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Club Alpino Accademico Italiano

IL GRADO NON E' TUTTO

Giovedì, 11 Aprile 2019 20:43

 

 

IL GRADO NON E' TUTTO

riflessioni sull’avventura

È considerato l'unità di misura della complessità in montagna, ma non è sempre così: difficoltà ambientali, condizioni della parete, affaticamento soggettivo e molto altro ancora possono compromettere le capacità dell'uomo di superare certe prove

di Domenico Sinapi*

In Italia, negli ultimi anni, parlando di alpinismo la parola più usata e ripetuta è il grado. Non così è per esempio all’estero, in Inghilterra, Spagna, Germania, Francia e USA.

Il grado dovrebbe definire la difficoltà tecnica superata, e quindi in soldoni sembrerebbe che più uno supera una difficoltà alta e più è bravo. Tuttavia esistono situazioni dove la capacità di superare un grado tecnico non basta per superare il passaggio. Ad esempio i fattori ambientali - quota, condizioni della parete, fatica, rischio di caduta ecc - possono compromettere la capacità puramente tecnica di un alpinista di superare il passaggio e uscire dalle difficoltà.

E questo è il succo del discorso, non c’è alpinismo senza rischio, altrimenti chiunque fosse in grado (e già sono in pochissimi) di arrampicare in libera su un 9a potrebbe teoricamente salire qualsiasi parete della terra ed essere considerato l’alpinista più forte al mondo. La pratica dell’alpinismo ci dice che non è così che funzionano le cose.

Un conto è infatti superare un tiro in falesia opportunamente preparato, magari con i rinvii già posizionati, essendo ben riposati e riscaldati, e un altro è superare le stesse difficoltà tecniche in alta montagna magari a 4000 metri di quota e senza spit a proteggere il tiro, anche considerando la roccia pulita, avendo già percorso 500m di parete.

Sono infatti pochi al mondo in grado di fare queste performance, ma anche nel piccolo, c’è una grande differenza tra superare un tiro di 6-7-8 grado UIAA (6a – 6b - 6c -7a scala francese) in montagna sulla nord del Badile o sulla nord del Civetta o sul monte Bianco, senza protezioni o con poche protezioni e un altro è fare un tiro di analoghe difficoltà in falesia o su una piccola parete con gli spits distanziati a un metro.

 

Great roof foto Fausto Tovo

Nose pancake flake foto Fausto tovo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra        Nose,  Great Roof  - Foto Fausto Tovo

A destra    Nose , Pancake flake  - Foto Fausto Tovo

 

AVVENTURA
O ESERCIZIO GINNICO?

La mia è ovviamente una provocazione, nel senso che ritengo che ognuno debba e possa scegliere di fare quello che vuole e che preferisce, ma quando si incomincia a definire come prestazione una scalata in libera di un tiro, anche in falesia, sarebbe bene incominciare a considerare, anche alcuni fattori, prima di definire quella salita come una prestazione.

Infatti magari il tiro riesce dopo un numero di tentavi altissimo, mentre a qualcun altro riesce a vista o dopo pochi “giri”.

Spesso mi è capitato di vedere arrampicatori che hanno salito tiri di 8a, non riuscire a salire a vista tiri di 6c, addirittura fare molti resting su tiri di 7a, ma allora qual è realmente il grado tecnico di questi arrampicatori, seppur sportivi ?

Anche in montagna si vedono cose “strane”, vengono definite prestazioni o prime salite in libera, scalate dove vengono preventivamente preparate tutte le protezioni e poi addirittura allungate con fettucce, anche di due metri, per poter rinviare e proteggere il passaggio con in mano l’appiglio giusto, saranno anche “prestazioni” per qualcuno, ma personalmente non le ritengo tali, almeno non prestazioni assolute.  E di avventura su un tiro preparato a puntino non ce n'è poi molta.

Alla fine diventa quasi un esercizio ginnico, provo e riprovo il tiro fino a conoscerlo a memoria, poi dove potrei avere qualche piccolo "brivido" perchè il moschettonaggio è impegnativo, allungo a dismisura la fettuccia del chiodo successivo per poterla rinviare "comodamente" da sotto, così elimino anche quel poco di ingaggio che mi poteva dare la chiodatura "lunga" ben 2 metri (come in alcune falesie ben protette), ed il gioco è fatto: eliminate tutte le possibile cause di paura, il mitico climber alpinista è adesso pronto per la performance.

Melat monte Qualido 2 rip ottobre 1993 foto Pietro Piccinelli

 MELAT Qualido 31 OTT 93 PRIMA DEL TETTO 2 rip foto Pietro Piccinelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra      Monte Qualido  31 ott 1993  Melat 2a ripetizione - foto Pietro Piccinelli

A destra  Monte Qualido 31 ott 1003 prima del tetto - foto Pietro Piccinelli

 

UN PIZZICO DI NARCISISMO

Finchè il nostro climber-alpinista racconta la performance a voce, si finisce per prenderla per buona, come da tempi antichi, viene presa per buona la parola di un alpinista, ma in tempi recenti, con i potenti mezzi informatici a disposizione e un pizzico di narcisismo, per guadagnare un po' di visibilità, finiscono per farsi filmare o fotografare durante la prestazione, e allora si scoprono gli altarini... Senza nulla togliere a chi ha fatto salite in questo stile, già dire come si è fatta la “prestazione” è un sintomo di onestà verso chi potrebbe poi migliorarla, ovvero passare in libera rinviando i chiodi senza preventiva preparazione, e quindi realizzare la vera prima salita in libera del tiro di corda. In montagna si arrampica praticamente sempre a vista, le protezioni spesso si devono posizionare e anche quando ci sono gli spits i rinvii si devono mettere.

Ma il grado non è tutto!

Pensate per esempio alle salite di Mike Fowler: scala con un compagno, con una manciata di chiodi da roccia e da ghiaccio, un paio di picozze, pareti di migliaia di metri, su cime di 6000-7000 metri in stile alpino, salite che gli sono valse la Piolet d’or, eppure in falesia non è certo uno che scala su gradi "alti". La differenza, rispetto alla massa di scalatori sia professionisti sia della domenica è la sua capacità di farlo in qualunque condizione. Non solo, la differenza è la sua voglia di mettersi in gioco, affrontando una scalata con poche possibilità di ritorno e con situazioni complicate da decifrare in apertura, e quindi con poche possibilità di riuscita, eppure Mike Fowler riesce spesso a portare a termine i suoi progetti, anche quelli molto ambiziosi. Come mai? Forse perché è bravo come alpinista? Eppure non scala su gradi “alti”. Quindi la chiave del successo di Mike e di altri come lui dove risiede? In che cosa si differenzia dagli alpinisti "normali"? Forse nella preparazione, nel non scendere troppo a compromessi?

QUELLA LINEA IMMAGINARIA

Altri esempi sono la scalata negli ultimi anni della nord del Badile in pieno inverno, con la neve spalmata sulla parete, un sottile strato di ghiaccio e neve dura che rivestiva la nord-est, fino a creare una linea non più solo immaginaria che collegava l'attacco con la vetta. Qualcuno, ben preparato, ha visto quella linea e si è ingaggiato sulle placche della nord-est dove per lunghi tratti, seppur tecnicamente non "difficili", non riuscivano a proteggersi adeguatamente durante la progressione, ma la decisione, l'esperienza e non ultima la preparazione fisica e mentale, ha consentito loro di scalare la nord trasformando la linea immaginaria in una linea elegante, in poco tempo, grazie sicuramente ai nuovi materiali (piccozze, ramponi e chiodi da ghiaccio), ma soprattutto alla loro "testa".

In falesia ci sono scalatori che, quando non riescono nel passaggio si calano, si riposano, e poi ripartono e rispettano questo rigoroso cliché. Altri scendono da un tiro su cui sono saliti facendo un resting dietro l'altro, su tutti gli spit e li senti dire all'amico: "quasi lo tengo", non avendo la minima idea di cosa voglia dire saper "scalare" un tiro della difficoltà su cui si sono cimentati. Per costoro è più importante poter dire e raccontare che scalano su quel grado. Una volta si definiva una salita a vista, "on sight", senza averla mai conosciuta prima e mettendo rigorosamente i rinvii, non era considerata valida se i rinvii erano già posizionati. Adesso questa regola si è sfuocata. Lo stesso vale per una salita rotpunkt (punto rosso), ovvero salire il tiro di corda in libera, dopo averlo già provato. Una volta una salita rotpunkt era considerata valida quando si mettevano i rinvii durante la scalata, oggi si danno per salite rotpunkt anche quelle fatte con i rinvii già posizionati.

Ora, è evidente che non intendo comparare chi preferisce fare dell’arrampicata sportiva a chi predilige salite alpinistiche, tuttavia mi piace l’idea di sponsorizzare in maniera sfacciata l’alpinismo. E quindi mi piace stimolare il pensiero verso quelle forme di scalate dove la purezza dello stile e la capacità mentale di creare situazioni dove l’avventura è al centro della salita, con anche un’alta possibilità di non riuscita, siano il punto focale del discorso. Ecco quindi che, in realtà, una prestazione in arrampicata o in montagna non è necessariamente basata sul grado tecnico.

Galattica Qualido sul 9 tiro

 

 

 

 

LE FALSE PRESTAZIONI

Per entrare più specificatamente nell’argomento, vorrei portare altri esempi di “false” prestazioni e “basso” sapore d’avventura.

Ci sono scalatori, anche famosi, che salgono gli Ottomila facendo uso dell’ossigeno, al di là di quella che è e resta una soddisfazione personale, non vedo cosa ci sia di “eccezionale” nella scalata dell’Everest per la via normale, utilizzando le bombole d’ossigeno, quando ormai più di quattromila persone lo hanno già scalato con l'ausilio delle bombole, persino ragazzi di 14 anni e anziani di 64 anni, anche persone che non avevano mai scalato prima di allora, mentre senza ossigeno ci sono riusciti in pochi.

Eccezionale è scalare un Ottomila in inverno, possibilmente senza usare le corde fisse messe da altri e portando con sè tutto quello che è necessario per una salita pulita, o salirlo senza ossigeno o per una via nuova, mentre passare per la normale utilizzando l’ossigeno non è una “prestazione”.  Eppure i giornali, i media danno grande risonanza ad alcune di queste salite, fatte da alpinisti normali. E deve essere considerato normale un alpinista che scala l'Everest usando ossigeno, corde fisse e tende piazzate da altri. Ma la stampa nazionale spesso fraintende, o semplicemente non capisce, queste semplici ed elementari differenze.

Le normali agli Ottomila sono state fatte negli anni Cinquanta, ormai hanno quasi 60 anni e più, considerando anche l’evoluzione dei materiali non ha più senso esaltare una salita a una normale a un Ottomila fatta con l’ossigeno, magari tirando tutte le corde fisse già poste in loco, già Reinhold Messner e Jerzy Kukuczka negli anni Settanta hanno indicato la via, hanno fissato le regole per ingaggiarsi su un Ottomila, prendendo come riferimento lo stile inventato da Hermann Buhl al Broad Peak, cima di 8047 metri raggiunta in prima assoluta il 9 giugno 1957 con Kurt Diemberger (per la verità Kurt è arrivato prima di Hermann sulla vetta), con soli 3 campi tra la base e la vetta, dove è stato coniato per la prima volta il termine "West Alpine Style", in altre parole leggeri senza ossigeno in stile alpino, portando con sè la propria tenda senza aiuti esterni di sherpa e portatori, battendosi la pista, anche sulle grandi montagne himalayane.

Il Broad Peak è l'Ottomila che è stato scalato in prima ascensione con meno campi intermedi e con più alto dislivello tra un campo e l'altro, da un gruppo piccolo di persone (solo 4 alpinisti divisi in due) che si sono portati la loro tenda sulle spalle e tutto l'occorrente per la scalata e, naturalmente, senza usare l'ossigeno.

LE STAGIONI IN QUOTA

Era il 1957. Siamo nel 2018. Sono passati 60 anni, Buhl ci ha indicato, in modo visionario, la strada e, ancora oggi, tanti non capiscono la differenza che passa tra usare l'ossigeno o farne a meno, tra usare le corde fisse posizionate da altri o farne a meno, tra farsi battere la traccia da altri o farsela da soli, tra portare la propria tendina da soli o approfittare di quelle già posizionate ai vari campi ma da altri, e quindi salire con meno peso, ma poi approfittare della fatica che ha fatto qualcun altro. Ha sicuramente senso ascoltare l’entusiasmo di chi ha scalato utilizzando l'ossigeno, perché in questo c’è del romantico e c’è il fascino del racconto e della storia vissuta, ma non è una prestazione. Eppure si sentono anche alpinisti "famosi" sbandierare come imprese la salita di una normale, ma di fatto quando hanno usato l'ossigeno per raggiungere la vetta è come se avessero abbassato la vetta di 2000 metri, quindi una salita all'Everest utilizzando l'ossigeno si ridurrebbe a una salita di un 6000 metri.

Altro discorso aperto e da definire, è la salita degli Ottomila in inverno, teoricamente manca solo la prima salita invernale del K2, ma per alcuni himalaysti puristi non è così.

Sulle Alpi è considerata invernale una scalata compiuta nell'inverno segnato dal calendario astronomico, quindi per l'emisfero boreale dal solstizio d’inverno (indicativamente cade il 20 dicembre) all'equinozio di primavera, che cade indicativamente il 21 marzo. Tuttavia la stagione invernale sugli Ottomila, per esperti himalaysti, inizia a dicembre (dal 1° dicembre) e finisce alla fine di febbraio (il 28 febbraio), questo perché, a detta loro, documentato da foto che parlano da sole, a marzo in Himalaya ci sono i prati verdi e iniziano a sbocciare i fiori, e quindi secondo costoro parlare di salita invernale a un Ottomila fatta nel mese di marzo non ha senso e non viene considerata valida, mentre considerano valida una salita fatta all'inizio di dicembre.

arrampicare a 5000 metri foto Sergio Dalla Longa

arrampicare a 5000m in cima alla Esfinge

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A sinistra    Esfinge del Paron - foto Sergio Dalla Longa

A destra     In vetta all'Esfinge del Paron 

 

INTEGRITÀ ETICA

Secondo queste considerazioni, la storia delle prime salite invernali agli Ottomila sarebbe ancora da scrivere; per alcuni Ottomila che sono stati scalati a marzo e precisamente l'Hidden Peak (il 9 marzo) e il Broad Peak (il 5 marzo), e quindi secondo queste regole, le salite effettuate in quelle date non sarebbero valide. Anche la prima salita invernale allo Shisha Pagma verrebbe riassegnata al fuoriclasse francese Jean-Cristophe Lafaille, che è arrivato in cima in solitaria per una difficile via nuova sulla parete sud della montagna, solo qualche giorno prima del solstizio d’inverno nel 2004, in pieno dicembre con le giornate più corte e fredde dell'anno, anziché a Simone Moro, che l'ha salita il 14 gennaio 2005 salendo per la normale. Un esempio di integrità etica totale in tempi recentissimi è rappresentato da Denis Urubko, che nell'inverno di quest'anno ha cercato la prima salita invernale del K2, nonostante il brutto tempo in arrivo, quando si stava avvicinando la fine di febbraio e, secondo le sue regole, non aveva senso aspettare un miglioramento del tempo che veniva dato ai primi di marzo. Nonostante il meteo fosse pessimo ha tentato il tutto per tutto, anche contro il parere e il volere dei suoi compagni di spedizione, per scalare il K2 entro il 28 febbraio, oltre per lui non avrebbe avuto senso. Accettando il duro responso che gli ha servito la montagna ha dovuto rinunciare, ma restando fedele alle sue regole, peraltro condivise da molti. Merita sicuramente il massimo rispetto. Quando è partito da solo per un tentativo alla vetta in solitaria, ricordava il leggendario Hermann Buhl, quando il 3 luglio 1953, l'Everest era appena stato scalato il 29 maggio da Hillary e Tensing, ma con larghi mezzi e uso dell'ossigeno: Buhl è partito contro il parere del capo spedizione e in solitaria, senza ossigeno ha scalato gli ultimi 1400 metri di dislivello su terreno mai calpestato dall'uomo e raggiunto per primo la vetta del Nanga Parbat. Un'impresa che è rimasta indelebile e irraggiungibile e lo sarà per sempre, per etica, un filo di pazzia, determinazione e coraggio; in una sola parola un'impresa leggendaria.

Con queste considerazioni non intendo per forza sponsorizzare un alpinismo basato sulla prestazione, bensì intendo sponsorizzare un alpinismo basato sull’avventura, se poi questa avventura sarà una prestazione tanto meglio, ma che lo sia veramente e non un trucco, solo per mettersi in evidenza. C'è chi inopinatamente, anche per motivi legati agli sponsor, si accosta a grandi del passato, ma usando scorciatoie come utilizzare le corde fisse piazzate da altri, o seguendo sempre le vie normali quando altri prima hanno sempre cercato di salire su terreno vergine, o usa l'ossigeno dove chi li ha preceduti decine di anni prima non lo ha usato.

MEROI E BENET,

ALPINISMO SENZA COMPROMESSI

Un altro esempio di etica che non scende a compromessi è quello degli accademici Nives Meroi e Romano Benet, che hanno scalato tutti gli Ottomila senza ossigeno spesso per vie diverse dalle normali, senza portatori, trasportando la propria tendina sulle spalle, e soprattutto, Nives ha rinunciato a essere la prima donna a scalare tutti gli Ottomila quando il suo compagno di cordata e nella vita ha dovuto rinunciare sul Kangchenjunga, per problemi gravi di salute e lei è scesa insieme a lui; il discorso è stato chiuso splendidamente quando Romano, dopo alcuni anni, si è ripreso e l'11 maggio 2017 sull'Annapurna, sempre e rigorosamente senza ossigeno, senza portatori e con la tendina sulle spalle, e sempre rigorosamente insieme, sono diventati la prima coppia che ha scalato tutti i quattordici Ottomila.

Per tornare sulle Alpi, mi piace pensare a un amico (Ivo Ferrari), quando un pomeriggio in valle di San Lucano, in campeggio con la moglie, si stava un po’ annoiando e la moglie gli butta lì: «Perché non vai a fare lo spigolo dell’Agner?», almeno così lo racconta lui in un suo scritto pubblico, e lui la prende in parola e lo fa in circa due ore, slegato e di corsa.

Lo spigolo nord dell’Agner (1600 metri di dislivello), è stato salito nel 1932 da Oscar Soravito ed è al massimo 6 grado Uiaa, ma realizzato così di slancio è molto più romantico ed elegante che non una salita a un Ottomila con l’ossigeno e tirando le corde fisse posizionate dagli sherpa. Sicuramente salito in questo modo è una performance assoluta: nessuno, fino a quel giorno, lo aveva scalato in così breve tempo. L’avventura la vive anche chi lo fa in giornata o con un bivacco, e può a buon diritto raccontarla e farla rivivere ad altri. Dopotutto si tratta di una salita molto lunga, dove il senso della ricerca dell’itinerario supera quello della pura capacità tecnica, dove le possibilità di scendere sono poche e complicate e dove non puoi portarti troppo materiale per salirla: in sostanza, è una salita “alpinistica”. Per farla basta avere un buon sesto, ma saper fare il sesto grado non basta per salire questo spigolo interminabile.

C’è avventura nel cimentarsi su una big wall a El Capitan, nella Yosemite Valley, di sicuro si vivono emozioni per diversi giorni appesi ai chiodi in parete, un’eventuale ritirata è complicata e la fatica di più giorni necessita esperienza e determinazione, tuttavia una prestazione è farla in due ore come Dean Potter.

Pizzo Trubinsca foto Maurizio Panseri

 sul muro dellhalf dome foto Fausto Tovo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopra            Pizzo Trubinasca - foto Maurizio Panseri

A destra        Sul muro dell'Half Dome - foto Fausto Tovo

Sotto             Aguja Guillaumet, Patagonia Via Coqueginot gennaio 1995

 

 patagonia aiguille guillaumet via coqueginot gennaio 1995 Copia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IMPRESE LEGGENDARIE

Ci sono poi prestazioni che sono così avanti con i tempi in cui vengono compiute che passano inosservate, fino a quando anni dopo, a volte decenni, qualcuno forte e famoso le ripete e scopre il livello reale di quella salita, di esempi in questo senso ce ne sono parecchi, ma per citare casi clamorosi, che ancora oggi non hanno avuto la risonanza che si meritano, sono la salita dello sperone della Great Trango Tower (Grande Torre di Trango), scalata nel 1984 dai norvegesi Hans Christian Doseth e Finn Daehli: partono in quattro, quindi una spedizione leggera, ma quando i viveri sono agli sgoccioli due dei quattro si ritirano, per lasciare qualche chance in un'impresa al limite dell'impossibile alla cordata più forte e determinata. I due "prescelti" tentano il tutto per tutto, e con i pochi viveri rimasti scalano su difficoltà che per l'epoca erano estreme, si parlava di 7a, A4, 90° su ghiaccio spalmato sulla roccia su una parete di 1600 metri di dislivello che raggiunge una vetta di 6200 metri di quota, si tratta probabilmente della prima big wall di grado VII. Durante la discesa i due scompaiono, e la via dei norvegesi al Trango viene chiamata Via del non ritorno, sicuramente un'impresa di valore assoluto che sposta in alto l'asticella delle difficoltà in parete su una grande montagna. Andando a vedere chi erano questi sconosciuti norvegesi, scopri che sul Trollringen, parete alta fino a 1300 m (più di El Capitan), spesso umida per le pessime condizioni meteo, avevano aperto con un'etica ferrea spingendo la libera al massimo (fino al 7a), diverse big wall. E siamo agli inizi degli anni 80.

Ma in Italia compare giusto un trafiletto di due righe su Alp.

Altre imprese del genere ancora irripetute o con una sola ripetizione sono quelle compiute da scalatori leggendari, come fossero i vikinghi delle Alpi, dagli alpinisti sloveni, Franz Knez, Silvo Karo, Janez Jeglic in giro per il mondo: per esempio nell'inverno 1985/1986, in Patagonia, sulla parete est del Cerro Torre aprono la Direttissima dell'inferno, 1100 m di dislivello VIII+, A4 e 95° su ghiaccio, il nome della via parla da solo di quello che hanno incontrato in parete gli sloveni. Tutte le loro salite sono caratterizzate dalle alte difficoltà in libera e in artificiale, su pareti grandi inviolate, con un uso limitato delle protezioni. Anche questa salita viene liquidata con un trafiletto di poche righe sulle riviste specializzate italiane, ma si tratta di scalatori che negli anni Ottanta già scalavano in falesia sull'8a, e in montagna con un'etica ferrea riuscivano in salite al limite dell'impossibile. Si tratta di imprese leggendarie, prestazioni assolute, dove i protagonisti hanno messo in discussione tutto pur di vivere un'avventura senza compromessi.

Per citare un esempio in tempi recenti, una salita con grande sapore di avventura, che ricorda lo stile di alcuni grandi accademici del passato come Walter Bonatti e Carlo Mauri, è la salita di Matteo della Bordella, pure lui accademico del Cai e Ragno di Lecco, che con Silvan Schupbach, fortissimo svizzero, hanno scelto il Cerro Riso Patron, una meta "a la fin del mundo", come si suole dire in Patagonia, isolata, con avvicinamento attraverso parecchi giorni in canoa prima e a piedi poi, tutti soli in completa balia della montagna e delle bizze del tempo, con poche possibilità di riuscita. Eppure, in una piccola finestra di bel tempo, hanno osato e creduto fino in fondo alla loro idea e sono riusciti ad aprire King Kong, una via in stile pulito e veloce su una parete inviolata.

Ma l’avventura la puoi trovare ovunque, basta cercarla con regole chiare, dove lo scalatore si mette in gioco ed è disposto a rischiare qualche cosa, anche la non riuscita. Quando invece si sceglie di salire una parete con tutto preconfezionato, sicuramente ci si diverte, ed è lecito farlo, ma si vive un'avventura un po’ ridimensionata. Di certo ognuno si scelga “l’avventura” che preferisce, in montagna o in falesia, sugli spit o trad, con ossigeno o senza, ma...

Ma abbia l'onestà di raccontare com'è andata.

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