Storie semiserie nel racconto di Ugo Manera
Tutte le foto, salvo citazione specifica, sono dell'autore.
IL CAPORAL
Quando nel lontano autunno del 1972 mi venne in mente di denominare scherzosamente Caporal la prima parete scalata sugli allora sconosciuti “Dirupi di Balma Fiorant” della Valle dell’Orco, non pensavo proprio che quel dirupo divenisse celebre come lo è ora. L’idea del nome mi era sorta pensando al gigantesco scoglio della californiana Yosemite Valley: il celeberrimo Capitan; solo che il nostro, pur bellissimo, era notevolmente più piccolo ed andava ovviamente posto ad un livello più basso della scala gerarchica.
Perché storie semiserie?
Perché le nostre avventure su quei dirupi furono sempre vissute con allegria, a volte in modo poco razionale, ma lontane da atteggiamenti epici che ancora comparivano in alcuni aspetti dell’alpinismo di allora. Il nostro era un gioco condotto con determinazione ma con spirito fanciullesco anche se non eravamo più ragazzi.
La storia del Caporal e dintorni è strettamente legata al Club Alpino Accademico; a condurre le due cordate che vi aprirono la prima via, Tempi Moderni, furono due accademici: Manera e Motti così come erano Accademici i tre che tracciarono la prima via sulla Parete delle Aquile: Manera, Rabbi, Sant’Unione. Dei quattro che scalarono poi per primi la Parete dei Falchi due erano accademici: Manera, Sant’Unione.
Lo scopritore del Sergent, Gian Carlo Grassi, era allora accademico e diede tale nome alla nuova parete per rivendicare amichevolmente un titolo di superiorità nei confronti del nostro Caporal.
Grande successo hanno avuto poi gli International Trad Climbing Meeting voluti ed organizzati su quelle pareti dal Club Alpino Accademico.
In quel microcosmo di ottimo gneiss granitico, di roccia da scalare ve ne era tanta e poneva molti problemi da risolvere agli scalatori. Le prime 10 volte che sono andato lì è stato per aprire nuove vie, poi ho cominciato a ripetere itinerari già esistenti. Alcune di quelle aperture sono state delle vere avventure, a volte non molto razionali ma belle da raccontare.
La Scoperta
Sul finire degli anni ’60 il sodalizio alpinistico tra Gian Piero Motti e me si fece più saldo, ci eravamo conosciuti nell’ambito della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, ambedue entrammo a far parte dell’organico istruttori nel 1965, io invitato per la precedente attività alpinistica, Motti perché aveva superato brillantemente i corsi della scuola e contemporaneamente aveva espletato una cospicua attività alpinistica individuale. Io ero più vecchio di 7 anni, avevo una sconfinata voglia di scalare pareti e montagne difficili, voglia che dovevo mediare con impegni di famiglia e di lavoro. Gian Piero proveniva da una famiglia benestante, tra i giovani fu il primo a poter disporre di un’auto propria: inizialmente una 500 ma presto una FIAT 850 Coupé, più consona ai suoi gusti. A chi non lo conosceva appariva determinato, anche un po’ spavaldo, era generoso e disponibile ma nelle discussioni tagliava corto se trovava l’interlocutore noioso. Si impegnò seriamente con la scuola di alpinismo e con la precisione e competenza che lo hanno sempre distinto, preparò una bellissima serie di dispense per gli allievi. Il suo modo di vivere e qualche suo atteggiamento nell’agire gli valsero il soprannome di “Principe”, coniato forse da qualcuno che nei suoi confronti provava un po’ di invidia.
Nell’ambito della scuola cominciammo a discutere di montagne e lentamente scoprimmo di avere obiettivi in comune ed anche la nostra visione etica dell’alpinismo aveva molte similitudini. Gian Piero leggeva le pubblicazioni alpinistiche che provenivano dagli USA e dal Regno Unito e seguiva molto ciò che succedeva al di là delle Alpi: in Francia.
Aveva scoperto una visione della scalata diversa da quella della nostra tradizione ancora influenzata dalla concezione romantica dell’alpinismo eroico di origini italo germaniche. Si potevano affrontare le massime difficoltà con preparazione tecnico-sportiva, spogli dalla visione drammatica che in passato sembrava aver accompagnato le grandi imprese. Io non leggevo le riviste in lingua inglese ma divoravo tutto quello che si scriveva di alpinismo in Italia e Francia, avevo poco tempo a disposizione ed un’infinità di progetti. La visione della “Montagna scuola di vita”, se mai mi aveva sfiorato, era scomparsa completamente dai miei pensieri. Lontanissima da me era poi l’idea dell’alpinismo eroico e gran parte del mio studio e preparazione tecnica era improntata a ridurre i rischi che comunque l’alpinismo delle grandi difficoltà richiede di affrontare. Già provavo qualche senso di colpa nei confronti dei miei familiari per cui non intendevo cedere a nessuna spinta eroica nel conquistare i miei obiettivi alpinistici. Ciò che ci accomunava era il desiderio della scoperta: posti nuovi ove vivere l’avventura, non necessariamente solo in alta montagna, l’avventura si trovava anche sui fianchi delle valli e, possibilmente, volevamo anche viverla in allegria.
Dalle chiacchiere passammo all’azione pratica, cominciammo a combinare qualche scalata insieme. In quegli anni, oltre le notizie sul Capitan e dintorni arrivarono dall’America innovativi materiali tecnici quali: chiodi in acciaio trattato, sottilissime “rurp”, “bong bong” in alluminio, cliffhanger.
Gian Piero ci portò a scoprire i tesori nascosti della sua valle: la Valle Grande di Lanzo, egli l’aveva girata in lungo ed in largo fin da bambino, conosceva tutte le rocce che si potevano scalare, così iniziò il periodo molto allegro del Bec di Mea con merende serali nella “piola” da Cesarin a Breno. Gian Piero ed io, indipendentemente l’uno dall’altro, cercavamo qualche cosa che andasse oltre tutto quello che era stato fatto in falesia prima di noi. Aprimmo nuove vie alla Rocca Sbarua ed al Plu ma il risultato non ci appagava. Nella valle Grande di Lanzo tutto era molto bello ma nè il Bec di Mea, nè il Bec di Roci Ruta ed ancor meno la Rocca di Lities rappresentavano l’obiettivo che stavamo cercando: troppa poca era la differenza rispetto a ciò che già era stato fatto in precedenza. Nelle mie fantasie continuavo a domandarmi ove cercare un obiettivo degno e certamente Gian Piero si poneva le stesse domande.
Un giorno mi si accese la classica lampadina: le pareti sopra i tornanti della strada per Ceresole Reale! Tante volte le avevo guardate diretto nel Gran Paradiso ma senza formulare progetti di scalata; erroneamente immaginavo che su quei liscioni granitici si potesse progredire solo con grande impiego di chiodi a pressione, tipo di scalata che a me non interessava. Le esperienze fatte con Gian Piero, alla ricerca di nuovi obiettivi in falesia, unitamente alle conoscenze apprese leggendo riviste americane, inglesi e francesi, cambiarono il mio punto di vista e quasi improvvisamente mi scoprii convinto che i dirupi di Balma Fiorant potevano essere scalati grazie al bagaglio tecnico da noi acquisito e senza l’indiscriminato uso del perforatore. Immediatamente fui preso dalla frenesia di passare all’azione. Un giovedì sera mi recai nella sede CAI Torino determinato a trovare un compagno per organizzare un tentativo. Entrando nei locali di via Barbaroux 1 intravvidi subito Gian Piero, era indubbiamente il miglior candidato possibile a cui proporre il mio progetto. Come iniziai a parlare egli scoppiò a ridere e mi confessò che due giorni prima si era recato alla base di quelle rocce animato dai miei stessi propositi per scoprire una linea possibile di salita e che credeva di averla individuata. Non fu necessario aggiungere altro, passammo subito al progetto esecutivo: ci accordammo sui materiali e concordammo sull’opportunità di trovare altri due compagni in modo da attaccare divisi in due cordate.
Era un periodo autunnale di tempo splendido così la domenica successiva, lasciata l’auto sui tornanti della strada che sale a Ceresole Reale, ci avviammo in quattro verso i dirupi di Balma Fiorant seguendo il percorso trovato da Motti pochi giorni prima. A noi due ideatori del progetto si erano aggiunti Guido Morello ed Ilio Pivano. Ci portammo nel punto di attacco individuato da Gian Piero e, impazienti di passare all’azione, mi legai con Motti ed il mio compagno si avviò per il primo tiro lungo una serie di fessure piuttosto umide. Piantò numerosi chiodi e si fermò su un piccolo ripiano; io lo raggiunsi lasciando i chiodi per la seconda cordata e, quasi con impazienza, proseguii per il secondo tiro mentre Morello, in testa alla seconda cordata, raggiungeva Gian Piero in sosta. Toccava ad Ilio chiudere la processione, ma fatti pochi metri, imprecando, ci dichiarò che su di lì non sarebbe salito e si fece calare. Non restava altro da fare che legare Guido ad una delle nostre corde, lasciare in loco chiodi e moschettoni usati nel primo tiro e proseguire in cordata da tre.
Gian Piero condusse il terzo tiro poi toccò a me superare una bella e difficile lunghezza che ci portò alla base di una liscia placca compatta senza fessure. In previsione di un ostacolo di quel genere Motti si era portato un punteruolo e tre chiodi a pressione, armato di tali attrezzi si avviò lungo la placca compatta, salì fino a quando sentì la necessità di proteggersi poi, in posizione precaria, iniziò a battere sul punteruolo per praticare un foro atto a ricevere un chiodo a pressione. Alla terza martellata il punteruolo gli sfuggì di mano e precipitò tintinnando lungo la parete. Non avevamo punteruoli di ricambio e ci trovammo così come “tre uccelli su un ramo”, per usare una espressione tipica del nostro simpatico amico Carlo Carena detto “il Carlaccio”.
Non ci rimaneva che apprestarci a ridiscendere in corda doppia con le pive nel sacco quando udimmo una voce che ci chiamava dall’alto. Con eccezionale preveggenza Pivano era salito lungo il canalone che costeggia la parete raggiungendone la sommità e, con ammirevole intuito, si era portato appresso due corde e non solo. Legò insieme le due corde, le fisso ad un larice e le calò lungo la parete nella nostra direzione, Così ingloriosamente conquistammo la sommità del dirupo con salita a mezzo nodi Prusik.
Allora io avevo l’abitudine di portarmi appresso, fino alla base della parete ovviamente, una bottiglia di barbera di pregio che io stesso imbottigliavo. Ilio, con abnegazione e coraggio, insieme alle corde, si era portata in cima la mia bottiglia così festeggiammo immeritatamente con brindisi abbondante la nostra conquista abusiva dei dirupi di Balma Fiorant.
Due settimane dopo Gian Piero ed io eravamo nuovamente lì per completare l’opera. Non c’erano più con noi i due amici del primo tentativo; il loro posto era stato preso da Vareno Boreatti e Flavio Leone, ci accompagnava la allora fidanzata di Flavio: Giuse Locana, una ragazza in gamba e spiritosa, purtroppo portata via poi dal solito male. Ci avrebbe atteso alla base e sue sono le due foto delle due cordate in azione, comparse in molte pubblicazioni.
Gian Piero attaccò per primo in cordata con Boreatti, io seguii legato con Leone. La salita si svolse senza intoppi, saggiamente avevamo portato un punteruolo di ricambio ma fu necessario un solo chiodo a pressione sulla placca che aveva fermato il primo tentativo. Toccammo la sommità in preda ad un entusiasmo esagerato, soprattutto da parte mia e di Gian Piero, avevamo finalmente dato inizio al nostro Nuovo Mattino.
Ritornati alla base, dove ci attendeva Giuse, brindammo, questa volta meritatamente, con la solita barbera. Nell’allegria generale ci ponemmo il tema di dare dei nomi alla nostra scoperta: Gian Piero aveva già in testa il nome dell’itinerario aperto: la Via dei Tempi Moderni. Io feci un piccolo scherzoso ragionamento sul nome da dare alla parete: Il nostro monolite non era meno bello dello Yosemitiano Capitan, era solo molto più piccolo ed allora lo potevamo collocare in una scala gerarchica più Bassa: se quello era Capitano, il nostro poteva benissimo essere un Caporale. La mia proposta piacque all’unanimità e Caporal fu.
PARETE DELLE AQUILE
VIA DELLA DOPPIA P…
Una componente non trascurabile della mia lunga “vita” alpinistica è sempre stata quella del divertimento e dell’allegria; non sono mancati attimi con toni drammatici, ma questi sono una costante nell’alpinismo delle grandi difficoltà e spesso contribuiscono ad arricchire il piatto dei ricordi, come il formaggio grana sulla pasta asciutta.
Sarà forse stata incoscienza creata ad arte, ma quasi sempre la scalata era accompagnata dallo scherzo, dallo sfottò, dalla presa in giro di presenti ed assenti e da canzoni massacrate in modo abominevole. Dal periodo delle allegre salite con Carlo Carena detto “Il Carlaccio”, bersaglio non indifeso delle nostre battute, alle tante scalate con Gian Piero Motti ove cercare l’occasione per la risata era quasi d’obbligo.
Un luogo ove, nel corso dell’apertura di tante nuove vie, non sono mancate situazioni ridicole, fino a sfiorare il paradosso, è il Caporal. Quel formidabile complesso roccioso della valle dell’Orco, che, prima della nostra scoperta, già possedeva uno sconosciuto nome locale: dirupi di Balma Fiorant.
Acquistò grande notorietà a partire dal 1972 quando divenne la nostra “piccola California”; successivamente passò in secondo piano con l’avvento dell’arrampicata sportiva e degli itinerari attrezzati a spit e fix salvo poi ritornare alla grande in data recente, con i meeting di arrampicata Trad organizzati dal Club Alpino Accademico. Ora è conosciuto universalmente ed è facile trovarvi più scalatori stranieri che italiani.
Condite con un po’ di nostalgia mi è venuto voglia di raccontare qualcheduna di quelle storie semiserie come la “Via della Doppia P…” alla Parete delle Aquile, del novembre 1982. Ero in compagnia di Franco Ribetti ritornato alla grande alle scalate; eravamo allora ambedue scafati ultra quarantenni ma la nostra fu un’impresa esemplare da incoscienti pivelli.
Franco negli anni ’50 era “l’enfant prodige” dell’alpinismo torinese; nipote di Giuseppe Dionisi, fondatore della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti, venne guidato dallo zio alla scuola: a 13 anni era già allievo ed a 16 anni istruttore; la paura era per Franco quasi sconosciuta ed alcuni passaggi da lui superati per primo sui massi delle Courbassere, preludio torinese al moderno Bulder, rasentavano la temerarietà. Legato da grande amicizia con Guido Rossa, di qualche anno più vecchio, oltre alle scalate, insieme ne combinarono di tutti colori guidati da spirito dissacrante e scherzoso.
Nel 1960, all’attacco di una via sulla parete nord dell’Uja di Mondrone, nel corso di un’uscita della scuola di alpinismo, Franco scivolò sulla roccia resa umida da recente pioggia e si fece 40 metri di caduta rotolando sulle balze e finendo su una lingua di neve che, probabilmente, gli salvò la vita. Ne uscì con fratture multiple e lesioni interne. Non era ancora l’epoca dei soccorsi con elicottero e venne trasportato a valle adagiato su una scala a pioli a mo’ di barella, reperita in una grangia.
Impiegò due anni a guarire, provò a riprendere l’arrampicata ma poi decise di smettere con l’alpinismo continuando però con lo sci alpinismo, la bicicletta, la corsa a piedi. A metà circa degli anni ’70 suo zio Dionisi, sempre impegnato ad organizzare spedizioni nelle Ande Peruviane, lo convinse a partecipare ad una spedizione; l’evento risvegliò la sua passione alpinistica e riprese a scalare.
Allora io facevo parte della direzione della scuola Gervasutti, prima come vicedirettore, poi come direttore, Dionisi, che aveva ancora legami con la scuola pur essendo uscito dall’organico istruttori, mi disse che Franco era ritornato alle scalate e che andava forte come prima del lontano incidente. Io gli proposi subito di convincerlo a rientrare nella scuola e Ribetti ritornò tra di noi con una grande voglia di recuperare gli anni perduti.
Io ero alla perenne ricerca di compagni di cordata per realizzare i miei obiettivi, al vedere tanto entusiasmo in Franco, gli proposi presto di combinare una salita per conoscerci meglio e per collaudarci a vicenda. La nostra prima salita insieme fu un po’ particolare: Una via nuova di roccia su una parete nord alta quasi 1000 metri in inverno. Era il mese di gennaio del 1982 e la parete la Nord dell’Albaron di Sea in valle di Lanzo. Un bivacco in parete e l’uscita in vetta sotto una nevicata. Fummo soddisfatti dell’impresa ed il sodalizio era formato, da allora innumerevoli furono le salite effettuate insieme. Io avevo una fissa per la scoperta del terreno nuovo che rasentava la paranoia, Franco non poneva mai limiti ai miei progetti ed era disponibile a tutto: il compagno ideale.
Ma ritorniamo a Balma Fiorant ed alla Parete delle Aquile: la parete era stata salita per la prima volta da me con Corradino Rabbi e Claudio Sant’Unione ed il nome era scaturito dal fatto che allora la parete era abitata da due aquile che ci giravano intorno mentre noi salivamo sotto il loro nido. Successivamente su quella parete tracciai altre tre vie con compagni diversi; c’era ancora un settore caratterizzato da muri grigi e strapiombi che mi incuriosiva. Era ormai stagione avanzata: il mese di novembre 1982. Franco accolse la mia proposta senza esitazione così un sabato dal tempo incerto partimmo da Torino all’alba che già cadeva qualche goccia di pioggia. Il nostro ottimismo era però senza confini. A Rivarolo qualche dubbio si affacciò in noi e decidemmo di telefonare ad un bar a Ceresole Reale per informazioni sulle condizioni locali del tempo. Ci risposero che tra le nuvole c’era qualche squarcio di sereno, fu sufficiente per noi, malgrado tutto era la giornata giusta. Lasciammo la vettura al solito posto sui tornanti della strada di Ceresole e ci avviammo senza più badare alle condizioni meteo; eravamo carichi di materiale e per economizzare sul peso non prendemmo nessun indumento oltre a quelli che avevamo indosso. Trovammo l’attacco logico della nuova via ove avevo previsto ed iniziai io lungo un vago diedro con fessure superficiali di difficile chiodatura. Salii parte in artificiale e parte in libera fino ad un discreto ripiano. Sopra di noi si scorgevano muri grigi compatti con qualche ruga superficiale, Franco si avviò cercando le zone più arrampicabili; dopo 5 metri cercò di piantare un chiodo ma non vi riuscì, proseguì 10 metri; non so lui ma io cominciavo a preoccuparmi, lo esortai a piazzare una protezione ma non vi riuscì, le chiodature complesse non sono mai state la sua specialità, preferiva proseguire arrampicando piuttosto che fermarsi in posizione precaria ad infiggere qualcosa nelle crepe superficiali della roccia. Non era più possibile ritornare in dietro, bisognava andare avanti fino a trovare una fessura; rividi in azione il Ribetti giovane senza paura. Finalmente trovò una fessura per un chiodo, era ad oltre 15 metri dalla sosta, tirai un sospiro di sollievo.
La salita proseguì sempre molto impegnativa, il tempo volava e noi non ce ne rendemmo conto. Franco raggiunse un microscopico ripiano in mezzo ad un’enorme placca sormontata da tetti e fece sosta. Io lo raggiunsi e continuai lungo un vago spigolo sulla sinistra, solcato da fessure che portava sotto un marcato tetto. La progressione fu lenta, prevalentemente in artificiale, con ampio impiego di materiale. Quando arrivai sotto i tetti mi accorsi con sorpresa che era quasi buio e stava calando la notte; Franco dalla sua scomoda sosta mi gridò: << Cosa facciamo adesso >>. Oltre a non avere indumenti aggiuntivi non avevamo, naturalmente, neanche portato le pile. Risposi: << Non ci resta che aspettare l’alba battendo i denti >>. Il terrazzino di Franco era piccolo ma almeno poteva sedersi, io invece ero sulle staffe appeso ai chiodi. Cominciò una interminabile notte di novembre. Il cielo, nero dalle nubi, decise di inasprire la nostra meritata punizione e ad un tratto iniziò a piovere. Io ero riparato dal tetto che mi sovrastava mentre Franco era colpito in pieno da un rivolo d’acqua che cadeva dagli strapiombi, in breve si trovò completamente inzuppato.
A circa metà della notte la pioggia si trasformò in nevischio con un brusco calo della temperatura, in breve la parete bagnata si ricopri di un velo di ghiaccio, la nostra situazione cominciava a diventare preoccupante soprattutto per Franco i cui vestiti fradici cominciavano a trasformarsi in uno scafandro di ghiaccio. Una drammatica invocazione mi raggiunse nella buia notte: << Ugo se non ci muoviamo io muoio assiderato, ho i piedi insensibili e non riesco più a muovere le gambe >>.
Bisognava per forza fare qualche cosa: a tentoni mi slegai ed unii le due corde, le fissai all’ancoraggio ove ero appeso, mi misi in posizione di discesa a corda doppia e, staccatomi dall’ancoraggio, cominciai a scendere liberando man mano le corde dai chiodi e nuts che avevo fissato per salire, ancoraggi che rimasero in parete. Le corde erano gelate e la roccia ricoperta da verglas, tanto che, come appoggiavo i piedi, scivolavo e pendolavo appeso alle corde. Pazientemente, dopo numerosi pendoli, riuscii a raggiungere il mio compagno. Io mi ero riscaldato un po’ con tutte quelle manovre ma Franco era talmente intirizzito da non riuscire a muoversi. Ricuperai le corde e sistemai una seconda calata, ma il mio socio non era in grado di scendere autonomamente così lo legai al capo di una corda, lo spinsi nel vuoto e lo calai appeso usando come freno il mezzo barcaiolo e dicendogli: << quando trovi un ripiano o cengia che ti consente di stare in piedi senza cadere fermati che ti raggiungo >>. Il tutto nella più completa oscurità. Cosi fece ed io lo raggiunsi in corda doppia. A tentoni trovai delle fessure che chiodai per l’ancoraggio della doppia successiva. Ripetemmo l’operazione laboriosa ma con maggior tranquillità perché Franco, grazie al movimento, si era un po’ riscaldato e riusciva a collaborare. Cominciò ad affiorare qualche battuta sulla nostra tragicomica situazione. Un’ ultima calata ci portò quasi alla base, la corda era però finita ed il mio compagnò si trovò appeso a sfiorare il terreno, era ancora buio, valutò che gli mancava meno di un metro a toccare e mi disse di mollarlo, così feci ed egli si trovò a terra tra i massi e senza danni. Con le manovre ormai collaudate scesi anch’io e toccai la base mentre cominciava ad albeggiare.
Franco aveva ancora i piedi insensibili ma aveva riacquistato la mobilità; i massi della pietraia erano coperti da un velo di ghiaccio ed era impossibile reggersi in piedi, cominciammo a scendere praticamente a quattro zampe ma finalmente eravamo sani e salvi fuori dai guai. Divallammo molto lentamente e quando raggiungemmo la strada di Ceresole era giorno fatto. Anche la strada era coperta da un insidioso velo di ghiaccio ed era totalmente deserta; un rumore d’auto ci testimoniò che, malgrado il tempo infame, qualcheduno stava salendo. << Vuoi vedere che stanno cercando noi? >>. Dissi al mio compagno. Infatti, erano Enrico Pessiva e Claudio Sant’Unione che, allarmati dai famigliari, si erano mossi alla nostra ricerca.
Con la consueta sua schiettezza Claudio, come ci vide integri, ci apostrofò: << Siete proprio due Pirla >>.
L’avventura era finita bene nostro malgrado, risultò che Franco non aveva congelamenti ai piedi, ma la nostra via non era finita ed inoltre avevamo lasciato del materiale in parete, così nella primavera successiva ritornammo con Sant’Unione alla Parete delle Aquile. Dalla cima scendendo in doppia, raggiungemmo il terrazzino ove tanto aveva sofferto Franco e completammo la via ricuperando il materiale che era rimasto in parete. Ritenemmo il suggerimento di Claudio giusto per cui denominammo la nuova via: “Via della Doppia P….” con chiaro riferimento ai due poco saggi protagonisti.
Ugo Manera
PARETE DELLE AQUILE
INCOMPIUTA
PREMESSA
Una domenica sera di molti anni fa, di ritorno da una scalata con Franco Ribetti, ricevetti una telefonata da un amico che, con la voce rotta dall’emozione, mi comunicava che Isidoro Meneghin era caduto alla Rocca Sbarua. Con Franco ci precipitammo all’ospedale dove la sorella di Isidoro ci disse che il fratello era talmente grave che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Cessò di vivere infatti poco dopo mentre lo trasferivano da un reparto all’altro. Con Isidoro avevo compiuto innumerevoli scalate, sempre alla ricerca di nuovi problemi da affrontare e risolvere. Era un personaggio particolare, tendenzialmente solitario e per vari aspetti introverso ma, al di là delle apparenze, attento osservatore degli aspetti sociali della vita. Nelle tante ore passate insieme sulle pareti, a volte durante scomodi bivacchi, abbiamo discusso molto, non solo di scalate ma di tutti gli aspetti del vivere quotidiano.
17 Febbraio 2017, da un notiziario radiofonico apprendo che sullo Chaberton, in Valle di Susa, in tre erano morti, travolti da una slavina, tra di essi una guida alpina di Torino. Poco dopo vengo a sapere che la guida era Adriano Trombetta, e con lui c’erano: Antonio Lovato, istruttore della scuola di alpinismo G. Gervasutti e Margerita Beria, maestra di sci.
Conoscevo bene Adriano e tante volte abbiamo parlato di scalate, sempre in modo scherzoso ed allegro. Abbiamo scalato una volta sola insieme sulla Parete delle Aquile sopra al Caporal.
Proprio della Parete delle Aquile voglio raccontare, di una via che accomuna, a molti anni di distanza, questi due sfortunati amici che occupano un ruolo importante nella storia dell’alpinismo torinese.
….e rimase Incompiuta
Se si parla dei Dirupi di Balma Fiorant nessuno sa di cosa si tratta né dove si trovano, se invece nominiamo il “Caporal”, l’universo degli arrampicatori sa benissimo dove collocarlo sia geograficamente che nel contesto storico; ebbene sono la stessa cosa, solo che il primo è un nome locale che identifica l’insieme di dirupi tra i quali si colloca la parete del Caporal ed il secondo invece è l’appellativo alpinistico da me coniato nell’ottobre 1972 sull’onda dell’entusiasmo conseguente alla prima ascensione di quel magnifico scoglio. Da come si evince dall’introduzione, Balma Fiorant comprende, oltre al Caporal, altri importanti dirupi che successivamente presero nomi altisonanti come: “Parete delle Aquile” e “Parete dei Falchi”.
La scoperta del Caporal l’ho già raccontata, ora mi soffermo un attimo sulle altre due. Come per il più celebre Caporal, anche la denominazione: “Parete delle Aquile” fu opera mia. Quando con Dino Rabbi e Claudio Sant’Unione tracciammo la prima via su quel formidabile dirupo, sopra di noi, per tutto il giorno, volteggiarono due grandi aquile, avevano il nido in uno stretto camino che noi evitammo per non arrecare disturbo ai maestosi volatili e, passando poco al di sotto del nido, raccolsi una lunga e bella piuma che ancora conservo. Quando successivamente mi accinsi a stendere la relazione della nuova via la scelta del nome della parete fu praticamente obbligata.
La “Parete dei Falchi” fu così denominata (credo da Isidoro Meneghin) non perché abitata dai falchi ma semplicemente perché più piccola e più in basso di quella delle aquile; quasi un senso di dovere nel rispetto delle gerarchie.
Negli anni che seguirono il 1972, in quell’angolo della Valle dell’Orco, divenuto ormai celebre tra gli arrampicatori, la mia attenzione fu costantemente monopolizzata dall’apertura di nuovi itinerari, spesso in competizione con altri scalatori. Sulla Parete delle Aquile aprimmo tre itinerari di cui almeno uno di grande respiro: la “Via del Plenilunio”; ma non ci bastava, cercavamo altre linee sempre più ardite. Con Isidoro Meneghin individuai una possibilità nella zona più ripida della parete lungo una linea di diedri rossastri tra grandi strapiombi. All’apparenza sembrava veramente un osso duro per cui ci armammo del miglior materiale tecnico a nostra disposizione ad eccezione del punteruolo perché avevamo scelto di non praticare fori nella roccia, e partimmo per un tentativo, era il 1979.
Carichi di ferraglia salimmo il disagevole canalone che porta sotto la parete e dopo un passaggio delicato raggiungemmo un terrazzo erboso alla base di un diedro obliquo dall’aspetto ostico che saliva verso gli strapiombi giallo-rossastri. Attaccai io ma subito mi trovai in difficoltà perché l’accenno di fessura sul fondo era completamente cieco. Dovetti ricorrere a tutta la mia esperienza di chiodatore usando micro lamette di acciaio trattato e prendendomi qualche rischio ma riuscii a raggiungere la sommità del diedro ove sostai alla base di uno strapiombo rosso scoraggiante. Sullo strapiombo Isidoro si impegnò in una lotta senza quartiere, la roccia per giunta non era salda, mi pare ancora di vederlo, appeso sulle staffe, nel tentativo di fissare qualche cosa alla roccia, con il casco appeso all’imbragatura (sopportava malvolentieri il casco in testa), lanciando esclamazioni ad ogni metro guadagnato. Piantò varie “rurp” nelle rughe della roccia e si sollevò con estrema delicatezza sui gradini più alti delle staffe per non far crollare castello e castellano. Qualche scheggia si stacco e rimbalzò vicino a me, poi finalmente riuscì a piazzare un buon chiodo Cassin (che lasciammo a testimonianza del nostro passaggio). Ancora parecchi metri di estrema precarietà su ancoraggi fantasiosi ed aleatori poi riuscì a vincere lo strapiombo rosso, trovò un punto ove piazzare la sosta, prese fiato e mi urlò: << Non ho mai fatto artificiale così difficile, credo si possa dare tranquillamente A4>>. Lo raggiunsi togliendo il materiale infisso con estrema facilità, poi toccò a me affrontare un tratto altrettanto difficile su ottima roccia però pressoché priva di fessure: altri numeri su micro lame di acciaio e invenzioni varie poi giungemmo sotto una fessura strapiombante sporca di licheni. Percorremmo tutta la fessura dapprima larga poi sempre più sottile fino ad uscire su una placca inclinata e compatta. La parete finiva con questa placca lunga 15 o 20 metri. Non appariva difficile ma era totalmente priva di fessure, nessuna possibilità di piazzare ancoraggi di assicurazione. Ricorremmo a tutte le nostre risorse di esperti chiodatori ma non ci fu nulla da fare, senza i chiodi a pressione non si passava e noi, volutamente, li avevamo da tempo esclusi dal nostro equipaggiamento. Dopo vari inutili tentativi ci dichiarammo sconfitti e ripercorremmo a doppie, in discesa, la nostra via che per pochi metri rimase “incompiuta”.
Passarono gli anni ma il ricordo di quella difficile lotta con la Parete delle Aquile rimase in me ed ogni tanto raccontavo delle nostre fatiche a qualche amico. Nel 1998 accompagnai Maurizio Oviglia a rivisitare alcune pareti in preparazione di: “Rock Paradise”, la raccolta di ascensioni scelte nel Gran Paradiso. Lo convinsi ad una puntata alla Parete delle Aquile per vedere se la via “incompiuta” poteva essere trasformata in una via di arrampicata libera di elevata difficoltà. Dopo tanta fatica a causa dei sacchi pesanti e, alla base della parete, l’emozione di aver posato gli stessi su due vipere, ci rendemmo conto che tale itinerario non si prestava all’arrampicata libera seppure estrema, ritenemmo poco saggio perciò usare il trapano e piazzare dei fix dove si doveva poi comunque salire in artificiale; meglio perciò lasciare la via cosi, allo stato originale, per chi volesse cimentarsi ancora con l’artificiale estremo di una volta. Abbandonammo l’ ”incompiuta” al suo destino ci rivolgemmo ad un altro progetto.
Passarono altri anni e nel 2004 mi ritrovai in numerosa compagnia sulle rocce del Caporal per girare le riprese del documentario “Cannabis Rock”. Il gruppo era composto dal sottoscritto e da Piero Pessa in veste di attori, e da cineoperatori assistiti da due guide: Enzo Luzi ed Adriano Trombetta. Le riprese furono effettuate sulla via “del Sole Nascente”, per due giorni lavorammo con il bel tempo ed in grande allegria; al termine delle riprese, in cima al Caporal, sostammo ad ammirare e commentare le pareti che ci circondavano. La Parete delle Aquile spiccava proprio di fronte con le sue strutture evidenziate dalle ombre pomeridiane, raccontai ad Adriano delle vie che vi avevo aperto soffermandomi sulla storia dell’ “incompiuta” e manifestando il mio rammarico per non averla completata. Gli indicai dove passava e poi scendemmo a valle.
Passò l’estate ed un giorno, diretto ad arrampicare a Frassiniere nel Briançonnais, passando sotto le pareti, mi sentii chiamare, alzai gli occhi e scorsi Adriano Trombetta appeso sotto un grande strapiombo mentre provava un tiro di elevata difficoltà; mi urlò che era andato a provare la via “incompiuta” alla Parete delle Aquile ma non era riuscito a passare. Molto incuriosito attesi il suo ritorno a terra e mi feci raccontare del suo tentativo. Conquistato dal mio racconto sulla cima del Caporal, era andato a provare la nostra via con un amico.
Aveva superato la prima lunghezza di corda in arrampicata libera dove io ero salito in artificiale, si era preso qualche rischio perché non riuscendo ad infiggere chiodi, era partito in libera sulla placca allontanandosi dal fondo del diedro e per almeno dieci metri non era riuscito a piazzare protezioni. Alla seconda lunghezza di corda però erano stati respinti. Adriano non era riuscito a raggiungere il vecchio chiodo Cassin da noi lasciato 25 anni prima e che rappresentava l’unico ancoraggio sicuro che Isidoro era riuscito a piazzare in quella lunghezza estrema. Trombetta era ridisceso e, deciso a ripetere il tentativo con materiale più sofisticato, aveva lasciato una corda fissa sulla prima lunghezza di corda.
Tra Adriano e me ci sono 40 anni di differenza e sentire raccontare da lui, talento emergente dell’alpinismo, di uno scacco subito su una mia via, fece balenare in me un lampo di orgoglio e mi vidi proiettato all’indietro a battagliare con Isidoro su quelle rocce. D’istinto proposi al giovane amico di andare a ripetere il tentativo insieme, precisando però che il mio ruolo sarebbe stato quello di “spalla” non essendo ormai più in grado di fare il protagonista su quelle difficoltà.
Detto fatto, qualche giorno dopo salivamo carichi di pesanti sacchi di fianco al Caporal, nel canalone che porta alla Parete delle Aquile. Quante volte avevo salito quella pietraia tanti anni prima; sempre con qualche progetto nuovo in testa, verso avventure che mentre salivo lentamente mi ritornavano in mente nei minimi particolari. Ricordi avvolti in un sottile velo di nostalgia.
Giungemmo alla base della parete nel punto che io ben ricordavo, la corda lasciata da Adriano penzolava lungo il diedro della prima lunghezza e noi la risalimmo con gli autobloccanti; Adriano si sistemò indosso il materiale da scalata e si avviò verso il passo che lo aveva respinto. La roccia in quel tratto, oltre ad essere strapiombante e priva di fessure, è anche friabile, il mio giovane amico ne staccò dei pezzi mentre cercava di fissare qualche cosa per progredire; io attento ad arrestare eventuali cadute per la possibile fuoriuscita di ancoraggi precari, osservavo anche i materiali che impiegava: i “clif” e le “rurp” le usavo anch’io ai miei tempi, le ancorette invece non le avevo mai impiegate; ciò che notavo di molto diverso erano le staffe: io usavo staffe con tre gradini, raramente quattro, e cercavo di salire quasi sempre anche sul primo gradino; ora vedevo che le staffe moderne hanno molti gradini, questi sono ravvicinati ed Adriano evitava di salire su quelli più in alto. Oggi nell’artificiale moderno si usano spesso ancoraggi più aleatori che ai nostri tempi per cui le sollecitazioni debbono essere più soft, cosa non garantita dalla nostra tecnica molto più rude. Il tempo scorreva, il mio compagno saliva lento ed ogni tanto invece di Adriano mi sembrava di rivedere Isidoro con il suo casco appeso alla cintura ad imprecare perché la roccia lo respingeva.
Adriano superò il punto che lo aveva fermato nel suo primo tentativo, raggiunse il nostro vecchio chiodo ancora saldo, e sempre costretto al massimo dell’impegno, riuscì ad ultimare la difficile lunghezza. Io lo raggiunsi passando con difficoltà da un ancoraggio all’altro e ricuperando tutto il materiale tranne il nostro vecchio chiodo.
Un tratto poco difficile ci consentì di raggiungere lo strapiombo che difende l’accesso alla fessura finale; due vaghi diedri privi di fessure lo solcano, qui la roccia è perfetta, mancano solo le fessure, mi ricordavo che in questo tratto ero dovuto ricorrere a tutta la mia “arte” di chiodatore per riuscire a salire. Anche Adriano si impegnò al massimo per infiggere qualche cosa in quelle rughe superficiali ma comunque salì e raggiunse la base della fessura finale. Il tempo era però volato e quando lo raggiunsi era ormai tardi, difficilmente saremmo riusciti a giungere in cima prima di sera.
Decidemmo di ripiegare lasciando delle corde fisse per poi ritornare a completare l’opera; avevamo con noi il trapano per la placca che mi aveva fermato nel 1979 per cui attrezzammo le soste con fix, vi fissammo le corde che dovevano rimanere in parete e ridiscendemmo alla base.
Le cose però non andarono secondo le nostre intenzioni: Adriano si infortunò ad un ginocchio, subì un intervento che lo costrinse ad un periodo di inattività così non ritornammo più. Sulla Parete delle Aquile sono rimaste le nostre corde ormai inutilizzabili e la via continua ad essere incompiuta. Non mi sento neanche troppo dispiaciuto per questa conclusione, in fondo ho rivissuto una vecchia avventura in chiave moderna ed il punto interrogativo è ancora là, forse qualcuno troverà la voglia di andare a cancellarlo.
In fine non mi rimane che formulare una considerazione: nel 1979 in un giorno avevamo aperto la via salvo gli ultimi pochi metri, 25 anni dopo, in due tentativi non si è giunti ove eravamo arrivati allora, è probabile che la nostra “incompiuta” sia la più difficile via in artificiale aperta sui dirupi di Balma Fiorant prima dell’avvento dell’artificiale moderno di Valerio Folco.
Recentemente la storia dell’incompiuta si è arricchita di un nuovo capitolo. Due giovani istruttori della scuola Gervasutti, molto bravi, Fabio Ventre e Mirko Vigorita, hanno effettuato un nuovo tentativo nel 2020. Ci sono ancora appese le nostre corde deteriorate ed inutilizzabili. Anche questo recente tentativo è andato fallito, sono stati respinti dal secondo tiro di artif molto difficile. Mi auguro che abbiano ancora voglia di ritentare perché il problema diventa sempre più intrigante.
UNA SALITA INVERNALE
di Luca Enrico
Inverno strano quello di fine 2015, un dicembre secco, quasi privo di neve, relegata solo in quantità modesta sulle vette più alte.
testo di Alberto Rampini - le foto, ove non specificato, sono dell'autore
Di "perle" la Valle del Sarca ne ha veramente tante e per tutti i gusti. Moltissime sono "perle coltivate", simili a quelle naturali ma più curate, con un ché di elaborato e un po' innaturale che le rende comunque piacevoli e sicuramente alla portata di un pubblico vasto per il loro prezzo contenuto.
Prezzo alpinistico naturalmente, quindi comodità e impegno limitato, quello che piace oggi al grande pubblico. Ma la Valle raccoglie nel suo scrigno prezioso perle naturali di grande valore, riservate ad una cerchia più ristretta di estimatori, appassionati del genere e che non si fanno spaventare da un prezzo più alto in termini di impegno e di fatica, sicuri di trarne piacere e soddisfazione impareggiabili.
Anche in Valle del Sarca naturalmente non è tutto oro quello che luccica sulle pagine delle guide e sul web, per cui ho pensato fosse utile presentare una scelta di vie tradizionali, non manomesse in ottica securitaria e commerciale, ma caratterizzate da qualità alpinistica indiscutibile: linea logica e naturale, qualità della roccia e dell'arrampicata, proteggibilita' alpinisticamente adeguata.
Quindi vie nel loro genere sicuramente consigliabili, belle e di soddisfazione. La scelta che propongo è per forza di cose limitata e non esaurisce di certo il panorama delle vie trad meritevoli, ma intanto partiamo con queste, non senza aver dato prima uno sguardo alla storia dell’alpinismo in Valle.
Buone scalate a tutti e un invito a rispettare e conservare integro questo grande patrimonio e l’ambiente che lo ospita.
INTRO
La Valle del Sarca, estremo lembo di terra trentina proteso verso la piatta Pianura Padana, rappresenta un unicum di connubio felice tra clima mediterraneo e alte pareti e montagne di ambiente prealpino, se non addirittura prettamente alpino. Il solatìo ambiente a lecci, cipressi e ginepri che ci accompagna all’attacco delle vie del Monte Casale lascia il posto, 1.200 metri più in alto, all’aria frizzante delle praterie sommitali e alle foreste di abeti del versante settentrionale, al cospetto del vicinissimo Gruppo di Brenta.
Un microcosmo, quindi, dagli aspetti più vari, ma con la predominanza assoluta di condizioni climatiche mild per la quasi totalità dell’anno. Ne risulta un ambiente quanto mai favorevole allo sviluppo delle attività outdoor e in modo particolare dell’arrampicata e dell’alpinismo. E come agli albori della storia le condizioni climatiche non avverse del bacino del Mediterraneo fecero da sfondo allo sviluppo delle grandi civiltà, così le condizioni favorevoli, climatiche e morfologiche, della Valle del Sarca hanno favorito enormemente la diffusione dell’attività alpinistica, soprattutto dal momento in cui le spinte al rinnovamento hanno portato a posare lo sguardo e l’interesse anche al di fuori del campo tradizionale dell’alpinismo, cioè le più alte cime della catena Alpina, generando un’attività dapprima sussidiaria e preparatoria alla precedente, poi via via sempre più autonoma e con caratteristiche peculiari e molto ben connotate.
ALPINISMO CLASSICO IN VALLE DEL SARCA - UN PO’ DI STORIA
La storia alpinistica della Valle del Sarca è ancora scritta soltanto sulle sue pareti e in alcune guide alpinistiche. Dai tempi in cui i braccianti locali si arrampicavano quanto più in alto possibile per affastellare legna e fascine per l’inverno, ai primi tentativi e realizzazioni di alpinisti di Riva ed Arco, tragicamente interrotti da un mortale incidente occorso al rivano Bresciani, mentre tentava in solitaria la difficile parete Est di Cima Capi. Per le prime importanti realizzazioni bisogna arrivare agli anni Trenta, quando i grandi nomi dell’alpinismo trentino si avventurano su per la valle e studiano per primo il versante Est del Monte Casale, la ciclopica parete che chiude la lunga catena montuosa, facendo angolo sulla valle del Basso Sarca, e che si eleva per ben 1.200 metri.
Ma vediamo per sommi capi l’evoluzione delle più significative tendenze, individuando per comodità alcuni periodi caratteristici.
Gli albori – Anni Trenta
Evidentemente la scelta delle pareti è tipicamente dettata dall’alpinismo che si praticava all’epoca e le prime vie vengono aperte sulla parete più alta (Est del Monte Casale): quella di M. Friederichen e F. Miori del 1933 e soprattutto quella di Bruno Detassis, Marino Stenico e Rizieri Costazza del 1935, che vince il Gran Diedro la cui linea si impone al centro della parete.
Il periodo d’oro – Anni Settanta/Ottanta
Sono ancora lontani i tempi in cui verrà privilegiata l’arrampicata su placca, quando una compagnia di danzatori, specializzata nell’arte apparentemente aerea del balletto, si esprimerà con energia creativa riuscendo ad imprimere al progetto di un nuovo stile e di una nuova filosofia arrampicatoria una sotterranea e sottile carica eversiva che andò anche al di là delle loro intenzioni, come dimostrano tante contemporanee imprese al Piccolo Dain, al Monte Casale e al Monte Brento.
Se è vero che si diffuse la mistica della placca, è anche vero che molte vie, superato l’alto zoccolo basale, in genere una placconata liscia, a balzi, si trovarono ad affrontare la più verticale e strapiombante parte sommitale che riportava a più consuete ed estreme condizioni dolomitiche.
Tipico esempio è la via Martini, Tranquillini e Perotoni alla Cima alle Coste (1972) che, superato lo scudo basale, si trova subito sopra la cengia di fronte alla classica parete gialla di diedri, fessure verticali, lame appoggiate, sottili e bellissime. Altro tracciato esemplare è la via del Boomerang di Marco Furlani, Valentino Chini, Mauro Degasperi e Riccardo Mazzalai (1979) dove i tiri finali, oltre l’ultimo boschetto, richiedono il ritorno ad un’arrampicata più tecnicamente tradizionale per camini e diedri, esaurite le levigate placche e la loro massiccia solidità, al di sopra della lavagna grigia e compatta vinta in aderenza. E’ emblematico che la citata via del Boomerang sia stata anche battezzata come via della Nuova Generazione a sottolineare il confronto che si proponeva, in cui entrano la bellezza delle vie, la perfezione tecnica, la grazia dei movimenti, l’energia utilizzata quando ci si sente il cuore in gola.
Le vie spittate – Anni Novanta e oltre
Con il progressivo esaurirsi della spinta innovativa che aveva prodotto decine di belle, impegnative e sempre più difficili vie di stampo prettamente alpinistico (per logica di tracciato e mezzi impiegati), cominciano ad affacciarsi, con un certo ritardo rispetto ad altre zone, come ad esempio il Finalese, le prime vie integralmente protette a spit. Sono vie concepite in ottica plaisir e studiate per venire incontro alle richieste di sicurezza e ingaggio ridotto, tipici portati dell’alpinismo diventato fenomeno di massa (massa relativa, ma sempre massa, e cioè fenomeno radicalmente differente da quello che aveva fino ad allora interessato un limitato numero di addetti ai lavori). Fortunatamente, fenomeni altamente involutivi, come l’apertura di vie dall’alto o gli scavi, sono in valle estremamente limitati e oggetto di generale riprovazione, così come sono stati stroncati decisamente sul nascere alcuni maldestri tentativi, peraltro molto limitati, di snaturare i capolavori del periodo classico con richiodature antistoriche e prive di significato. Unica eccezione ragionevolmente accettata è per le soste.
Le vie stile “Grill” – Terzo Millennio
Infine, così come le vie a spittatura seriale erano state una reazione al rischio a volte ben alto delle vie trad non di rado su roccia mediocre, ultimamente le pareti sono state travolte da un nuovo filone di aperture, che privilegia le linee ancora logiche ed arrampicabili con un uso normalmente parsimonioso di infissi, ricreando un’apparenza di arrampicata tradizionale. Fa comunque piacere costatare che, nonostante il succedersi in Valle di questi filoni diversi, legati a corsi e ricorsi storici, il patrimonio di vie del periodo d’oro sia rimasto sostanzialmente intatto, sia pur magari con qualche “ritocco”, a disposizione degli alpinisti più preparati, che ci auguriamo si affianchino sempre più numerosi agli atleti dell’arrampicata sportiva.
E il futuro?
Già più volte i protagonisti dei vari periodi avevano sentenziato l’ormai imminente esaurirsi dei problemi da risolvere, smentiti puntualmente da chi ha pensato di proporre (e risolvere) nuove tipologie di problemi o di obiettivi, sviluppando nuovi filoni di aperture. Grill, scalando oggi l’inscalabile, avrà esaurito o almeno davvero fortemente ridotto i margini per la possibilità di apertura di vie nuove ragionevoli? Non è difficile ipotizzare che il futuro riservi ulteriori sorprese e traguardi magari oggi non definibili.
Problemi indubbiamente sono sorti e altri ne sorgeranno: del resto il mondo alpinistico, dagli opinion leaders ai più semplici praticanti, è formato da personalità e caratteri forti, geneticamente non facili, e stabilire punti fissi e principi accettati da tutti è utopia.
Nonostante alcuni limitati tentativi di attacco, dovuti sicuramente più all’ignoranza storica dei protagonisti che a consapevolezza del significato del gesto, ci si può sicuramente rallegrare del fatto che il grande patrimonio storico di vie classiche aperte con spirito fortemente alpinistico si è conservato pressoché intatto, passando indenne attraverso le varie fasi di sviluppo dell’arrampicata.
E questo grande patrimonio, che ci dobbiamo tutti impegnare a conservare, rappresenta non solo un documento storico eccezionale, ma anche un valore aggiunto, in prospettiva, molto importante e che in futuro potrà fare la differenza, anche nella promozione dello sviluppo della frequentazione alpinistica della Valle, rispetto ad altre zone meno ricche di storia, o dove la storia è stata irrimediabilmente cancellata dalla sovrapposizione di un modernismo poco rispettoso e intimamente distruttivo.
Sarebbe bello che qualcuno in valle si sforzasse di dire ancora qualcosa di nuovo, magari non solo al ristretto cenacolo dei big, ma a favore soprattutto dei giovani arrampicatori, aprendo loro le porte all’immenso patrimonio trad che la valle ancora offre e del quale noi accademici vorremmo essere i custodi.
Ben convinto di questo, voglio proporre di seguito alcuni straordinari itinerari in prevalenza degli anni d’oro, fortunatamente rimasti sostanzialmente integri nelle loro caratteristiche. E li propongo non in contrapposizione con altre tipologie di itinerari ed altre mentalità, ma solo per promuovere la consapevolezza che le proposte che oggi in valle tengono il campo dell’alpinista medio (vie a spittatura seriale da un lato e vie “stile Grill” dall’altro) non sono le sole proposte per fare bellissime esperienze di arrampicata in relativa sicurezza e con la soddisfazione aggiuntiva di conquistare qualcosa con i propri mezzi e le proprie capacità, più che approfittando del lavoro e della preparazione fatta da altri.
LE CLASSICHE PIU’ RIPETUTE
Le vie proposte, a partire dalla bassa Valle fino alle Sarche, hanno tutte in comune una logica lineare, che segue strutture evidenti della parete, una roccia di ottima qualità o al più con qualche breve tratto delicato, assenza di spit ma proteggibilità sempre alpinisticamente accettabile. Più ingaggiose delle altre Fiore di Corallo e la Canna d’organo, che richiedono una buona padronanza del grado. Ma ci sono anche alcune vie brevi e di impegno complessivo contenuto che si prestano per fare esperienza sul terreno trad e acquisire padronanza di questa straordinaria disciplina (ad esempio la Via Flavia al Colt e l’Isola di Nagual alla Pala delle Lastiele).
Per eventuali ulteriori informazioni si può fare riferimento all'autore Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
1 - MONTE COLT
VIA FLAVIA
D. Zampiccoli e F. Miori 1983
150 metri, 5 tiri, V+/VI/R3
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Scalata di soddisfazione e varia (camini, diedri e placche), su ottima roccia.
Via breve, dal comodo attacco e discesa veloce, adatta ad una mezza giornata di tempo incerto. Al sole già al primo mattino, ideale nelle mezze stagioni e nelle belle giornate invernali. Lungo la via qualche chiodo e cordino, necessaria una piccola scelta di friend medio-piccoli. Le soste sono a spit, perché condivise con vie sportive limitrofe. Una recente pulizia ha reso la via ancora più piacevole.
Attacco
Da Arco (zona Casinò) seguire la strada per Laghel e dopo una ripida salita, ad un bivio in prossimità della chiesetta bianca, prendere a destra la strada bassa e seguirla fino ad un piccolo parcheggio sulla destra (cartelli SAT con indicazione per la cima del Monte Colt). Seguire l’evidente carrareccia, al primo bivio prendere a destra e salire fin sotto una piccola falesia: proseguire con alcuni tornanti fino a giungere a una sella. Poco oltre si abbandona il sentiero SAT bianco-rosso che sale a sinistra e si prosegue sulla destra dapprima in piano e poi in discesa (cavi metallici e alla fine una breve scaletta in ferro) giungendo nel bosco sul versante Est della dorsale. Prendere verso destra (Sud) un’evidente traccia che passa sotto una falesia (nomi delle vie con targhette metalliche) e poi costeggia la parete. Dopo un breve tratto in discesa, superato l’attacco della via Re Mida (targhetta), si nota un grande camino giallo caratteristico. Qui attacca la via. 30 minuti dall’auto.
Discesa
Dall’uscita della via salire brevemente nel bosco fino ad incrociare un’ampia traccia che si segue verso destra (Nord) fino alla sella dove ci si raccorda con il sentiero seguito per andare all’attacco. Scendendo verso sinistra (Ovest) si ritorna velocemente al parcheggio. 15 minuti dall’uscita della via.
Relazione
L 1 – Salire un diedro (evtl 2 fix di una via vicina) e poi entrare nel grande camino che si sale fino al suo termine, uscendo da ultimo a sinistra per sostare poi comodamente alla sommità del grande lamone. 40 mt, IV
L 2 – Traversare a sinistra facilmente, poi utilizzando una fessurina da proteggere portarsi ad un albero sul quale si sosta. 30 mt, V
L 3 – Superare un muretto (ch) e seguire poi una rampa verso destra seguita da un diedro fino alla sosta (30 mt, VI, poi IV+)
L 4 – Salire su ottima roccia lavorata e poi obliquare progressivamente a destra, superare una vecchia sosta e traversare più nettamente verso destra fino ad un vago diedro giallo che si supera giungendo ad una pianta di fico. Da qui traversare ancora a destra e salire alla sosta. (35 mt, V+, tiro continuo, esposto e molto bello).
L 5 – Sulla sinistra della sosta salire un diedro con netta fessura, superare lo strapiombino finale e poi per rampa fessurata più facile al bosco sommitale (40 mt, IV+, alcuni spit – uscita in comune con la via “Nove dita”).
2 - COSTE DELL’ANGLONE
DIEDRO BALDESSARINI
A. Baldessarini, A. Maffei 2011
250 metri, 7 tiri, VI+/R3
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Simpatica via, di recente pulita e integrata con varianti dirette che la rendono più omogenea e interessante. L’arrampicata è atletica, su roccia sempre ottima e da proteggere con friend (sufficiente una serie fino al 3 bd).
Esposizione Est, ben soleggiata anche in inverno.
Attacco
Da Arco prendere per Trento e dopo poco imboccare sulla sinistra la deviazione per Ceniga. All’inizio del centro abitato vero e proprio sulla destra si trova un parcheggio pubblico, dove è consigliabile lasciare l’auto. Tornati indietro sulla strada principale per poche decine di metri di prende sulla destra (Ovest) una stradetta con indicazioni per il Ponte Romano. Superato il ponte (bel monumento storico), di prende sulla destra una strada sterrata pianeggiante che si segue fino al Maso Lizzone. Davanti al Maso girare a sinistra (Ovest) e poco dopo seguire sulla destra una traccia con indicazioni per il Sentiero degli Scaloni e poi per il Sentiero delle Cavre salendo fino al bosco. Ad un ometto prendere una traccia sulla sinistra che porta contro la parete: oltrepassata una falesia e l’attacco di Anche le donne vogliono arrampicare (scritta) si giunge allo spiazzo dove attacca la via (nome alla base). 30 minuti dall’auto.
Discesa
Salire brevemente nel bosco, obliquare a destra per traccia e raggiungere in breve il Sentiero degli Scaloni che riporta al Maso Lizzone e poi per strada al parcheggio (calcolare 40 minuti in tutto).
Relazione
L 1 – Per muretti e rocce articolate raggiungere un albero con cordone, dal quale a sinistra alla sosta (V, 35 mt)
L 2 – Direttamente sopra la sosta, aggirare poi a sinistra un piccolo strapiombo, scalare un muretto e andare a sinistra alla sosta alla base di un diedro giallo (VI, 20 mt)
L 3 – Salire il diedro e sostare a sinistra su albero (VI, 25 mt)
L 4 – Si sale per un diedro grigio, poi a destra e per terreno più abbattuto si va a sostare su albero alla base del grande diedro regolare che caratterizza la parte alta della via (VI+, 35 mt)
L 5 – Salire il diedro fino ad una sosta (VI, 20 mt)
L 6 – Ancora per il diedro evitando a sinistra lo strapiombo finale (VI, 25 mt). Questo tiro si può agevolmente abbinare al precedente saltando la sosta intermedia.
L 7 – Salire per lama-fessura, poi obliquare a destra fino ad uno spigolino e, superato un diedrino, sostare su albero al termine delle difficoltà (VI, 20 mt).
3 - MANDREA CENTRALE
PILASTRO GABRIELLI
G. Stenghel, G. Vaccari, 1978
200 metri, 5 tiri V+ e VI/R3
Esposizione Est
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La via, esposta ad Est, è fattibile tutto l’anno, ad esclusione dell’estate per il troppo caldo.
Via storica, di straordinaria logica ed eleganza. Vince una impressionante prua strapiombante seguendo una successione di magnifici diedri con arrampicata atletica ed entusiasmante.
Chiodatura scarsa, ma ottima proteggibilità con friends (anche grandi, fino al 4 o 5 bd). Soste comode a spit. Possibile la discesa in doppia dalle soste 1, 3 e 4. Assolutamente da non perdere, anche per il valore storico (meditare sui cunei che ancora si vedono in qualche fessura e pensare agli apritori con scarponi rigidi e… senza friends). Un paio di fix (ora senza piastrine) assolutamente inutili lungo una fessura perfettamente proteggibile testimoniano l’irriverente tentativo da parte di qualche sprovveduto tassellatore di addomesticare questa linea superba.
Attacco
Da Arco salire a Laghel e di fronte alla chiesetta bianca svoltare a sinistra e seguire la stradina prima asfaltata e ripidissima, poi sterrata e in falsopiano, fino al suo termine, parcheggiando nei pressi di una fontana. Seguire la mulattiera verso sinistra (sbarra) per breve tratto, poi seguire una delle tante tracce che puntano alla parete e all’evidente prua sulla quale corre la via. A destra della verticale del Pilastro individuare una rampa erbosa con qualche bollo rosso, alzarsi obliquando verso destra fino ad una pianta dove inizia una corda fissa che aiuta a superare placche verticali e vegetate (15 minuti). Verificare lo stato della corda fissa e valutare se legarsi in cordata fin da questo punto.
Discesa
Scendere brevemente nel bosco per traccia raggiungendo la strada asfaltata che da Padaro sale a San Giovanni. Seguirla verso sinistra (Sud) e dopo circa 200 metri abbandonarla per imboccare sulla sinistra una evidente mulattiera (indicazioni: Laghel), poi un sentiero segnato sulla sinistra in leggera salita, passando da una cava abbandonata. Proseguire poi in discesa, seguire il sentiero che costeggia la sommità delle pareti e ad un Grosso traliccio prendere una traccia sulla sinistra che riporta alla strada di Laghel poco a valle dell’auto (1 ora).
Relazione
Si risale la corda fissa, obliquando poi a sinistra per tracce esposte (un tratto ancora di corda fissa) per salire alla fine ad un boschetto alla base del pilastro vero e proprio. Tratto delicato e da percorrere con attenzione.
L1 – Salire un diedro facile, una breve fessura (quella di destra di due parallele) fin sotto uno strapiombo, che si aggira sulla sinistra montando poi su un aereo pulpito. IV +, V+ 30 mt
L2 – Obliquando a destra su roccia marrone si va a prendere una fessurina (tratto delicato) sino ad una piccola sosta. VI + 30 mt
L3 – Seguire un diedro giallo sostando al suo termine su un comodo terrazzo a sinistra. VI 25 mt
L4 – Salire il fantastico diedro seguente, proteggendosi al meglio con friends grossi (alcuni chiodi nel tratto superiore più strapiombante). VI+ 50 mt
L5 – Salire la placca a sinistra (clessidra) uscendo nel bosco alla sommità del pilastro. V 30 mt.
4 - MANDREA CENTRALE
BLACK HOLE
G. Stenghel e M. Giordani 1979
250 metri, 7 tiri, VI+/R3
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Bella salita, caratterizzata da splendide fessure da proteggere nella prima parte e da un diedro strapiombante e con roccia più delicata nella seconda parte. Un po' meno simpatica l’uscita in un canalino pieno di foglie. Merita comunque senz’altro la ripetizione, anche per l’ambiente straordinario in cui si svolge. Utile una serie completa di friend.
Meglio percorrerla in primavera avanzata o in autunno. In inverno è ombreggiata dal Pilastro Gabrielli.
Attacco
Lo stesso del Pilastro Gabrielli (vedi). Dopo le corde fisse dell’avvicinamento, poco prima di arrivare all’attacco vero e proprio del Pilastro Gabrielli, sostare su albero alla base di un evidente diedrino grigio (15 minuti).
Discesa
La stessa del Pilastro Gabrielli (1 ora)
Relazione
L 1 – Salire il diedrino, poi uno strapiombino e una placchetta fino alla sosta su comoda cenga (5, poi IV, 30 mt)
L 2 – Salire la bella fessura sulla destra, all’altezza di un tettino traversare a sinistra a prendere una bella lama che si segue fino alla sosta (V+, 35 mt)
L 3 – Breve tiro in traverso verso sinistra seguendo una fessura orizzontale (V+, 15 mt)
L 4 – Salire il bel diedro fessurato con arrampicata tecnica (VI, 35 mt)
L 5 – Proseguire per il diedro che diventa strapiombante (VI+, 20 mt, diversi chiodi)
L 6 – Brevissimo tiro, dapprima in traverso a sinistra poi dritto fino a un terrazzino (VI, 10 mt)
L 7 – Salire un diedrino friabile e una paretina verticale, uscendo a sinistra. Un canalino terroso porta alla sosta alla base di un muro marrone strapiombante (V+, 45 mt)
L 8 – Superare una fessura-diedro ed uno strapiombino friabili pervenendo a rocce rotte che portano alla fine delle difficoltà (V+, 40 mt). Tiro che richiede attenzione.
5 - MANDREA NORD
FIORE DI CORALLO
M. Giordani, F. Zenatti, G. Manica 1983
350 metri, 10 tiri, VI+/VII/R4
Scarica qui la relazione in formato PDF
Uno dei più grandi capolavori della valle del Sarca.
Una successione logica di straordinarie fessure e diedri strapiombanti. Arrampicata di grande soddisfazione, sempre atletica ed esigente, su roccia super. Alcuni tratti in cui non è facile proteggersi richiedono padronanza del grado. Pochissimi i chiodi in parete, ma le soste sono attrezzate a fix. Utile una doppia serie di friend fino al 4 bd, meglio fino al 5
Attacco
Da Arco (zona Casinò) seguire la strada per Laghel e dopo una ripida salita, ad un bivio in prossimità della chiesetta bianca prendere la ripida strada asfaltata che sale a sinistra, compie alcuni tornanti e si inoltra lungamente nella valle. Parcheggiare al suo termine, in prossimità di una fontanella. Salire a sinistra per strada forestale (sbarra) che conduce in breve sotto le pareti (fin qui l’avvicinamento è uguale a quello del Pilastro Gabrielli). Raggiunta poco oltre la presa dell’acquedotto, continuare verso Nord per traccia che costeggia la parete, dopo una discesa ripida seguire una stretta rampa che sale verso dx ad un boschetto sospeso, dove si trova l’attacco della via (30 minuti).
Discesa
La stessa del Pilastro Gabrielli (1 ora)
Relazione
L 1 – Aiutandosi con l’albero posto all’attacco salire una paretina e traversare poi a destra ad un diedrino che si risale sino alla sosta (VI)
L 2 – Salire una fessurina, poi rocce più articolate e infine una bella lama (VI+)
L 3 – Salire una fessura fin sotto un tetto e costeggiarlo verso sinistra fino al suo termine, dove una fessura consente di salire alla sosta (VI e passi di VII, proteggibilità a mezzo friend non sempre affidabili a causa della levigatezza della fessura svasata sotto il tetto)
L 4 – Per rampa più facile fin sotto degli strapiombi che si evitano con una traversata verso sinistra (alberello di fico) raggiungendo una fessura verticale che porta alla sosta (VI + e passi di VII)
L 5 – Salire il muretto sopra la sosta, passo di VII obbligatorio e che un fix di passaggio, l’unico della via, non protegge da una eventuale caduta sulla cengia di sosta. Per rocce più facili ad una rampa obliqua verso sinistra che conduce alla sosta (VII, V)
L 6 – Salire l’evidente diedro un po' liscio a sinistra della sosta e superare un muretto (ch) che porta alla sosta (V+, VI)
L 7 – Traversare a sinistra con percorso da individuare con attenzione (qualche chiodo) fino ad una lama sporgente, che si supera direttamente. Salire in obliquo a sinistra fin sotto un tetto, poi a destra per canne ad un terrazzino (VI+ e VII-, sosta su clessidre).
L 8 – Salire a sinistra della sosta superando un tettino, poi per rocce più facili alla sosta su albero (VI+ poi IV)
L 9 – Salire lungamente in obliquo verso sinistra, superare un muretto delicato e continuare verso sinistra fino alla base di un diedro che si intuisce portare fuori dalle difficoltà, ormai tra gli alberi della sommità (IV e VI).
L 10 – Traversare a sinistra seguendo una fessura orizzontale, poi salire per diedro e roccette (un fix di una via sportiva) arrivando al termine del bosco dove si sosta nei pressi della recinzione di una villetta (IV)
6 - CIMA ALLE COSTE
VIA MARTINI-TRANQUILLINI-PEROTONI
S. Martini, M. Tranquillini, M. Perotoni, 1972
500 metri, 13 tiri V+ e VI/R3
Esposizione Est
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Tra le più ripetute della Valle, vince la grandiosa parete di Cima alle Coste con piacevole arrampicata su difficoltà classiche. Una serie di friend fino al 4 bd è sufficiente ad integrare i pochi chiodi presenti nella parte alta della via.
Attacco
Da Arco verso Nord risalire la Valle del Sarca, superare il paese di Dro e prima di giungere al parcheggio delle Placche Zebrate, in località Lago, individuare sulla sinistra una stradina con indicazioni per il Lago Bagattoli. Seguirla brevemente e parcheggiare nei pressi del lago. Si segue la strada forestale (sbarra) che sale dapprima verso destra, poi con un tornante piega a sinistra (Sud) per un lungo tratto in leggera salita fino ad incontrare un ometto che segnala l’inizio di una traccia sulla destra. Seguirla nel bosco con ripida salita fino alla base di una placconata. Montare sulla placconata seguendo tracce su cengette e facili passaggi su roccia con salita obliqua verso destra, fino ad una più evidente traccia che porta sotto la levigata parete dello Scudo. La via attacca all’estremità destra dello scudo, dove questo forma un evidentissimo diedro con la più articolata parete sulla destra. (40 minuti dall’auto).
Discesa
Per traccia (ometto) si raggiunge in breve una strada forestale, che si segue verso sinistra (Sud) fino ad incontrare un cartello che segnala il sentiero per Dro (n. 425). Percorrerlo fino a valle, poi per sterrata seguendo le indicazioni si ritorna al Lago Bagattoli (ore 1,30).
Relazione
La via si può dividere in tre parti.
La prima parte, facile e non molto interessante, sale con 5 tiri l’evidente diedro. Attrezzata con qualche fix. Le soste sono attrezzate per la discesa in doppia. In questo primo tratto prestare attenzione alla caduta di sassi.
La seconda parte supera con tre tiri la zona centrale di placche abbattute e un po’ erbose, in obliquo a sinistra fino alla base della gialla e strapiombante parete superiore. In questo tratto il percorso non è molto evidente e richiede un po’ di fiuto. Qualche chiodo sparso.
La parete superiore viene vinta con cinque tiri entusiasmanti, che da soli varrebbero la salita.
Soste in genere comode e sicure, pochi i chiodi lungo i tiri, che si proteggono comunque bene con i friends. Roccia in genere ottima, con qualche lama da trattare con attenzione.
L1 – L2 – L3 – L4 – L5 – Salire interamente il diedro, con passaggi a volte levigati ma su difficoltà contenute (IV e passi di V). Qualche fix sui tiri e soste attrezzate per doppia. Alla fine del diedro si obliqua a sinistra per tracce alla placconata centrale.
L 6 – Si traversa lungamente in obliquo a sinistra su tracce e facili rocce. I. Sosta su spit.
L 7 – L8 – Salire per placche e saltini più ripidi (un diedrino più difficile da proteggere con friends) fino ad un terrazzo ben battuto alla base del diedro della parete superiore. IV e V. Sosta su albero.
I cinque tiri seguenti, nei quali si concentrato le difficoltà della via, offrono un’arrampicata a tratti entusiasmante, sempre piacevole e in un ambiente grandioso.
L9 – Salire per parete mirando all’evidente diedro, che si sale poi fino ad un terrazzino. V+
L10 – Raggiungere una lama/fessura che si sale (superando anche un tettino) fino ad arrivare sotto un pronunciato tetto, che si evita traversando a sinistra fino ad una scomoda sosta con chiodi a pressione. VI, tiro chiave. Alcuni chiodi, utili i friends.
L 11 – Salire un camino e poi un diedro fino ad una sosta in una zona più abbattuta. V+
L 12 – Proseguire per una bellissima lama gialla, superare un albero e continuare fin sotto un tetto. Traversare a sinistra per cengette (attenzione ad alcune grosse lame dall’aspetto un po’ inquietante) fino ad una comoda sosta. V+
L 13 – Superare una paretina verticale (chiodo) e poi per bellissimo diedro al canale finale, che richiede qualche attenzione (tiro di oltre 50 metri, frazionabile sostando ad un albero lungo il diedro). V+ all’inizio, poi IV.
La parte iniziale di questa via (il facile diedro dei primi 5 tiri) era già stata percorsa nel 1966 da H. Steinkotter, H. Holzer e R. Messner, che avevano poi proseguito sulla destra su roccia precaria, per cui l’itinerario non ebbe seguito. La grande intuizione dell’Accademico Sergio Martini è stata quella di proseguire sulla sinistra, forzando la strapiombante parete superiore con intelligente percorso attraverso i tetti che la caratterizzano, realizzando così un grandioso itinerario con difficoltà sostenute, ma che si lasciano superare con più facilità di quanto si potrebbe stimare dal basso.
Un interessante filmato sulla Via Martini-Tranquillini-Perotoni
7 - PALA DELLE LASTIELE
VIA ISOLA DI NAGUAL
F. Giacomelli – F. Stedile 1982
300 metri, 11 tiri; VI con due passi in A0 (in libera 6b)/R3
Esposizione Sud Est
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Linea assai logica lungo una serie ininterrotta di diedri di bella roccia.
L’attrezzatura in posto (chiodi normali) può essere agevolmente integrata con una serie di friends e kevlar per le clessidre.
Salita paragonabile al Diedro Manolo al Dain, anche se un pò meno continua e di qualità leggermente inferiore. Merita sicuramente di essere percorsa.
Fabio Giacomelli e Fabio Stedile, accomunati dall’apertura di questa bella via, sono stati accomunati anche da un tragico destino, morendo entrambi, a diversi anni l’uno dall’altro, sul Cerro Torre in Patagonia.
Attacco
Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), poco oltre il parcheggio delle Placche Zebrate parcheggiare sulla destra presso l’ingresso della pescicoltura.
Attraversare la strada e seguire una sterrata (sbarra) prendendo a destra ad un bivio. Poco più avanti reperire sulla sinistra una traccia che sale nel bosco e porta alla base della parete. L’attacco è presso un diedro obliquo verso destra (scritta Nagual). 30 minuti.
Discesa
Abbastanza lunga ma facile. Dall’uscita della via traversare lungamente nel bosco verso Nord (rade tracce) salendo leggermente fino alla sommità del Dain, dove si incontra una strada forestale. Da questo punto la discesa è comune a quella del Dain. Seguire la forestale direzione nord (verso il Casale) e poi per i tornanti in discesa (scorciatoie segnate con bolli rossi) fino ad una zona pianeggiante con una palina che segna il rientro dalla ferrata Che Guevara. Abbandonare la strada e prendere a destra una traccia (direzione Sud) che con qualche saliscendi porta al campo da cross dietro all’Hotel Ciclamino. Costeggiare verso Sud il campo da cross, seguire la forestale e poi la pista da mountain bike fin sotto le Placche Zebrate e poi all’auto (ore 1,30).
Nota: esiste anche una seconda possibilità di discesa dalla sommità, più breve ma meno facile da trovare. Dall’uscita della via ci si incammina verso Nord (in direzione della Cima del Dain) traversando un pendio di erba e arbusti, come per la soluzione precedente.. Quando si intravede verso il basso un ripido prato senza vegetazione lo si discende fino all’inizio di un rado ripido bosco nel quale si intravede un’esile traccia che si segue con qualche breve passo di facile arrampicata fino a pervenire poco più in basso dell’attacco della via. Per tracce a vista in direzione dell’auto.
Relazione
L 1 – Salire il diedro fino alla sosta, alla base del grande strapiombo giallo. IV. E’ possibile anche salire la parete articolata a destra dello strapiombo (più facile), prima in obliquo verso destra e poi in obliquo a sinistra alla cengia di sosta.
L 2 – Superare il diedro giallo, dapprima verticale poi obliquo a sinistra, traversare alla fine a sinistra su placca ad un gradino (sosta possibile) e proseguire per fessurina e diedrino fino ad un terrazzino. 6b/AO alla partenza, poi V+
L 3 – Seguire il diedro a lame appena a destra della sosta e al suo termine traversare a sinistra ad una piccola terrazza. Sosta su albero. V+
L 4 – Salire per diedro giallo a sinistra di un liscio scudo, fin sotto un tetto. Traversare a sinistra e poi per diedrino grigio alla sosta. V+ e VI
L5 – Continuare per diedro fessurato con arrampicata ideale fino ad una sosta su chiodi. V+
L 6 – Ancora per il diedro fino alla sosta scomoda sulla parete di destra, in una specie di nicchia. V+ continuo.
L 7 – Superare il diedro-fessura soprastante, all’inizio strapiombante (6b/A0, alcuni chiodi ravvicinati), poi più facile (V) fino ad una piccola sosta.
L 8 – Sempre lungo il diedro fin sotto il tetto che lo chiude. Traversare ora a destra ad un comodo terrazzo (V+). Sosta su albero con cordone e maillon di calata. Da questo punto (fine delle maggiori difficoltà e della roccia ottima) ci si può calare lungo la via con 3 o 4 doppie.
Lo spirito alpinistico e la completezza dell’esperienza consigliano tuttavia sicuramente di continuare fino al termine della parete.
L 9 – In obliquo a destra su roccette ed erba per oltre cinquanta metri, sostando ad un albero o improvvisando una sosta su friend.
L 10 e 11 – Ancora un po’ in obliquo a destra e poi direttamente per salti al bosco sommitale.
In questi ultimi tre tiri il percorso non è obbligato e si sosta su alberi. Con un po’ di fiuto le difficoltà non superano il IV+, ma il terreno impone cautela.
Al termine del secondo tiro si trova un fix e poi appena a destra del quarto tiro una serie di fix che sale poco a destra del nostro itinerario. Si tratta di una via che, irrispettosa di storia e logica, interseca questo itinerario e della quale nessuno ha mai avuto il coraggio di rivendicare l’apertura.
8 - DAIN DI PIETRAMURATA
VIA CESARE LEVIS (conosciuta anche come “Diedro Manolo”)
M. Zanolla, G. Groaz, M. Furlani, 1978
300 metri, 8 tiri; VI/R3
Esposizione Est
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Al centro della parete segue una linea straordinaria di diedri e fessure giallo/grigi.
Arrampicata atletica su roccia ideale. Chiodatura non abbondante ma ben integrabile
Una delle classiche più ripetute della Valle.
Attacco
Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), superate le Placche Zebrate si prende a sinistra una strada con indicazioni Crossodromo e Hotel Ciclamino, presso il quale si parcheggia.
Seguire poi la strada che costeggia il Crossodromo (direzione Sud) fino alla fine delle recinzioni. Individuata una marcata traccia sulla destra, la si segue fino alla base dell’evidente parete. Ad un ometto non prendere una traccia sulla destra (porta all’attacco di Siebenschlafer) ma continuare a salire per il sentiero principale fino ad individuare delle tracce sulla destra che portano ad una rampa (qualche breve passaggio di arrampicata) che conduce verso la base del diedro grigio/giallo posto appena a destra di quello più evidente, chiuso da enormi tetti gialli, percorso dalla Via Big Bang. Sosta alla base di una paretina (30 minuti).
Discesa
Abbastanza lunga ma facile. Seguire la traccia evidente nel bosco fino ad una strada forestale. Seguirla in direzione nord (verso il Casale) e poi per i tornanti in discesa (scorciatoie segnate con bolli rossi) fino ad una zona pianeggiante con una palina che segna il rientro dalla ferrata Che Guevara. Abbandonare la strada e prendere a destra una traccia (direzione Sud, freccia in legno) che con qualche saliscendi porta al campo da cross dietro all’Hotel Ciclamino (1 ora)
Relazione
L 1 - Salire la paretina o il suo spigolo destro e la rampa successiva, su buona roccia pulita dal passaggio. Sosta su albero. IV
L 2 – Traversare a sinistra e salire ad un terrazzino. Sosta su albero. III
L 3 – Entrare nell’evidente diedrone, superare un grosso albero e sostare a destra su un terrazzino. IV e V
L 4 – Continuare per il diedro, ora giallo e più verticale, fin sotto al tetto che lo chiude e che si supera sulla destra, nel punto di minor resistenza, tramite una fessura (passaggio chiave, utile un friend grande). V+ e VI
L 5 – Salire ancora per il diedro in obliquo a destra e poi direttamente con arrampicata entusiasmante ed esposta. Pochi chiodi, possibilità discrete di integrare. Sosta in una nicchia. V+
L 6 – Ancora un bel tiro per fessure, lame e diedri verticali, V+
L 7 – Seguire sempre il diedro superando un tettino sulla sinistra, fino ad una comoda sosta su cengetta sotto il muro finale. V+
L8 – Salire direttamente per diedrini grigi superficiali fin sopra una grande scaglia, dalla quale brevemente per un diedro giallo e un traverso a destra si raggiunge una sosta su albero, appena sotto il bosco sommitale. V e V+
Alcuni facili passaggi verso destra conducono ad una traccia ben battuta nel bosco.
9 - DAIN DI PIETRAMURATA
VIA KEROUAC
L. Massarotto, G. Groaz, P. Baldo 1981
300 metri, 8 tiri; VI+, un tratto di A0 (in libera 6c)/R3
Esposizione Est
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Attacco
Lo stesso della Via Cesare Levis (vedi)
Discesa
La stessa della Via Cesare Levis (vedi)
Relazione
L 1 – Salire un facile spigolino, obliquare a sinistra e per diedri e rampe andare a sostare ad un albero. Tiro in comune con la via Cesare Levis (IV)
L 2 – Salire in obliquo verso destra, superare in diedrino e sostare alla base del grande camino che separa un avancorpo dalla parete principale (III)
L 3 – Scalare un diedro giallo sulla sinistra (all’inizio roccia delicata), superare uno strapiombetto e proseguire per bella fessura da proteggere fino ad un terrazzino sulla destra (V+)
L 4 – Proseguire nella fessura gialla e poi per diedro fino ad una scomoda sosta appesa (VI+)
L 5 – Continuare per il bellissimo diedro e quando strapiomba obliquare a destra a raggiungere un altro diedro giallo che si segue fino al suo termine, traversando infine ad un esposto pulpito sulla destra (V e VI)
L 6 – Superare il muretto articolato sopra la sosta e poi all’altezza di un chiodo obliquare a destra a prendere un diedro seguito da un muro con diversi chiodi approdando ad una cengia alberata (tiro lungo, attenzione agli attriti, all’inizio V+ e VI, poi VII+ oppure A0 il muro finale)
L 7 – Traversare facilmente verso sinistra sulla cengetta andando a sostare su friend alla base di un diedrino.
L 8 – Salire il diedro fino ad un alberello, superare alcuni salti e obliquando a sinistra montare sopra un piccolo pinnacolo oltre il quale un muretto (ch) e poi rocce rotte portano al bosco sommitale (V).
10 - DAIN DI PIETRAMURATA
VIA SIEBENSCHLAFER
T. Zuech, M. Gamper, 1983
300 metri, 9 tiri (+ 110 metri facili nel bosco terminale); VI +/R3
Esposizione Est
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Itinerario per lunghi anni dimenticato, è stato di recente riscoperto e comincia ad essere percorso con una certa regolarità. Linea molto logica ed arrampicata bellissima e varia ne fanno una perla da non mancare.
A parte le soste (tutte presenti e sicure) i chiodi lungo i tiri sono pochissimi ma è facile proteggersi ottimamente con i friends.
Attacco
Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), superate le Placce Zebrate si prende a sinistra una strada con indicazioni Crossodromo e Hotel Ciclamino, presso il quale si parcheggia.
Seguire poi la strada che costeggia il Crossodromo (direzione Sud) fino alla fine delle recinzioni. Individuata una marcata traccia sulla destra la si segue fino alla base dell’evidente parete. Fin qui l’avvicinamento è uguale a quello della Via Cesare Levis. Ad un ometto prendere una traccia sulla destra e salire per una rampa alberata verso destra (roccette e qualche passo di arrampicata, tracce). L’attacco, presso un facile diedrino grigio, è in comune con la via Par Condicio (scritta “PAR” sbiadita).
Prestare attenzione ad imboccare la rampa giusta, osservando preventivamente la parete da lontano e prendendo come riferimento i due evidenti tetti orizzontali presso i quali passa il secondo tiro della via (30 minuti).
Discesa
La stessa della Via Cesare Levis (vedi)
Relazione
L 1 - Salire il diedrino e poi obliquare a destra su cengetta (Par Condicio devia a sinistra) sostando su albero alla base di un bel diedro giallo/grigio verticale. III
L 2 – Salire il diedro e sostare su terrazza con alberi alla sua sommità. IV+
L 3 – Salire la grigia placca verticale soprastante (i primi metri sono i più difficili), traversare lungamente a sinistra, poi in verticale per pochi metri e infine a destra su cengetta dove si sosta. Arrampicata delicata e di movimento su ottima roccia grigia e rugosa, 3 - 4 chiodi non superlativi, possibilità di aggiungere qualche friend. VI poi V+
L 4 – Salire a destra una fessura verticale, dapprima ben proteggibile, poi più larga e un pò expo ma di ottima roccia, uscendo alla fine verso sinistra ad una sosta su albero con cordone. V+ e VI
L 5 – Verso destra e poi verticalmente si supera una zona terrazzata, andando a sostare su un grosso albero alla base di un camino giallo dall’aspetto poco rassicurante. IV e III
L 6 – Salire il camino (che in realtà è solido) fino ad un terrazzino di sosta (cordone incastrato). V e IV
L 7 – Traversare a sinistra e salire il bellissimo diedro giallo soprastante (ben proteggibile a friends) fin sotto un tettino (chiodo). Traversare a sinistra e sostare su una stretta cornice. V+
L 8 – Salire la larga fessura soprastante (un tratto improteggibile ma non troppo difficile) uscendo a destra in obliquo fin sotto un diedrino. Salirlo fino al tetto che lo sbarra e uscirne a sinistra (sosta su albero). V+ la fessura iniziale, VI il diedrino e VI+ l’uscita.
L 8 – Per facile diedrino grigio al bosco finale. IV
Ancora due facili lunghezze facoltative per salti e alberi (qualche cordone indica il percorso, tracce) conducono alla spianata sommitale dove si incontra la traccia di discesa.
11 - PIAN DELLA PAIA – Parete Gandhi
VIA IL MAGNESIO DALLA ROCCIA
Conosciuta anche come VIA TENENTE TORRETTA
G. Stenghel, F. Sartori, F. Nicolini, 1983
200 metri, 6 tiri V+ e VI/R3
Esposizione Est
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Un monumento al più puro stile dell’arrampicata tradizionale degli anni Ottanta.
Se non vi fate spaventare dal primo tiro, erboso e un po’ friabile ma non difficile, potrete godere di un’arrampicata molto bella su roccia ottima e dalla logica impeccabile. Via ben protetta a chiodi normali, da integrare con friends lungo le fessure. Friends medi necessari per la lunga lama da Dulfer del quarto tiro.
Il percorso è talmente logico che seguendo l’invito della roccia, anche sui compatti muri superiori, a tratti un pò enigmatici, ci si imbatte senza errore sui chiodi presenti.
Attacco
Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), superate le Placche Zebrate si prende a sinistra una strada con indicazioni Crossodromo e Hotel Ciclamino, presso il quale si parcheggia.
Costeggiando a Nord il Crossodromo si segue una traccia che sale ripida nel bosco e si immette poi su una forestale. Seguirla brevemente verso sinistra fino ad un tornante verso destra, dal quale di stacca una traccia ben battuta che conduce in breve alla base della parete (ore 0,30). Attacco alla base di una rampa erbosa obliqua a sinistra, posta appena a sinistra di una profonda spaccatura- camino obliqua a destra.
Discesa
Nel bosco sommitale seguire le tracce in direzione del Monte Casale (Nord) fino alla forestale che
riporta in valle. Giunti al punto in cui si era raggiunta la forestale andando all’attacco, si può percorrere in discesa la ripida traccia del mattino (45 minuti all’auto), oppure seguire la stradina fino ad una zona pianeggiante con una palina che segna il rientro dalla ferrata Che Guevara. Abbandonare la strada e prendere a destra una traccia (direzione Sud) che con qualche saliscendi porta al campo da cross dietro all’Hotel Ciclamino (1 ora).
Relazione
L 1 – Seguire la rampa con rocce erbose e un po’ friabili fino ad un grosso albero al quale si sosta. III e IV, si rinviano due alberelli.
L 2 – Ora su roccia buona superare una placca verticale (chiodo) e poi diedrini obliqui a sinistra fino ad una cengetta che si segue verso sinistra, sostando ad una pianta (pochi metri più a sinistra si vede una sosta a fix della Via Diana). VI la placca, poi V+.
L 3 – A destra della sosta salire un diedro/fessura verticale di ottima roccia (due chiodi) fino ad una stretta cornice sulla quale si traversa alcuni metri a destra alla sosta. VI e V+.
L 4 – Salire una bellissima lama verticale in Dulfer (da proteggere) e poi un diedro strapiombante (due chiodi) sulla destra, fino ad un comodo terrazzino dietro un pilastrino staccato. V+ e VI
L 5 – Dapprima in obliquo a sinistra e poi a destra su placche bellissime ad un piccolo gradino di sosta. Tiro splendido, protetto da alcuni chiodi posizionati in punti strategici, visibili solo all’ultimo momento seguendo la logica della parete. V e VI
L 6 – Verticalmente sulla destra della sosta fino ad una cengetta (alberello), che si segue verso destra fino ad un chiodo, che indica il punto in cui forzare direttamente il muro finale. Sosta nel bosco sommitale. V e IV+
12 - MONTE CASALE – PRIMO PILASTRO (o PILASTRO CRISTINA)
Il Primo Pilastro del Casale è un possente avancorpo che, assieme al Secondo Pilastro, delimita sulla destra la ciclopica parete principale del Monte Casale (Parete Est). Il Primo Pilastro è formato da una punta principale a sinistra (Pilastro Cristina, sul quale corra la Via omonima) e una punta secondaria a destra (Pilastro Giusti, sulla quale corre la Via del Missile – vedi relazione nr. 13).
VIA CRISTINA
M. Furlani, L. Puiatti, 1980
400 metri, 15 tiri (con la variante iniziale) VI-, spesso V/R3.
Esposizione Est
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Via di ampio respiro, di stampo dolomitico
Arrampicata prevalentemente in diedri e fessure, alterna tratti di ottima roccia a tratti da affrontare con cautela, soprattutto sul facile. Lungo la via qualche chiodo e cordoni su sassi incastrati, indispensabili i friend fino al 4 bd. Le soste sono state riattrezzate di recente con anelli.
Attacco
Da Arco verso Trento raggiungere Pietramurata. All’uscita Nord del paese (piccola rotonda) girare verso sinistra (Ovest, strada che conduce alla grande cava). Dopo pochi metri parcheggiare e prendere la forestale sulla destra (verso Nord): dopo circa 300 metri individuare sulla sinistra una traccia (ometti) che sale nel bosco, poi per ghiaioni e roccette con qualche bollo rosso puntando all’evidente colatoio che delimita a sinistra la parete. L’attacco della variante consigliata è poco a destra del colatoio, in corrispondenza di una netta fessurina grigia di ottima roccia (50 minuti).
L’attacco originale (sconsigliabile) è invece nel colatoio e segue poi lungamente in obliquo a destra una cengia friabile fino a prendere il pilastro vero e proprio.
Discesa
Traversare nel bosco verso destra e in discesa raggiungere una forestale che si segue verso sinistra fino al sentiero 427 che riporta in valle (ore 1,15)
Relazione
L 1 - Attaccare per una fessura grigia di ottima roccia e seguirla sino al suo termine; V+/VI-, friend 0.4 e 0.5 BD.
Spostarsi a destra con passo su placca (V) e proseguire su cengia erbosa sino alla sosta con anello; 25 m.
L 2 - Continuare per cengia erbosa verso destra.
Pochi metri dopo la partenza dalla sosta non passare a sinistra di uno spuntone, bensì a destra, scendendo leggermente.
Proseguire in diagonale, sempre verso destra, per facili gradoni sino all'anello di sosta; 25 m, II e III.
L 3 - Traversare a destra per alcuni metri, sino a portarsi sulla verticale di un diedro rosso.
Alzarsi su placca (1 chiodo), con un passo leggermente a sinistra su roccia delicata (V+).
Raggiungere il diedro e percorrerlo interamente sino al terrazzino di sosta.
V+/VI-, 2 chiodi, 1 alberello, friend 1-2 BD, 35 m.
L 4 - Percorrere un diedro (V), poi in diagonale verso destra su rocce facili sino alla sosta (II); 25 m.
L 5 - Dalla sosta alzarsi in verticale e poi continuare in diagonale a sinistra, su placca di ottima roccia a tacche (V+, un passo di VI, chiodi). Dove le difficoltà calano (IV) non proseguire in diagonale a sinistra, bensì in verticale per raggiungere l'anello di sosta; 30 m.
L 6 - Dalla sosta affrontare una placchetta leggermente concava (III, friabile), poi proseguire per placche appoggiate di roccia poco solida (inizialmente II, poi I) sino alla cengia; 50 m.
Qui la cengia che proviene da sinistra si trasforma in un canale.
L 7 - Dalla sosta proseguire sul fondo del canale, piuttosto appoggiato, per circa 25 m (III, roccia slavata dall'acqua, ma solida); al termine del tratto più appoggiato superare alcuni blocchi, qui possibile sosta intermedia.
Ora il canale si fa più ripido: affrontare la parete di destra, lungo una fessura (V+, passo atletico, alcuni cordoni su chiodi e sassi incastrati). Uscire sulla destra e raggiungere la sosta con anello; altri 25 m, in totale 50 m.
L 8 - Dalla sosta spostarsi a destra su erba, proseguire poi più direttamente per rocce facili ma friabili e infine arrivare in sosta su un terrazzo; III, 40 m.
L 9 - Affrontare il muretto friabile, partendo un metro a destra della sosta (più solido, passo tecnico), poi salendo proprio sulla sua verticale. Spostarsi a destra ed entrare in un diedrino bianco (ancora un po’ friabile). Proseguire per rocce più facili sino all’imbocco di un diedro-camino, dove si sosta; un passo di VI, poi V, 30 m.
L 10 - Salire il diedro-camino per alcuni metri, poi spostarsi sulla faccia destra seguendo una fessura sino ad arrivare ad una selletta tra la parete principale a sinistra e un pinnacolo a destra; V, 30 m.
L 11 - Si attraversa camminando a destra ed in leggera discesa per alcuni metri, poi si imbocca un diedro grigio compatto, con fessura di fondo (1 chiodo). Si arriva in sosta su terrazzino; V, 25 m.
L 12 - Traversare a sinistra per entrare in un breve diedro chiuso da un tettino (1 chiodo), che si supera sulla sinistra. Poi per fessura (sassi incastrati con cordoni) e rocce più facili sino in sosta su placca gialla; V, 30 m.
L 13 - Salire la fessura sopra la sosta e poi spostarsi a sinistra per evitare una zona franata.
Proseguire verticalmente sino alla sosta su spuntone; alcuni sassi incastrati con cordone, VI, 40 m.
L 14 - Dalla sosta spostarsi leggermente a sinistra, poi salire la bella fessura di ottima roccia, utili i friend 3 e 4 BD.
Dopo un passo non facile (VI, chiodo con cordone) le difficoltà diminuiscono e si continua verso sinistra superando alcuni saltini (V).
Superare alcuni blocchi e raggiungere verso sinistra il terrazzo dove si sosta. Qui è stato rimosso il fix con anello sulla placca che si trova a destra: occorre attrezzare la sosta su albero; 40 m.
L 15 - Proseguire per fessura, un po' sporca di terra, superare un albero e affrontare il diedro finale, bello e articolato, uscendo verso sinistra, qualche cordone; V, 30 m.
13 - MONTE CASALE – PRIMO PILASTRO (o PILASTRO GIUSTI)
VIA DEL MISSILE
G. Stenghel, A. Baldessarini, 1981
400 metri, 11 tiri V+, VI e VI+. Due passi di 6b (azzerabili)/R3.
Esposizione Est
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“Grande capolavoro di intuito e logica. La roccia ottima e la linea esemplare rendono la salita spettacolare e di grande soddisfazione.”: così si esprime Diego Filippi nella sua guida “Pareti del Sarca” e non si può che essere d’accordo.
Una delle più belle vie classiche della valle. Anzi, una delle più belle in assoluto.
Di sicura soddisfazione e di buon impegno in relazione alle difficoltà, anche per la presenza di diversi tiri particolarmente atletici e da proteggere.
Attacco
Da Arco verso Nord risalire la Valle del Sarca e appena usciti dal paese di Pietramurata, all’altezza di un ingrosso di frutta e verdura, prendere sul lato opposto (sinistra) una stradetta e parcheggiare dopo pochi metri (indicazioni per il Sentiero Croz dei Pini e la Ferrata Che Guevara).
Prendere la strada forestale che sale leggermente verso Nord e dopo un po’ individuare sulla sinistra una traccia (ometto) che sale nel bosco. Seguirla lungamente (ad un bivio prendere a destra) fino a giungere allo zoccolo del Pilastro. Le tracce (facili ma esposte) portano sopra lo zoccolo e poi proseguono in falsopiano verso destra, raggiungendo un canale che si risale per un breve tratto, fino ad individuare sulla sinistra la possibilità di accedere ad una cengetta che si inoltra nella parete.
Il punto esatto di attacco non è evidentissimo e richiede un certo intuito (1 ora dall’auto).
Discesa
Seguire le tracce nel bosco verso destra fino ad incontrare una forestale, che si percorre per circa un chilometro, incontrando poi il sentiero segnato che riporta in valle (ore 1,30).
Relazione
L 1 – Salire alla cengia e percorrerla verso sinistra, sostando ad un buon albero. III
L2 - Proseguire per la cengia fino ad entrare in un grande diedro che si sale con bella arrampicata fino ad un gradino di sosta sulla destra. V+
L 3 – Traversare la parete gialla sulla sinistra (un passo in discesa) e poi risalire ad un terrazzino. Alcuni vecchi chiodi, VI e VI+
L 4 – Seguire il verticale diedro grigio seguente, interamente da proteggere a friends. VI
L 5 – Ancora nel diedro (passo difficile all’inizio, protetto da due chiodi), andando poi a sostare sulla sinistra. VII o A0 all’inizio, poi VI.
L 6 – Superato un muretto, salire verso destra una fessura-diedro a tratti strapiombante, da proteggere a friends. VI
L 7 – Salire il camino seguente e sostare al suo termine sulla sommità di un pilastro (la “testa” del missile). V+
L 8 – Traversare brevemente a destra, salire un diedrino e poi in obliquo andare a sostare su una cengetta. V+
L 9 – Salire per diedri e paretine fino ad una sosta su albero sotto la grigia parete terminale. V
L 10 – Salire il bellissimo diedro a sinistra della sosta, con passaggio difficile alla fine, nel superamento di un tettino. VI+. In alternativa si può salire la fessura a destra della sosta, con difficoltà analoghe.
L 11 – Una breve lunghezza facile porta nel bosco sommitale.
14 - DAIN DELLE SARCHE – PARETE DEL LIMARO’
DIEDRO MAESTRI
C. Maestri e C. Baldessari 1957
400 metri, 12 tiri VI+ e A0/R3
Esposizione Ovest
Scarica qui la relazione in formato PDF
La via percorre l’immenso diedro ben visibile dalla strada che da Sarche sale a Tione.
Aperta in quattro giorni con largo impiego di mezzi artificiali, si percorre oggi quasi interamente in libera, con arrampicata atletica piuttosto faticosa. Una serie di friend è senz’altro raccomandabile per integrare i pur numerosi chiodi presenti (alcuni a pressione).
La via, nonostante qualche tratto un po' delicato, presenta un’arrampicata piacevole e merita senz’altro una ripetizione per il suo significato storico, per la linea straordinaria e l’ambiente molto suggestivo.
Attacco
Dalla rotonda nel centro di Sarche prendere per Madonna di Campiglio e subito dopo voltare a destra tra le case raggiungendo il parcheggio della ferrata Pisetta (indicazioni). Tornare a piedi sulla statale e seguirla in direzione di Madonna di Campiglio. Superare il ponte sulla Sarca e proprio sul primo tornante (verso sinistra) prendere a destra una sterrata che scende nel greto del fiume. Proseguire per traccia e attraversare a pelo d’acqua una paretina verticale per mezzo di una corda fissa (faticoso, meglio arrivare già imbragati e con un paio di rinvii a portata di mano). Ci si trova di fronte a dei grossi cavi metallici che consentono di attraversare agevolmente il corso d’acqua portandosi sotto la parete: una traccia tra gli alberi porta al punto più alto alla base del grande diedro, dove si trova l’attacco (20 minuti dall’auto).
Discesa
Salire brevemente nel bosco per vaghe tracce e raggiungere in breve un ampio sentiero che si prende verso destra (Est) scendendo con qualche breve cavo fino al bosco sotto la parete Est del Dain. Una ripida traccia sulla destra riporta al paese delle Sarche, in prossimità del parcheggio (1 ora).
Relazione
L 1 – Obliquare a sinistra e salire un diedro, superare un alberello e uno strapiombetto e poi uscire a sinistra su rocce rotte fino alla sosta su albero (V+ e VI, roccia delicata).
L 2 – Salire per rocce gradinate e poi obliquare a destra entrando in un boschetto. Sosta su albero alla base di un diedro con una grande edera sulla sinistra (II)
L 3 – Salire il diedro, prima obliquo a destra e poi dritto, sostando a sinistra ad un albero (VI all’inizio, poi più facile)
L 4 – Continuare per il diedro che piega a destra e fiancheggia una liscia placconata gialla che si supera, andando a sostare scomodamente dove il diedro si raddrizza (VI)
L 5 – Di nuovo in diedro sino alla sosta successiva (VI+, AO)
L 6 – Passare sotto il tetto a destra e superare lo strapiombo successivo traversando poi a sinistra su roccia arancione ad un comodo terrazzo (VI)
L 7 – Salire a destra per bella fessura (Fessura Giacomelli) e obliquare poi a sinistra alla sosta su comodo terrazzino (V+ e VI+)
L 8 – Per fessura raggiungere una nicchia e continuare per una fessura-diedro fino alla sosta alla base di un camino ad imbuto (VI+ e A0)
L 9 – Scalare il camino e uscirne ben presto a sinistra a prendere un diedro che porta alla sosta su terrazzino con pianta (VI)
L 10 – Proseguire nel diedro e prima che si trasformi in fessura traversare a destra e poi risalire una zona erbosa verso sinistra fino ad una comoda sosta su cengia (V+)
L 11 – Salire il diedro a destra della sosta e sostare sotto un tettino (V+)
L 12 – A destra del tetto risalire una lama compatta (utile BD 5) e poi paretine fessurate fino al bosco sommitale (V+)
E per finire
Un capolavoro degli Anni Trenta, la prima grande via che ha fatto conoscere la valle nel mondo.
15 - PICCOLO DAIN
CANNA D’ORGANO
B. Detassis e R. Costazza, 1938
350 metri, 11 tiri V+ e VI/R3
Esposizione Est
Scarica qui la relazione in formato PDF
Un alpinista famoso come Bruno Detassis (il “Re” del Brenta) che percorre la linea più evidente della valle non poteva passare inosservato nel mondo alpinistico tradizionalista degli anni trenta.
Un superbo itinerario che richiede esperienza e capacità su tiri di sesto in vera arrampicata libera, con pochissimi chiodi e proteggibilità non sempre ottimale; roccia buona, solo qualche breve tratto friabile e un po’ vegetato. Nella nostra ripetizione non abbiamo sentito il bisogno di aggiungere protezioni, ma numerosi cordini, una serie di friends e magari martello e chiodi possono essere consigliabili, soprattutto per chi è abituato a vie più “domestiche”.
Sicuramente una via dalla linea ideale, riservata ad appassionati della Valle e della sua storia.
Guardare dal basso questo diedro straordinario e poter dire “io l’ho fatto” rappresenta la maggior soddisfazione che un appassionato della valle e dei suoi valori storici può desiderare, tanto che qualcuno afferma che i frequentatori della Valle del Sarca si possono dividere in due categorie: quelli che l’hanno fatto e quelli che continuano a sognarlo.
Attacco
Dal paese di Sarche (parcheggio nei pressi della scuola) seguire il sentiero per la ferrata Pisetta giungendo con ripida salita nel bosco alla base della parete (scritta “per Ranzo” sulla roccia). Proseguire verso destra e ad un ometto abbandonare la traccia principale e seguire tracce e qualche bollo rosso a sinistra, raggiungendo la parete (qualche corda fissa) in prossimità dell’attacco del Pilastro Massud. Da lì traversare salendo verso sinistra lungamente (un tratto anche in discesa) su terreno delicato fino alla base dell’evidente diedrone (1 ora).
Discesa
Dal bosco alla sommità del pilastro seguire la traccia che scende verso Ovest e si collega al comodo sentiero principale che taglia in quota il bosco. Seguirlo verso sinistra (Est). Alcuni cavi e un tratto con gradini scavati nella roccia permettono di scendere il ripido tratto finale, conducendo alla base della parete nei pressi della scritta “per Ranzo”, dove ci si ricollega al sentiero d’attacco (1 ora).
Relazione
La linearità del tracciato rende superflua la relazione tiro per tiro: è una scoperta continua, da gustare passo dopo passo. Da osservare che la via si percorre normalmente in 11 tiri, anche se alcuni sono agevolmente abbinabili. Le soste sono generalmente comode e sicure, solo in qualche caso da rinforzare.
Sono due le imprese alpinistiche extraeuropee del 2019 gratificate con l’assegnazione ex-aequo del RICONOSCIMENTO PAOLO CONSIGLIO 2020.
Entrambe rispondono ai requisiti previsti dal Regolamento per la “Categoria A”, e cioè “Spedizioni di carattere esplorativo o di elevato contenuto tecnico, organizzate da piccoli gruppi di alpinisti a prevalente composizione giovanile.”
SPEDIZIONE BHAGIRATHI IV - Nuova via
Composta dai Ragni e Accademici Luca Schiera, Matteo Della Bordella e Matteo De Zaiacomo, alpinisti giovani, di diverso livello di esperienza ma tutti preparati tecnicamente e fortemente motivati. La spedizione, in puro stile alpino e senza spit, ha compiuto la prima salita della immensa Parete Ovest del Bhagirathi IV in giornata, per un itinerario di 800 metri con difficoltà estreme e continue.
I
l racconto della salita al Bhagirathi IV scritto da Matteo Della Bordella
SPEDIZIONE BLACK TOOTH - Prima salita
Composta dai giovani Simon Messner e Martin Sieberer. Il 26 luglio 2019 sono riusciti a salire l’inviolato Black Tooth, montagna di 6718 nel Baltoro, Karakorum, Pakistan. Una cima “minore” ma emblematica delle infinite possibilità che ancora si offrono per nuove salite di carattere esplorativo anche in zone da tempo frequentate. Itinerario di ampio respiro, con difficoltà non estreme ma affrontato in condizioni non ottimali e con approccio leggero. Rinunciando anche ai contatti esterni, come hanno scritto:” Vogliamo lasciare da parte i social network per connetterci al cento per cento con le montagne”.
Il racconto della prima salita al Black Tooth scritto da Simon Messner
Due prime ascensioni in quota e grande alpinismo di avventura per due team di alpinisti giovani, di formazione e appartenenza diverse ma accomunati da alte capacità e una progettualità esuberante.
Al di là del valore intrinseco delle realizzazioni si vuole premiare un tipo di approccio originale e leggero, con pochi mezzi, ma nel quale la determinazione e il coraggio di mettersi in gioco rappresentano i cardini sui quali si basa il successo.
Uno stimolo importante, quindi, per l’intero mondo alpinistico giovanile italiano, al quale mancano spesso visioni più ampie e progetti d’avanguardia.
Le due spedizioni sulla stampa
SPEDIZIONE BHAGIRATHI IV
https://www.youtube.com/watch?v=2580X5woWaY
https://www.alpinismi.com/2019/11/21/bhagirathi-ragni-lecco/
SPEDIZIONE BLACK TOOTH
https://www.montagna.tv/144222/messner-e-sieberer-in-vetta-allinviolato-black-tooth/
Il Consiglio Generale, adottando i criteri di prudenza suggeriti anche dal CAI e valutata la straordinarietà della situazione nella quale appare prospettiva remota poter svolgere nei prossimi mesi riunioni in presenza, ha deliberato di effettuare le Assemblee dei Gruppi on line, utilizzando la piattaforma Google Meet.
ASSEMBLEA GRUPPO OCCIDENTALE da remoto
SABATO 27 FEBBRAIO 2021
Ogni socio ha ricevuto dal proprio Gruppo la convocazione con l’ordine del giorno dell’Assemblea e le indicazioni per partecipare. Le modalità di partecipazione sono molto semplici e il collegamento può avvenire a mezzo pc o smartphone. La piattaforma utilizzata garantisce anche la possibilità di effettuare votazioni da pc a scrutinio segreto.
In questo particolare momento è quanto mai auspicabile che i soci tornino gradualmente a riallacciare rapporti e condividere esperienze e progetti, iniziando per ora da remoto. Non perdere i contatti tra i soci e con la nostra Associazione è fondamentale.
Per eventuali ulteriori notizie o supporto scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Il Consiglio Generale, adottando i criteri di prudenza suggeriti anche dal CAI e valutata la straordinarietà della situazione nella quale appare prospettiva remota poter svolgere nei prossimi mesi riunioni in presenza, ha deliberato di effettuare le Assemblee dei Gruppi on line, utilizzando la piattaforma Google Meet.
ASSEMBLEA GRUPPO CENTRALE da remoto
SABATO 20 FEBBRAIO 2021
Ogni socio ha ricevuto dal proprio Gruppo la convocazione con l’ordine del giorno dell’Assemblea e le indicazioni per partecipare. Le modalità di partecipazione sono molto semplici e il collegamento può avvenire a mezzo pc o smartphone. La piattaforma utilizzata garantisce anche la possibilità di effettuare votazioni da pc a scrutinio segreto.
In questo particolare momento è quanto mai auspicabile che i soci tornino gradualmente a riallacciare rapporti e condividere esperienze e progetti, iniziando per ora da remoto. Non perdere i contatti tra i soci e con la nostra Associazione è fondamentale.
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Il Consiglio Generale, adottando i criteri di prudenza suggeriti anche dal CAI e valutata la straordinarietà della situazione nella quale appare prospettiva remota poter svolgere nei prossimi mesi riunioni in presenza, ha deliberato di effettuare le Assemblee dei Gruppi on line, utilizzando la piattaforma Google Meet.
ASSEMBLEA GRUPPO ORIENTALE da remoto
DOMENICA 14 FEBBRAIO 2021 ore 9,00
Ogni socio ha ricevuto dal proprio Gruppo la convocazione con l’ordine del giorno dell’Assemblea e le indicazioni per partecipare. Le modalità di partecipazione sono molto semplici e il collegamento può avvenire a mezzo pc o smartphone. La piattaforma utilizzata garantisce anche la possibilità di effettuare votazioni da pc a scrutinio segreto.
In questo particolare momento è quanto mai auspicabile che i soci tornino gradualmente a riallacciare rapporti e condividere esperienze e progetti, iniziando per ora da remoto. Non perdere i contatti tra i soci e con la nostra Associazione è fondamentale.
Ecco qui l'odg della riunione: Ordine_del_giorno_14_febbr_2021.pdf
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Di Giuliano Bressan - Centro Studi Materiali e Tecniche CAI
e Massimo Polato - CAI Mirano - Centro Studi Materiali e Tecniche CAI
È comune tendenza credere di sapere cosa sia una corda, ma in realtà generalmente ben pochi si rendono conto di quanto complesso e vario sia l’argomento.
Un po’ di storia
Dai tempi dei pionieri fino ai primi anni Sessanta le corde che venivano utilizzate in alpinismo erano costruite con filamenti discontinui di canapa, opportunamente ritorti, intrecciati e ancora ritorti fra loro per conferirne tenuta e deformabilità. Pur utilizzando canapa di ottima qualità, come ad esempio la “Manila”, per migliorarne in particolare la maneggevolezza, le corde che si riuscivano a realizzare erano sicuramente poco affidabili sia in termini di sicurezza, per la scarsa resistenza alla rottura, sia per la funzionalità, soprattutto per la tendenza a irrigidirsi in caso di pioggia o freddo intenso. Queste corde, inoltre, erano praticamente prive di qualsiasi capacità di allungarsi ed erano molto soggette a fenomeni di degrado dovuti all’usura derivante dagli sfregamenti sulla roccia.
Se pensiamo agli itinerari su roccia e ghiaccio realizzati in quel periodo, non si può che ammirare il coraggio di chi affidava la propria vita a questa tipologia di corde (Fig. 1).
La maggior parte dei problemi e dei limiti esposti è stata risolta con l’introduzione delle fibre artificiali e in particolare la poliammide, come Perlon® e Nylon® [1].
Queste prime “corde moderne” (Fig. 2) furono un netto passo in avanti sotto il profilo della sicurezza e delle prestazioni. Se bene l’elasticità fosse ancora una chimera, i problemi legati all’usura e all’assorbimento di acqua della canapa erano di gran lunga ridimensionati.
Da queste corde si sono via via sviluppate conoscenze e metodologie di processi di produzione che arrivano fino ai giorni nostri.
Le corde moderne offrono, infatti, una grande affidabilità grazie alle notevoli caratteristiche di resistenza alla rottura, di deformabilità e di funzionalità. Ampi margini di miglioramento sono tuttavia ancora possibili, in particolare per quanto riguarda la resistenza alla rottura, l’usura per sfregamento e micro stress, l’effetto di acqua e raggi UV.
Le corde attuali sono costituite da sottilissimi mono filamenti di poliammide (prevalentemente nylon 6 o nylon 6,6), di spessore di circa 30 micron (30 millesimi di millimetro, la metà di un normale capello) e trattati termicamente per esaltare il più possibile le doti di elasticità di questi materiali; una corda con diametro 10-11 mm ne può contenere dai 60 ai 70 mila (Fig. 3).
La geometria costruttiva è del tutto diversa dalle vecchie funi di canapa o dalle prime corde in poliammide perché in questo caso la corda è un vero e proprio composito costituito da due parti ben distinte (Fig. 4).
- L’ “Anima”, la parte interna, formata da un insieme più o meno grosso di fili ritorti e/o intrecciati fra loro, i “trefoli” di numero variabile secondo i produttori.
- La “Camicia (calza o guaina)”, la parte esterna, composta di un tessuto a costruzione tubolare ottenuto per intreccio di un insieme di fili detti “stoppini” in blanda torsione fra loro.
Attualmente, tra i vari trattamenti e le tecniche disponibili per migliorare le prestazioni delle corde da arrampicata, quella che influisce e contribuisce maggiormente ad aumentare la sicurezza è la tecnologia “Unicore”. In parole povere le fibre di nylon dell’anima della corda costituiscono un “unico corpo” in grado di conferire tenuta anche in caso di taglio o lacerazione della camicia.
Corde: categorie e normative
Le corde si dividono generalmente in due tipologie:
Si definiscono “semi statiche” quelle corde che presentano un basso coefficiente di allungamento. In ambito alpinistico questo tipo di funi trova applicazione solo per la posa di corde fisse (ad esempio nelle spedizioni in alta quota), poiché nel caso di una caduta, la mancanza di allungamento elastico renderebbe l'arresto dell'arrampicatore molto brusco, con notevole rischio di lesioni gravi, e la possibile fuoriuscita o rottura degli ancoraggi.
Le corde semi statiche sono normalmente impiegate in speleologia, canyoning, lavoro e si dividono a loro volta in:
In arrampicata e alpinismo sono invece utilizzate corde "dinamiche", in grado cioè di arrestare la caduta libera di una persona, impegnata in un’azione di alpinismo o in una scalata, con una forza di arresto limitata.
Le corde dinamiche (Fig. 5) si suddividono in:
Nel mercato è presente anche una corda detta “da escursionismo” ma non si parla di un quarto tipo di corda. Generalmente si tratta di una singola corda gemella; in Germania si richiede invece di utilizzare almeno un capo di mezza corda.
Le corde, per essere poste in commercio, devono rispondere a delle ben precise normative:
- Corda singola: in grado di arrestare la caduta libera di una massa di 80 kg limitando la “forza di arresto” (FAD) a 12 kN (1200 daN) [2]. La corda viene provata singolarmente al Dodero [3] (Fig. 6 e 7) e deve resistere senza rompersi ad almeno 5 cadute. In particolare, riguardo alle corde dinamiche la norma prevede:
- Mezza corda: utilizzata normalmente in coppia, può trovarsi a sostenere “in singolo” una caduta, nel caso in cui le due corde siano inserite alternativamente nei rinvii. Per questo motivo la corda è provata singolarmente al Dodero e deve essere in grado di arrestare la caduta libera di una massa di 55 kg limitando la FAD a 8 kN (800 daN). La corda deve resistere senza rompersi ad almeno 5 cadute.
- Corda gemellare: viene provate al Dodero in coppia con una massa di 80 kg e la FAD non deve superare 12 kN (1200 daN); le corde devono resistere senza rompersi ad almeno 12 cadute.
La norma prende in considerazione la FAD alla prima caduta; le successive cadute generano forze più elevate a causa dell’irrigidimento provocato nella corda dalle cadute precedenti, ma non sono soggette a limiti. Il progresso nei materiali di base e delle modalità di costruzione, oltre che dei controlli di qualità, permettono oggi di realizzare corde che superano ampiamente i requisiti posti dalla norma. Una corda singola ad esempio, può reggere anche ben oltre le 10 cadute con valori di FAD più bassi, 7÷9 kN (700÷900 daN) e con peso ridotto; il peso, in questi ultimi anni, va assumendo un’importanza di tipo commerciale molto rilevante cui non sempre corrispondono benefici apprezzabili se non in particolari situazioni.
La normativa EN 892 - UIAA 101 prevede, oltre a quanto esposto, che la corda superi altri test concernenti il massimo allungamento statico e dinamico (al primo picco di forza al Dodero) e allo scorrimento della camicia.
Si fa infine notare che nel mercato sono presenti anche corde omologate come singole, mezze e gemellari; questo significa che la corda testata singolarmente e in coppia risponde ai parametri richiesti dalla normativa.
Quesiti e curiosità
Le domande più frequenti riguardano i valori che si riferiscono alla “forza di arresto” (12 e 8 kN), al peso delle masse (80 e 55 kg), utilizzate nei test al Dodero e sul perché le prove vengano fatte a corda bloccata se poi, nella realtà, si impiega un freno.
Il valore di 12 kN è il risultato di studi militari sull’apertura dei paracadute: un corpo umano allenato è in grado di sopportare una decelerazione massima di circa 15 G, cioè 12 kN per una massa di 80 kg.
Il valore di 8 kN deriva invece da un errore al momento della redazione della norma. Infatti, secondo logica e per limitare a 12 kN la forza di arresto di due capi di mezza corda utilizzati contemporaneamente, occorrerebbe che con 55 kg su un capo, la forza di arresto sia limitata a 7 kN. Una mezza corda a 8 kN darebbe una forza di arresto di 13,50 kN testata come una corda gemella, cioè ben oltre la resistenza del corpo umano.
Riguardo al peso delle masse, sul perché degli 80 kg la risposta è semplice: si considera per convenzione il peso medio di un uomo con il suo materiale.
Diversa è invece la questione sul perché e quali sono i concetti alla base del test sulle mezze corde, con una massa di 55 kg; la maggior parte degli scalatori non rientra, infatti, certamente in questa classe di peso, considerando anche la loro attrezzatura. Di fatto, la capacità di una mezza corda - provata singolarmente al Dodero con una massa di 55 kg - di sopportare in queste condizioni 5 cadute, fu ritenuta indicativa della capacità di una singola mezza corda di sostenere almeno una caduta di 80 kg; in questo caso la forza di arresto della singola mezza corda è superiore del 25% circa rispetto alla prova con 55 kg.
Le mezze corde, come già esposto, sono da preferire se si è in presenza di ancoraggi aleatori, come ad esempio roccia friabile o ghiaccio inconsistente, perché permettono il rinvio sui moschettoni di un solo capo alla volta, limitando nell’eventualità di una di caduta la forza di arresto. Se si rinviano entrambe le mezze corde nei moschettoni, come normalmente si fa in presenza di ancoraggi ritenuti sicuri, bisogna considerare un aumento delle forze di arresto di circa il 20-25%.
Spieghiamo, infine, il motivo per cui la FAD viene determinata in condizioni di corda bloccata. Un primo motivo risiede sul fatto che si ha la necessità di standardizzare la prova affinché i test eseguiti nei vari laboratori del mondo si trovino a operare nelle medesime condizioni; un’altra motivazione risiede nell’esigenza di ricercare il più elevato grado di ripetibilità possibile nei vari test, in modo da avere un campione rappresentativo dal punto di vista statistico. Queste condizioni si possono verificare solo eliminando quante più variabili non controllabili possibili e, da questo punto di vista, si capisce subito che eseguendo delle prove a corda frenata non si possono assolvere questi requisiti. Ogni persona, infatti, ha un suo modo di frenare la caduta: c’è chi è più “morbido” e chi più “rigido” e questo renderebbe non confrontabili le varie prove.
Sul test al Dodero tutto è standardizzato. Dal modo con cui si stringe il nodo sulla massa alle caratteristiche geometriche e di finitura superficiale (rugosità), di tutte le parti in metallo su cui scorre la corda.
Certo, una prova così è molto più severa di quel che avviene nella realtà, ma vale il principio del ragionare “a favore di sicurezza”. In sostanza, ci si mette nella peggiore condizione possibile che può accadere, perché se la corda non si rompe in questa condizione, a maggior ragione resisterà quando verrà sollecitata in presenza del freno, dove quasi tutta l’energia di caduta non è più dissipata dall’elasticità della corda, ma viene in gran parte trasformata in calore, generato per attrito, nel suo scorrimento sul freno.
Sul sito del Centro Studi sono disponibili, per chi desideri approfondire i molteplici aspetti (tra cui la durata delle corde), diversi articoli:
Articoli sulle tecniche di assicurazione
Usura delle corde in arrampicata e in laboratorio
Conclusioni, suggerimenti e consigli
La scelta di una corda deve essere sempre orientata su criteri di sicurezza. Particolare attenzione va quindi posta nel controllo dei dati tecnici dichiarati dai produttori; ad esempio per una corda singola, oltre alla forza di arresto - che dovrà essere ben inferiore a 12 kN - i parametri fondamentali sono il peso della corda che dovrà essere preferibilmente sui 65-75 grammi/metro, e soprattutto la sua resistenza dinamica espressa come numero di cadute sopportate al Dodero che dovrà essere di almeno 8-10 cadute.
Una corda scelta in conformità a queste indicazioni offre certamente ottime garanzie di sicurezza anche per un uso prolungato. Altra ottima soluzione è rappresentata, senza dubbio, dall'impiego in arrampicata di una coppia di mezze corde o di corde gemellari. Si ha il vantaggio, infatti, oltre all'elevatissima resistenza dinamica, di poter sempre contare - in caso di rottura di una delle due corde (a es. nell'eventualità di una caduta su spigolo) - sull'intervento dell'altra.
Le corde da arrampicata sono fatte ovviamente per essere utilizzate, nondimeno ogni loro impiego lascia il segno. Molto importante, ai fini della sicurezza, è quindi eseguire sistematicamente sulla corda, prima e dopo l'uso e per tutta la sua lunghezza, un minuzioso controllo, mediante esame visivo e tattile. Qualora la corda abbia sostenuto una caduta importante, si riscontrino danni dovuti a cause meccaniche (a es. caduta di sassi), la camicia si presenti seriamente danneggiata per abrasione (sfregamento sulla roccia o scorrimento in un freno) o denoti segni di notevole usura (Fig. 8 e 9), è necessario eliminarla.
Particolare attenzione va posta anche alla corretta conservazione della corda. Si raccomanda di riporla, dopo uso e verifica, nell'apposita sacca, avvolta a matassa, in ambiente buio, fresco, pulito e asciutto; va inoltre evitato accuratamente di lasciare la corda nel bagagliaio della propria auto per tempi prolungati perché d'estate la temperatura interna può superare i 60-70 °C e anche per il possibile contatto con sostanze chimiche dannose (acido delle batterie, solventi, ecc.).
Riguardo alla pratica di segnare o colorare la corda a metà, si devono usare esclusivamente degli speciali inchiostri, non aggressivi, impermeabili e resistenti all’abrasione; la corda non va mai segnata o colorata con articoli non specifici, perché gli agenti non naturali contenuti in alcuni inchiostri sono potenzialmente in grado di provocare effetti deleteri.
Una buona regola è tenere sempre pulita la propria corda per farla durare più a lungo, mantenendone le caratteristiche di scorrevolezza. Per rimuovere l’inevitabile sporcizia si possono utilizzare delle spazzole “Rope Brush”, specificamente create per pulire le corde e che si adattano facilmente ai vari diametri.
La corda è nella sostanza un prodotto tessile ed è quindi possibile lavarla; allo scopo bisogna utilizzare un detersivo neutro o gli appositi detergenti naturali. Il modo migliore per lavare la corda è a mano, in acqua fredda o appena tiepida. E’ possibile il lavaggio anche in lavatrice con il programma per tessuti delicati (30 °C); importante è non utilizzare la centrifuga e non asciugare mai la corda nell'asciugatrice. Il metodo più opportuno per asciugare una corda è stenderla a terra all’ombra e a temperatura ambiente (va evitata la luce solare diretta).
Infine un ultimo consiglio: i danni arrecati alla corda in seguito all'impiego in moulinette e/o ai piccoli voli tipici dell'arrampicata sportiva, di solito sopportabili in falesia, potrebbero invece risultare fatali al primo volo serio in ambiente. Massima attenzione quindi a non usare mai la stessa corda sia per l'arrampicata sportiva, sia per la pratica alpinistica in montagna.
Note
[1] Anche se oggi le poliammidi vengono universalmente identificate tramite il nome di “nylon” originariamente vennero scoperte da due aziende diverse. Il primo a sintetizzare le poliammidi fu Wallace Carothers che ottenne la poliesametilenadipamide (o Nylon 6.6) in un laboratorio della DuPont di Wilmington (USA) nel 1935. Il processo di sintesi del Nylon 6,6 (realizzato a partire dall'acido adipico e da esametilendiammina) fu brevettato nel 1937 e commercializzato nel 1938. Sempre in quell’anno, in Europa, Paul Schlack, riuscì a produrre nei laboratori della IG Farben, (Germania), il Nylon 6, partendo dal caprolattame; fu brevettato nel 1941 e commercializzato sotto il nome di “Perlon”. Oltre al nylon 6 e al nylon 6,6 (la cifra che accompagna la parola si riferisce al numero di atomi di carbonio esistenti nella molecola), i nylon più diffusi industrialmente sono il nylon 11 e il nylon 12. Il nylon 6 e il nylon 6,6 presentano notevoli proprietà di resistenza alla trazione abbinate a un’elevata elasticità per cui hanno trovato larghissimo impiego nel settore tessile.
[2] Il Newton - “N” - è un’unità di misura della forza nel Sistema Internazionale; un N è la forza che applicata a una massa di 1 kg le imprime l’accelerazione di 1 m/sec².
Un deca Newton - “daN” (10 Newton) viene spesso usato perché equivale a circa 1 kg peso.
Un kilo Newton “kN” (1000 Newton) equivale quindi a circa 100 kg peso.
[3] Il Dodero (dal nome del professore francese che lo progettò negli anni Cinquanta) è l'apparecchiatura utilizzata per valutare certe prestazioni della corda e determinarne, in base al numero delle cadute sostenute in condizioni controllate di temperatura (20°C) e di umidità relativa (65%), la “resistenza dinamica”. E’ costituito da una struttura che permette cadute senza attrito di una massa metallica lungo due guide parallele. Un capo dello spezzone di corda da testare è legato alla massa (80 kg per la corda singola o per le gemellari - 55 kg per la singola mezza corda). L’altro capo della corda passa attraverso una piastra con foro circolare dal bordo arrotondato (raggio di curvatura 5 mm) detto anello fisso o orifizio, che simula un moschettone e poi bloccato a un cilindro (sistema Poller). La rottura della corda avviene di solito sull’orifizio. La massa cade a intervalli regolari di 5 minuti da un’altezza di m 2,30. Per ragioni costruttive e di geometria, quest’apparecchiatura non consente un fattore di caduta (rapporto tra l'altezza della caduta e la lunghezza di corda) pari a 2: esso risulta di poco inferiore (circa 1,77) se si tiene correttamente conto dei reali assorbimenti di energia nel ramo a monte dell’orifizio, nel Poller e nei nodi. Convenzionalmente ci si riferisce comunque a questi risultati per la qualifica delle corde.
UNA SALITA INTEGRALE
Racconto per rivivere ricordi indimenticabili o per sognare un'avventura straordinaria per la prossima estate
Luca Enrico (C.A.A.I. Gruppo Occidentale) ci racconta la salita della Cresta integrale di Peuterey alla vetta del Monte Bianco.
Salita effettuata nell'agosto 2013 in cordata con Matteo Enrico e Luca Brunati
"L'ASCENSIONE AL MONTE BIANCO PER LA CRESTA DEL PEUTEREY È UNO DEGLI ITINERARI PIÙ GRANDIOSI DELLE ALPI, IL SOGNO DI MOLTI ALPINISTI."
(ANDRÉ ROCH, GRANDI IMPRESE SUL MONTE BIANCO)
Piove, una pioggia fine e insistente, quasi già autunnale. La nebbia si sfilaccia sulle punte dei pini e su quelle delle montagne. Con la testa appoggiata al finestrino dell’autobus vedo correre vie i paesi, l’asfalto è lucido, quasi mi assopisco e vedo allora scorrere nella mia testa questi giorni incredibili appena vissuti, trascorsi. Mi sembra un po’ strano essere qui, seduto su questo sedile, lo zaino accanto a me emana l’odore della montagna. L’autobus ci scarica a Chamonix, dobbiamo attendere la coincidenza per l’Italia, ci infiliamo nel primo locale che ci sembra dare qualche possibilità di ristoro. Siamo in cinque. Oltre a me e mio fratello Matteo c’è l’amico di sempre Luca Brunati e poi i due ragazzi con cui abbiamo condiviso per caso tutta la lunga salita e la discesa. La cucina è già chiusa, chiediamo delle patatine con formaggio e ci portano, invece di uno sperato e bel pezzo di toma, un misero piatto di patatine fritte con sopra del formaggio fuso.
Chissà i due simpatici e gentili rumeni, che non hanno esitato a farci passare, dove saranno. Ci auguriamo che abbiano desistito come molti altri, trovarsi lassù ora non glielo auguriamo proprio, il tempo è terribile, una fredda bufera ha preso il posto dei giorni assolati precedenti. Già quando siamo usciti noi, oltre la cornice sommitale, un vento teso e polare ci ha investiti, foriero della perturbazione.
Quattro giorni prima. Siamo in Val Veny. E’ sempre bella questa valle e poi è l’atmosfera che si respira arrivando qui, quella che precede le salite, il rito dello zaino, l’ultima verifica all’attrezzatura. A sto giro dobbiamo proprio stare attenti a non aver dimenticato nulla. Ricontrolliamo anche le scorte di cibo, non sono molte eppure come sempre ci sembrano esagerate perché occupano prezioso spazio nello zaino. E’ tutto a posto. Chiudo l’auto e l’avventura inizia. La salita al Bivacco Borelli 2.325 m non è molto lunga ed è pure divertente grazie alla ferrata, ma bisogna stare attenti. Come un deja vu ritorno indietro di 12 anni. Eravamo qui per la Sud della Noire, solo quella ma all’epoca fu il degno coronamento di una grande stagione. Il nostro amico Marco risaliva slegato e senza casco quelle ripide scalette, un sasso lo colpì e cadde sulla terrazza sottostante, per fortuna senza gravi conseguenze. Oggi invece va tutto bene. Usciti dalla ferrata superiamo altri alpinisti, allora inizia il gioco di indovinarne la destinazione. A differenza di 12 anni fa il piccolo rifugio è pieno, è facile intuire che tutti andranno sulla Sud della Noire. Ma quanti proseguiranno per l’Integrale di Peuterey fino in vetta al Bianco? Ci sono i due ragazzi italiani che superiamo proprio all’uscita della ferrata. Poi c’è la guida svizzera con il cliente, trasuda nervosismo e guarda di sottecchi i “concorrenti” e poi ci sono i due tedeschi, uno dei due è un teutonico marcantonio con i capelli lunghi e l’abbigliamento un po’ demodè, però ispira simpatia, sembra calmo e rilassato. Poco alla volta si delineano le cordate dirette all’Integrale, sono in tutto sei, compresa la nostra.
La serata scorre via piacevolmente e presto arriva la sveglia. Io vorrei sempre partire alle ore più antelucane ma questa volta mi lascio convincere a posticipare. Siamo rimasti solo più noi tre a fare colazione. Sorseggiamo il tè con ostentata calma sbirciando dalla finestra la lunga fila di frontali già alte sulla morena. Il sottile dubbio di essercela presa con troppa calma mi sorge ma mi ricredo appena vedo accalcarsi tutti quei lumicini alla base del primo tiro della Sud. Sembrano lucciole impazzite, aggrovigliatesi in maniera inestricabile. Quando sbuchiamo dall’ultima morena gli ultimi sono ancora lì affaccendati a salire il primo tiro. Comincia a far chiaro. Attacchiamo anche noi, sono passati tanti anni ma ricordiamo vagamente i passaggi.
Adottiamo fin da subito la nostra tecnica di progressione “veloce”, assolutamente deprecabile dal punto di vista della sicurezza ma molto efficace. Richiede solo una cieca fiducia nei soci, per il resto permette di accorciare i tempi di permanenza alle soste: tiri lunghi da 80m, avanti fin che il materiale c’è. E nei pezzi più facili i secondi partono con le corde in mano. Non sembra vero eppure piano piano cominciamo a risalire il serpentone umano. Come sempre c’è chi ti lascia passare, come i due già citati rumeni, altri borbottano un po’, ma fa poi lo stesso, a sto giro decidiamo di derogare un po’ dal fair play, stasera dobbiamo essere dall’altra parte della Noire. Superiamo anche i due italiani e il crucco capelluto che sale costante ma con estrema decisione. Sono in testa io e sbuco su una delle tante torri della Sud. Alla mia sinistra lo svizzerotto sta recuperando il cliente. Si gira verso di me indispettito fulminandomi con uno sguardo degno di “Mezzogiorno di fuoco”. Il duello è ormai inevitabile. Lui riparte e sosta in mezzo al muro seguente, io recupero gli altri due e parto per il mio tiro da 80. Passo dietro al cliente che impreca in un misto tedesco-francese contro les italiens. Poi arrivo dalla guida che questa volta sbotta di brutto. Non me lo faccio ripetere due volte e gli passo sopra mandandolo a quel paese in uno stentato francese. Il successivo fare conciliante non fa sbollire le ire del povero elvetico che ancora ci impreca dietro, ma ormai siamo oltre e poco per volta lo distanziamo.
In questi viaggi può anche capitare di fare piacevoli incontri. A un certo punto qualcuno chiama mio fratello. Non si capisce nemmeno da dove arrivi quella voce, eppure chiamano proprio “Teo, Teo”. Tralasciando ipotesi fantasiose del tipo che sia la montagna stessa a chiamarci cerchiamo di capire chi sia il proprietario di quella voce. Lo scopriamo presto, troviamo Diego, un simpatico ragazzo di Val della Torre comodamente seduto su una cengia mentre assicura il socio. Sta facendo la Sud, stanotte ha bivaccato e per quello non lo abbiamo visto al Borelli. Se ne sta lì placido e sorridente con una penna di rapace infilata sul casco. Ha perso la relazione della discesa. Noi ne abbiamo una. Se tutto andrà come deve andare non ci servirà e gli promettiamo di lasciargliela sulla Madonnina di vetta. Lo salutiamo e proseguiamo, ormai le difficoltà stanno scemando e la vetta è sempre più vicina.
La discesa in doppia dalla Noire è forse uno dei tratti più temuti di questa lunga cavalcata. Ne saremo diretti testimoni il giorno seguente quando, udite le grida di aiuto di una cordata di francesi con le corde incastrate, chiameremo per loro il Soccorso. Comunque fatta ben attenzione a prendere le soste giuste senza fare calate troppo lunghe arriviamo verso il fondo dove la nostra contentezza per essere i primi viene presto tarpata da qualche bella pietra che ci piove addosso, anche se in verità non per negligenza, dagli amici tedeschi e italiani, le uniche due cordate superstiti. Di altri non c’è traccia. Attendiamo le due cordate alla fine della discesa e poi noi decidiamo di risalire al buio fin sotto la Punta Casati, dove una bella piazzola sembra attenderci per il bivacco. In verità non è proprio il più comodo dei giacigli con tutte quelle pietre aguzze anche perché non abbiamo né materassino, né sacco a pelo ma solo il sacco da bivacco. Scelta ovviamente dettata dalla leggerezza e poi…”mica abbiamo mai bivaccato con il sacco a pelo e il materassino!”. Se il letto non è dei più comodi la cena lascia pure alquanto a desiderare: qualche fetta di pallido tacchino sottovuoto accompagnata da cubetti di grana, energetici quanto si vuole ma pure alquanto stopposi. Comunque c’è la Luna, le creste e le torri che ci stanno alle spalle sembrano un castello fatato, è tutto molto bello e domani ci attende il secondo giorno di viaggio.
Il freddo che precede il sorgere del sole ci fa rimpiangere il sacco a pelo ma più che altro con l’avvento della luce la magia della sera prima si spezza un po’. In realtà constatiamo solo ciò che non volevamo vedere, e non certo a causa del buio. Queste dame inglesi sono davvero un orrido ammasso di sfasciumi. Forse quando Diemberger girò il famoso film c’era molta più neve, i cambiamenti climatici erano ancora a venire e per raggiungere il piccolo bivacco Craveri si poteva scegliere tre opzioni. Con le dita intirizzite rigiriamo tra le mani la relazione e poi scegliamo la terza. Perché è quella più elegante ed estetica e ci fa scalare i vari pinnacoli, altrimenti che integrale è! In verità dietro alla nostra etica e al nostro gusto estetico si cela la repulsione anche solo a immaginarci impegnati su quegli orrendi sfasciumi in bilico sull’abisso.
Poco prima del bivacco un provvidenziale nevaio ci permette di fare acqua. Nel frattempo arrivano le altre due cordate, i tedeschi proseguono spediti, i due italiani li troveremo a banchettare al Craveri. Da qui saliremo insieme. C’è da dire che l’accogliente ricovero esercita il potere di una sirena ammaliatrice. Sembra dirci: “fermatevi, fermatevi qui a riposare”. Per poco non ci caschiamo ma sprecare più di mezza giornata di bel tempo sarebbe assai imprudente. Anche se a malincuore riprendiamo tutti e cinque la salita.
L’estetica dell’arrampicata è certamente un’altra cosa però l’ambiente è grandioso. Noi conosciamo questi luoghi e ci dirigiamo verso il retro del Pic Gugliermina. Oggi è presto ma più su inizia la neve e quindi decidiamo di fermarci. Su una buona terrazza ci stiamo tutti e cinque. Luca andando a cercare acqua trova tra quelle pietre una vecchia e consunta coperta, di quelle in lana grigia, e prontamente la porta, come gli uccellini fanno con i ramoscelli, nel nostro piccolo nido. Per tenere al caldo il sedere niente di meglio. Che poi proprio di caldo non si può tanto parlare…Gli altri due si stupiscono nel constatare che non abbiamo né sacco a pelo né materassino. Ah ma noi ne possiamo fare a meno…anche se non lo diciamo però li invidiamo un po’.
Terzo giorno di ascensione. Adesso comincia l’ultima parte. Certo che il Bianco è ancora ben lontano, eppure molto meno di quanto lo vedessimo dalla Sud della Noire. Alla Noire si sostituisce la Blanche con la sua affilata e vertiginosa cresta. Ci sporgiamo sulla Nord pensando a chi l’ha scesa in sci, l’ambiente è grandioso, forse nulla è paragonabile su tutte le nostre Alpi. Poi su al Pilier d’Angle dove la nebbia rende l’ambiente ovattato. Dobbiamo cercare di sbrigarci. Finalmente l’ultima cresta di neve, che poi è un tratto ancora eterno, che ci porterà dritti al Monte Bianco di Courmayeur. Adesso una pesta dopo l’altra e il gioco è fatto. Peccato che le condizioni non siano così buone, due dita di neve coprono quel ghiaccio poroso, che distrugge oltre ai polpacci il cervello. Già non è il massimo per proteggersi, se poi si aggiunge che abbiamo in tutto tre viti e un solo attrezzo a testa è tutto detto. Sto di nuovo salendo io, tutto bello per carità ma non è che mi stia proprio divertendo un mondo. A un certo punto nel canale a destra si stacca un monolite di granito grande come un camion e si mette a rimbalzare sul pendio di neve. E’ impressionante. Luca riesce pure a perdere il piumino, una distrazione che quassù potrebbe costare cara. Il tempo non è più così bello, dobbiamo fare in fretta.
Questa cresta non finisce mai! A un certo punto però ecco la cornice sommitale. E’ rosa, illuminata ancora dall’ultimo Sole che dietro di lei sta tramontando. La supero ed esco. Alzo la piccozza al cielo. Il viaggio è concluso. Fa freddissimo, un vento gelido ci sferza portandoci via il calore accumulato nella salita. Saliamo in vetta al Bianco e poi giù alla Vallot. Ci fermiamo un attimo ma è sempre il solito immondezzaio e allora divalliamo al Gouter.
Qualcuno sta già salendo per anticipare il maltempo, ci sono i soliti giapponesi trainati da guide che non fanno nemmeno lo sforzo di fingere di divertirsi. Siamo sulla traccia e ci sleghiamo. Ognun per sé. A un certo punto mi siedo nella neve, mi sento svuotato di energie, ma ormai basta scendere.
"La cresta integrale di Peutérey rimarrà sempre una salita che difficilmente verrà ripetuta, infatti le probabilità di compiere l'intera scalata sono molto minori rispetto alla parete Nord dell'Eiger o allo sperone della Punta Walker, perchè le dimensioni della cresta superano quelle di entrambe le pareti, sia in altezza che in estensione: 8Km di arrampicata, discese a corda doppia, salite lungo roccia, ghiaccio e misto, contro i 2Km circa delle grandi pareti nord. Già la prima tappa, la cresta sud dell'Aguille Noire è di 2Km di scalata; poi la seconda frazione, 500mt di discesa a corda doppia lungo il verticale spigolo Nord dell'Aguille Noire, una grande incognita, soprattutto con il maltempo! L'ultimo tratto, infine, la traversata dell'Aguille Blanche, la discesa alla sella del Col de Peutérey e la salita di 900mt per raggiungere la vetta del Monte Bianco risulta tecnicamente più facile, ma certo non meno grandiosa ed impressionante".
Kurt Diemberger, rivista della montagna, n.°12, aprile 1973
Monte Bianco
Cresta Integrale di Peuterey
Ascensione effettuata nei giorni 20-24/08/2013 da Luca Brunati, Luca e Matteo Enrico
Relazione tecnica:
Dislivello: 4500m
Quota partenza: 1600m
Quota vetta/quota: 4810m
Esposizione: tutte
Grado: TD+
Località di partenza: Casolari di Peuterey
Punti d'appoggio: Rifugio Borelli - Bivacco Craveri
Note tecniche
Ascensione lunga e impegnativa, anche se mai tecnicamente difficile, rappresenta un vero viaggio alpinistico, con alcuni reali pericoli oggettivi. Questi sono rappresentati dalla discesa in doppia sul versante nord (se si incastrano, molto difficile se non impossibile risalire in molti tratti), pericolo di caduta sassi sulle doppie (soprattutto con altre cordate presenti), nell’attraversamento delle Dames Anglaises e sul Grand Pilier d’Angle, attraversamento di affilate creste nevose, possibile presenza di ghiaccio nel tratto finale.
Arrivare in giornata al Craveri è difficile, prevedere dunque un paio di bivacchi (partendo dal Borelli).
L’acqua si trova molto difficilmente e dipende molto dalla stagione e quindi dalla presenza di neve. In genere si trova alla Breche Centrale, difficilmente al Craveri (senza coperte e materassi), e poi verso la calotta della Blanche. Tenere in considerazione l’aspetto acqua.
Fondamentale il tempo ultra stabile per tutti i giorni dell’ascensione.
Le scappatoie, scesi dalla Noire, sono poche, difficili, e pericolose.
Nostre note:
Primo giorno: salita al Borelli.
Secondo giorno: cresta Sud della Noire, doppie sul versante nord e quindi risalita fino sotto la Punta Casati. Terzo giorno: attraversamento delle Dames Anglaises, risalita fin sotto il Gugliermina.
Quarto giorno: uscita sul Bianco.
Nostro materiale: 5 friends, 8 rinvii, 3 viti da ghiaccio (ma era meglio averne qualcuna in più), 1 piccozza a testa, ramponi, cordini, fornelletto e bombola nuova, frontale, scarpette, acqua (2 litri). Per coprirsi: pile leggero e pesante, giacca in goretex, piumino, sacco da bivacco, pantaloni pesanti e calza a maglia. Non avevamo il sacco a pelo e il materassino, ma devo dire l’abbiamo un po’ invidiato alle altre cordate che ce l’avevano…
Descrizione
La cresta integrale di Peuterey rappresenta un’ascensione unica nelle Alpi: un totale di 4500 metri di dislivello, di scalata su roccia come su ghiaccio, di difficoltà, di discese in doppia. Questa combinazione stupenda è senza dubbio il modo più bello di percorrere la cresta di Peuterey: ad una magnifica arrampicata su roccia, seguono un’audace discesa in doppia e il percorso estremamente vario di una cresta senza rivali nelle Alpi (guida Vallot).
L’ascensione comprende la scalata della cresta sud dell’Aiguille Noire du Peuterey, la discesa in doppia dal versante nord, l’attraversamento delle Dames Anglaises, la risalita verso le Aiguille Blanche du Peuterey passando sotto il Pic Gugliermina, la risalita al Grand Pilier d’Angle e la risalita fino in vetta al Monte Bianco di Courmayeur e quindi alla vetta principale.
Percorrere tutta la cresta sud dell’Aiguille Noire du Peuterey (vedi itinerario altrove descritto in questo sito).
Appena sotto la madonnina di vetta (circa 5-10 m), reperire il primo ancoraggio delle doppie del versante nord (chiodi). Attenzione a non prendere le doppie della forcelletta prima della vetta (quelle sono le calate della Ovest). Effettuare sempre doppie corte, reperendo (attualmente) quelle dotate di moschettone. Scendere, dopo circa tre doppie, un po’ a sx (faccia a monte), per reperire il profondo camino che porta alle cenge sottostanti la Breche delle Dames Anglaises. Circa 12 doppie.
Risalire il canalone (non andare alla Breche Sud), spostandosi progressivamente a sx, fino a giungere sotto il profondo camino della Punta Casati. Noi siamo saliti per circa 100/150 metri, poi, dove è presente una fettuccia, ci siamo spostati per una cengetta che taglia la parete da dx vs sx (non continuare nel camino!), effettuato un paio di tiri e quindi reperito la prima delle due doppie che portano alla Breche Centrale (si può anche giungere più facilmente, probabilmente, dallo speroncino di sx senza fare camino più cengetta).
Dalla Breche Centrale risalire con 2-3 tiri di corda l’Isolee, quindi con 2-3 doppie giungere al bivacco Craveri.
Spostarsi a sx per delle cenge, quindi andare verso le cenge Schneider e risalire il terreno fino sotto il Pic Gugliermina (stare a dx, non percorrere il canalone sotto la breche della punta).
Risalire in cresta, fare una breve doppia e quindi risalire vs dx per circa 100 m (versante Brenva) e quindi piegare a sx per andare in cresta (versante Freney), fino a raggiungere la neve dell’Aiguille Blanche di Peuterey.
Raggiungere la Punta Centrale, e, per una cresta molto aerea, raggiungere la punta NW. Calarsi con 4 doppie, saltando la terminale, e raggiungere il Col du Peuterey.
Da qui, superare la terminale del Grand Pilier d’Angle, a volte molto difficile, per risalire tutto il versante di questo (più o meno al centro), puntando al Grand Gendarme.
Si può evitare il Grand Pilier d’Angle per il couloir Eccles (se in condizioni), ma così facendo si svicolerà parte dell’integrale. Aggirare il Grand Gendarme sulla dx (passando dietro), e quindi raggiungere la cresta nevosa. Percorrerla tutta, non stare mai nel canale-pendìo in alto (pericolo reale di caduta sassi, visti di persona), ma stare sempre sulla cresta.
A 4500 m circa, in prossimità di rocce affioranti, andare a sx, breve passaggio su roccia, e quindi ancora cresta nevosa fino a bucare la cornice terminale (che può opporre ancora problemi) del Monte Bianco di Courmayeur.
Quindi in vetta al Bianco.
Il Club Alpino Accademico Italiano reputa inaccettabile il provvedimento liberticida della Regione Valle d’Aosta sulla pratica dello scialpinismo
Prendendo a pretesto necessità connesse con la situazione epidemica da Covid 19 la Regione Vda ha deliberato, tra l’altro, di vietare la pratica dello scialpinismo se non con l’accompagnamento di una Guida Alpina o Maestro di sci (Ordinanza n. 552 dell’11 dicembre 2020, punto 11).
Se la finalità è quella di limitare le potenziali necessità di interventi di soccorso e sanitari in questo momento delicato, la decisione appare incomprensibile sulla base dei dati statistici: le valanghe, anche di recente e anche proprio in Vda, hanno colpito sia praticanti privati sia gruppi accompagnati da professionisti.
Se viceversa la finalità, comunque non dichiarata, è quella di supportare una categoria professionale che sicuramente soffre disagi in questa situazione, la decisione appare arbitraria, discriminatoria e persino autolesionista in prospettiva futura. Possiamo infatti immaginare che anche una volta riaperta la Regione i turisti, nel dubbio o per presa di posizione, possano indirizzarsi a zone diverse, dove la libertà di movimento in montagna non ha subito queste limitazioni.
Appare quindi veramente inspiegabile sotto il profilo pratico questa disposizione, ma quello che più ci allarma è il suo significato liberticida.
Oggi con la scusa del Covid si limita con ordinanza regionale la pratica dello scialpinismo, domani potrà toccare all’alpinismo o all’arrampicata, alla mountain bike, all’escursionismo o ad altre attività in montagna perché è evidente che attività outdoor a rischio zero non esistono e pensare che sia possibile ridurre il rischio con un’ordinanza significa non aver capito molto del problema.
Il rischio si limita con politiche che promuovano attivamente la conoscenza, la cultura, la formazione e l’autoresponsabilità, riassegnando ai singoli la responsabilità delle loro scelte e l’assunzione delle conseguenze che ne derivano.
Questo non toglie, naturalmente, che i singoli comportamenti dettati da colpevole incoscienza o incapacità, da chiunque posti in essere, possano, e anzi debbano, essere sanzionati sotto tutti i profili.
Solo l’opposizione attiva, dura e senza sconti dell’intero mondo alpinistico a questo pericolosissimo precedente di limitazione arbitraria alla libertà delle persone potrà garantire per il futuro il mantenimento di quella libertà di accesso alla montagna che è presupposto non negoziabile di ogni esperienza alpinistica.
Anche il CAI ha preso posizione con l'articolo Non dividere gli amanti della montagna pubblicato su Lo Scarpone online.
Leggi anche gli articoli su Planetmountain e Montagna TV.
Il Collegio delle Guide Alpine della Lombardia prende posizione contro il provvedimento NON SIAMO D’ACCORDO