cravino e S. Bragantini salgono in prima assoluta ed invernale una via all'estrema sinistra della grande parete nord del Monte Camicia, esattamente una cresta esposta a nord del Dente del Lupo con un forte principio esplorativo. L'inverno dell'anno successivo ancora due romani, S. Paternò e R. Triglia la via “Ciai-Pasquali” alla punta dei due ma dal versante est. Nello stesso anno al Gran Sasso si inaugura la posa in opera del bivacco Bafile, che in seguito sarà astutamente utilizzato per alcune ascensioni nella stagione invernale.
Arriviamo al 1967, anno davvero importante per l'alpinismo invernale, dove anche se su di un mediocre livello tecnico si contano ben quattro prime invernali. Tutto succede nel mese di marzo, quando, molto probabilmente grazie alle giornate con più ore luce, si hanno più probabilità di evitare freddi bivacchi. Di nuovo i romani: Lopriore, P. Cutolo, P. Cemmi e S. Bragantini salgono lo spigolo sud est del Torrione Cambi, probabilmente approfittando del vicino nuovo bivacco Bafile come appoggio ed evitare il lungo avvicinamento. Era il 5 marzo, e solo due giorni dopo ancora i romani Cravino (attivissimo in quegli anni), G. Steve e Loretta Pasqualotto salgono la “Via della Crepa” di cui Cravino aveva compiuto la prima solitaria. Finalmente due abruzzesi si fanno vivi: Domenico “Mimì” Alessandri con S. Graziosi il 12 dello stesso mese sale la cresta sud est della Vetta Centrale, che attacca direttamente alle spalle del Bafile. Il 15 ancora i sucaini romani all'assalto! G. Steve e due fratelli Bellotti salgono la “via a destra della crepa” sulla verticale parete est del Corno Piccolo mentre il 18 A. Colasanti e L. Caldo salgono la via “Ferrante- Paternò” sempre sulla est. Termina l'inverno con la salita del grande canalone a est del Monte Camicia: N. D'Angelo, G. Brindisi, P. Scatozza, V. e D. Nobilio salgono per la prima volta il lungo itinerario che termina alla Forchetta di Penne, aperto da S. Baroni e D. Cutilli nel '57, chiamato “Il Gravone”, una grande course tipicamente appenninica.
E’ bene ricordare un antefatto: prima di tutte le realizzazioni sopra riportate ci fu un importantissimo tentativo invernale che, se fosse riuscito, avrebbe senza dubbio scosso l'intera comunità alpinistica. La Guida Alpina di Pietracamela Lino D' Angelo con Luigi Muzi il 5 febbraio, con tempo molto buono, si porta alla base della imponente e repulsiva parete nord del Monte Camicia. Come detto precedentemente, questa parete, salita a metà degli anni '30 dagli Aquilotti del Gran Sasso Marsili e Panza, presenta una roccia molto ma molto friabile, con grosse difficoltà nell'infiggere chiodi che facciano stare minimamente sicuri chi la scala e dove un volo potrebbe essere fatale per l'intera cordata. D'inverno, sfruttando buone condizioni di freddo e ghiaccio, la salita può essere per assurdo più facile e sicura. D'Angelo e Muzi, raggiunto il “Fondo della Salsa” alla base della opprimente parete, attaccano dallo zoccolo erboso sfruttando con la piccozza e i ramponi anche l'erba e la terra ghiacciate e con dieci gradi sottozero superano questa chiave d'accesso alla parte più impegnativa, dove la parete si impenna. Superano lingue ghiacciate e brutta roccia affiorante, ma la giornata particolarmente corta li obbliga già ad un primo bivacco non molto sopra lo zoccolo. La progressione è per forza lenta. D'Angelo conduce la cordata e metro dopo metro con la massima attenzione riescono a raggiungere e superare i due piccoli nevai sospesi, a circa due terzi della parte più verticale della parete. Questa, dopo i nevai e altre poche centinaia di metri si abbatte e un relativamente facile canale di circa 300 metri porta in vetta. La scalata dei due abruzzesi è necessariamente lenta e un secondo bivacco è d'obbligo. Come molti sanno, al Gran Sasso non è infrequente l'arrivo improvviso di un forte vento e questo arriva non appena i due alpinisti si sono sistemati nei sacchi piuma. A metà notte la tormenta porta anche la neve. Al mattino la parete è ovviamente ricoperta da neve pesante, la temperatura da -10 è salita a 7/8 gradi sopra lo zero. Scende acqua dalla parete oltre che frequenti piccole slavine e D’Angelo decide necessariamente una ritirata: “...il nostro desiderio di dedicare questa impresa a Gigi Panei (alpinista della provincia reatina cresciuto alpinisticamente in Abruzzo, più volte compagno di Walter Bonatti al Monte Bianco, anche nel tentativo invernale alla Nord del Cervino, poi salita in solitaria da Bonatti) si è sgretolato, come le colonne di ghiaccio che regolarmente precipitano giù verso il Fondo della Salsa. Dopo 12 ore di difficilissima discesa ci ritroviamo sullo zoccolo erboso che poi superiamo di notte. Per me queste sono state le massime difficoltà superate in tutta la mia carriera alpinistica...” Così scrive D'Angelo su “Tentativo invernale al monte Camicia” in “M. Camicia: storia di una montagna” edito da CAI Castelli, TE. Da notare che effettuare corde doppie su quella parete non è impossibile, ma certamente difficilissimo e assai pericoloso. Anche se fu solo un tentativo, di fatto l'asticella delle difficoltà era stata alzata di molto. La scalata incompiuta di D'Angelo e Muzi non passò certo inosservata, nonostante in quegli anni “l'informazione” fosse per forza di cose lenta e relativa. Nell'ambiente centro italiano fu un importante segnale non solo di crescita tecnica, ma di apertura mentale verso una forma di alpinismo di maggiore avventura se confrontato con certe altre salite compiute sullo stesso gruppo montuoso. Tutte hanno il giusto valore, ma c'è una differenza abissale tra salire una parete di 200/300 metri di roccia generalmente buona e una parete di oltre 1000 metri con roccia di dubbia qualità, una parete facilmente raggiungibile oppure una isolata e dall'avvicinamento fortemente complicato. Le differenze ci sono e vanno valutate anche per quello che comporta la difficoltà d'insieme. In questo gli abruzzesi e gli ascolani in alcuni periodi storici dimostrarono, con le dovute eccezioni, indubbiamente una ricerca diversa.
L'alpinismo in centro Italia sotto qualsiasi forma era ormai prassi consolidata. l'Appennino offre terreni di scoperta per tutti i gusti, soprattutto d'inverno quando montagne dai fianchi generalmente “dolci” si trasformano in canali, canalini e di quando in quando in vere e proprie goulottes ghiacciate da salire classicamente con piccozza e ramponi.
Tralasciamo ciò che succede sulle altre montagne appenniniche e torniamo al Gran Sasso.
Come abbiamo visto, la seconda metà degli anni 60 accende i riflettori sulle scalate invernali, attività dove sembrava esserci, e forse c'era effettivamente, una non celata bonaria rivalità tra gli ambienti romani e abruzzesi. Va detto però che, se competizione c'era, è anche vero che spesso alpinisti dei due ambienti si legarono insieme, come per esempio nell'apertura della prima via in assoluto sul grande scudo di roccia del Monolito ad opera di Cravino, Jovane e Lino D'Angelo.
Una nuda e cruda considerazione sullo stato dell'alpinismo invernale fu fatta da Piero Bellotti in un articolo che il sucaino romano scrisse nel 1969 sulla rivista “L'Appennino” del CAÌ di Roma dal titolo “Gli ultimi problemi del Gran Sasso: vie nuove e prime invernali”. In sostanza Bellotti riguardo alle invernali diceva che il livello delle salite era ancora “basso”, del tipo via Jannetta al Paretone, via SUCAI alla Vetta Occidentale o ancora Cresta nord della Vetta Orientale, dove il grado tecnico non andava oltre il classico 4° grado. Unica eccezione il tentativo sul Camicia di D'Angelo e Muzi. Bellotti riconosceva che le tante salite compiute nell'inverno del 67, con un grado tecnico ben più alto, erano per lo più paragonabili a salite estive grazie alla scarsissima presenza della neve. Secondo Belloti ciò era dato da una condizione psicologica e da un atteggiamento di subalternità rispetto gli alpinisti del nord, e per questo si aspettava astutamente la migliore condizione possibile delle pareti di grado superiore: “... in pratica per fare le invernali si aspettava che la parete fosse in condizioni più estive possibile”. P. Bellotti, op. cit.
Probabilmente per mettere in discussione quanto scritto, P. Bellotti con i suoi due fratelli Franco e Paolo il 22 marzo affronta e supera la “Via del Monolito” di 6° grado e A1 superando ogni livello tecnico salito precedentemente, ma con la parete piuttosto carica di neve. La salita dei fratelli Bellotti fu difficile e impegnativa per l'intenso freddo e soprattutto nello zoccolo di avvicinamento, in quanto la via vera e propria, di 150 metri, essendo verticale non poteva certo accumulare troppa neve. Impiegarono comunque 12 ore per uscire con il buio in vetta, ostacolati dal forte vento che nel frattempo si era alzato. La salita del Monolito va vista come uno sdoganamento degli alpinisti del Centro Italia verso la soluzione di grossi problemi invernali.
Dal 1971 al 1980 – Di nuovo la Nord del Monte Camicia. Le invernali si diversificano
Un ulteriore grande merito va dato a tre alpinisti della provincia romana: i tiburtini del CAI di Tivoli Armando Baiocco, Renzo Poggi e Angelino Passariello il 14 febbraio del '71 superano in prima invernale la via “Marco Florio” sulla parete nord del Corno Piccolo. La via, pur non essendo difficile, è però incassata e totalmente priva di sole, e a rendere difficile la salita è l'arrivo di una gelida perturbazione. I tre raggiungono con difficoltà la cresta nord, da cui riscendono in corde doppie, arrivando alla loro auto ai Prati di Tivo solo alle 22 della sera, stanchi ma felici: erano i primi a superare una via di roccia sulla parete nord.
La Vigilia di Natale 1971 gli aquilani Mimì Alessandri e Riccardo Nardis superano la via “Bafile” sullo Sperone Centrale della Vetta Occidentale che presenta una placca di 6° grado praticamente inchiodabile. Alessandri, anche se giunto relativamente tardi all'alpinismo, aveva preso in mano il testimone dell'alpinismo aquilano, distinguendosi tra tutti per intuito e intraprendenza. Soltanto due giorni dopo, è S. Stefano quindi, Alessandri con Roberto Iafrate, (Nardis magari era ancora stanco?) torna all'attacco: i due si portano alla base della parete est della Vetta occidentale per salire la “Diretta Consiglio” ancora per diversi anni la via più difficile dell'intera parete; qui trovano quattro scalatori romani della SUCAI che dopo aver attrezzato i primi due tiri della via il giorno prima e passata la notte al bivacco Bafile, sono già alti in parete. F. Cravino, G. Steve, A. Contini e M. Geri non sono evidentemente veloci, e nel giro di poco si vedono raggiungere dai due aquilani, che risoluti come pochi scalano senza inibizioni. In parete, molto ben assolata, non c'è un solo metro di neve. Le due cordate si scambiano quattro chiacchiere e si dividono; gli abruzzesi tirano dritti lungo la via di Consiglio, mentre i quattro romani raggiunta la molto più facile “via SUCAI” escono lungo questa. Marco Geri su un articolo scrisse poi: “...Ho sete e non c'è neanche una chiazza di neve per dissetarsi! Ma che razza di invernale siamo venuti a fare? … certo, se ora qualcuno mi domandasse se sento di aver compiuto una grande impresa, risponderei di no, direi che ho solo passato due divertenti giorni di festa...” M. Geri, da “Un Natale divertente” da L'Appennino, luglio-agosto 1972.
Il mese di Marzo '72 vede due belle realizzazioni, anche se di stampo diametralmente opposto, e sono due cordate romane le protagoniste: i giovanissimi sucaini Cristiano Delisi, Rys Zaremba e Donatello Amore il 16/17/e18 del mese affrontano e superano una delle salite più ambite; a comando alternato vengono a capo della difficile e verticale via di Gigi Mario: “lo Spigolo a destra della Crepa” ritenuta “la grande via” della parete est del Corno Piccolo e per quegli anni è senza dubbio la scalata più difficile fino allora realizzata. Il fermento nel gruppo SUCAI è chiaramente evidente; sono i maggiori frequentatori del Gran Sasso anche nella stagione meno propizia. Va detto però che i romani sono numericamente più numerosi dei pochi abruzzesi e marchigiani e l'ambiente forse più borghese e universitario fa certamente la differenza. Cinque giorni dopo la fine dello stesso inverno un'altra salita firmata dai romani, ma come dicevo di stampo diametralmente opposto: Pinelli, in compagnia di Gianni Battimelli, Adolfo Contini e il quasi immancabile Franco Cravino (l'anno prima aveva effettuato la prima solitaria della via in questione), supera gli oltre 1200 metri della via aperta dagli Aquilotti del Gran Sasso Sivitilli, Giancola e Trentini nel 1930. Via che si svolge in ambiente grandioso, oltre il già lontano canale Haas-Acitelli che risale una facile cresta per poi entrare in un profondo canale. D'estate non va oltre il terzo grado, ma la lontananza, l'isolamento e il lungo ritorno la fanno una “grande course” di tutto rispetto, a mio avviso maggiore della via Jannetta e dello stesso Haas-Acitelli. Ecco la ricerca che era in atto: da una parte le scalate di alta difficoltà, dall'altra la ricerca con un senso di avventura senza dubbio maggiore. Bisogna considerare che le previsioni meteo di quegli anni erano assolutamente scarse e allora: in un cambio repentino delle condizioni climatiche nonché di scarsa visibilità, una cordata che scende con 3/4 corde doppie, per esempio, dallo Spigolo a Destra della Crepa, una volta alla base torna a casa senza la più piccola difficoltà, né tecnica nè di orientamento. Su una grande via come la “Sivitilli” in zona Paretone l'arrivo di una perturbazione e la possibile scarsa visibilità crea guai a non finire e ci vuole una testa a parte per saperli affrontare. La mentalità occidentalista di Pinelli non era certo una garanzia, ma sicuramente offriva chance in più.
Parlavamo di differenze di mentalità e finalità nelle scelte degli alpinisti. La ricerca delle pure difficoltà sui gradi, oppure le “grandi” scalate d'ambiente, lunghe, isolate e spesso non scevre da difficoltà tecniche. Ribadisco la grandissima differenza tra un modo e l'altro, ed ogni tanto mi rifaccio al banale esempio: nuotare in piscina, o nuotare in mare aperto... Domenico “Mimì” Alessandri nello scegliere il suo alpinismo aveva optato per il mare aperto, e a volte, si sa, il mare può essere mosso e magari con gli squali intorno. Sempre nuoto è ma la differenza è a volte abissale! Quindi “Mimì” decide di voler salire la parete nord del monte Camicia, dove D'Angelo e Muzi non avevano fallito ma erano stati costretti ad una difficilissima ritirata. È il 21 dicembre del 1974 quando con l'aquilano Piergiorgio De Paulis e il romano Carlo Leone raggiunge il Fondo della Sala. De Paulis era molto giovane ma tecnicamente molto efficace, soprattutto su ghiaccio, e “Mimì” lo aveva scelto perché a L'Aquila era il migliore tra i numerosi frequentatori della montagna. Scalano a cordata distesa: in testa “Mimì”, poi Leone in mezzo e De Paulis chiude per ultimo. Superano lo zoccolo erboso e raggiungono le insidiose rocce del Camicia, saldate tra loro da neve e gelo ma pur sempre inaffidabili. Le giornate sono cortissime e bivaccano al primo nevaio. Appena giorno continuano la loro scalata, che vede sempre “Mimì” in testa. Superano altre centinaia di metri quando un urlo lacera l'immenso silenzio della altrettanto immensa parete. “Mimì” è un alpinista verace, molto istintivo e questa istintività, non capendo cosa stia succedendo, gli dice di buttarsi, letteralmente, dietro una crestina di neve e roccia. Forse erano legati in vita o forse indossavano le primissime e scomodissime imbragature, comunque sia buttandosi a corpo morto dietro la crestina “Mimì” riesce a bloccare quello che era un lunghissimo volo di De Paulis che si era portato appresso anche Leone. 40 metri di corda dividevano il capo cordata dal secondo e altri 40 metri dividevano Leone dal terzo. La terribile tensione della corda, con due corpi appesi crea al capo cordata problemi respiratori ma deve resistere e resistere. Seguono urla concitate tra “Mimì” e Leone ma nessuno capisce nessuno. È dopo un tempo infinito che la tensione della corda si allenta e uno stravolto Carlo Leone raggiunge il suo capo cordata. Leone è sotto shock, farfuglia parole sconnesse e tra i singhiozzi dice che De Paulis non rispondeva più, probabilmente morto per il lunghissimo volo e lui ormai allo stremo ha dovuto tagliare la corda. Un silenzio tombale avvolge la drammatica scena. Non possiamo immaginare con che stato d'animo “Mimì” e Leone affrontano un ulteriore gelido bivacco. Al mattino del terzo giorno devono cercare di uscire dalla grande parete, ma Leone è stravolto, non connette e non si sente di continuare la salita. Le insistenze di Alessandri non sortiscono niente, il tempo stringe e così è giocoforza per “Mimi” prendere l’unica decisione possibile, drammatica e rischiosa: uscire da solo dalla infida parete. Lascia quindi a Leone acqua e qualcosa da mangiare e inizia la sua ancora lunga scalata solitaria: “ ...Carlo si accingeva ad aspettare, senza sapere per quanto tempo ancora, da solo sull'immensa parete con la sola speranza che a me andasse tutto bene mentre viveva con angoscia la più dura delle sue esperienze... io fui privilegiato perché le parecchie ore di arrampicata solitaria che seguirono mi consentirono di accantonare la disperazione perché ero concentratissimo ed attento ad arrampicare come non mi era mai capitato in precedenza, mentre i pensieri di Piergiorgio, di mia moglie Antonella e di Carlo nella sua gelida solitudine mi accompagnavano per ricordarmi che tutto ciò che stavo facendo aveva ancora un senso...” Domenico Alessandri, op. cit. Il senso dell’impresa di “Mimì” si materializza il giorno di Natale, quando un elicottero della S.A.R. con a bordo lo stesso Alessandri recuperava tramite il verricello Carlo Leone, mentre una squadra del Soccorso Alpino recuperava la salma di Piergiorgio De Paulis alla base della grande parete del monte Camicia. La prima invernale di un valore altissimo si era così realizzata, ma come ebbe a scrivere ancora Alessandri “La salita fu, sotto il profilo umano ed alpinistico, senza dubbio un fallimento poiché non c'è parete al mondo che valga la vita di un uomo...”
Le cronache invernali riprendono l'inverno successivo, quello del 1975, quando diverse cordate romane realizzano nel mese di gennaio salite di ben altro impegno: M. Geri e E. Menichini salgono i 250 m dello spigolo est-nord-est della vetta occidentale; G. Mallucci, M. Geri e R. Bragantini salgono i 200m della seconda spalla sulla via da loro stessi aperta; D. Amore e L. Gambini salgono i 230 m della Aquilotti 72 ad ovest della seconda spalla. Ancora i romani Geri e F. Antonioli salgono la classica Morandi-Consiglio sempre sulla seconda spalla. Per certi aspetti il livello tecnico trova un momento di stallo scegliendo pareti facilmente abbordabili, di roccia pressoché perfetta e discese senza incognita alcuna. Ancora l'anno seguente il 19 marzo una cordata abruzzese sale la via Alletto-Cravino sulla parete ovest della vetta Orientale: sono Giampiero Di Federico, che sta emergendo come figura di spicco, e M. Mascarucci che impiegarono ben 8 ore per venire a capo dei 300m della fredda parete coperta di vetrato e neve. M. Frezzotti e Antonioli superano la Aquilotti 75 a ovest della seconda spalla. Due giorni prima del Natale '77 P.L. Bini, M. Marcheggiani e G.Picone, tutti e tre al di fuori dell'ambiente CAI romano, salgono il cosiddetto “Camino degli Americani” sulla parete est del Corno Piccolo mentre sulla nord i marchigiani Cotichelli e Mosca salgono la “Gigino Barbizi.
Ancora una tragedia si compie sul massiccio del Gran Sasso quando, giunti al termine della lunga salita della via “Haas-Acitelli” della vetta Orientale, il giovane Stefano Tribioli, che era in compagnia del fratello Bruno e i G. C. Cicconi, partiti da Roma il giorno precedente, inavvertitamente precipita dalla “Forchetta Sivitilli” sul versante opposto della via appena salita. La notizia scuote non poco il mondo alpinistico, soprattutto nella sezione del CAI romana dove i fratelli Tribioli erano molto attivi.
La pratica delle scalate invernali come vediamo non era più “solo per pochi”; anche se pur sempre una minoranza, era consuetudine tra la moltitudine degli scalatori affrontare quasi, e dico quasi, obbligatoriamente le montagne d'inverno. La famosa “lotta con l'Alpe”,così ben definita da Giampiero Motti, rientrava a pieno titolo nell'immaginario degli alpinisti di quegli anni. Sulle Alpi si erano raggiunti livelli neanche confrontabili con quello che succedeva in Appennino, ma lentamente, grazie agli esempi nordici, sia per imitazione o per puro diletto anche in centro Italia la qualità tecnica era costantemente in crescita. Così nel giro di pochi anni si vedrà un notevole balzo avanti nelle realizzazioni invernali. Dagli anni '80 prenderà piede una curiosa tendenza: più sale il livello d'ingaggio con grandi realizzazioni sulle pareti più impegnative del Gran Sasso, meno scalate invernali ci saranno. Vero che l'avvento dell'arrampicata sportiva ha fagocitato ¾ dell'umanità scalante, di fatto però si vedrà un netto calo nella pratica di questa disciplina indubbiamente più impegnativa, fisicamente e mentalmente.
M. Marcheggiani, G. Picone e A. Monti il 6 marzo del '79 salgono la “via del Vecchiaccio” ma non sarà una prima invernale in quanto gli ultimi 15 metri della improteggibile placca terminale sono ricoperti di 10 cm di neve farinosa che impedisce di fatto l'uscita dalla via e costringe a scendere in doppie lungo l'intera via. Ben altra salita sarà invece quella di G.P. Di Federico quando il 19 dello stesso mese sale da solo la “via dei Pulpiti” alla nord della vetta centrale. Questa difficile via, con uno dei primi sesti gradi, rimane costantemente all'ombra, d'inverno così come d'estate. La via ha uno sviluppo relativamente breve ma l'ambiente particolarmente severo e la roccia non proprio eccellente richiesero a Di Federico un impegno globale. Se la salita di Di Federico con la solitaria, con l'isolamento, il ghiaccio, la roccia e il freddo delle pareti nord rappresenta il classico alpinismo nella sua massima espressione, P.L. Bini cerca altre strade: il giovane talento romano (così come lo è l'abruzzese Di Federico) nello stesso inverno sulle assolate placche della seconda spalla sale in velocità, concatenandole, ben tre vie: “Le placche di Manitù”, “Ombre rosse” e “le Placche del Totem”. Bini le sale con R. Bernardi senza mai indossare gli scarponi e né tanto meno i ramponi. Una forma chiaramente e diametralmente opposta alle classiche salite invernali dove la “lotta” con gli elementi avversi dell'inverno fa una chiara differenza. Bini, grande arrampicatore ma poco amante del freddo, seguiva ovviamente l'iter di quasi chiunque scalasse e per questo si cimentava anche d'inverno, ma dove di “inverno”, al di là del calendario e della ovvia neve negli avvicinamenti, c'era ben poco. A conferma di quanto sopra i primi giorni di febbraio del 1980 Bini, M. Marcheggiani e G. Picone salgono la verticalissima e difficile “via Rosy” al Monolito sulla assolata parete est del Corno Piccolo. La salita, oltre ovviamente lo zoccolo di avvicinamento, non presentava la più piccola macchia di neve o ghiaccio. Era sì una prima invernale ma non era certo questa la via da seguire. Prima o poi qualcuno l’avrebbe dimostrato!
Nei dintorni della Punta Corrà
Ascensioni alla Punta Corrà e un ritratto alpinistico-umano di Corradino Rabbi
Testo di Ugo Manera - Foto Archivio Manera
Ottimizzazione e grafica a cura di Alberto Rampini
La Punta Corrà è una elevazione secondaria, spalla della vicina Uia della Gura, posta alla testata della Val Grande di Lanzo. Il nome venne proposto dai primi salitori della bella parete Sud Est a ricordo dello scalatore Giuseppe Corrà, esploratore delle montagne delle Valli di Lanzo travolto, con le guide Meynet e Pellisier, da una scarica di sassi il 29 agosto 1896 sulla Grande Sassiere.
Il suo versante Sud Est è formato da una ripida parete: uno dei gioielli della bellissima testata della Valle Grande. I primi a salire tale parete furono Andrea Mellano e Beppe Tron che tracciarono, il 13 settembre 1959, una via bella e difficile.
Quelle montagne mi conquistarono fin dalla prima volta che le ammirai quando, non ancora alpinista, raggiunsi il Rifugio Daviso con mio padre. Vi ritornai più volte e lì usai per la prima volta piccozza e ramponi per salire il canalone nevoso del Colle Girard. Era l’inizio dell’estate1958.
Divenuto scalatore orientato verso difficoltà elevate, il mio interesse per quell’angolo di montagne non venne meno, anzi ne ero ancora più attratto in quanto era evidente che lì c’era ancora molto da esplorare. Nell’ottobre 1967, con Pietro Giglio, salii al Rifugio Ferreri con l’intento di ripetere la via Mellano-Tron che risultava la via più difficile aperta fino ad allora sulle pareti dell’ampia testata.
Quando fummo sul ghiacciaio e la Corrà ci apparve illuminata dai primi raggi del sole, notai subito che a destra della via, nostro obiettivo, vi era un altro sperone parallelo molto promettente. Proposi seduta stante al mio compagno di tentare l’apertura di una nuova via sul secondo sperone. Una “prima” è sempre più allettante di una ripetizione. Pietro fu d’accordo con me e così ci avviammo su terreno vergine.
Sette ore di entusiasmante scalata ci portarono in vetta alla Punta Corrà. Poi, spinti dalla necessità di sfuggire all’oscurità incombente, scendemmo il più velocemente possibile dal colle Santo Stefano per nevai e detriti.
Un anno dopo ero nuovamente lì in compagnia di Ezio Comba, Gian Piero Motti, Ilio Pivano. Avevamo un obiettivo importante: lo sperone che scende dall’ultima elevazione verso Est della Cresta di Mezzenile, mai salito da nessuno. Fu una bellissima e difficile scalata che ci portò sulla torre innominata cui demmo il nome di Punta Antonio Castagneri.
Negli anni a cavallo tra 1960 e 70 l’interesse di molti scalatori si concentrò sulle ascensioni invernali. Molte vie e pareti importanti non risultavano ancora scalate nella stagione più fredda e la “caccia” a queste prime fungeva da incentivo per chi non temeva freddo, giornate corte ed eventuali gelidi bivacchi in parete. Le pareti del versante Sud-Est della costiera Gura Mezzenile non contavano ascensioni invernali. La loro è una esposizione sfavorevole perché il vento, che spira prevalentemente da nord ovest, anziché pulirle, accumula neve su ogni cengia e rilievo.
La voglia di realizzare qualche invernale in quei luoghi albergava in me da tempo ed all’inizio dell’inverno 1974-1975 mi decisi. Era un debutto d’inverno scarsissimo di neve e la montagna appariva spoglia in ogni dove, valutai che era il momento giusto per la testata della Valle Grande, bisognava andarci al più presto. Trovai disponibilità in Mariangelo Cappellozza, giovane compagno di varie scalate, ed in Corradino Rabbi, grande personaggio dell’alpinismo torinese, sempre pronto per ogni tipo di impresa.
L’obiettivo da me scelto era la via Mellano-Tron della Punta Corrà così nel pomeriggio del 4 gennaio ci trovammo a salire lungo il sentiero che porta al rifugio Ferreri. Di neve proprio non ce n’era, anche le pareti, viste dal basso, apparivano pulite. Per entrare nel rifugio dovemmo però scavare in uno spesso strato di neve accumulata dal vento che ostruiva l’ingresso.
Tali condizioni mi indussero ad una valutazione che poi si rivelò errata. Proposi ai miei due compagni di partire leggerissimi perché con condizioni quasi estive avremmo sicuramente evitato il bivacco. Così facemmo ed al mattino seguente, percorso al buio il lungo avvicinamento, alle prime luci dell’alba eravamo alla base della parete. Data l’esposizione ad est i raggi del primo sole ci raggiunsero presto e noi, senza esitazioni, iniziammo la scalata. Salivo io in testa legato alle due corde ed i miei due compagni seguivano in contemporanea legati ognuno al capo di una corda.
Ci bastarono pochi metri di scalata per scoprire l’errore in cui eravamo incorsi: vista dal basso la parete appariva “pulita”, invece ogni protuberanza era coperta da un sottile strato di neve portata dal vento, sovente trasformata in ghiaccio. Ogni appiglio andava pulito prima di essere utilizzato per cui fummo costretti a scalare con molta attenzione a scapito della velocità. Rallentati da una arrampicata resa delicata dalla presenza di neve e ghiaccio giungemmo in vetta che era ormai buio e fummo costretti al bivacco sulla vetta stessa.
Fu una notte gelida, non avevamo altre protezioni che gli indumenti che indossavamo e lo zaino da infilarci dentro i piedi. Ovviamente per essere leggeri non avevamo portato il fornelletto e non potemmo neanche fondere un po’ di neve per bere. Ma anche quelle lunghe penose ore passarono con un gran battere di denti e frizioni varie per non congelare, e finalmente giunse l’alba. Anchilosati dal gran freddo faticammo un po’ a rimetterci in moto ma poi iniziammo a scendere lungo il canalone di neve compressa del colle Santo Stefano. Le pene sofferte nella notte furono presto archiviate ed in noi emerse la soddisfazione per la bella “invernale” portata a termine.
Rievocando le avventure della Corrà di tanti anni fa mi viene da pensare ai miei due compagni dell’invernale alla via Mellano-Tron. Di Mariangelo e le sue divertenti stranezze - dalla sua trombetta di ottone alle avventure/disavventure del suo periodo militare - ho già raccontato diffusamente. Di Corradino Rabbi invece non ho mai avuto occasione di raccontare, e dire che di cose insieme ne abbiamo fatte.
Se ripenso ai personaggi che ho incrociato, non occasionalmente, nella mia vita di alpinista, in ognuno c’è qualche caratteristica che compare immediatamente nella mia mente quando la loro figura attraversa i miei pensieri. Ad esempio: se penso a Gian Carlo Grassi subito prende forma la sua serena, inesauribile passione per ogni forma di scalata, talmente infinita da trovare pochi riscontri in altri scalatori. Se invece il pensiero si rivolge a Gian Piero Motti mi sovviene la sua lucida intelligenza e soprattutto la grande sensibilità che gli faceva scoprire e raccontare cose che i più non percepiscono, ma che a volte lo portava a momenti di dubbio e di crisi.
Corradino Rabbi
L’immagine di “Dino” Rabbi riporta alla mia mente una qualità innata che non mi ricordo di aver mai osservato in tale misura su persone di mia conoscenza: la disponibilità nei confronti degli altri. Rabbi è un uomo rispettoso delle istituzioni e, nell’ambito di quelle del CAI, non si è sottratto agli incarichi più impegnativi, mai per ambizione ma sempre con spirito di servizio. E’ stato Direttore della scuola Gervasutti, Presidente del CAAI, prima del Gruppo Occidentale poi Presidente Generale. Socio storico della Sezione UGET del CAI, ha ricoperto per anni la carica di Presidente della Sezione.
La sua disponibilità nei confronti degni amici è sempre stata esemplare, mi viene in mente il sostegno, prodigato in un momento difficile, a Ottavio Bastrenta, notaio ad Aosta ed alpinista attivo, suo grande amico.
Un’altra caratteristica che ho sempre osservato in Corradino è la commozione che non riusciva a trattenere di fronte ad eventi drammatici come la morte in montagna di un amico o quando fu assassinato Guido Rossa. Ma le lacrime agli occhi gli giungevano anche quando interveniva su episodi felici, Ricordo bene nel 1984 al campo base sul ghiacciaio del Tiric Mir quando, dopo 5 giorni di scalata e 4 bivacchi sulle creste dei Bindu Gol Zom, Lino Castiglia, io, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione, ritornammo sfiniti dopo aver raggiunto l’obiettivo della spedizione. Rabbi, nel tendone cucina del campo, improvvisò un discorso di felicitazioni come Presidente dell’Accademico. Discorso interrotto più volte per la commozione.
In tutti noi, quando parliamo delle nostre salite, compare, a volte senza volerlo, un po’ di autocelebrazione, in Rabbi questa tendenza io non l’ho notata, e sì che di scalate importanti nella sua carriera di alpinista ne ha realizzate tante. Egli era sempre disponibile per ogni tipo di impresa: ripetizioni di grandi vie classiche, prime ascensioni, prime invernali, spedizioni extra europee. Ha scalato con giovani emergenti dell’alpinismo torinese quali Gianni Ribaldone e Gian Piero Motti. Egli lasciava sempre che questi quasi fuoriclasse sfogassero la loro esuberanza andando da primi di cordata ma quando le cose divenivano complesse, come successe a volte per il sopraggiungere della tempesta, emergeva la sua calma e la sua esperienza nel contribuire in modo determinate nell’uscire dalla situazione critica. Così avvenne con Ribaldone nell’invernale al Pilier Gervasutti al Tacul e con Motti al Gran Capucin, due scalate avversate dal sopraggiungere del maltempo.
Non ricordo quando incontrai per la prima volta Dino Rabbi, ma imparai a conoscerlo bene quando entrai nel GAM (Gruppo Alta Montagna UGET) e successivamente nella scuola Giusto Gervasutti nel 1965. Egli ha 9 anni più di me ed allora mi parve quasi di un’altra generazione ma presto mi resi conto che la sua voglia di affrontare problemi alpinistici era ben radicata nell’attualità.
Nella scuola era molto attivo, come del resto in tutte le attività che ha affrontato, ed io ero colmo di entusiasmo per cui cominciammo a collaborare nel mantenere l’attività della Gervasutti ad un livello elevato. Insieme portammo degli allievi, tra i più bravi, a salire la parte NO del Combin de Valsorey per l’impegnativa via Eidher-Vanis.
All’inizio degli anni ’70, poco prima della scoperta del Caporal in Valle dell’Orco, Gian Piero Motti ed io iniziammo a visitare le Prealpi calcaree francesi. Le nostre entusiastiche descrizioni convinsero molti a seguire il nostro esempio ed anche Rabbi volle provare a scalare su quelle pareti che sentiva da noi magnificare. Venne con me a salire la difficile Voie du Rif Tord alla Crète du Raisin nella suggestiva Grande Manche del Massif de Cerces che era allora a noi sconosciuto anche se relativamente vicino a Torino. Rimase molto soddisfatto della scalata e mi ricordo ancora il suo commento:
<<Noi ci fermavamo in Valle Stretta, e pensare che bastava valicare una cresta per trovare tutta questa roba a disposizione>>.
Si lasciò anche coinvolgere dalla nostra curiosità/febbre di Valle dell’Orco seguita al Caporal, così nell’autunno 1974 si unì a Claudio Sant’Unione ed a me nell’esplorare la sconosciuta parete che sovrasta il Caporal: la Parete delle Aquile. Scalammo tutto il giorno sovrastati dal volo di due maestose aquile che avevano il nido poco discosto dalla nostra via ed uscimmo in cima quando era ormai buio, soddisfatti per la difficile scalata e un po’ preoccupati per la sconosciuta discesa notturna da affrontare.
Di cosa si parla quando si è solo in due nei viaggi in macchina, negli avvicinamenti, nei bivacchi e nelle lunghe discese dopo la scalata? Nell’ultima per lo più si sta zitti perché stanchi e rimane solo il desiderio di scendere al più presto. Negli altri casi di tutto, dipende dal compagno e dagli interessi comuni. Con Dino credo di aver parlato soprattutto di personaggi legati all’alpinismo e di vicende umane legate a tali personaggi, di storia dell’alpinismo, di montagne e di progetti di scalate. Attraverso i suoi racconti ho imparato a conoscere dei personaggi a me noti solo per il nome e, parlando di montagne, egli mi ha indicato dei problemi da risolvere che poi sono diventati dei miei obiettivi, tra questi il percorso integrale della Cresta di Tronchey alle Grandes Jorasses e la allora vergine parete EST dell’Aiguille Centrale di Pra Sec. Egli aveva grande rispetto per i personaggi che avevano fatto la storia dell’alpinismo, tra questi Renato Chabod ed Amilcare Cretier che con Lino Binel avevano salito per primi la parete Sud Est del Mont Maudit nel 1929. Tale via interessava molto a Rabbi e quando cominciammo a parlarne non era ancora stata salita in inverno. Era allora un grosso problema invernale e noi decidemmo di tentarlo.
In uno splendido pomeriggio invernale d’inizio 1974 salimmo al bivacco Ghiglione del Col du Trident sulla cresta della Tour Ronde (oggi non esiste più). Dal colle assistemmo ad uno spettacolare tramonto con le pareti rese di fuoco dagli ultimi raggi del sole. Troppo bello per essere normale, nella notte cominciò a nevicare e noi dovemmo abbandonare il nostro progetto e scendere dal canale del colle infarinati dalle piccole slavine di neve farinosa. La prima invernale di quella via venne realizzata un anno dopo da quatto forti guide: J.P. Balmat, D. Ducroz, M. Dandelot, J. Jenny, dal 22 al 24 gennaio 1975.
Nell’estate dello stesso 1974 ci trovammo ancora ad operare insieme nell’aprire una nuova via non programmata sulla parete S.E. dell’Aiguille d’Argentiere nel massiccio del Monte Bianco. Su quella cima io avevo percorso l’Arète du Jardin ed ero rimasto colpito dalla parete di granito rosso del versante S.E. della Cima Sud. Avevo letto che su quella parete vi era una via di Gaston Rebuffat ed ero curioso di andarla a vedere. Dino, sempre interessato alle novità, aderì con entusiasmo alla mia proposta così l’alba del 28 luglio ci trovò alla base della parete pronti all’azione. La parete appariva superiore alle mie aspettative e subito notai che vi era spazio per una via più diretta della Rebuffat. Proposi al mio compagno di tentare una nuova via ed egli mi rispose semplicemente: <<Vai pure>>.
500 metri di ottimo granito rosso e 9 ore di scalata e la nostra firma era posta su quella bellissima montagna.
L’alpinismo invernale era in gran voga in quegli anni ed io avevo messo a fuoco un bell’obiettivo: la parete S.O della Becca di Moncorvè mai salita d’inverno. Aderirono al progetto: Roberto Bianco, il giovane Mariangelo Cappellozza, Dino Rabbi e Claudio Sant’Unione. Al 20 dicembre 1974 eravamo pronti a salire al rifugio Vittorio Emanuele per entrare in azione allo scoccare dell’inverno. Era un inizio d’inverno con temperature molto basse ed assenza di neve, si poteva raggiungere Pont Valsavarenche in auto ma con il rischio di rimanere bloccati in caso di nevicata in quanto la strada in inverno veniva tenuta aperta solo fino all’abitato di Eau Rousse.
Poco prima della partenza Rabbi venne colpito dall’influenza e dovette rinunciare ma, ancora febbricitante, salì con la sua auto in Valsavarenche e ci trasportò fino a Pont in modo che la nostra auto rimanesse parcheggiata ad Eau Rousse evitando i rischi di blocco in caso di improvvisa nevicata.
La scalata andò a meraviglia, scendemmo soddisfatti ma con un unico rammarico, quello di non aver avuto con noi il nostro generoso compagno.
Corradino Rabbi ha sempre avuto un grande interesse per le montagne extraeuropee e di spedizioni ne ha fatte molte. Quando anch’io decisi che volevo visitare le montagne lontane era quasi d’obbligo progettare la spedizione con lui. Prendemmo in considerazione vari obiettivi ma poi scegliemmo il Garhwal indiano nel gruppo del Nanda Devi. In quel gruppo era da poco stata salita da un fortissimo gruppo di scalatori inglesi una montagna di straordinaria bellezza e difficoltà: il Changabang. Conquistati dalle immagini di quei posti chiedemmo il permesso di tentare il monte vicino al Changabang: il Kalanka. Le nostre informazioni si rivelarono imprecise e ci trovammo nella valle sbagliata, eravamo sì sotto l’impressionante Changabang ma dal Kalanka ci separava la catena dei Risi Kot con quota superiore ai 6000 metri. Il tempo a nostra disposizione non ci avrebbe consentito di scavalcare tale catena, occorreva scegliere un altro obiettivo.
Rabbi, con la sua pazienza riuscì a comunicare con il portatore rimasto con noi al campo base e da questi venne a sapere che una spedizione giapponese aveva salito, nel periodo pre monsonico, il Changabang lungo l’imponente spigolo SO. I giapponesi avevano lasciato corde fisse e molto materiale in parte. Prendemmo una decisione un po’ pazza: tentare di ripetere la via dei giapponesi. Piazzammo un campo avanzato ed in quattro iniziammo a salire lungo lo spigolo. Scalammo per due giorni ma poi ci rendemmo conto che ci mancava sia il tempo che il materiale per proseguire.
Mentre noi eravamo intenti alle nostre manovre, a nostra insaputa, sulla vicina parete Ovest erano impegnati gli inglesi Peter Boardman e Joe Tasker nella loro straordinaria impresa. Curioso un passaggio del libro di Boardman: La Montagna di Luce, che racconta la grande impresa.
I due da molti giorni sono impegnati in parete, ad un tratto uno dei due dice all’altro: << Ho sentito delle voci >>. L’altro risponde: << Stai andando fuori di testa, stai vaneggiando >> << No >> risponde il primo <<Ho visto anche una luce in cielo >>. Le voci erano le nostre e la luce era un razzo verde che avevo lanciato io dopo il primo giorno di scalata per segnalare, a chi era rimasto giù, che avremmo continuato nel tentativo il giorno dopo.
Ritornati sul ghiacciaio dopo il tentativo, Dino ed io ci attardammo nel riporre i materiali mentre gli altri due iniziavano a scendere. Quando anche noi ci avviammo ad un tratto scorgemmo Alberto Re seduto sul ghiacciaio che si guardava una mano con aria sconsolata, aveva un dito piegato a 90 gradi. Era scivolato sul ghiaccio, il dito si era infilato tra due sassi e si era rotto. Scendemmo fino alla tendina e cominciammo a dare assistenza al nostro amico. Su indicazioni di Rabbi io preparai una paletta della dimensione di una mano con un’assicella ricavata da un contenitore di alimenti mentre lui con determinazione ed abilità degna di un provetto infermiere raddrizzava e sistemava il dito rotto di Alberto. Poi con la paletta che io avevo preparato impalettò e fasciò perfettamente la mano del nostro amico.
Un po’ rincuorato Alberto si avviò verso il campo base mentre Dino ed io ci fermammo a pernottare nella tendina per salire il giorno dopo il Risi Kot II, cima di 6200 m. che non risultava mai salita. Sui pendii più ripidi di quella cima avevamo già piazzato precedentemente alcune corde fisse.
Con Dino ci trovammo accomunati in altre iniziative non prettamente alpinistiche come la realizzazione del celebre Scandere 1979 in un quartetto composto oltre che da me e Rabbi da Roberto Bianco e Gian Piero Motti. Scandere era l’annuario della sezione CAI Torino. Purtroppo scomparso dalle pubblicazioni da molti anni. Altro lavoro realizzato insieme, unitamente a Renato Chabod, è stato l’aggiornamento della guida del Gran Paradiso della collana dei Monti d’Italia nel 1980.
Un episodio drammatico che mette in evidenza l’altruismo e la volontà di Corradino Rabbi è l’incidente occorso a lui e Roberto Bianco al monte Ormelune in Valgrisenche nel maggio 1981.
I due hanno come obiettivo la sciistica di questa cima, le condizioni dell’innevamento non sono ottimali, decidono di salire il pendio finale direttamene, sci a spalle per non tagliarlo con serpentine, giunti quasi in cima Roberto scarica gli sci e di schianto tutto il pendio si stacca, i due sono travolti da una grande valanga. Sono trascinati per oltre 300 metri e saltano anche una barra rocciosa. Durante la caduta perdono i sensi. Quando rinviene Bianco si trova con la testa fuori dalla neve e Dino non si vede, dopo poco tempo vede però la neve muoversi vicino a lui e compare la testa di Rabbi, era rimasto sotto un leggero strato di neve. Con grande fatica riescono ad uscire dalla neve e si rendono conto di essere feriti in modo grave. Bianco non è in grado di alzarsi in piedi (risulterà avere gravi compressioni vertebrali). Corradino riesce a stare in piedi ma a grande fatica, ha lo sterno gravemente danneggiato e risulterà avere anche una compressione vertebrale. E’ chiaro che non possono avere aiuto, nessuno è allertato, bisogna salvarsi da soli, Roberto non è in grado di muoversi e Dino si avvia per cercare soccorsi, il compagno lo vede procedere con estrema lentezza, trascorrono più di due ore prima che scompaia alla sua vista poche centinaia di metri più sotto.
E’ notte fonda quando Dino raggiunge la vettura ma non può usufruirne perché le chiavi sono rimaste nello zaino sotto la neve, deve perciò continuare a piedi lungo il lago fino a Bonne.
Quel giorno a Bonne vi era il soccorso alpino valdostano per delle esercitazioni collettive, alle 6 del mattino la guida Renzino Cosson esce dall’albergo e vede una figura barcollante che si avvicina, è Corradino Rabbi, si è trascinato per 17 ore. Subito scatta l’allarme, Rabbi viene soccorso e trasportato all’ospedale di Aosta e parte la ricerca dell’altro infortunato. Non può intervenire l’elicottero a causa della fitta nebbia sopraggiunta, le guide partono a piedi alla ricerca di Bianco. Intanto Roberto, dubbioso sulla possibilità che Dino riesca a scendere a valle abbandona il luogo dell’incidente e, trascinandosi a 4 zampe riesce a scendere per qualche centinaio di metri. E’ quasi per caso che le guide riescono a trovarlo nella nebbia, grazie ai richiami a voce.
A due Accademici il PELMO D’ORO 2023
ALESSANDRO MASUCCI per la carriera e ITALO ZANDONELLA CALLEGHER per la cultura alpina
a cura di Orietta Bonaldo
Queste le motivazioni espresse dalla giuria:
Alessandro Masucci per la carriera alpinistica
Alpinista che in tre decenni di attività severa ed eticamente impeccabile ha scritto il suo nome sul Pelmo e su tutte le crode della Val di Zoldo, allora poco conosciute e ancor meno percorse, individuando con occhio sapiente e concretizzando con tenace passione ben 140 nuove linee di salita.
Italo Zandonella Callegher per la cultura alpina
Fine editorialista, brillante scrittore, eccellente alpinista. Ma, soprattutto ed in ogni sua attività, montanaro profondamente dolomitico, di sconfinata cultura alpina. La sua penna ha riempito pagine e pagine raccontando delle montagne di casa non solo i profili, la storia, la vita, ma pure i valori che si traducono in dialogo universale della gente dei monti.
Gli altri riconoscimenti sono stati attribuiti come segue:
Il Pelmo d'oro per l'alpinista in attività è andato al catalano Santiago “Santi” Padros
Guida Alpina di levatura internazionale, spagnolo di nascita ma bellunese di adozione. Nelle Dolomiti Bellunesi realizza un’attività poliedrica di altissimo livello: nuove aperture in roccia e ghiaccio, inediti concatenamenti e, su pareti spesso remote, salite di misto moderno, di cui è uno dei massimi esponenti a livello non solo italiano.
Il Premio Speciale della Provincia ha voluto rendere omaggio e ringraziare Oscar De Bona e Roberto De Martin primi ideatori del premio
Vivere tra le montagne più belle del mondo comporta anche il dovere di raccontarle, di farle conoscere, superando il silenzio della pietra e del bosco, dando voce alla solennità delle crode. Oscar De Bona e Roberto De Martin hanno ideato questo premio venticinque anni fa proprio allo scopo di dare risalto alle montagne bellunesi e alle genti che le vivono.
Il Premio Speciale Giuliano De Marchi ha ricordato Silvana Rovis, alla memoria
Il suo amore per la montagna l’ha portata, non solo ad esplorarla e a viverla intensamente ma, soprattutto, a raccontarla attraverso i suoi articoli e le sue interviste anche alle alpiniste donne così spesso trascurate, già diventate capitoli di storia dell’alpinismo.
E infine il Premio Speciale Dolomiti UNESCO è stato conferito all'Alpine Club
Primo club alpino del mondo, l’Alpine Club, venne fondato a Londra il 22 dicembre 1857 ed ebbe John Ball primo Presidente. Tale iniziativa fu forse ispirata dall’impresa che lo stesso Ball compì due mesi prima quando, accompagnato da una guida di Borca di Cadore, effettuò la prima ascensione alpinistica sul Monte Pelmo, uno dei simboli delle Dolomiti. Questi primi alpinisti divennero anche i principali osservatori e divulgatori di quei valori estetici, paesaggistici e scientifici che oggi sono universalmente apprezzati e che si trovano alla base del riconoscimento che l’UNESCO ha voluto conferire nel 2009 alle Dolomiti.
Per chi desidera approfondire, qui ci sono i profili dei premiati
Il valore di un premio si misura anche nell'emozione che suscita in chi lo riceve e questa venticinquesima edizione sarà da ricordare per la forza d'animo di Alessandro Masucci che ha raccolto tutte le sue forze per essere presente e salire sul palco, in barba alla malattia, per ringraziare e coinvolgere simbolicamente nel premio i compagni di cordata con cui ha condiviso la sua straordinaria attività di scoperta nelle Dolomiti. Purtroppo Alessandro ci ha lasciati poco dopo aver ricevuto questo importante riconoscimento, rendendo ancora più intensa l'emozione di quanti lo hanno conosciuto e stimato. Tornando alla cerimonia, l'emozione è proseguita con Santiago Padros cui mancavano le parole, non perchè il suo italiano non sia eccellente, ma perchè toccato nel profondo un po' dall'ovazione che lo ha accolto, ma soprattutto dall'immagine degli “eroi silenziosi” evocata dal presidente della Provincia Roberto Padrin per i montanari che amano e difendono le proprie montagne, cui Santi, profondamente sensibile all'argomento, ha accomunato i “pazzi alpinisti” che scalando le crode si sentono tutt'uno con la Natura.
Per loro inaspettato e perciò ancor più gradito il riconoscimento della fondazione Unesco per l'Alpine Club, rappresentato dal suo attuale presidente il forte alpinista Simon Richardson, nelle sue parole “The Alpine Club would like to thank the Dolomites UNESCO World Heritage Site for the award and the Club Alpino Italiano and Provincia di Belluno for their hospitality. We hope that this event will rekindle a strong and lasting relationship between all four organisations.”
Per chi ha voglia di vedere questi e altri momenti del 25° Pelmo d'oro, sul canale Youtube di Radio Più è disponibile la registrazione dell'intera cerimonia.
IL PELMO D'ORO, una lunga tradizione di eccellenza
Nel 2023 il Pelmo d'oro ha compiuto il quarto di secolo. Per chi non lo conosce, molto in breve, è un premio, assegnato annualmente e articolato in più sezioni, con cui la Provincia di Belluno vuole riconoscere particolari meriti acquisiti da persone fisiche, enti pubblici e privati, associazioni e sodalizi nell’ambito di:
- alpinismo e solidarietà alpina
- tutela e valorizzazione dell’ambiente e delle risorse montane
- conoscenza e promozione della cultura
- storia
- tradizioni delle comunità delle Dolomiti Bellunesi.
L'attribuzione dei premi avviene su indicazione di una giuria composta oltre che da Roberto Padrin, Presidente della Provincia di Belluno, da rappresentanti del CAI, del CNSAS, dell'AGAI del Veneto e del Presidente del Consorzio Bim Piave di Belluno.
Componenti giuria 25° edizione: Federico Bressan e Giorgio Brotto per il Club Alpino Italiano, Orietta Bonaldo per il CAAI, Giorgio Peretti per il Collegio Guide alpine del Veneto, Paolo Conz, guida alpina, per il CNSAS e Marco Staunovo Polacco, Presidente del Consorzio Bim Piave di Belluno.
Una caratteristica della cerimonia di consegna del premio è non avere una sede fissa ma essere ospitata ogni anno in un diverso comune della provincia, che per l'occasione si veste a festa e coinvolge tutta la comunità per l'organizzazione di eventi e l'accoglienza dei numerosi ospiti. Quest'anno, il 29 luglio, è toccato al piccolo comune di San Tomaso Agordino (600 residenti) che ha accolto gli ospiti nella splendida struttura Arena 1082.
Molti sono i legami tra il Premio e il CAAI, dato che soprattutto in due sezioni i riconoscimenti riguardano strettamente l'alpinismo di eccellenza e quindi spesso sono andati a soci accademici: il Pelmo d'oro per l'alpinismo in attività e quello alla carriera. Non solo, dal 2010 un premio speciale è dedicato alla memoria dell'accademico Giuliano de Marchi, tragicamente scomparso nel 2009 sull'Antelao. Per chi vuole approfondire, ecco qui il dettaglio dei premi e l'albo d'oro dei premiati di tutte le 25 edizioni.
L’onore di tre Honorem
Feltre 21 Ottobre 2023 Convegno Nazionale.
Non credo che nella storia dell’accademico nato nel 1904 siano stati presentati in una sola sessione ben tre soci ad honorem e sono convinto che il momento fosse idoneo per dare un ulteriore stimolo culturale al nostro sodalizio.
Come ho sempre pensato e detto anche alle nostre assemblee e convegni l’essere Accademico è una vocazione e perché no deve essere una missione in onore all’articolo 2 del nostro statuto che cita:
SCOPI
Art. 2 – Il C.A.A.I. si propone di coltivare e promuovere l’alpinismo di elevato livello di difficoltà mediante qualunque iniziativa atta a favorirne la pratica su tutte le montagne del mondo.
In questa nostra sessione ci siamo trovati di fronte a tre personalità di alto livello umano, culturale e tecnico che ci hanno per così dire “deliziato” con i loro interventi di autopresentazione.
Dialogando con loro ho percepito la soddisfazione nell’entrare a fare parte dell’accademico che non è solo la loro ma è anche, e soprattutto, la nostra.
E dico nostra perché, come ho scritto prima, con loro entra e si rafforza la storia del sodalizio e anche tramite loro potremo diffondere e rafforzare maggiormente la nostra ideologia.
Enrico Camanni presentato dal Gruppo Occidentale e dai colleghi Fulvio Scotto (anche Presidente del Gruppo Occidentale) e Umberto Valocchi. Relaziona Fulvio Scotto.
Marco Albino Ferrari presentato dal Gruppo Orientale da Francesco Leardi e da Francesco Lamo. Relaziona Francesco Leardi
Giuliano Giovannini presentato dal Gruppo Orientale e dai colleghi Marco Furlani e Alessandro Gogna. Relaziona Marco Furlani.
coordinatore Francesco Leardi
Pubblicazione, ottimizzazione e grafica a cura di Alberto Rampini
CV e presentazione dei candidati
ENRICO CAMANNI
Enrico Camanni è stato redattore capo della Rivista della Montagna dal ‘77 all’84,
e nell’85 ha fondato il mensile Alp rivestendone il ruolo di direttore per 13 anni,
quindi dal ‘99 al 2008 ha diretto l’edizione italiana della rivista internazionale di cultura alpina L’Alpe.
Collabora, dal ‘99, con il quotidiano torinese La Stampa, in cronaca e cultura.
Inoltre dal 2008 al 2011 ha diretto il mensile Piemonte Parchi.
Camanni ha scritto migliaia di articoli, commenti, saggi, testi di storia dell’alpinismo, di ambiente e tematiche alpine, collaborando con numerosi quotidiani e periodici tra cui, oltre alla citata “Stampa”, anche “Airone”, “Il sole 24 ore”, “L’Unità”, “Meridiani”, “Specchio”, “L’Indice”, “Giornale dell’Architettura”, “Il Manifesto”.
MARCO ALBINO FERRARI
E’ una delle voci più autorevoli della cultura di montagna. Negli anni Novanta ha diretto la rivista «Alp». Nel 2002 ha ideato «Meridiani Montagne», che ha diretto per 16 anni. Ha collaborato con «La Stampa», «Il Corriere della Sera» e altre testate. Come autore ha esordito nel 1996 con Frêney 1961, più volte ripubblicato e divenuto un classico della letteratura di montagna. Ha pubblicato con i più importanti editori italiani: Einaudi, Feltrinelli, Laterza, Rizzoli, Ponte alle Grazie. Ecco alcuni dei suoi libri: Il vuoto alle spalle storia di Ettore Castiglioni, Alpi Segrete, La via del lupo, Montecristo, Le prime albe del mondo, La sposa dell’aria, Il sentiero degli eroi. Assalto alle Alpi è il suo ultimo libro uscito per la prestigiosa collana Le Vele di Einaudi
GIULIANO GIOVANNINI
Dotato di un fisico eccezionale, con un paio di vecchi sci di legno impara a sciare con la protesi, poi gli orizzonti si ampliano e vuole salire le montagne con le pelli di foca. Svolge un’intensa attività scialpinistica su tutto l’arco alpino. Ma non basta: sale importanti vie di ghiaccio sulle pareti nord e grandiosi itinerari su roccia.
Ha insegnato ad andare in montagna ad intere generazioni, sotto le sue ali sono cresciute Guide Alpine, Istruttori e Accademici del Cai.
Convegno nazionale del Club Alpino Accademico Italiano Feltre 21 ottobre 2023
IL RISCALDAMENTO GLOBALE E I SUOI EFFETTI SULLA MONTAGNA A LA SUA FREQUENTAZIONE
Estratto dai contributi scientifici del convegno a cura di Silvia Stefanelli C.A.A.I. Gruppo Orientale
Cover: Ghiacciaio Perito Moreno - ph Roberto Valenti
Portare all’attenzione del convegno nazionale del C.A.A.I. la crisi climatica, i suoi impatti sulla montagna e chi la frequenta, è un’idea nata da eventi che hanno lasciato il segno negli ultimi anni sulle Alpi, in particolare il tragico evento del crollo del ghiacciaio della Marmolada.
Il Presidente del C.A.A.I. gruppo Orientale, Francesco Leardi, ha raccolto una necessità e un sentire comune di confrontarsi, con alpinisti e non, intorno a questo complesso fenomeno, per migliorarne la conoscenza, grazie alla disponibilità di esperti tra gli accademici e della comunità di scrittori e scienziati.
Il convegno in esame si pone all’interno di un percorso di sensibilizzazione che il Presidente ha iniziato invitando alla responsabilità individuale e collettiva ad agire di fronte a un ambiente montano e i suoi ecosistemi sempre più vulnerabili e fragilizzati.
Audiovisivo di Roberto Valenti - Produzione Club Alpino Accademico Italiano Gruppo Orientale visualizzalo qui full screen
Di seguito la successione dei contributi che sono stati presentati nel nostro convegno:
Valenti - Global Warming: quale futuro per il nostro pianeta (audiovisivo)
Fermeglia - Le cause del riscaldamento globale: produzione di energia oggi e domani
Barbante - Gli effetti del riscaldamento globale: fusione dei ghiacciai e del permafrost
Favero - Gli effetti del riscaldamento globale su boschi e foreste
Stefanelli - Azioni dal mondo e locali per contrastare la crisi climatica
Barbolini - Criticità dei bivacchi legate al riscaldamento globale
Inselvini - Come cambia l’alpinismo con il riscaldamento globale in atto
Favaro - È prevista una conferenza stampa al campo base
Il tema del convegno è stato presentato con un audiovisivo in anteprima realizzato per il convegno da Roberto Valenti, socio CAAI e fotografo naturalista, dal titolo:
Global Warming: non restiamo a guardare!
Se sulla Terra, governata da dinamiche inarrestabili che coinvolgono da sempre i suoi organismi viventi, il cambiamento è ineludibile, dalla rivoluzione industriale ad oggi, con comunità umane sempre più numerose ed energivore, ora il cambiamento ha subito una forte accelerazione, con la progressiva alterazione del delicato equilibrio energetico del pianeta.
Gli effetti del riscaldamento sono evidenti: fusione dei ghiacciai montani e del permafrost, contrazione delle calotte polari, fenomeni meteorologici estremi, crisi idriche e carestie, migrazioni umane, alterazione degli habitat e riduzione della biodiversità, distruzione delle foreste primarie.
Oramai tutti lo percepiamo, attorno a noi qualcosa sta cambiando e sta cambiando in fretta! Il nostro “optimum climatico”, a cui ci eravamo egoisticamente affezionati, si sta sgretolando e noi uomini e alpinisti non possiamo restare a guardare!
L'audiovisivo di Roberto Valenti - Produzione Club Alpino Accademico Italiano Gruppo Orientale - inserito all'inizio dell'articolo, può essere visionato anche a questo link: Visualizza il filmato
Il riscaldamento globale e le sue cause: produzione di energia oggi e domani (Filippo Giorgi ICTP Trieste, Maurizio Fermeglia Università di Trieste)
Il prof.Giorgi all’ultimo momento non ha potuto presenziare per importanti problemi lavorativi che lo hanno richiamato all’estero, delegando al Professor Fermeglia il suo intervento.
Maurizio Fermeglia si è collegato al video introduttivo, riportando gli ultimi dati rilevati dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) che, a partire dall’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera, collega quest’ultima all’aumento di temperatura rilevata a livello globale. Ne conseguono tutti i fenomeni da essa causati: eventi climatici estremi, fusione dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, perdita di biodiversità, solo per citare i più rilevanti.
Fermeglia ha riportato le previsioni future dell’IPCC, sia in termini di concentrazione di CO2 che di innalzamento della temperatura, a seconda dei vari scenari di mitigazione che saremo in grado di attuare. Inoltre, è stato mostrato come il riscaldamento globale sia legato, attraverso le emissioni di CO2 e l’effetto serra, alla produzione e consumo di energia. Il punto di partenza dei ragionamenti è che ogni mole di carbonio che è usata per produrre energia, genera inevitabilmente una mole di CO2 e quindi, la conclusione a cui si arriva, è che per evitare il disastro climatico è necessario produrre energia evitando di bruciare carbonio.
In altre parole, bisogna decarbonizzare la produzione di energia utilizzando fonti non fossili. Vengono quindi descritti diversi scenari possibili per la produzione di energia, considerando che essa certamente non può calare in quanto la popolazione mondiale è in forte aumento. Quello che deve cambiare sono le abitudini e le fonti di energia: le fonti rinnovabili devono al più presto soppiantare le fonti fossili per cercare, se possibile, di evitare i disastri climatici ed ambientali previsti nei prossimi anni.
Visualizza l'intervento completo Giorgi_Fermeglia
Gli effetti del riscaldamento globale: fusione dei ghiacciai e del permafrost - Carlo Barbante scienziato
Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha sottolineato come la criosfera alpina, comprendendo ghiacciai e permafrost, sia fortemente influenzata dal riscaldamento globale. I ghiacciai, che costituiscono una risorsa idrica cruciale per molte comunità alpine, si stanno restringendo a un ritmo allarmante. Negli ultimi due anni hanno perso circa il 10% della massa totale. Questo processo di fusione ha conseguenze dirette sulla disponibilità di acqua dolce e sull’equilibrio degli ecosistemi montani.
Simultaneamente il permafrost, terreno permanentemente congelato, sta fondendo velocemente, aumentando il rischio di frane e danneggiando le infrastrutture. Questi cambiamenti rivelano chiaramente l’impatto del cambiamento climatico in corso sulle Alpi, richiedendo azioni urgenti per mitigare gli effetti negativi e promuovere la conservazione di questa preziosa risorsa alpina.
Visualizza l'intervento completo di Carlo Barbante
Gli effetti del riscaldamento globale su boschi e foreste - Paola Favero forestale e scrittrice
Paola Favero ha ricordato, con delle immagini molto suggestive, come la tempesta Vaia sia stato un evento davvero unico per i nostri popolamenti forestali, che ha messo improvvisamente in luce la loro fragilità di fronte alla crisi climatica ed ecologica che la Terra sta attraversando. Questo eccezionale evento ha dato conferma degli impatti della crisi climatica, ma anziché spingerci verso una gestione più attenta alle esigenze del bosco e le indicazioni della natura, ha aperto le porte ad una politica forestale improntata ad una selvicoltura produttivistica e a una gestione del bosco dove l'albero diventa un prodotto come tanti altri.
Mentre grazie alla tecnologia siamo in grado di produrre energia, non saremo mai capaci di produrre biomassa e tantomeno biodiversità, che è alla base dell'esistenza e dell'equilibrio degli ecosistemi e garantisce la nostra stessa vita sulla Terra. Per questo abbiamo il dovere di proteggere in ogni modo le nostre foreste, perché oltre a fornire importantissimi servizi ecosistemici contribuiscono in modo sostanziale a mantenere la biodiversità presente sul pianeta.
Azioni dal mondo e locali per far fronte alla crisi climatica - Silvia Stefanelli - C.A.A.I. Gruppo Orientale
Silvia Stefanelli, esperta di crisi climatica e foreste e fondatrice di Gaialab, ha introdotto il tema delle soluzioni basate sulla natura nella crisi climatica nel mondo e in Italia. In particolare la conservazione forestale e l’evitata deforestazione svolgono un ruolo determinante per far fronte alla crisi climatica. Attraverso le sue esperienze su progetti in Chiapas (Messico) e in Tanzania, ha evidenziato il ruolo dei crediti di carbonio per la tutela delle foreste e delle comunità che ci vivono.
Sulle Alpi è stato presentato il programma di riqualificazione fluviale della Provincia di Bolzano come esempio di adattamento ad eventi alluvionali estremi.
Infine è stato richiamato il ruolo cruciale dei trasporti nella decarbonizzazione delle aree alpine e il cambio di paradigma necessario per uscire dalla monocultura dell’auto, attraverso un nuovo approccio alla montagna come bene comune e non solo come spazio di libertà individuale.
Le conclusioni sono state un invito ai presenti a riflettere su come la crisi climatica possa stimolare in noi un cambio di riferimenti, di valori, un attivismo che scatena piccoli e grandi cambiamenti.
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Criticità dei bivacchi legate al riscaldamento globale - Carlo Barbolini - C.A.A.I. Gruppo Orientale
Il mio intervento riguarda più l’aspetto pratico che quello teorico. Mi occupo da 15 anni della manutenzione di alcuni Bivacchi del C.A.A.I. soprattutto nella parte occidentale delle Alpi e non solo. La prima riflessione che mi viene in mente è che fino al 2019 il mio lavoro è stato di sistemare e svolgere manutenzione a queste strutture, alcune delle quali si avvicinano ai cento anni di vita. Dal 2020, quasi sempre, mi sono trovato a smantellare, delocalizzare o recuperare residui finiti a valle di strutture che sono state rese pericolanti dal ritiro dei ghiacciai, dallo scioglimento del permafrost e dai conseguenti eventi franosi.
Il mio parere è che ormai strutture come rifugi e bivacchi, sopra o intorno ai 3000 m di quota, siano destinate al loro declino e infine alla distruzione. Sono pezzi di storia che se ne vanno, strutture che hanno visto e vissuto la storia dell’alpinismo sulle nostre Alpi.
Visualizza l'intervento completo di Carlo Barbolini
Riflessioni sul mondo dell’alpinismo nell’era del cambiamento climatico - Claudio Inselvini C.A.A.I. Gruppo Centrale
La crisi climatica, potrà, se sapremo cogliere l’occasione, portare a un cambio di clima anche all’interno del mondo alpinistico.
Le accresciute difficoltà a cui ci pone di fronte creano forti disagi, innestano grandi rischi, ma ci danno anche la grande opportunità di recuperare un’unità d’intenti nel condividere il sentire davvero profondo della scalata. Le montagne che cambiano ci invitano a recuperare un pensiero legato alla tradizione, basato sulla conoscenza graduale dell’ambiente e non dal desiderio di ottenere tutto subito.
Un nuovo approccio alla montagna che si opponga al turismo ed all’alpinismo stile mordi e fuggi, può rinascere. Una frequentazione ispirata a un’idea di viaggio nella sua interezza, un viaggio che è composto di conoscenza dei luoghi e delle persone, di avvicinamento, preparazione, scalata, discesa, e anche di rinuncia.
Le accresciute e mutate difficoltà nella scalata ci stanno mettendo di fronte alla possibilità di iniziare una nuova era, dove il raccontare e l’ascoltare non sono basati solo sulle prestazioni, magari finalizzate ad immagini spettacolari, ma siano il motore di una nuova conoscenza e cultura, che serva ad affrontare tempi nuovi e più complessi.
Adriano Favaro – giornalista
Una delle ultime storie legate ai cambiamenti climatici riguarda la Marmolada e il crollo del ghiacciato nel 2022 quando morirono 11 persone. Qualche giornale auspicava che ci fosse un prima e un dopo quella data. Credo che l’invocazione sia stata inutile. L’ homo sapiens continua a pensare attorno a certi argomenti con un cervello progettato centinaia di miglia di anni fa, cervello antico ed emotivo. Non razionale quindi. Forse il sapiens di montagna non ha ancora letto e capito a fondo il libro di René Daumal “Il monte analogo”, del 1954.
Daumal dice una cosa affascinante: “La porta dell’invisibile deve essere visibile”. Ecco, forse per questo nessuno ha mai fatto una conferenza stampa al campo base: perché non è riuscito ancora davvero a fare vedere (alpinista o giornalista) il visibile di una porta che molti di voi, invece, conoscono.
Francesco Leardi presenta Bernard Amy e il contributo ricevuto per il convegno nazionale di Feltre
Quando mi capitò tra le mani negli anni 70 “il più grande arrampicatore del mondo” cominciai a dubitare della concretezza delle montagne, dei ghiacciai e credere nell’espressione del gesto, dimensione reale del nostro io.
Quando poi a Torino in occasione della sua proclamazione a socio ad honorem del C.A.A.I. nell’ambito del nostro convegno mi ritrovai accanto a lui a tavola mi sembrò di vivere in quella dimensione così eterea che Tronc Feuillu il suo personaggio più amato, emanava.
“se potessi raggiungere la pietra senza spostare una sola goccia di rugiada, la pietra non esisterebbe più.Ed io sarei sulla sua cima”.
Ebbene nel contributo che Bernard mi ha mandato, parla del cambiamento climatico facendoci immergere in un racconto, in una fiaba nella quale la realtà ci appare così tristemente vera.
Ma non basta essere consapevoli solo per un istante perché alla fine del suo racconto ci ammonisce: “Dopo la lotta per raggiungere la cima, quella per la sopravvivenza umana vi aspetta sotto”
Alpinista a tutto campo, dopo aver iniziato l’attività sulle Alpi, Bernard Amy ha presto dimostrato il suo gusto per le spedizioni e le montagne lontane. Ingegnere e ricercatore in scienze cognitive, Bernard Amy è anche scrittore di letteratura di montagna e giornalista. È cofondatore della rivista Passage ed è stato membro del comitato di pubblicazione della rivista del club alpino francese La montagne & alpinisme. Bernard Amy è uno dei membri fondatori di Mountain Wilderness France, di cui è stato presidente prima di diventarne presidente onorario. È membro del GHM ed è stato nominato socio ad honorem del Club Alpino Accademico Italiano.
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Si ringraziano relatori e collaboratori accademici e non per la positiva riuscita dell’evento con grande afflusso di giornalisti e pubblico.
Pubblicazione, ottimizzazione e grafica a cura di Alberto Rampini