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Club Alpino Accademico Italiano

MONTE BIANCO - Ragionevole necessità o inaccettabile sopruso?

Domenica, 02 Dicembre 2018 23:18

 

Numero chiuso sul Monte Bianco.

Disposizione necessaria o attentato alla libertà?

Di Mauro Penasa

Il Club Alpino Accademico Italiano è costituito da soci che provengono dai luoghi più disparati e che si incontrano per la loro attività lungo il vasto territorio montuoso della nostra penisola. Per sua natura riunisce persone di diversa estrazione e con differenti ambizioni, per quanto accomunate dalla passione per la montagna e, almeno teoricamente, da una visione dell’alpinismo libera dai condizionamenti dettati da fattori economici e da interessi personali.

Non è quindi sempre facile definire una posizione comune: questa dovrebbe tener conto dell’opinione della maggioranza dei componenti dell’Accademico, ed essere collegata direttamente alla storia del Club, che ha coinciso per lungo tempo con la Storia stessa dell’Alpinismo Italiano.

Pertanto, nelle molte situazioni che coinvolgono il mondo dell’alpinismo in cui il Consiglio Direttivo dell’Accademico periodicamente si imbatte, si evita di prendere posizioni immediate, specialmente se ci si confronta su questioni locali.

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Di tanto in tanto però, a fronte di un mondo nel quale sempre più l’apparire è fonte di autoreferenzialità, ci troviamo costretti a esprimere un giudizio ufficiale, come è avvenuto per l’impiego indiscriminato dell’elicottero per attività ludiche in montagna.

L’eventuale silenzio dell’Accademico non va comunque considerato come una sostanziale passività di fronte ai problemi della montagna. Semplicemente, spesso questi vanno al di là del nostro ruolo, che è soprattutto di sorveglianza “etica”. Ci si occupa, e per fortuna sempre meno dopo le iniziative portate avanti in favore del “trad”, delle diatribe sulla chiodatura delle pareti, ci si impegna nel mantenimento di una discreta rete di bivacchi, ci si interroga sul futuro di una disciplina, l’Alpinismo di avventura, che è sempre meno favorita dalle nuove mentalità di frequentazione e sfruttamento dell’ambiente alpinistico.

In realtà il Club è molto interessato a promuovere il dibattito su temi delicati ed è in questa ottica che, ormai molti anni fa, si è iniziata la discussione sulla libertà di frequentazione della montagna. Il risultato è stata l’apertura di un “Osservatorio per le Libertà”, che ha avuto altalenante fortuna fino ad essere recentemente rinvigorito dalla nuova gestione assunta dal CAI stesso.

Neanche su questo punto fondamentale è però semplice definire una posizione ufficiale. Specialmente quando occorra sintetizzarla e scriverla. Perché deve poter essere applicabile in linea generale, tanto da rischiare di svuotarsi di ogni energia…

In quanto territorio non occupato, non sfruttato, e quindi “libero”, la montagna è da sempre sinonimo di libertà, che gli alpinisti interpretano con la possibilità di scalare e salire vette e pareti. Si tratta di un’attività da sempre socialmente apprezzata, bisogna ammetterlo. Per gli appassionati dell’idealismo tanto caro all’alpinismo classico, la montagna è un luogo in cui ci si eleva e differenzia dal resto dell’umanità, facendo qualcosa di assolutamente gratuito ed inutile… qualcosa che è però in grado di guadagnarci un indubbio livello di autorevolezza sociale, e che ci procura una certa sicurezza psicologica nelle situazioni più critiche.

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L’avvento quasi simultaneo della società “sicuritaria” e dell’alpinismo di massa ha però tendenzialmente creato situazioni stridenti. Intanto quella che un tempo era la figura riconosciuta dello scalatore, esploratore e pioniere avventuroso, si sta confondendo sempre più con quella del fruitore di un ambiente, tra l’altro molto più sensibile e delicato di quanto si possa pensare, alla pari del grande numero di frequentatori che più o meno consapevolmente fruisce in modo analogo delle stesse libertà.

Su questa massa si innestano le istanze della società sicuritaria. Il business del tempo libero e i grandi numeri ad esso collegati trasportano i problemi metropolitani nelle zone montane di alta frequentazione. In quanto tali, a chi è chiamato a gestirle piacerebbe tanto poter considerare effettiva l’assenza di rischi. Conseguenza immediata è che anche al di fuori delle aree più battute, l’esistenza del rischio è sempre meno tollerata.

Nessuno di noi ha la pretesa di poter fare ciò che vuole in qualunque situazione. Per quanto la montagna sia vista come terreno rappresentativo della libertà, ci si rende conto di come sia necessario limitarne l’esercizio… Così ci si deve confrontare con chi in montagna ci vive, con chi ne è frequentatore abituale od occasionale, con chi fa della montagna una professione o una missione volontaria, senza pretendere troppo che i galloni guadagnati sul campo possano mettere un buon alpinista in una posizione di preminenza “dovuta”… Questo confronto ha da sempre creato conflitti che gli interessati sono per lo più riusciti a stemperare ed a superare, lasciando alla montagna la sua dimensione di ideale spiritualità a cui tutti ci rivolgiamo.

Peraltro, nel mutamento delle cose, assistiamo ormai da tempo al passaggio dalla “società della vergogna” alla “società della colpa”, per citare formule di successo.

Per quanto trovare territori isolati non sia ancora un problema, scoprire che certi comprensori molto affollati sono ormai gestiti a suon di regole e divieti risulta spesso indigesto a chi alla montagna ha dedicato, se non una vita, una fetta considerevole delle sue energie e tempo libero. Quando ci si accorge poi che regole e divieti sono esportati con gran leggerezza a toccare direttamente la sfera della nostra libertà personale in modo evidentemente miope e ottuso, ecco che i territori isolati diventano sempre più costretti…

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Esiste però la necessità di affermare il diritto di poter rischiare, sempre che tale rischio sia governato dalla consapevolezza di correrlo. In tutte le discussioni in seno all’Accademico appare chiaro che ogni posizione che si richiami al diritto alla libertà di frequentazione della montagna debba essere accompagnata dalla necessità di averne consapevolezza, e dalla responsabilità che viene dall’esercizio di tale libertà. In quest’ottica vengono trattate, in linea generale, tutte le istanze con cui accade di confrontarci in rete, sui social, o di cui veniamo più o meno direttamente a conoscenza.

E’ quindi sempre abbastanza difficile digerire i tentativi di scarico di responsabilità sempre più frequentemente fatti dalle istituzioni demandate alla gestione del territorio, che derogano dalla richiesta di una presa di coscienza per prendere invece la forma di divieti di accesso legati a situazioni di potenziale pericolo, in genere dipendenti da instabilità del manto nevoso o di strati di roccia superficiali.

Queste limitazioni d’accesso sono ovviamente di tipo formale e perlopiù nient’altro che alibi per togliersi il pensiero. Un pericolo generico 5 sul manto nevoso è l’avvertimento di un pericolo serio, che dovrebbe comunque essere mediato dal buon senso e dal giudizio dell’alpinista, buon senso e giudizio che non deve mancare neanche in condizioni di pericolo 1, perché il rischio nullo in montagna è proprio solo una pia illusione e sotto una slavina si può sempre rimanere se non si usa il cervello.

Il problema principale è che le ordinanze su limitazioni e divieti di accesso sono intraprese senza interpellare la comunità degli alpinisti, ma basandosi su valutazioni (ad esempio bollettini meteo e valanghe) che sono per forza di cose generiche, anche quando dedicate al mondo della montagna.

Vietare l’accesso “tout cour” a un territorio è una severa limitazione della libertà personale, specialmente se, una volta emessa un’ordinanza, questa viene mantenuta anche al di fuori della situazione critica, esponendo di fatto un frequentatore “disobbediente” a conseguenze “legali” spropositate e soprattutto ingiustificate in relazione alla reale situazione sul terreno. Le associazioni alpinistiche non vengono quindi interpellate né per decidere la ragionevolezza di un’azione limitatoria né per monitorare la situazione che tale azione vuole gestire. Ciò mette potenzialmente il mondo degli alpinisti nelle mani di Magistrati che non conoscono l’attività in montagna né sono disposti ad “apprezzarne” i rischi, e che si devono basare sulla lettura ed interpretazione di manuali e regolamenti che vorremmo tenere sempre lontani dal terreno della nostra passione.

La limitazione dell’accesso ad aree molto frequentate ha ancora un’altra connotazione, quella della tutela ambientale. La restrizione dell’arrampicata nei siti di nidificazione risponde ad esempio alla sollecitazione dei gruppi ambientalisti interessati alla protezione dell’avifauna. In linea generale si concorda con questo tipo di istanze sempre che dettate da effettive esigenze e non da posizioni ideologiche di preminenza. In genere la risposta è positiva.

Un altro tipo di fenomeno è invece l’aumento del numero di frequentatori in zone delicate che porta a situazioni potenzialmente critiche. In presenza di grandi folle il ricorso al numero chiuso è in genere visto come una tollerabile necessità, ancorchè molto difficile da gestire equamente. Peraltro sulle Alpi non c’erano stati finora eclatanti esempi di restrizioni di questo tipo in alta quota. Finora, appunto…

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L’ordinanza del Prefetto dell’Alta Savoia, emessa il 14 agosto di quest’anno, ha limitato l’accesso al Monte Bianco per la via della Tete Rousse ai soli titolari di prenotazione presso il Refuge du Gouter, per il periodo dal 16 agosto al 17 settembre.

La prima reazione da parte di tutti è stata di disgusto, poi di preoccupazione…

Poi viene voglia di saperne un po’ di più…

Se si va a leggere l’ordinanza (vedi allegato), non è difficile immaginarsi quanto sia successo e le motivazioni che hanno portato a questo punto. E allora non si può che concordare con la decisione del Prefetto, dettata da questioni legate alla sicurezza causate dal sempre meno tollerabile livello di maleducazione che pervade l’uomo dei giorni nostri.

Siamo di fronte ad un’arrogante limitazione della libertà di accesso alla montagna? No, certamente no. Semplicemente la capienza del rifugio è limitata e, sistematicamente, chi in alta stagione non riesce a prenotare un posto fa finta di nulla, si presenta ugualmente e pretende, questa volta si in modo arrogante, che gli sia data assistenza ed un ricovero di fortuna. Un gestore di rifugio è tenuto a seguire regole di sicurezza relative al numero degli ospiti, la cui inosservanza lo espone a potenziali conseguenze “legali” certamente pesanti. Se la situazione si ripete in modo sistematico, si può concludere che alcuni alpinisti non hanno alcun rispetto per chi vive in montagna ed in montagna fornisce dei servizi al pubblico.

E non dobbiamo pensare che si tratti di situazioni solo legate alla affollata via normale al Bianco. Dopo poco tempo da quando il bivacco della Fourche è stato rimesso in ordine con impegno e fatica pochi anni fa, un alpinista spagnolo ne ha scritto paragonandolo ad un immondezzaio, e lamentando decisamente l’incuria dei frequentatori che in quel caso non possono essere che alpinisti, anche se di certo con un profilo etico straordinariamente basso… Anche allora il titolo sulla stampa colpiva – i titoli sono fatti evidentemente per questo – e sembrava suggerire una responsabilità del proprietario, dell’Accademico… Se ci si ferma ai titoli è ovvio che l’idea che ne viene fuori è fuorviata e non rispondente al messaggio reale, ma il mondo di oggi sembra muoversi sempre di più su questa pericolosa china...

Così se vogliamo far passare l’immagine “Numero chiuso sul Monte Bianco” non stiamo facendo un buon servizio alla comunità. La limitazione di accesso è solo colpa della superficialità di tanti alpinisti, che sarebbe ora ritornassero a vedere la montagna come un luogo di esperienza e non di record.

Si può essere certi che l’intervento della Gendarmerie non può che aver migliorato la situazione. Non bisognerebbe dirlo, ma tutti sappiamo che un bel ceffone dato al momento giusto è più efficace di mille parole. Del resto il buon senso ha comunque governato l’ordinanza prefettizia. E’ stata infatti, ovviamente, accordata al gestore la possibilità di deroga per accogliere alpinisti in condizioni di effettivo bisogno (nel nome della mutua solidarietà in montagna) e soprattutto è stato demandato alla Gendarmeria il giudizio sulla capacità dello scalatore di fare a meno dell’alloggio notturno, che sulla via di salita è costituito dal solo Refuge du Gouter.

A meno di eccessi di protagonismo da parte dei gendarmi, e questo è l’unico pericolo (anche se potenzialmente importante) nel momento in cui si dà a qualcuno la possibilità di giudicare l’adeguatezza di uno scalatore, non siamo in realtà di fronte ad una limitazione della libertà, bensì solo ad una regolamentazione pratica, dopo che i tentativi di procedere via avviso si è dimostrata inefficace.

Quindi in realtà non esiste numero chiuso sulla via francese al Bianco. Esiste il richiamo alla civiltà, di cui l’alpinista dovrebbe essere campione. Esiste il richiamo alla consapevolezza di dover salire la vetta più alta delle Alpi, con la preparazione che richiede e con il rispetto che merita. E se è necessario dormire sotto le stelle, bene, quella salita non potrà che essere un ricordo davvero indelebile, e non solo un dato su un curriculum.

 

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