Un osservatorio per le libertà

Club Alpino Accademico Italiano
Martedì, 14 Maggio 2019 11:27

LA MONTAGNA E I SUOI PRIMATI

di Alberto Rampini

Ne abbiamo viste tante, abbiamo combattuto tanto e sinceramente pensavamo che aberrazioni del genere non avrebbero mai trovato spazio nel rapporto tra l’uomo e la natura e men che meno nel rapporto tra la natura e le istituzioni che se ne dovrebbero prefiggere la tutela e la promozione sostenibile.

Cai, nuova sfida da Guiness , portare 10 mila persone sulle Orobie così titolava con enfasi l’Eco di Bergamo portando la notizia dell’iniziativa della Sezione di Bergamo del Cai, sottolineata da una foto a piena pagina di una folla in montagna aggrappata a una corda che saluta festosa un elicottero che sorvola le cime circostanti.

Già nel 2018 le Orobie erano entrate nel Guiness dei primati con oltre 2800 persone convogliate in quota e legate in unica cordata. Ora l’obiettivo è più ambizioso, arrivare a 10 mila persone contemporaneamente nei rifugi del Cai Bergamo dislocati sulle Orobie.

Ma sono questi i record che ricerchiamo in montagna e che ci aspettiamo da essa? Se di primati si vuole parlare in montagna credo si debba parlare del primato della pace, della tranquillità, del rispetto e di una frequentazione in punta di piedi e, anche in prospettiva, sostenibile per l’ambiente.

L’iniziativa del Cai di Bergamo, per quanto denominata “Save the mountains”, sembra muoversi in direzione completamente opposta. Non basta battezzare l’evento come salvifico e cercare di convincere (e forse convincersi) che più persone si portano in montagna più sono le occasioni per insegnare che la montagna va frequentata con rispetto e misura: un ossimoro. Come dire: venite tutti che vi insegno a non venire più in questo modo!

Credo che la montagna vada assolutamente tutelata come bene non fungibile, delicato e difficilissimo da mantenere, figuriamoci da ripristinare dopo l’aggressione di folle immense. In montagna andiamo per ricercare quello che la società moderna ci ha tolto in pianura e nelle città, una naturalezza dove lo spirito trova pace, si ristora ed entra in contato profondo con sé stesso. Portare in montagna le stesse folle vocianti che frequentano la domenica i centri commerciali difficilmente promuoverà la sensibilità ambientale di queste mentre sicuramente toglierà alla montagna una delle sue prerogative più significative. E’ vero, alla sera tutti tornano a valle. Si dice quindi che la montagna ritorna sè stessa e la gente si è arricchita di consapevolezza. Credo invece che le ferite, soprattutto culturali, inferte alla montagna da eventi come questo e come altri del genere (vedi il programmato concerto Jovanotti a Plan de Corones, per citarne uno) siano assolutamente nefaste. Queste manifestazioni di massa anche solo con il parlare che se ne fa e con la ripetizione che ormai si sussegue, fanno diventare quasi “normale” il concetto che in montagna questi eventi sono “ormai” naturali e si affiancano e gradualmente sostituiscono i valori che da sempre sono stati riconosciuti all’ambiente montano. Il consumismo e la massificazione omologatrice avanzano dalle città verso le terre alte e ne compromettono progressivamente e in modo definitivo l’identità.

E la cosa più preoccupante è che ad organizzare l’evento “Orobie” sia una Sezione del Cai con la benedizione di altissime personalità dell’ambiente . Le Sezioni del Cai sono associazioni private autonome e libere nello svolgimento della loro attività, ma non dovrebbero mai andare contro i principi statutari del Cai centrale che ha ad esempio approvato e sempre riconosce le Tavole di Courmayeur, il Bidecalogo e altri infiniti documenti a tutela della montagna, che, tutti, richiamano alla sobrietà e al senso della misura. Abbiamo combattuto per anni le spinte alla mercificazione della montagna da parte dei privati e adesso ci troviamo a dover far i conti con questo tipo di iniziative organizzate dal Cai. Nutriamo la speranza che i promotori si rendano conto di quello che stanno facendo e riconducano l’evento entro l’alveo della ragionevolezza e del decoro.

Se così non fosse vogliamo nutrire un’altra speranza, che cioè la casa madre, il Cai centrale, Ente Pubblico retto da una normativa statutaria chiara e stringente, intervenga direttamente per fermare l’iniziativa o quanto meno per prenderne le distanze in modo chiaro. Leggi qui la posizione ufficiale del CAI: pdfSave_the_Mountains_la_posizione_del_CAI_Centrale_M360_lug_2019.pdf 

Articolo MontagnaTV

Per saperne di più su SAVE THE MOUNTAINS

Le precisazioni del Cai di Bergamo

Foto di copertina da "L'Eco di Bergamo"

Mercoledì, 22 Maggio 2019 12:43

 

A Cividale del Friuli il 18 maggio 2019

CONVEGNO GRUPPO ORIENTALE

La crescente codificazione tecnica di tutti gli aspetti dell’andare in montagna viene assunta come elemento fondamentale per ridurre i rischi

ma riduce anche drasticamente quella libertà di sperimentare autonomamente, talvolta anche sbagliando e rischiando,

che è stata da sempre alla base  della nostra attività.

Hanno dibattutto sull'argomento quattro relatori principali e sono intervenuti con le loro considerazioni soci e non soci.

In allegato la locandina dell’evento e il testo degli interventi tenuti da:

Carlo Zanantoni CAAI

Claudio Rossi CAAI

Mauro Florit CAAI

Antonio Zambon rappresentante CAI nel Club Arc Alpin

 

Un ringraziamento particolare alla Sezione CAI "Monte Nero" per l'ospitalità e l'organizzazione.

20190518 144424Il Presidente del Gruppo Carlo Barbolini presenta il neoaccademico Michele Chinello (a sinistra)

IMG 20190519 WA0010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

20190518 152847L'intervento di Claudio Rossi

20190518 155011Relaziona Mauro Florit

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

  20190518 164919Carlo Zanantoni20190518 160205Antonio Zambon rappresentante CAI nel Club Arc Alpin

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                             

20190518 152151 002Interviene il Presidente Generale Alberto Rampini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                         

 

 

 

                                                                                                 

 

 

 

 

Giovedì, 11 Aprile 2019 20:43

 

 

IL GRADO NON E' TUTTO

riflessioni sull’avventura

È considerato l'unità di misura della complessità in montagna, ma non è sempre così: difficoltà ambientali, condizioni della parete, affaticamento soggettivo e molto altro ancora possono compromettere le capacità dell'uomo di superare certe prove

di Domenico Sinapi*

In Italia, negli ultimi anni, parlando di alpinismo la parola più usata e ripetuta è il grado. Non così è per esempio all’estero, in Inghilterra, Spagna, Germania, Francia e USA.

Il grado dovrebbe definire la difficoltà tecnica superata, e quindi in soldoni sembrerebbe che più uno supera una difficoltà alta e più è bravo. Tuttavia esistono situazioni dove la capacità di superare un grado tecnico non basta per superare il passaggio. Ad esempio i fattori ambientali - quota, condizioni della parete, fatica, rischio di caduta ecc - possono compromettere la capacità puramente tecnica di un alpinista di superare il passaggio e uscire dalle difficoltà.

E questo è il succo del discorso, non c’è alpinismo senza rischio, altrimenti chiunque fosse in grado (e già sono in pochissimi) di arrampicare in libera su un 9a potrebbe teoricamente salire qualsiasi parete della terra ed essere considerato l’alpinista più forte al mondo. La pratica dell’alpinismo ci dice che non è così che funzionano le cose.

Un conto è infatti superare un tiro in falesia opportunamente preparato, magari con i rinvii già posizionati, essendo ben riposati e riscaldati, e un altro è superare le stesse difficoltà tecniche in alta montagna magari a 4000 metri di quota e senza spit a proteggere il tiro, anche considerando la roccia pulita, avendo già percorso 500m di parete.

Sono infatti pochi al mondo in grado di fare queste performance, ma anche nel piccolo, c’è una grande differenza tra superare un tiro di 6-7-8 grado UIAA (6a – 6b - 6c -7a scala francese) in montagna sulla nord del Badile o sulla nord del Civetta o sul monte Bianco, senza protezioni o con poche protezioni e un altro è fare un tiro di analoghe difficoltà in falesia o su una piccola parete con gli spits distanziati a un metro.

 

Great roof foto Fausto Tovo

Nose pancake flake foto Fausto tovo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra        Nose,  Great Roof  - Foto Fausto Tovo

A destra    Nose , Pancake flake  - Foto Fausto Tovo

 

AVVENTURA
O ESERCIZIO GINNICO?

La mia è ovviamente una provocazione, nel senso che ritengo che ognuno debba e possa scegliere di fare quello che vuole e che preferisce, ma quando si incomincia a definire come prestazione una scalata in libera di un tiro, anche in falesia, sarebbe bene incominciare a considerare, anche alcuni fattori, prima di definire quella salita come una prestazione.

Infatti magari il tiro riesce dopo un numero di tentavi altissimo, mentre a qualcun altro riesce a vista o dopo pochi “giri”.

Spesso mi è capitato di vedere arrampicatori che hanno salito tiri di 8a, non riuscire a salire a vista tiri di 6c, addirittura fare molti resting su tiri di 7a, ma allora qual è realmente il grado tecnico di questi arrampicatori, seppur sportivi ?

Anche in montagna si vedono cose “strane”, vengono definite prestazioni o prime salite in libera, scalate dove vengono preventivamente preparate tutte le protezioni e poi addirittura allungate con fettucce, anche di due metri, per poter rinviare e proteggere il passaggio con in mano l’appiglio giusto, saranno anche “prestazioni” per qualcuno, ma personalmente non le ritengo tali, almeno non prestazioni assolute.  E di avventura su un tiro preparato a puntino non ce n'è poi molta.

Alla fine diventa quasi un esercizio ginnico, provo e riprovo il tiro fino a conoscerlo a memoria, poi dove potrei avere qualche piccolo "brivido" perchè il moschettonaggio è impegnativo, allungo a dismisura la fettuccia del chiodo successivo per poterla rinviare "comodamente" da sotto, così elimino anche quel poco di ingaggio che mi poteva dare la chiodatura "lunga" ben 2 metri (come in alcune falesie ben protette), ed il gioco è fatto: eliminate tutte le possibile cause di paura, il mitico climber alpinista è adesso pronto per la performance.

Melat monte Qualido 2 rip ottobre 1993 foto Pietro Piccinelli

 MELAT Qualido 31 OTT 93 PRIMA DEL TETTO 2 rip foto Pietro Piccinelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra      Monte Qualido  31 ott 1993  Melat 2a ripetizione - foto Pietro Piccinelli

A destra  Monte Qualido 31 ott 1003 prima del tetto - foto Pietro Piccinelli

 

UN PIZZICO DI NARCISISMO

Finchè il nostro climber-alpinista racconta la performance a voce, si finisce per prenderla per buona, come da tempi antichi, viene presa per buona la parola di un alpinista, ma in tempi recenti, con i potenti mezzi informatici a disposizione e un pizzico di narcisismo, per guadagnare un po' di visibilità, finiscono per farsi filmare o fotografare durante la prestazione, e allora si scoprono gli altarini... Senza nulla togliere a chi ha fatto salite in questo stile, già dire come si è fatta la “prestazione” è un sintomo di onestà verso chi potrebbe poi migliorarla, ovvero passare in libera rinviando i chiodi senza preventiva preparazione, e quindi realizzare la vera prima salita in libera del tiro di corda. In montagna si arrampica praticamente sempre a vista, le protezioni spesso si devono posizionare e anche quando ci sono gli spits i rinvii si devono mettere.

Ma il grado non è tutto!

Pensate per esempio alle salite di Mike Fowler: scala con un compagno, con una manciata di chiodi da roccia e da ghiaccio, un paio di picozze, pareti di migliaia di metri, su cime di 6000-7000 metri in stile alpino, salite che gli sono valse la Piolet d’or, eppure in falesia non è certo uno che scala su gradi "alti". La differenza, rispetto alla massa di scalatori sia professionisti sia della domenica è la sua capacità di farlo in qualunque condizione. Non solo, la differenza è la sua voglia di mettersi in gioco, affrontando una scalata con poche possibilità di ritorno e con situazioni complicate da decifrare in apertura, e quindi con poche possibilità di riuscita, eppure Mike Fowler riesce spesso a portare a termine i suoi progetti, anche quelli molto ambiziosi. Come mai? Forse perché è bravo come alpinista? Eppure non scala su gradi “alti”. Quindi la chiave del successo di Mike e di altri come lui dove risiede? In che cosa si differenzia dagli alpinisti "normali"? Forse nella preparazione, nel non scendere troppo a compromessi?

QUELLA LINEA IMMAGINARIA

Altri esempi sono la scalata negli ultimi anni della nord del Badile in pieno inverno, con la neve spalmata sulla parete, un sottile strato di ghiaccio e neve dura che rivestiva la nord-est, fino a creare una linea non più solo immaginaria che collegava l'attacco con la vetta. Qualcuno, ben preparato, ha visto quella linea e si è ingaggiato sulle placche della nord-est dove per lunghi tratti, seppur tecnicamente non "difficili", non riuscivano a proteggersi adeguatamente durante la progressione, ma la decisione, l'esperienza e non ultima la preparazione fisica e mentale, ha consentito loro di scalare la nord trasformando la linea immaginaria in una linea elegante, in poco tempo, grazie sicuramente ai nuovi materiali (piccozze, ramponi e chiodi da ghiaccio), ma soprattutto alla loro "testa".

In falesia ci sono scalatori che, quando non riescono nel passaggio si calano, si riposano, e poi ripartono e rispettano questo rigoroso cliché. Altri scendono da un tiro su cui sono saliti facendo un resting dietro l'altro, su tutti gli spit e li senti dire all'amico: "quasi lo tengo", non avendo la minima idea di cosa voglia dire saper "scalare" un tiro della difficoltà su cui si sono cimentati. Per costoro è più importante poter dire e raccontare che scalano su quel grado. Una volta si definiva una salita a vista, "on sight", senza averla mai conosciuta prima e mettendo rigorosamente i rinvii, non era considerata valida se i rinvii erano già posizionati. Adesso questa regola si è sfuocata. Lo stesso vale per una salita rotpunkt (punto rosso), ovvero salire il tiro di corda in libera, dopo averlo già provato. Una volta una salita rotpunkt era considerata valida quando si mettevano i rinvii durante la scalata, oggi si danno per salite rotpunkt anche quelle fatte con i rinvii già posizionati.

Ora, è evidente che non intendo comparare chi preferisce fare dell’arrampicata sportiva a chi predilige salite alpinistiche, tuttavia mi piace l’idea di sponsorizzare in maniera sfacciata l’alpinismo. E quindi mi piace stimolare il pensiero verso quelle forme di scalate dove la purezza dello stile e la capacità mentale di creare situazioni dove l’avventura è al centro della salita, con anche un’alta possibilità di non riuscita, siano il punto focale del discorso. Ecco quindi che, in realtà, una prestazione in arrampicata o in montagna non è necessariamente basata sul grado tecnico.

Galattica Qualido sul 9 tiro

 

 

 

 

LE FALSE PRESTAZIONI

Per entrare più specificatamente nell’argomento, vorrei portare altri esempi di “false” prestazioni e “basso” sapore d’avventura.

Ci sono scalatori, anche famosi, che salgono gli Ottomila facendo uso dell’ossigeno, al di là di quella che è e resta una soddisfazione personale, non vedo cosa ci sia di “eccezionale” nella scalata dell’Everest per la via normale, utilizzando le bombole d’ossigeno, quando ormai più di quattromila persone lo hanno già scalato con l'ausilio delle bombole, persino ragazzi di 14 anni e anziani di 64 anni, anche persone che non avevano mai scalato prima di allora, mentre senza ossigeno ci sono riusciti in pochi.

Eccezionale è scalare un Ottomila in inverno, possibilmente senza usare le corde fisse messe da altri e portando con sè tutto quello che è necessario per una salita pulita, o salirlo senza ossigeno o per una via nuova, mentre passare per la normale utilizzando l’ossigeno non è una “prestazione”.  Eppure i giornali, i media danno grande risonanza ad alcune di queste salite, fatte da alpinisti normali. E deve essere considerato normale un alpinista che scala l'Everest usando ossigeno, corde fisse e tende piazzate da altri. Ma la stampa nazionale spesso fraintende, o semplicemente non capisce, queste semplici ed elementari differenze.

Le normali agli Ottomila sono state fatte negli anni Cinquanta, ormai hanno quasi 60 anni e più, considerando anche l’evoluzione dei materiali non ha più senso esaltare una salita a una normale a un Ottomila fatta con l’ossigeno, magari tirando tutte le corde fisse già poste in loco, già Reinhold Messner e Jerzy Kukuczka negli anni Settanta hanno indicato la via, hanno fissato le regole per ingaggiarsi su un Ottomila, prendendo come riferimento lo stile inventato da Hermann Buhl al Broad Peak, cima di 8047 metri raggiunta in prima assoluta il 9 giugno 1957 con Kurt Diemberger (per la verità Kurt è arrivato prima di Hermann sulla vetta), con soli 3 campi tra la base e la vetta, dove è stato coniato per la prima volta il termine "West Alpine Style", in altre parole leggeri senza ossigeno in stile alpino, portando con sè la propria tenda senza aiuti esterni di sherpa e portatori, battendosi la pista, anche sulle grandi montagne himalayane.

Il Broad Peak è l'Ottomila che è stato scalato in prima ascensione con meno campi intermedi e con più alto dislivello tra un campo e l'altro, da un gruppo piccolo di persone (solo 4 alpinisti divisi in due) che si sono portati la loro tenda sulle spalle e tutto l'occorrente per la scalata e, naturalmente, senza usare l'ossigeno.

LE STAGIONI IN QUOTA

Era il 1957. Siamo nel 2018. Sono passati 60 anni, Buhl ci ha indicato, in modo visionario, la strada e, ancora oggi, tanti non capiscono la differenza che passa tra usare l'ossigeno o farne a meno, tra usare le corde fisse posizionate da altri o farne a meno, tra farsi battere la traccia da altri o farsela da soli, tra portare la propria tendina da soli o approfittare di quelle già posizionate ai vari campi ma da altri, e quindi salire con meno peso, ma poi approfittare della fatica che ha fatto qualcun altro. Ha sicuramente senso ascoltare l’entusiasmo di chi ha scalato utilizzando l'ossigeno, perché in questo c’è del romantico e c’è il fascino del racconto e della storia vissuta, ma non è una prestazione. Eppure si sentono anche alpinisti "famosi" sbandierare come imprese la salita di una normale, ma di fatto quando hanno usato l'ossigeno per raggiungere la vetta è come se avessero abbassato la vetta di 2000 metri, quindi una salita all'Everest utilizzando l'ossigeno si ridurrebbe a una salita di un 6000 metri.

Altro discorso aperto e da definire, è la salita degli Ottomila in inverno, teoricamente manca solo la prima salita invernale del K2, ma per alcuni himalaysti puristi non è così.

Sulle Alpi è considerata invernale una scalata compiuta nell'inverno segnato dal calendario astronomico, quindi per l'emisfero boreale dal solstizio d’inverno (indicativamente cade il 20 dicembre) all'equinozio di primavera, che cade indicativamente il 21 marzo. Tuttavia la stagione invernale sugli Ottomila, per esperti himalaysti, inizia a dicembre (dal 1° dicembre) e finisce alla fine di febbraio (il 28 febbraio), questo perché, a detta loro, documentato da foto che parlano da sole, a marzo in Himalaya ci sono i prati verdi e iniziano a sbocciare i fiori, e quindi secondo costoro parlare di salita invernale a un Ottomila fatta nel mese di marzo non ha senso e non viene considerata valida, mentre considerano valida una salita fatta all'inizio di dicembre.

arrampicare a 5000 metri foto Sergio Dalla Longa

arrampicare a 5000m in cima alla Esfinge

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A sinistra    Esfinge del Paron - foto Sergio Dalla Longa

A destra     In vetta all'Esfinge del Paron 

 

INTEGRITÀ ETICA

Secondo queste considerazioni, la storia delle prime salite invernali agli Ottomila sarebbe ancora da scrivere; per alcuni Ottomila che sono stati scalati a marzo e precisamente l'Hidden Peak (il 9 marzo) e il Broad Peak (il 5 marzo), e quindi secondo queste regole, le salite effettuate in quelle date non sarebbero valide. Anche la prima salita invernale allo Shisha Pagma verrebbe riassegnata al fuoriclasse francese Jean-Cristophe Lafaille, che è arrivato in cima in solitaria per una difficile via nuova sulla parete sud della montagna, solo qualche giorno prima del solstizio d’inverno nel 2004, in pieno dicembre con le giornate più corte e fredde dell'anno, anziché a Simone Moro, che l'ha salita il 14 gennaio 2005 salendo per la normale. Un esempio di integrità etica totale in tempi recentissimi è rappresentato da Denis Urubko, che nell'inverno di quest'anno ha cercato la prima salita invernale del K2, nonostante il brutto tempo in arrivo, quando si stava avvicinando la fine di febbraio e, secondo le sue regole, non aveva senso aspettare un miglioramento del tempo che veniva dato ai primi di marzo. Nonostante il meteo fosse pessimo ha tentato il tutto per tutto, anche contro il parere e il volere dei suoi compagni di spedizione, per scalare il K2 entro il 28 febbraio, oltre per lui non avrebbe avuto senso. Accettando il duro responso che gli ha servito la montagna ha dovuto rinunciare, ma restando fedele alle sue regole, peraltro condivise da molti. Merita sicuramente il massimo rispetto. Quando è partito da solo per un tentativo alla vetta in solitaria, ricordava il leggendario Hermann Buhl, quando il 3 luglio 1953, l'Everest era appena stato scalato il 29 maggio da Hillary e Tensing, ma con larghi mezzi e uso dell'ossigeno: Buhl è partito contro il parere del capo spedizione e in solitaria, senza ossigeno ha scalato gli ultimi 1400 metri di dislivello su terreno mai calpestato dall'uomo e raggiunto per primo la vetta del Nanga Parbat. Un'impresa che è rimasta indelebile e irraggiungibile e lo sarà per sempre, per etica, un filo di pazzia, determinazione e coraggio; in una sola parola un'impresa leggendaria.

Con queste considerazioni non intendo per forza sponsorizzare un alpinismo basato sulla prestazione, bensì intendo sponsorizzare un alpinismo basato sull’avventura, se poi questa avventura sarà una prestazione tanto meglio, ma che lo sia veramente e non un trucco, solo per mettersi in evidenza. C'è chi inopinatamente, anche per motivi legati agli sponsor, si accosta a grandi del passato, ma usando scorciatoie come utilizzare le corde fisse piazzate da altri, o seguendo sempre le vie normali quando altri prima hanno sempre cercato di salire su terreno vergine, o usa l'ossigeno dove chi li ha preceduti decine di anni prima non lo ha usato.

MEROI E BENET,

ALPINISMO SENZA COMPROMESSI

Un altro esempio di etica che non scende a compromessi è quello degli accademici Nives Meroi e Romano Benet, che hanno scalato tutti gli Ottomila senza ossigeno spesso per vie diverse dalle normali, senza portatori, trasportando la propria tendina sulle spalle, e soprattutto, Nives ha rinunciato a essere la prima donna a scalare tutti gli Ottomila quando il suo compagno di cordata e nella vita ha dovuto rinunciare sul Kangchenjunga, per problemi gravi di salute e lei è scesa insieme a lui; il discorso è stato chiuso splendidamente quando Romano, dopo alcuni anni, si è ripreso e l'11 maggio 2017 sull'Annapurna, sempre e rigorosamente senza ossigeno, senza portatori e con la tendina sulle spalle, e sempre rigorosamente insieme, sono diventati la prima coppia che ha scalato tutti i quattordici Ottomila.

Per tornare sulle Alpi, mi piace pensare a un amico (Ivo Ferrari), quando un pomeriggio in valle di San Lucano, in campeggio con la moglie, si stava un po’ annoiando e la moglie gli butta lì: «Perché non vai a fare lo spigolo dell’Agner?», almeno così lo racconta lui in un suo scritto pubblico, e lui la prende in parola e lo fa in circa due ore, slegato e di corsa.

Lo spigolo nord dell’Agner (1600 metri di dislivello), è stato salito nel 1932 da Oscar Soravito ed è al massimo 6 grado Uiaa, ma realizzato così di slancio è molto più romantico ed elegante che non una salita a un Ottomila con l’ossigeno e tirando le corde fisse posizionate dagli sherpa. Sicuramente salito in questo modo è una performance assoluta: nessuno, fino a quel giorno, lo aveva scalato in così breve tempo. L’avventura la vive anche chi lo fa in giornata o con un bivacco, e può a buon diritto raccontarla e farla rivivere ad altri. Dopotutto si tratta di una salita molto lunga, dove il senso della ricerca dell’itinerario supera quello della pura capacità tecnica, dove le possibilità di scendere sono poche e complicate e dove non puoi portarti troppo materiale per salirla: in sostanza, è una salita “alpinistica”. Per farla basta avere un buon sesto, ma saper fare il sesto grado non basta per salire questo spigolo interminabile.

C’è avventura nel cimentarsi su una big wall a El Capitan, nella Yosemite Valley, di sicuro si vivono emozioni per diversi giorni appesi ai chiodi in parete, un’eventuale ritirata è complicata e la fatica di più giorni necessita esperienza e determinazione, tuttavia una prestazione è farla in due ore come Dean Potter.

Pizzo Trubinsca foto Maurizio Panseri

 sul muro dellhalf dome foto Fausto Tovo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra            Pizzo Trubinasca - foto Maurizio Panseri

A destra        Sul muro dell'Half Dome - foto Fausto Tovo

Sotto             Aguja Guillaumet, Patagonia Via Coqueginot gennaio 1995

 

 patagonia aiguille guillaumet via coqueginot gennaio 1995 Copia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IMPRESE LEGGENDARIE

Ci sono poi prestazioni che sono così avanti con i tempi in cui vengono compiute che passano inosservate, fino a quando anni dopo, a volte decenni, qualcuno forte e famoso le ripete e scopre il livello reale di quella salita, di esempi in questo senso ce ne sono parecchi, ma per citare casi clamorosi, che ancora oggi non hanno avuto la risonanza che si meritano, sono la salita dello sperone della Great Trango Tower (Grande Torre di Trango), scalata nel 1984 dai norvegesi Hans Christian Doseth e Finn Daehli: partono in quattro, quindi una spedizione leggera, ma quando i viveri sono agli sgoccioli due dei quattro si ritirano, per lasciare qualche chance in un'impresa al limite dell'impossibile alla cordata più forte e determinata. I due "prescelti" tentano il tutto per tutto, e con i pochi viveri rimasti scalano su difficoltà che per l'epoca erano estreme, si parlava di 7a, A4, 90° su ghiaccio spalmato sulla roccia su una parete di 1600 metri di dislivello che raggiunge una vetta di 6200 metri di quota, si tratta probabilmente della prima big wall di grado VII. Durante la discesa i due scompaiono, e la via dei norvegesi al Trango viene chiamata Via del non ritorno, sicuramente un'impresa di valore assoluto che sposta in alto l'asticella delle difficoltà in parete su una grande montagna. Andando a vedere chi erano questi sconosciuti norvegesi, scopri che sul Trollringen, parete alta fino a 1300 m (più di El Capitan), spesso umida per le pessime condizioni meteo, avevano aperto con un'etica ferrea spingendo la libera al massimo (fino al 7a), diverse big wall. E siamo agli inizi degli anni 80.

Ma in Italia compare giusto un trafiletto di due righe su Alp.

Altre imprese del genere ancora irripetute o con una sola ripetizione sono quelle compiute da scalatori leggendari, come fossero i vikinghi delle Alpi, dagli alpinisti sloveni, Franz Knez, Silvo Karo, Janez Jeglic in giro per il mondo: per esempio nell'inverno 1985/1986, in Patagonia, sulla parete est del Cerro Torre aprono la Direttissima dell'inferno, 1100 m di dislivello VIII+, A4 e 95° su ghiaccio, il nome della via parla da solo di quello che hanno incontrato in parete gli sloveni. Tutte le loro salite sono caratterizzate dalle alte difficoltà in libera e in artificiale, su pareti grandi inviolate, con un uso limitato delle protezioni. Anche questa salita viene liquidata con un trafiletto di poche righe sulle riviste specializzate italiane, ma si tratta di scalatori che negli anni Ottanta già scalavano in falesia sull'8a, e in montagna con un'etica ferrea riuscivano in salite al limite dell'impossibile. Si tratta di imprese leggendarie, prestazioni assolute, dove i protagonisti hanno messo in discussione tutto pur di vivere un'avventura senza compromessi.

Per citare un esempio in tempi recenti, una salita con grande sapore di avventura, che ricorda lo stile di alcuni grandi accademici del passato come Walter Bonatti e Carlo Mauri, è la salita di Matteo della Bordella, pure lui accademico del Cai e Ragno di Lecco, che con Silvan Schupbach, fortissimo svizzero, hanno scelto il Cerro Riso Patron, una meta "a la fin del mundo", come si suole dire in Patagonia, isolata, con avvicinamento attraverso parecchi giorni in canoa prima e a piedi poi, tutti soli in completa balia della montagna e delle bizze del tempo, con poche possibilità di riuscita. Eppure, in una piccola finestra di bel tempo, hanno osato e creduto fino in fondo alla loro idea e sono riusciti ad aprire King Kong, una via in stile pulito e veloce su una parete inviolata.

Ma l’avventura la puoi trovare ovunque, basta cercarla con regole chiare, dove lo scalatore si mette in gioco ed è disposto a rischiare qualche cosa, anche la non riuscita. Quando invece si sceglie di salire una parete con tutto preconfezionato, sicuramente ci si diverte, ed è lecito farlo, ma si vive un'avventura un po’ ridimensionata. Di certo ognuno si scelga “l’avventura” che preferisce, in montagna o in falesia, sugli spit o trad, con ossigeno o senza, ma...

Ma abbia l'onestà di raccontare com'è andata.

Domenica, 03 Marzo 2019 22:51

 

CERRO MANGIAFUOCO

Altra bella prima assoluta per Luca Schiera

Hielo Norte 60

Hielo Norte 75

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Hielo Norte 111

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luca Schiera, membro del Gruppo Ragni e socio dell’Accademico, ha salito con Luca Marazzi una bella torre vergine sullo Hielo Norte in Patagonia.

400 metri di scalata con difficoltà di 6c in ambiente remoto e in totale autonomia.

Hielo Norte 80

Hielo Norte 9

 

 

 

 

 

 

 

Hielo Norte 35

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un resoconto dettagliato al seguente link:

https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/cerro-mangiafuoco-prima-salita-patagonia-paolo-marazzi-luca-schiera.html

Hielo Norte 120

Hielo Norte 62

Hielo Norte 53 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Sabato, 16 Febbraio 2019 18:48

 

UP2019

La perla preziosa 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Auf die felsen hir affen 2

Loss lei heb schun 4

Auf die felsen hir affen                                                                                       Loss lei heb schun      

Samuele Mazzolini

L’Annuario di alpinismo europeo Up (Edizioni Versante Sud) è da diversi anni una pubblicazione di grande valore e qualità, che unisce bellissimi articoli su alpinisti e/o vie simbolo ad un report sulle maggiori realizzazioni di arrampicata sportiva, boulder, alpinismo, ghiaccio e misto, dell’anno appena trascorso. Oltre a ciò vi sono poi anche diverse proposte di nuove vie su roccia, ghiaccio e misto.

In particolare, in questo numero vi è un mio articolo del quale vado fiero, la monografia sul Sasso della Croce, completa di storia alpinistica, foto e diverse relazioni. Vi è poi anche una bella intervista a Nicola Tondini, guida alpina e forte arrampicatore, personaggio di spicco proprio sul Sasso della Croce, grazie alle sue realizzazioni estreme.

Samuele Mazzolini

 

Domenica, 03 Febbraio 2019 23:18

Andrea Giorda racconta gli 80 anni di Ugo Manera sulle pagine di Planetmountain

 

Gli 80 anni di Ugo Manera

Lunedì, 28 Gennaio 2019 23:59

 

 

VAL GRANDE IN VERTICALE...e quel “vento dell’Ovest” che torna a soffiare...

Storia di due fortunati raduni nel Vallone di Sea...con l'opzione del terzo

 

Il Vallone di Sea è sempre stato un luogo a torto poco frequentato, ancor meno conosciuto, forse anche negli anni d’oro della sua scoperta ed esplorazione, quando Gian Carlo Grassi ne decantava la bellezza sulle pagine della Rivista della Montagna e in quella del Cai. Erano gli anni ’80, un’epoca infinitamente lontana, almeno alpinisticamente parlando, ma forse già allora l’arrampicata stava virando verso altre tendenze e quelle pareti caddero presto nell’oblio.

1 TRONO DI OSIRIDE UN VIAGGIO METAFISICO NEGLI ANNI 80 FOTO U. MANERA2 GIAN CARLO GRASSI. RE DI SEA FOTO S. STOHR

Trono di Osiride, un "Viaggio metafisico" negli anni '80 (Foto U. Manera)                                                                                                                                                                                            Gian Carlo Grassi, Re di Sea (Foto S. Stohr)

 

Valle dell’Orco, Val di Mello, Valle del Sarca, chi non conosce questi luoghi? E Sea? Per molti è sempre stato un punto interrogativo, una vaga reminiscenza legata più che altro ai sognanti racconti di Grassi, nulla di più. Eppure questo vallone così selvaggio è incredibilmente bello, un vero "Eldorado di granito”, un luogo che lascia a bocca aperta, un vallone che, per certe sue peculiarità, è forse unico sulle nostre Alpi, un concentrato di pareti dove negli anni sono state tracciate circa 250 vie.

3 SPECCHIO E TRONO4 NAVIGANDO NELL ARCIPELAGO AMERICA

Sopra: Specchio e Trono

Sotto: navigando nell' Arcipelago America

Ma allora perché non è mai stato davvero popolare e frequentato? Forse per l’alone di mistero che l’ha sempre avvolto, protetto da altissime guglie e montagne, forse per la mancanza di documentazione aggiornata, forse per l’attrezzatura un po’ “naif”, poco affidabile e soprattutto vetusta.

5 PARETE DEI TITANI RISOLVENDO UN PROBLEMA

                                    Parete dei Titani "Risolvendo un problema"

Era necessario correre ai ripari e ripercorrere quelle vie non solo nell’ottica di “farle” ma di “ripristinarle”. In fondo sarebbe stato bello spendere un po’ di tempo per “lavorare” al “restauro” di quegli itinerari e sarebbe stato altrettanto bello far conoscere questo luogo così magico e ricco di storia. Elaborammo così un progetto e grazie soprattutto all’aiuto del CAAI riuscimmo a procurarci l’attrezzatura che serviva per iniziare i lavori. Lavori che ben pubblicizzati presto iniziarono a stuzzicare la curiosità degli arrampicatori che cominciarono ad arrivare anche da fuori dei confini sabaudi. Venne quindi naturale pensare di organizzare un raduno.

6 VERTICALITA AI TITANI FOTO FR.LLI ENRICO

8 MOMENTI DEL RADUNO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra: verticalità ai "Titani"                                                         Sotto: momenti del meeting

Un altro antefatto concorse a creare la spinta per l’organizzazione del primo “Val Grande in Verticale”: la paventata realizzazione di una pista agro-silvo-pastorale da parte del Comune di Groscavallo, una strada che avrebbe portato tanti soldi dalla Comunità Europea, ma che avrebbe inesorabilmente condotto alla distruzione di un luogo così unico ed incontaminato. Tutto il mondo alpinistico si mobilitò per bloccare quell’assurdo progetto, in prima fila il Cai Torino, l’Accademico e Mountain Wilderness. Vinta la battaglia, si dovette in qualche modo dimostrare che attività spesso bistrattate da certe amministrazioni pubbliche, attente solo al ritorno economico immediato, potevano essere di giovamento all’economia della Valle. Anche per questo nacque il primo raduno, nel settembre 2017.

9 VAL GRANDE IN VERTICALE LA SERATA

 10 RIPERCORRENDO LE DOCCE SCOZZESI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Val Grande in verticale - La serata                                                                                                     Ripercorrendo le "Docce Scozzesi"

Tutto si giocava sull’affluenza, su quanto quell’evento potesse essere appetibile non solo agli arrampicatori ma ad un pubblico più vasto. Il meteo si mise immancabilmente di traverso. Le previsioni per il sabato portavano pioggia. Quel giorno arrivarono degli escursionisti tedeschi, zuppi di pioggia si rifugiarono nel gazebo allestito per il giorno seguente. Seppur inconsapevoli dell’evento rimangono un po’ il simbolo di quanto queste valli possano essere valorizzate attraverso attività legate al mondo della montagna. La domenica il sole splendeva e al primo raduno si iscrissero ben 135 partecipanti.

12 PARETE DEI TITANI TRACCIATI

       Parete dei Titani - I tracciati 

Un successo anche la serata con Sergio Martini che seppe trasportare anche i non alpinisti nelle lontane lande himalayane, fatte di gigantesche seraccate e di cime sprofondate nel blu profondo del cielo.

La sera della domenica, svuotati i parcheggi e partiti i partecipanti, la piccola frazione di Forno Alpi Graie tornò silenziosa nella notte settembrina, rotta solo dalle lontane grida di qualche animale. La nostalgia per una bella giornata si trasformò subito nella volontà di riproporre l’evento anche l’anno successivo, il 2018.

I lavori di “restauro” ed apertura ripresero alacremente, tanto che in due stagioni gli scriventi sono arrivati a piazzare circa 800 tasselli fix in tutta la Val Grande. Un numero sicuramente elevato che però non deve far inorridire i paladini del “trad” in quanto tutte le chiodature vengono eseguite nell’ottica di non snaturare l’impegno delle vie. Molto spesso la chiodatura a fix più sistematica è riservata alle grandi placche, magari per aprire qualche nuovo itinerario o per raddrizzare e rendere più lineari e interessanti i vecchi, lasciando “clean” le fessure, eccezion fatta per le soste. Una ricetta che finora ha riscontrato un ottimo successo, mettendo a tacere i potenziali detrattori, sempre pronti in casi come questo a far capolino da dietro qualche spigolo. Sea finalmente è tornata a vivere.

Tutto sembra essere sempre molto lontano eppure un anno passa in fretta e presto è arrivato il settembre 2018 e con esso la seconda edizione di Val Grande in Verticale, evento questa volta arricchito con la prima edizione della gara di corsa “Daviso in Verticale”, da Forno al rifugio Daviso, piccolo ma accogliente avamposto per le grandi salite nel gruppo della Gura Martellot. Il raduno ha visto 250 partecipanti in totale tra gara e arrampicata, 85 presenze alla cena ufficiale del sabato sera e circa 150 spettatori alla serata, dove è stato proiettato il film “Itaca nel Sole” incentrato sulla figura di Gian Piero Motti, a 35 anni esatti dalla scomparsa. Ma il successo di queste due giornate è solo l’epilogo di un’altra grande stagione che ha visto riportare in vita itinerari grandiosi eppure completamente dimenticati. Non è stata tanto una sorpresa iscrivere 250 partecipanti quanto vedere nei giorni festivi di fine agosto diverse cordate impegnate su vie fino ad allora pressoché sconosciute. Linee prima tracciate solo sulle foto, studiate sulla vecchia guida “Sogno di Sea”, binocolate dal basso attendendo la giusta luce e poi riprese, rettificate, create e nuovamente plasmate. Linee che hanno riscosso grande entusiasmo da parte di Richard Nadin dell’ Alpine Club Britannico, invitato da Andrea Giorda.

13 SULLA MUMMIA TESSENDO LA TELA DI PENELOPE

 

15 UN EDEN DI ROCCIA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In viaggio sulle placche dello Specchio (Foto I. Tosso)

                                                                                                                                                           Un Eden di roccia

L’ultima avventura di “restauro” datata 2018 è l’Eden di Sea, forse un po’ simbolicamente sta ad indicare che questo è un vero paradiso per l’arrampicatore, un luogo dove il gesto atletico si fonde con incredibili percezioni visive, dagli arcobaleni che si formano sulle cascate polverizzate in milioni di goccioline alle potenti spade di luce, ai tappeti di rododendri in fiore. Un luogo dove finalmente nel sole del mezzogiorno le pareti paiono animarsi nelle fantasiose figure immaginate dagli arrampicatori che hanno segnato la storia alpinistica di questa valle.

Il lettore a questo punto si domanderà se il raduno verrà riproposto nel 2019. La risposta è affermativa, l’interesse intorno a questo evento è cresciuto molto, il Cai Torino, il Cai Venaria, il Cai Uget e non ultimo l’Accademico credono molto in una manifestazione che vorrebbe diventare il simbolo dell’impegno del sodalizio per l’arrampicata, l’alpinismo e l’escursionismo. Il raduno quindi si farà il 7 e 8 settembre, e l’essere supportati da importanti marchi del settore montagna è qualcosa in più che una semplice speranza. Ma tutto questo sarà ancora il volano per far conoscere sempre più questo meraviglioso vallone e per essere da sprone a proseguire l’imponente, faticosa ma soddisfacente opera di ripristino e valorizzazione di queste pareti.

 

Non c’è neanche da dire che siete tutti invitati il 7 e 8 settembre 2019 !  

Luca e Matteo Enrico

C.A.A.I. Gruppo Occidentale

Le foto, salvo diversa indicazione, sono degli autori dell'articolo

Giovedì, 10 Gennaio 2019 22:06

 

 

Commemorazione in ricordo dell'Accademico

GUIDO ROSSA, OPERAIO SINDACALISTA E ALPINISTA

sabato 19 gennaio 2019 ore 9,30 presso il salone UGET in Corso Francia 192 Torino

 

 

Giovedì, 10 Gennaio 2019 20:54

 

Dalla rivista Meridiani Montagne di gennaio 2019, interamente dedicata al Monte Bianco, viene un significativo riconoscimento al lavoro fatto dall’Accademico negli ultimi anni sui bivacchi di proprietà nel Gruppo.

Ad uno dei nostri bivacchi forse meno noti, il bivacco HESS, viene dedicata la copertina e un interessante servizio all’interno (vedi pdf allegato), mentre un articolo a firma Mario Giacherio illustra da dietro le quinte il prezioso e oscuro lavoro del team, guidato dal socio Carlo Barbolini, che si occupa dei lavori di manutenzione straordinaria di queste strutture in quota.

Meridiani Montagne gennaio 2019 COPERTINA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sogni rinnovati 1

Sogni rinnovati 2

I bivacchi costruiti e mantenuti in esercizio dal Club Alpino Accademico sono situati in posizioni strategiche sui versanti più impervi del Monte Bianco e servono come base di appoggio per le grandi salite alpinistiche nel gruppo e rappresentano anche ricoveri di emergenza in caso di necessità.

Sono piccole strutture dotate di materassi e coperte, sono sempre aperti e utilizzabili liberamente e gratuitamente da tutti gli alpinisti. Il loro utilizzo corretto e la cura degli arredi sono affidati alla responsabilità dei frequentatori.

Il CAAI effettua periodicamente la manutenzione straordinaria. Negli ultimi anni si è provveduto alla sistemazione e verniciatura del Bivacco della Brenva, del Bivacco Hess e del Bivacco Canzio, alla messa in sicurezza e sistemazione del Bivacco della Fourche. Nei bivacchi Canzio e Fourche sono state installate radio di emergenza. Sul bivacco della Fourche è stata installata una webcam che trasmette regolarmente immagini in diretta del versante Brenva del Monte Bianco  Webcam Brenva

Mercoledì, 26 Dicembre 2018 01:03

Un corso di alpinismo ed escursionismo eco-compatibile organizzato da Mountain Wilderness e dall’ISMEO con il patrocinio del Club Alpino Accademico Italiano

Foto di Emiliano Olivero e Silvia Mazzani

 

Il 28 agosto 2018 tre istruttori di alpinismo italiani ( Emiliano Olivero, Tommaso Castorina, Omar Scarpellini) sono partiti per il Pakistan, guidati da Carlo Alberto Pinelli, presidente onorario di Mountain Wilderness International e socio del Club Alpino Accademico Italiano.

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La meta è lo Swat Kohistan, estrema propaggine meridionale della catena dell’ Hindu Raj. Lo scopo non è stato quello di compiere l’ascensione di una delle affascinanti vette della zona, alte fino a seimila metri, ma di gestire un corso di alpinismo ed escursionismo eco- compatibile organizzato da Mountain Wilderness e dall’ISMEO ( Istituto Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente) e riservato a un gruppo di allievi del posto. Sono giovani che abitano in valli montane da molto tempo abbandonate dai visitatori stranieri interessati ad attività outdoors, ma allo stesso tempo esposte al serio rischio di un’ incombente colonizzazione turistica di bassissimo profilo, favorita da progetti di nuove strade di penetrazione. A causa della loro relativa vicinanza ai grandi centri urbani della pianura le alte vallate dello Swat già oggi sono le uniche, in tutta la grande catena himalayana, che possono essere raggiunte e frequentate senza dover necessariamente prevedere l’organizzazione complessa di spedizioni di tipo classico con lunghe marce d’avvicinamento alle vette. Le nuove strade renderebbero ancora più rapido il percorso. Un indubbio vantaggio in cui, purtroppo, si cela un pericolo per l’integrità dell’ambiente. Il corso di Mountain Wilderness ha avuto lo scopo primario di contribuire a neutralizzare per quanto possibile tale pericolo, fornendo agli allievi le competenze tecniche e culturali necessarie per proporre – dal basso - ai visitatori pakistani e stranieri una fruizione alternativa e lungimirante di quegli ambienti ancora incontaminati. Traendone, allo stesso tempo, reali benefici economici. Già durante il mese di giugno Mountain Wilderness aveva portato a termine la selezione dei 25 allievi che hanno poi preso parte al progetto. Quelli che hanno superato il corso hanno ricevuto un Diploma ufficialmente validato dalle autorità del Governo della regione Khyber-Paktunwa e potranno offrirsi come affidabili guide di trekking anche difficili o come facilitatori di spedizioni leggere in stile alpino; privilegiando sempre comportamenti rispettosi verso il valore delle montagne e la conservazione della loro preziosa wilderness. In questa prospettiva si è convinti che il Corso abbia favorito la comparsa di veri e propri presìdi ambientali disseminati sul territorio e sufficienti, si spera, a scoraggiare qualsiasi progetto di rozza manomissione. A questi nuclei di ex-allievi, consapevoli della posta in gioco, verrà anche affidato il compito di realizzare una guida cartacea, alpinistico/escursionistica dello Swat montano in cui saranno inserite, in appendice, le visite agli affascinanti ruderi dei monumenti buddhisti che ancora dominano le creste di molte colline nella parte più bassa della regione. L’idea di collegare in un’ unica esperienza culturale la frequentazione della montagna a piedi e le ricerche archeologiche fu sostenuta più di mezzo secolo fa dal famoso professor Giuseppe Tucci al quale si deve la scoperta e lo scavo dell’eccezionale patrimonio archeologico dello Swat e la sua identificazione con la mitica Uddiyana, da cui Padmasambava (Guru Rimpoché ) partì per convertire il Tibet al Buddhismo. Per queste ultime ragioni a Mountain Wilderness si è associata nel progetto l’associazione ISMEO che ha ereditato e porta avanti ogni anno con grande successo le ricerche iniziate da Tucci.

In prospettiva l’ultimo passo del progetto prevederà uno studio sul terreno, compiuto da un team di esperti, per l’istituzione di un vero e proprio parco nazionale dell’Alto Swat da offrire alle autorità competenti del Paese, come contributo italiano alla tutela di un ambiente naturale di grande valore, intriso di testimonianze storiche e culturali.

Il progetto è stato reso possibile grazie al coinvolgimento finanziario di Mountain Partnership, del Ministero Italiano per i Beni Culturali ( MIBAC), del MIUR, del Club Alpino Accademico Italiano, della sezione di Roma del CAI, di alcune aziende italiane e delle due stesse associazioni leader del progetto.

Testo ricavato dal comunicato stampa ufficiale di MW

 

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Il punto sull'attuazione del progetto è stato fatto in una conferenza stampa a Roma il 15 settembre, con l'intervento di Carlo Alberto Pinelli e la partecipazione di diverse personalità, tra le quali l'Ambasciatore del Pakistan a Roma S.E. Nadeem Riyaz.

Invitati ad intervenire ADRIANO LA REGINA Presidente INASA, GIORGIO MARRAPODI Direttore Generale DGCS MAECI, ADRIANO ROSSI Presidente ISMEO, ROSALAURA ROMEO Direttore Mountain Partnership FOA, LUCA OLIVIERI Direttore della Missione Archeologica Italiana in Pakistan SWAT, FRANCESCO SCOPPOLA Direttore Generale DG-ER MIBAC, EMILIANO OLIVERO Direttore della Scuola Centrale di Alpinismo del CAI e Direttore Tecnico del Corso 2018 in SWATT, ALBERTO RAMPINI Presidente Generale del Club Alpino Accademico Italiano.

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 Carlo Alberto Pinelli,  Direttore  Asian Desk                                                                                    S.E. Nadeem Riyaz Ambasciatore del Pakistan a Roma

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Sabato, 08 Dicembre 2018 22:19

CENTRO STUDI MATERIALI E TECNICHE

 

50 anni di test e sperimentazioni per la sicurezza in montagna

Grande festa sabato 1 dicembre presso la Sezione di Padova del CAI per il 50° anniversario della fondazione della struttura del CAI deputata allo studio dei materiali e delle tecniche. Nata nel 1968 come Commissione Centrale per i materiali e le Tecniche, nel 2009 è diventata Struttura Operativa del CAI prendendo il nome di Centro studi materiali e tecniche.

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                                                                          Massimo Polato attuale Presidente e Giuliano Bressan PastPresident                                                                                                                                                               

Vinicio Stefanello ha condotto l’incontro, presentando le varie autorità e ospiti intervenuti. Giuliano Bressan, presenza storica e per 18 anni Presidente del Centro e Massimo Polato, attuale Presidente, hanno tracciato brevemente la storia di questa importante istituzione e Carlo Zanantoni, per anni collaboratore appassionato, ha illustrato uno degli ultimi studi portati a termine (effetto spigolo e umidità sulle corde da arrampicata).

Infine il figlio di Mario Bisaccia, precursore degli studi sui materiali (e inventore del nodo “mezzo barcaiolo”) ha presentato l’interessante volume appena pubblicato in memoria del padre.

Il Presidente Generale Alberto Rampini ha portato il saluto del CAAI, ricordando come l’Accademico abbia da sempre sostenuto il Centro e contribuito attivamente con l’opera di propri soci, tra cui Mario Bisaccia che fu il primo Presidente, Pietro Gilardoni, Bepi Grazian, Carlo Zanantoni, Giuliano Bressan.

Domenica, 02 Dicembre 2018 23:18

 

Numero chiuso sul Monte Bianco.

Disposizione necessaria o attentato alla libertà?

Di Mauro Penasa

Il Club Alpino Accademico Italiano è costituito da soci che provengono dai luoghi più disparati e che si incontrano per la loro attività lungo il vasto territorio montuoso della nostra penisola. Per sua natura riunisce persone di diversa estrazione e con differenti ambizioni, per quanto accomunate dalla passione per la montagna e, almeno teoricamente, da una visione dell’alpinismo libera dai condizionamenti dettati da fattori economici e da interessi personali.

Non è quindi sempre facile definire una posizione comune: questa dovrebbe tener conto dell’opinione della maggioranza dei componenti dell’Accademico, ed essere collegata direttamente alla storia del Club, che ha coinciso per lungo tempo con la Storia stessa dell’Alpinismo Italiano.

Pertanto, nelle molte situazioni che coinvolgono il mondo dell’alpinismo in cui il Consiglio Direttivo dell’Accademico periodicamente si imbatte, si evita di prendere posizioni immediate, specialmente se ci si confronta su questioni locali.

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Di tanto in tanto però, a fronte di un mondo nel quale sempre più l’apparire è fonte di autoreferenzialità, ci troviamo costretti a esprimere un giudizio ufficiale, come è avvenuto per l’impiego indiscriminato dell’elicottero per attività ludiche in montagna.

L’eventuale silenzio dell’Accademico non va comunque considerato come una sostanziale passività di fronte ai problemi della montagna. Semplicemente, spesso questi vanno al di là del nostro ruolo, che è soprattutto di sorveglianza “etica”. Ci si occupa, e per fortuna sempre meno dopo le iniziative portate avanti in favore del “trad”, delle diatribe sulla chiodatura delle pareti, ci si impegna nel mantenimento di una discreta rete di bivacchi, ci si interroga sul futuro di una disciplina, l’Alpinismo di avventura, che è sempre meno favorita dalle nuove mentalità di frequentazione e sfruttamento dell’ambiente alpinistico.

In realtà il Club è molto interessato a promuovere il dibattito su temi delicati ed è in questa ottica che, ormai molti anni fa, si è iniziata la discussione sulla libertà di frequentazione della montagna. Il risultato è stata l’apertura di un “Osservatorio per le Libertà”, che ha avuto altalenante fortuna fino ad essere recentemente rinvigorito dalla nuova gestione assunta dal CAI stesso.

Neanche su questo punto fondamentale è però semplice definire una posizione ufficiale. Specialmente quando occorra sintetizzarla e scriverla. Perché deve poter essere applicabile in linea generale, tanto da rischiare di svuotarsi di ogni energia…

In quanto territorio non occupato, non sfruttato, e quindi “libero”, la montagna è da sempre sinonimo di libertà, che gli alpinisti interpretano con la possibilità di scalare e salire vette e pareti. Si tratta di un’attività da sempre socialmente apprezzata, bisogna ammetterlo. Per gli appassionati dell’idealismo tanto caro all’alpinismo classico, la montagna è un luogo in cui ci si eleva e differenzia dal resto dell’umanità, facendo qualcosa di assolutamente gratuito ed inutile… qualcosa che è però in grado di guadagnarci un indubbio livello di autorevolezza sociale, e che ci procura una certa sicurezza psicologica nelle situazioni più critiche.

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L’avvento quasi simultaneo della società “sicuritaria” e dell’alpinismo di massa ha però tendenzialmente creato situazioni stridenti. Intanto quella che un tempo era la figura riconosciuta dello scalatore, esploratore e pioniere avventuroso, si sta confondendo sempre più con quella del fruitore di un ambiente, tra l’altro molto più sensibile e delicato di quanto si possa pensare, alla pari del grande numero di frequentatori che più o meno consapevolmente fruisce in modo analogo delle stesse libertà.

Su questa massa si innestano le istanze della società sicuritaria. Il business del tempo libero e i grandi numeri ad esso collegati trasportano i problemi metropolitani nelle zone montane di alta frequentazione. In quanto tali, a chi è chiamato a gestirle piacerebbe tanto poter considerare effettiva l’assenza di rischi. Conseguenza immediata è che anche al di fuori delle aree più battute, l’esistenza del rischio è sempre meno tollerata.

Nessuno di noi ha la pretesa di poter fare ciò che vuole in qualunque situazione. Per quanto la montagna sia vista come terreno rappresentativo della libertà, ci si rende conto di come sia necessario limitarne l’esercizio… Così ci si deve confrontare con chi in montagna ci vive, con chi ne è frequentatore abituale od occasionale, con chi fa della montagna una professione o una missione volontaria, senza pretendere troppo che i galloni guadagnati sul campo possano mettere un buon alpinista in una posizione di preminenza “dovuta”… Questo confronto ha da sempre creato conflitti che gli interessati sono per lo più riusciti a stemperare ed a superare, lasciando alla montagna la sua dimensione di ideale spiritualità a cui tutti ci rivolgiamo.

Peraltro, nel mutamento delle cose, assistiamo ormai da tempo al passaggio dalla “società della vergogna” alla “società della colpa”, per citare formule di successo.

Per quanto trovare territori isolati non sia ancora un problema, scoprire che certi comprensori molto affollati sono ormai gestiti a suon di regole e divieti risulta spesso indigesto a chi alla montagna ha dedicato, se non una vita, una fetta considerevole delle sue energie e tempo libero. Quando ci si accorge poi che regole e divieti sono esportati con gran leggerezza a toccare direttamente la sfera della nostra libertà personale in modo evidentemente miope e ottuso, ecco che i territori isolati diventano sempre più costretti…

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Esiste però la necessità di affermare il diritto di poter rischiare, sempre che tale rischio sia governato dalla consapevolezza di correrlo. In tutte le discussioni in seno all’Accademico appare chiaro che ogni posizione che si richiami al diritto alla libertà di frequentazione della montagna debba essere accompagnata dalla necessità di averne consapevolezza, e dalla responsabilità che viene dall’esercizio di tale libertà. In quest’ottica vengono trattate, in linea generale, tutte le istanze con cui accade di confrontarci in rete, sui social, o di cui veniamo più o meno direttamente a conoscenza.

E’ quindi sempre abbastanza difficile digerire i tentativi di scarico di responsabilità sempre più frequentemente fatti dalle istituzioni demandate alla gestione del territorio, che derogano dalla richiesta di una presa di coscienza per prendere invece la forma di divieti di accesso legati a situazioni di potenziale pericolo, in genere dipendenti da instabilità del manto nevoso o di strati di roccia superficiali.

Queste limitazioni d’accesso sono ovviamente di tipo formale e perlopiù nient’altro che alibi per togliersi il pensiero. Un pericolo generico 5 sul manto nevoso è l’avvertimento di un pericolo serio, che dovrebbe comunque essere mediato dal buon senso e dal giudizio dell’alpinista, buon senso e giudizio che non deve mancare neanche in condizioni di pericolo 1, perché il rischio nullo in montagna è proprio solo una pia illusione e sotto una slavina si può sempre rimanere se non si usa il cervello.

Il problema principale è che le ordinanze su limitazioni e divieti di accesso sono intraprese senza interpellare la comunità degli alpinisti, ma basandosi su valutazioni (ad esempio bollettini meteo e valanghe) che sono per forza di cose generiche, anche quando dedicate al mondo della montagna.

Vietare l’accesso “tout cour” a un territorio è una severa limitazione della libertà personale, specialmente se, una volta emessa un’ordinanza, questa viene mantenuta anche al di fuori della situazione critica, esponendo di fatto un frequentatore “disobbediente” a conseguenze “legali” spropositate e soprattutto ingiustificate in relazione alla reale situazione sul terreno. Le associazioni alpinistiche non vengono quindi interpellate né per decidere la ragionevolezza di un’azione limitatoria né per monitorare la situazione che tale azione vuole gestire. Ciò mette potenzialmente il mondo degli alpinisti nelle mani di Magistrati che non conoscono l’attività in montagna né sono disposti ad “apprezzarne” i rischi, e che si devono basare sulla lettura ed interpretazione di manuali e regolamenti che vorremmo tenere sempre lontani dal terreno della nostra passione.

La limitazione dell’accesso ad aree molto frequentate ha ancora un’altra connotazione, quella della tutela ambientale. La restrizione dell’arrampicata nei siti di nidificazione risponde ad esempio alla sollecitazione dei gruppi ambientalisti interessati alla protezione dell’avifauna. In linea generale si concorda con questo tipo di istanze sempre che dettate da effettive esigenze e non da posizioni ideologiche di preminenza. In genere la risposta è positiva.

Un altro tipo di fenomeno è invece l’aumento del numero di frequentatori in zone delicate che porta a situazioni potenzialmente critiche. In presenza di grandi folle il ricorso al numero chiuso è in genere visto come una tollerabile necessità, ancorchè molto difficile da gestire equamente. Peraltro sulle Alpi non c’erano stati finora eclatanti esempi di restrizioni di questo tipo in alta quota. Finora, appunto…

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L’ordinanza del Prefetto dell’Alta Savoia, emessa il 14 agosto di quest’anno, ha limitato l’accesso al Monte Bianco per la via della Tete Rousse ai soli titolari di prenotazione presso il Refuge du Gouter, per il periodo dal 16 agosto al 17 settembre.

La prima reazione da parte di tutti è stata di disgusto, poi di preoccupazione…

Poi viene voglia di saperne un po’ di più…

Se si va a leggere l’ordinanza (vedi allegato), non è difficile immaginarsi quanto sia successo e le motivazioni che hanno portato a questo punto. E allora non si può che concordare con la decisione del Prefetto, dettata da questioni legate alla sicurezza causate dal sempre meno tollerabile livello di maleducazione che pervade l’uomo dei giorni nostri.

Siamo di fronte ad un’arrogante limitazione della libertà di accesso alla montagna? No, certamente no. Semplicemente la capienza del rifugio è limitata e, sistematicamente, chi in alta stagione non riesce a prenotare un posto fa finta di nulla, si presenta ugualmente e pretende, questa volta si in modo arrogante, che gli sia data assistenza ed un ricovero di fortuna. Un gestore di rifugio è tenuto a seguire regole di sicurezza relative al numero degli ospiti, la cui inosservanza lo espone a potenziali conseguenze “legali” certamente pesanti. Se la situazione si ripete in modo sistematico, si può concludere che alcuni alpinisti non hanno alcun rispetto per chi vive in montagna ed in montagna fornisce dei servizi al pubblico.

E non dobbiamo pensare che si tratti di situazioni solo legate alla affollata via normale al Bianco. Dopo poco tempo da quando il bivacco della Fourche è stato rimesso in ordine con impegno e fatica pochi anni fa, un alpinista spagnolo ne ha scritto paragonandolo ad un immondezzaio, e lamentando decisamente l’incuria dei frequentatori che in quel caso non possono essere che alpinisti, anche se di certo con un profilo etico straordinariamente basso… Anche allora il titolo sulla stampa colpiva – i titoli sono fatti evidentemente per questo – e sembrava suggerire una responsabilità del proprietario, dell’Accademico… Se ci si ferma ai titoli è ovvio che l’idea che ne viene fuori è fuorviata e non rispondente al messaggio reale, ma il mondo di oggi sembra muoversi sempre di più su questa pericolosa china...

Così se vogliamo far passare l’immagine “Numero chiuso sul Monte Bianco” non stiamo facendo un buon servizio alla comunità. La limitazione di accesso è solo colpa della superficialità di tanti alpinisti, che sarebbe ora ritornassero a vedere la montagna come un luogo di esperienza e non di record.

Si può essere certi che l’intervento della Gendarmerie non può che aver migliorato la situazione. Non bisognerebbe dirlo, ma tutti sappiamo che un bel ceffone dato al momento giusto è più efficace di mille parole. Del resto il buon senso ha comunque governato l’ordinanza prefettizia. E’ stata infatti, ovviamente, accordata al gestore la possibilità di deroga per accogliere alpinisti in condizioni di effettivo bisogno (nel nome della mutua solidarietà in montagna) e soprattutto è stato demandato alla Gendarmeria il giudizio sulla capacità dello scalatore di fare a meno dell’alloggio notturno, che sulla via di salita è costituito dal solo Refuge du Gouter.

A meno di eccessi di protagonismo da parte dei gendarmi, e questo è l’unico pericolo (anche se potenzialmente importante) nel momento in cui si dà a qualcuno la possibilità di giudicare l’adeguatezza di uno scalatore, non siamo in realtà di fronte ad una limitazione della libertà, bensì solo ad una regolamentazione pratica, dopo che i tentativi di procedere via avviso si è dimostrata inefficace.

Quindi in realtà non esiste numero chiuso sulla via francese al Bianco. Esiste il richiamo alla civiltà, di cui l’alpinista dovrebbe essere campione. Esiste il richiamo alla consapevolezza di dover salire la vetta più alta delle Alpi, con la preparazione che richiede e con il rispetto che merita. E se è necessario dormire sotto le stelle, bene, quella salita non potrà che essere un ricordo davvero indelebile, e non solo un dato su un curriculum.

 

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