Di Giuliano Bressan - Centro Studi Materiali e Tecniche CAI
e Massimo Polato - CAI Mirano - Centro Studi Materiali e Tecniche CAI
È comune tendenza credere di sapere cosa sia una corda, ma in realtà generalmente ben pochi si rendono conto di quanto complesso e vario sia l’argomento.
Un po’ di storia
Dai tempi dei pionieri fino ai primi anni Sessanta le corde che venivano utilizzate in alpinismo erano costruite con filamenti discontinui di canapa, opportunamente ritorti, intrecciati e ancora ritorti fra loro per conferirne tenuta e deformabilità. Pur utilizzando canapa di ottima qualità, come ad esempio la “Manila”, per migliorarne in particolare la maneggevolezza, le corde che si riuscivano a realizzare erano sicuramente poco affidabili sia in termini di sicurezza, per la scarsa resistenza alla rottura, sia per la funzionalità, soprattutto per la tendenza a irrigidirsi in caso di pioggia o freddo intenso. Queste corde, inoltre, erano praticamente prive di qualsiasi capacità di allungarsi ed erano molto soggette a fenomeni di degrado dovuti all’usura derivante dagli sfregamenti sulla roccia.
Se pensiamo agli itinerari su roccia e ghiaccio realizzati in quel periodo, non si può che ammirare il coraggio di chi affidava la propria vita a questa tipologia di corde (Fig. 1).
La maggior parte dei problemi e dei limiti esposti è stata risolta con l’introduzione delle fibre artificiali e in particolare la poliammide, come Perlon® e Nylon® [1].
Queste prime “corde moderne” (Fig. 2) furono un netto passo in avanti sotto il profilo della sicurezza e delle prestazioni. Se bene l’elasticità fosse ancora una chimera, i problemi legati all’usura e all’assorbimento di acqua della canapa erano di gran lunga ridimensionati.
Da queste corde si sono via via sviluppate conoscenze e metodologie di processi di produzione che arrivano fino ai giorni nostri.
Le corde moderne offrono, infatti, una grande affidabilità grazie alle notevoli caratteristiche di resistenza alla rottura, di deformabilità e di funzionalità. Ampi margini di miglioramento sono tuttavia ancora possibili, in particolare per quanto riguarda la resistenza alla rottura, l’usura per sfregamento e micro stress, l’effetto di acqua e raggi UV.
Le corde attuali sono costituite da sottilissimi mono filamenti di poliammide (prevalentemente nylon 6 o nylon 6,6), di spessore di circa 30 micron (30 millesimi di millimetro, la metà di un normale capello) e trattati termicamente per esaltare il più possibile le doti di elasticità di questi materiali; una corda con diametro 10-11 mm ne può contenere dai 60 ai 70 mila (Fig. 3).
La geometria costruttiva è del tutto diversa dalle vecchie funi di canapa o dalle prime corde in poliammide perché in questo caso la corda è un vero e proprio composito costituito da due parti ben distinte (Fig. 4).
- L’ “Anima”, la parte interna, formata da un insieme più o meno grosso di fili ritorti e/o intrecciati fra loro, i “trefoli” di numero variabile secondo i produttori.
- La “Camicia (calza o guaina)”, la parte esterna, composta di un tessuto a costruzione tubolare ottenuto per intreccio di un insieme di fili detti “stoppini” in blanda torsione fra loro.
Attualmente, tra i vari trattamenti e le tecniche disponibili per migliorare le prestazioni delle corde da arrampicata, quella che influisce e contribuisce maggiormente ad aumentare la sicurezza è la tecnologia “Unicore”. In parole povere le fibre di nylon dell’anima della corda costituiscono un “unico corpo” in grado di conferire tenuta anche in caso di taglio o lacerazione della camicia.
Corde: categorie e normative
Le corde si dividono generalmente in due tipologie:
Si definiscono “semi statiche” quelle corde che presentano un basso coefficiente di allungamento. In ambito alpinistico questo tipo di funi trova applicazione solo per la posa di corde fisse (ad esempio nelle spedizioni in alta quota), poiché nel caso di una caduta, la mancanza di allungamento elastico renderebbe l'arresto dell'arrampicatore molto brusco, con notevole rischio di lesioni gravi, e la possibile fuoriuscita o rottura degli ancoraggi.
Le corde semi statiche sono normalmente impiegate in speleologia, canyoning, lavoro e si dividono a loro volta in:
In arrampicata e alpinismo sono invece utilizzate corde "dinamiche", in grado cioè di arrestare la caduta libera di una persona, impegnata in un’azione di alpinismo o in una scalata, con una forza di arresto limitata.
Le corde dinamiche (Fig. 5) si suddividono in:
Nel mercato è presente anche una corda detta “da escursionismo” ma non si parla di un quarto tipo di corda. Generalmente si tratta di una singola corda gemella; in Germania si richiede invece di utilizzare almeno un capo di mezza corda.
Le corde, per essere poste in commercio, devono rispondere a delle ben precise normative:
- Corda singola: in grado di arrestare la caduta libera di una massa di 80 kg limitando la “forza di arresto” (FAD) a 12 kN (1200 daN) [2]. La corda viene provata singolarmente al Dodero [3] (Fig. 6 e 7) e deve resistere senza rompersi ad almeno 5 cadute. In particolare, riguardo alle corde dinamiche la norma prevede:
- Mezza corda: utilizzata normalmente in coppia, può trovarsi a sostenere “in singolo” una caduta, nel caso in cui le due corde siano inserite alternativamente nei rinvii. Per questo motivo la corda è provata singolarmente al Dodero e deve essere in grado di arrestare la caduta libera di una massa di 55 kg limitando la FAD a 8 kN (800 daN). La corda deve resistere senza rompersi ad almeno 5 cadute.
- Corda gemellare: viene provate al Dodero in coppia con una massa di 80 kg e la FAD non deve superare 12 kN (1200 daN); le corde devono resistere senza rompersi ad almeno 12 cadute.
La norma prende in considerazione la FAD alla prima caduta; le successive cadute generano forze più elevate a causa dell’irrigidimento provocato nella corda dalle cadute precedenti, ma non sono soggette a limiti. Il progresso nei materiali di base e delle modalità di costruzione, oltre che dei controlli di qualità, permettono oggi di realizzare corde che superano ampiamente i requisiti posti dalla norma. Una corda singola ad esempio, può reggere anche ben oltre le 10 cadute con valori di FAD più bassi, 7÷9 kN (700÷900 daN) e con peso ridotto; il peso, in questi ultimi anni, va assumendo un’importanza di tipo commerciale molto rilevante cui non sempre corrispondono benefici apprezzabili se non in particolari situazioni.
La normativa EN 892 - UIAA 101 prevede, oltre a quanto esposto, che la corda superi altri test concernenti il massimo allungamento statico e dinamico (al primo picco di forza al Dodero) e allo scorrimento della camicia.
Si fa infine notare che nel mercato sono presenti anche corde omologate come singole, mezze e gemellari; questo significa che la corda testata singolarmente e in coppia risponde ai parametri richiesti dalla normativa.
Quesiti e curiosità
Le domande più frequenti riguardano i valori che si riferiscono alla “forza di arresto” (12 e 8 kN), al peso delle masse (80 e 55 kg), utilizzate nei test al Dodero e sul perché le prove vengano fatte a corda bloccata se poi, nella realtà, si impiega un freno.
Il valore di 12 kN è il risultato di studi militari sull’apertura dei paracadute: un corpo umano allenato è in grado di sopportare una decelerazione massima di circa 15 G, cioè 12 kN per una massa di 80 kg.
Il valore di 8 kN deriva invece da un errore al momento della redazione della norma. Infatti, secondo logica e per limitare a 12 kN la forza di arresto di due capi di mezza corda utilizzati contemporaneamente, occorrerebbe che con 55 kg su un capo, la forza di arresto sia limitata a 7 kN. Una mezza corda a 8 kN darebbe una forza di arresto di 13,50 kN testata come una corda gemella, cioè ben oltre la resistenza del corpo umano.
Riguardo al peso delle masse, sul perché degli 80 kg la risposta è semplice: si considera per convenzione il peso medio di un uomo con il suo materiale.
Diversa è invece la questione sul perché e quali sono i concetti alla base del test sulle mezze corde, con una massa di 55 kg; la maggior parte degli scalatori non rientra, infatti, certamente in questa classe di peso, considerando anche la loro attrezzatura. Di fatto, la capacità di una mezza corda - provata singolarmente al Dodero con una massa di 55 kg - di sopportare in queste condizioni 5 cadute, fu ritenuta indicativa della capacità di una singola mezza corda di sostenere almeno una caduta di 80 kg; in questo caso la forza di arresto della singola mezza corda è superiore del 25% circa rispetto alla prova con 55 kg.
Le mezze corde, come già esposto, sono da preferire se si è in presenza di ancoraggi aleatori, come ad esempio roccia friabile o ghiaccio inconsistente, perché permettono il rinvio sui moschettoni di un solo capo alla volta, limitando nell’eventualità di una di caduta la forza di arresto. Se si rinviano entrambe le mezze corde nei moschettoni, come normalmente si fa in presenza di ancoraggi ritenuti sicuri, bisogna considerare un aumento delle forze di arresto di circa il 20-25%.
Spieghiamo, infine, il motivo per cui la FAD viene determinata in condizioni di corda bloccata. Un primo motivo risiede sul fatto che si ha la necessità di standardizzare la prova affinché i test eseguiti nei vari laboratori del mondo si trovino a operare nelle medesime condizioni; un’altra motivazione risiede nell’esigenza di ricercare il più elevato grado di ripetibilità possibile nei vari test, in modo da avere un campione rappresentativo dal punto di vista statistico. Queste condizioni si possono verificare solo eliminando quante più variabili non controllabili possibili e, da questo punto di vista, si capisce subito che eseguendo delle prove a corda frenata non si possono assolvere questi requisiti. Ogni persona, infatti, ha un suo modo di frenare la caduta: c’è chi è più “morbido” e chi più “rigido” e questo renderebbe non confrontabili le varie prove.
Sul test al Dodero tutto è standardizzato. Dal modo con cui si stringe il nodo sulla massa alle caratteristiche geometriche e di finitura superficiale (rugosità), di tutte le parti in metallo su cui scorre la corda.
Certo, una prova così è molto più severa di quel che avviene nella realtà, ma vale il principio del ragionare “a favore di sicurezza”. In sostanza, ci si mette nella peggiore condizione possibile che può accadere, perché se la corda non si rompe in questa condizione, a maggior ragione resisterà quando verrà sollecitata in presenza del freno, dove quasi tutta l’energia di caduta non è più dissipata dall’elasticità della corda, ma viene in gran parte trasformata in calore, generato per attrito, nel suo scorrimento sul freno.
Sul sito del Centro Studi sono disponibili, per chi desideri approfondire i molteplici aspetti (tra cui la durata delle corde), diversi articoli:
Articoli sulle tecniche di assicurazione
Usura delle corde in arrampicata e in laboratorio
Conclusioni, suggerimenti e consigli
La scelta di una corda deve essere sempre orientata su criteri di sicurezza. Particolare attenzione va quindi posta nel controllo dei dati tecnici dichiarati dai produttori; ad esempio per una corda singola, oltre alla forza di arresto - che dovrà essere ben inferiore a 12 kN - i parametri fondamentali sono il peso della corda che dovrà essere preferibilmente sui 65-75 grammi/metro, e soprattutto la sua resistenza dinamica espressa come numero di cadute sopportate al Dodero che dovrà essere di almeno 8-10 cadute.
Una corda scelta in conformità a queste indicazioni offre certamente ottime garanzie di sicurezza anche per un uso prolungato. Altra ottima soluzione è rappresentata, senza dubbio, dall'impiego in arrampicata di una coppia di mezze corde o di corde gemellari. Si ha il vantaggio, infatti, oltre all'elevatissima resistenza dinamica, di poter sempre contare - in caso di rottura di una delle due corde (a es. nell'eventualità di una caduta su spigolo) - sull'intervento dell'altra.
Le corde da arrampicata sono fatte ovviamente per essere utilizzate, nondimeno ogni loro impiego lascia il segno. Molto importante, ai fini della sicurezza, è quindi eseguire sistematicamente sulla corda, prima e dopo l'uso e per tutta la sua lunghezza, un minuzioso controllo, mediante esame visivo e tattile. Qualora la corda abbia sostenuto una caduta importante, si riscontrino danni dovuti a cause meccaniche (a es. caduta di sassi), la camicia si presenti seriamente danneggiata per abrasione (sfregamento sulla roccia o scorrimento in un freno) o denoti segni di notevole usura (Fig. 8 e 9), è necessario eliminarla.
Particolare attenzione va posta anche alla corretta conservazione della corda. Si raccomanda di riporla, dopo uso e verifica, nell'apposita sacca, avvolta a matassa, in ambiente buio, fresco, pulito e asciutto; va inoltre evitato accuratamente di lasciare la corda nel bagagliaio della propria auto per tempi prolungati perché d'estate la temperatura interna può superare i 60-70 °C e anche per il possibile contatto con sostanze chimiche dannose (acido delle batterie, solventi, ecc.).
Riguardo alla pratica di segnare o colorare la corda a metà, si devono usare esclusivamente degli speciali inchiostri, non aggressivi, impermeabili e resistenti all’abrasione; la corda non va mai segnata o colorata con articoli non specifici, perché gli agenti non naturali contenuti in alcuni inchiostri sono potenzialmente in grado di provocare effetti deleteri.
Una buona regola è tenere sempre pulita la propria corda per farla durare più a lungo, mantenendone le caratteristiche di scorrevolezza. Per rimuovere l’inevitabile sporcizia si possono utilizzare delle spazzole “Rope Brush”, specificamente create per pulire le corde e che si adattano facilmente ai vari diametri.
La corda è nella sostanza un prodotto tessile ed è quindi possibile lavarla; allo scopo bisogna utilizzare un detersivo neutro o gli appositi detergenti naturali. Il modo migliore per lavare la corda è a mano, in acqua fredda o appena tiepida. E’ possibile il lavaggio anche in lavatrice con il programma per tessuti delicati (30 °C); importante è non utilizzare la centrifuga e non asciugare mai la corda nell'asciugatrice. Il metodo più opportuno per asciugare una corda è stenderla a terra all’ombra e a temperatura ambiente (va evitata la luce solare diretta).
Infine un ultimo consiglio: i danni arrecati alla corda in seguito all'impiego in moulinette e/o ai piccoli voli tipici dell'arrampicata sportiva, di solito sopportabili in falesia, potrebbero invece risultare fatali al primo volo serio in ambiente. Massima attenzione quindi a non usare mai la stessa corda sia per l'arrampicata sportiva, sia per la pratica alpinistica in montagna.
Note
[1] Anche se oggi le poliammidi vengono universalmente identificate tramite il nome di “nylon” originariamente vennero scoperte da due aziende diverse. Il primo a sintetizzare le poliammidi fu Wallace Carothers che ottenne la poliesametilenadipamide (o Nylon 6.6) in un laboratorio della DuPont di Wilmington (USA) nel 1935. Il processo di sintesi del Nylon 6,6 (realizzato a partire dall'acido adipico e da esametilendiammina) fu brevettato nel 1937 e commercializzato nel 1938. Sempre in quell’anno, in Europa, Paul Schlack, riuscì a produrre nei laboratori della IG Farben, (Germania), il Nylon 6, partendo dal caprolattame; fu brevettato nel 1941 e commercializzato sotto il nome di “Perlon”. Oltre al nylon 6 e al nylon 6,6 (la cifra che accompagna la parola si riferisce al numero di atomi di carbonio esistenti nella molecola), i nylon più diffusi industrialmente sono il nylon 11 e il nylon 12. Il nylon 6 e il nylon 6,6 presentano notevoli proprietà di resistenza alla trazione abbinate a un’elevata elasticità per cui hanno trovato larghissimo impiego nel settore tessile.
[2] Il Newton - “N” - è un’unità di misura della forza nel Sistema Internazionale; un N è la forza che applicata a una massa di 1 kg le imprime l’accelerazione di 1 m/sec².
Un deca Newton - “daN” (10 Newton) viene spesso usato perché equivale a circa 1 kg peso.
Un kilo Newton “kN” (1000 Newton) equivale quindi a circa 100 kg peso.
[3] Il Dodero (dal nome del professore francese che lo progettò negli anni Cinquanta) è l'apparecchiatura utilizzata per valutare certe prestazioni della corda e determinarne, in base al numero delle cadute sostenute in condizioni controllate di temperatura (20°C) e di umidità relativa (65%), la “resistenza dinamica”. E’ costituito da una struttura che permette cadute senza attrito di una massa metallica lungo due guide parallele. Un capo dello spezzone di corda da testare è legato alla massa (80 kg per la corda singola o per le gemellari - 55 kg per la singola mezza corda). L’altro capo della corda passa attraverso una piastra con foro circolare dal bordo arrotondato (raggio di curvatura 5 mm) detto anello fisso o orifizio, che simula un moschettone e poi bloccato a un cilindro (sistema Poller). La rottura della corda avviene di solito sull’orifizio. La massa cade a intervalli regolari di 5 minuti da un’altezza di m 2,30. Per ragioni costruttive e di geometria, quest’apparecchiatura non consente un fattore di caduta (rapporto tra l'altezza della caduta e la lunghezza di corda) pari a 2: esso risulta di poco inferiore (circa 1,77) se si tiene correttamente conto dei reali assorbimenti di energia nel ramo a monte dell’orifizio, nel Poller e nei nodi. Convenzionalmente ci si riferisce comunque a questi risultati per la qualifica delle corde.
UNA SALITA INTEGRALE
Racconto per rivivere ricordi indimenticabili o per sognare un'avventura straordinaria per la prossima estate
Luca Enrico (C.A.A.I. Gruppo Occidentale) ci racconta la salita della Cresta integrale di Peuterey alla vetta del Monte Bianco.
Salita effettuata nell'agosto 2013 in cordata con Matteo Enrico e Luca Brunati
"L'ASCENSIONE AL MONTE BIANCO PER LA CRESTA DEL PEUTEREY È UNO DEGLI ITINERARI PIÙ GRANDIOSI DELLE ALPI, IL SOGNO DI MOLTI ALPINISTI."
(ANDRÉ ROCH, GRANDI IMPRESE SUL MONTE BIANCO)
Piove, una pioggia fine e insistente, quasi già autunnale. La nebbia si sfilaccia sulle punte dei pini e su quelle delle montagne. Con la testa appoggiata al finestrino dell’autobus vedo correre vie i paesi, l’asfalto è lucido, quasi mi assopisco e vedo allora scorrere nella mia testa questi giorni incredibili appena vissuti, trascorsi. Mi sembra un po’ strano essere qui, seduto su questo sedile, lo zaino accanto a me emana l’odore della montagna. L’autobus ci scarica a Chamonix, dobbiamo attendere la coincidenza per l’Italia, ci infiliamo nel primo locale che ci sembra dare qualche possibilità di ristoro. Siamo in cinque. Oltre a me e mio fratello Matteo c’è l’amico di sempre Luca Brunati e poi i due ragazzi con cui abbiamo condiviso per caso tutta la lunga salita e la discesa. La cucina è già chiusa, chiediamo delle patatine con formaggio e ci portano, invece di uno sperato e bel pezzo di toma, un misero piatto di patatine fritte con sopra del formaggio fuso.
Chissà i due simpatici e gentili rumeni, che non hanno esitato a farci passare, dove saranno. Ci auguriamo che abbiano desistito come molti altri, trovarsi lassù ora non glielo auguriamo proprio, il tempo è terribile, una fredda bufera ha preso il posto dei giorni assolati precedenti. Già quando siamo usciti noi, oltre la cornice sommitale, un vento teso e polare ci ha investiti, foriero della perturbazione.
Quattro giorni prima. Siamo in Val Veny. E’ sempre bella questa valle e poi è l’atmosfera che si respira arrivando qui, quella che precede le salite, il rito dello zaino, l’ultima verifica all’attrezzatura. A sto giro dobbiamo proprio stare attenti a non aver dimenticato nulla. Ricontrolliamo anche le scorte di cibo, non sono molte eppure come sempre ci sembrano esagerate perché occupano prezioso spazio nello zaino. E’ tutto a posto. Chiudo l’auto e l’avventura inizia. La salita al Bivacco Borelli 2.325 m non è molto lunga ed è pure divertente grazie alla ferrata, ma bisogna stare attenti. Come un deja vu ritorno indietro di 12 anni. Eravamo qui per la Sud della Noire, solo quella ma all’epoca fu il degno coronamento di una grande stagione. Il nostro amico Marco risaliva slegato e senza casco quelle ripide scalette, un sasso lo colpì e cadde sulla terrazza sottostante, per fortuna senza gravi conseguenze. Oggi invece va tutto bene. Usciti dalla ferrata superiamo altri alpinisti, allora inizia il gioco di indovinarne la destinazione. A differenza di 12 anni fa il piccolo rifugio è pieno, è facile intuire che tutti andranno sulla Sud della Noire. Ma quanti proseguiranno per l’Integrale di Peuterey fino in vetta al Bianco? Ci sono i due ragazzi italiani che superiamo proprio all’uscita della ferrata. Poi c’è la guida svizzera con il cliente, trasuda nervosismo e guarda di sottecchi i “concorrenti” e poi ci sono i due tedeschi, uno dei due è un teutonico marcantonio con i capelli lunghi e l’abbigliamento un po’ demodè, però ispira simpatia, sembra calmo e rilassato. Poco alla volta si delineano le cordate dirette all’Integrale, sono in tutto sei, compresa la nostra.
La serata scorre via piacevolmente e presto arriva la sveglia. Io vorrei sempre partire alle ore più antelucane ma questa volta mi lascio convincere a posticipare. Siamo rimasti solo più noi tre a fare colazione. Sorseggiamo il tè con ostentata calma sbirciando dalla finestra la lunga fila di frontali già alte sulla morena. Il sottile dubbio di essercela presa con troppa calma mi sorge ma mi ricredo appena vedo accalcarsi tutti quei lumicini alla base del primo tiro della Sud. Sembrano lucciole impazzite, aggrovigliatesi in maniera inestricabile. Quando sbuchiamo dall’ultima morena gli ultimi sono ancora lì affaccendati a salire il primo tiro. Comincia a far chiaro. Attacchiamo anche noi, sono passati tanti anni ma ricordiamo vagamente i passaggi.
Adottiamo fin da subito la nostra tecnica di progressione “veloce”, assolutamente deprecabile dal punto di vista della sicurezza ma molto efficace. Richiede solo una cieca fiducia nei soci, per il resto permette di accorciare i tempi di permanenza alle soste: tiri lunghi da 80m, avanti fin che il materiale c’è. E nei pezzi più facili i secondi partono con le corde in mano. Non sembra vero eppure piano piano cominciamo a risalire il serpentone umano. Come sempre c’è chi ti lascia passare, come i due già citati rumeni, altri borbottano un po’, ma fa poi lo stesso, a sto giro decidiamo di derogare un po’ dal fair play, stasera dobbiamo essere dall’altra parte della Noire. Superiamo anche i due italiani e il crucco capelluto che sale costante ma con estrema decisione. Sono in testa io e sbuco su una delle tante torri della Sud. Alla mia sinistra lo svizzerotto sta recuperando il cliente. Si gira verso di me indispettito fulminandomi con uno sguardo degno di “Mezzogiorno di fuoco”. Il duello è ormai inevitabile. Lui riparte e sosta in mezzo al muro seguente, io recupero gli altri due e parto per il mio tiro da 80. Passo dietro al cliente che impreca in un misto tedesco-francese contro les italiens. Poi arrivo dalla guida che questa volta sbotta di brutto. Non me lo faccio ripetere due volte e gli passo sopra mandandolo a quel paese in uno stentato francese. Il successivo fare conciliante non fa sbollire le ire del povero elvetico che ancora ci impreca dietro, ma ormai siamo oltre e poco per volta lo distanziamo.
In questi viaggi può anche capitare di fare piacevoli incontri. A un certo punto qualcuno chiama mio fratello. Non si capisce nemmeno da dove arrivi quella voce, eppure chiamano proprio “Teo, Teo”. Tralasciando ipotesi fantasiose del tipo che sia la montagna stessa a chiamarci cerchiamo di capire chi sia il proprietario di quella voce. Lo scopriamo presto, troviamo Diego, un simpatico ragazzo di Val della Torre comodamente seduto su una cengia mentre assicura il socio. Sta facendo la Sud, stanotte ha bivaccato e per quello non lo abbiamo visto al Borelli. Se ne sta lì placido e sorridente con una penna di rapace infilata sul casco. Ha perso la relazione della discesa. Noi ne abbiamo una. Se tutto andrà come deve andare non ci servirà e gli promettiamo di lasciargliela sulla Madonnina di vetta. Lo salutiamo e proseguiamo, ormai le difficoltà stanno scemando e la vetta è sempre più vicina.
La discesa in doppia dalla Noire è forse uno dei tratti più temuti di questa lunga cavalcata. Ne saremo diretti testimoni il giorno seguente quando, udite le grida di aiuto di una cordata di francesi con le corde incastrate, chiameremo per loro il Soccorso. Comunque fatta ben attenzione a prendere le soste giuste senza fare calate troppo lunghe arriviamo verso il fondo dove la nostra contentezza per essere i primi viene presto tarpata da qualche bella pietra che ci piove addosso, anche se in verità non per negligenza, dagli amici tedeschi e italiani, le uniche due cordate superstiti. Di altri non c’è traccia. Attendiamo le due cordate alla fine della discesa e poi noi decidiamo di risalire al buio fin sotto la Punta Casati, dove una bella piazzola sembra attenderci per il bivacco. In verità non è proprio il più comodo dei giacigli con tutte quelle pietre aguzze anche perché non abbiamo né materassino, né sacco a pelo ma solo il sacco da bivacco. Scelta ovviamente dettata dalla leggerezza e poi…”mica abbiamo mai bivaccato con il sacco a pelo e il materassino!”. Se il letto non è dei più comodi la cena lascia pure alquanto a desiderare: qualche fetta di pallido tacchino sottovuoto accompagnata da cubetti di grana, energetici quanto si vuole ma pure alquanto stopposi. Comunque c’è la Luna, le creste e le torri che ci stanno alle spalle sembrano un castello fatato, è tutto molto bello e domani ci attende il secondo giorno di viaggio.
Il freddo che precede il sorgere del sole ci fa rimpiangere il sacco a pelo ma più che altro con l’avvento della luce la magia della sera prima si spezza un po’. In realtà constatiamo solo ciò che non volevamo vedere, e non certo a causa del buio. Queste dame inglesi sono davvero un orrido ammasso di sfasciumi. Forse quando Diemberger girò il famoso film c’era molta più neve, i cambiamenti climatici erano ancora a venire e per raggiungere il piccolo bivacco Craveri si poteva scegliere tre opzioni. Con le dita intirizzite rigiriamo tra le mani la relazione e poi scegliamo la terza. Perché è quella più elegante ed estetica e ci fa scalare i vari pinnacoli, altrimenti che integrale è! In verità dietro alla nostra etica e al nostro gusto estetico si cela la repulsione anche solo a immaginarci impegnati su quegli orrendi sfasciumi in bilico sull’abisso.
Poco prima del bivacco un provvidenziale nevaio ci permette di fare acqua. Nel frattempo arrivano le altre due cordate, i tedeschi proseguono spediti, i due italiani li troveremo a banchettare al Craveri. Da qui saliremo insieme. C’è da dire che l’accogliente ricovero esercita il potere di una sirena ammaliatrice. Sembra dirci: “fermatevi, fermatevi qui a riposare”. Per poco non ci caschiamo ma sprecare più di mezza giornata di bel tempo sarebbe assai imprudente. Anche se a malincuore riprendiamo tutti e cinque la salita.
L’estetica dell’arrampicata è certamente un’altra cosa però l’ambiente è grandioso. Noi conosciamo questi luoghi e ci dirigiamo verso il retro del Pic Gugliermina. Oggi è presto ma più su inizia la neve e quindi decidiamo di fermarci. Su una buona terrazza ci stiamo tutti e cinque. Luca andando a cercare acqua trova tra quelle pietre una vecchia e consunta coperta, di quelle in lana grigia, e prontamente la porta, come gli uccellini fanno con i ramoscelli, nel nostro piccolo nido. Per tenere al caldo il sedere niente di meglio. Che poi proprio di caldo non si può tanto parlare…Gli altri due si stupiscono nel constatare che non abbiamo né sacco a pelo né materassino. Ah ma noi ne possiamo fare a meno…anche se non lo diciamo però li invidiamo un po’.
Terzo giorno di ascensione. Adesso comincia l’ultima parte. Certo che il Bianco è ancora ben lontano, eppure molto meno di quanto lo vedessimo dalla Sud della Noire. Alla Noire si sostituisce la Blanche con la sua affilata e vertiginosa cresta. Ci sporgiamo sulla Nord pensando a chi l’ha scesa in sci, l’ambiente è grandioso, forse nulla è paragonabile su tutte le nostre Alpi. Poi su al Pilier d’Angle dove la nebbia rende l’ambiente ovattato. Dobbiamo cercare di sbrigarci. Finalmente l’ultima cresta di neve, che poi è un tratto ancora eterno, che ci porterà dritti al Monte Bianco di Courmayeur. Adesso una pesta dopo l’altra e il gioco è fatto. Peccato che le condizioni non siano così buone, due dita di neve coprono quel ghiaccio poroso, che distrugge oltre ai polpacci il cervello. Già non è il massimo per proteggersi, se poi si aggiunge che abbiamo in tutto tre viti e un solo attrezzo a testa è tutto detto. Sto di nuovo salendo io, tutto bello per carità ma non è che mi stia proprio divertendo un mondo. A un certo punto nel canale a destra si stacca un monolite di granito grande come un camion e si mette a rimbalzare sul pendio di neve. E’ impressionante. Luca riesce pure a perdere il piumino, una distrazione che quassù potrebbe costare cara. Il tempo non è più così bello, dobbiamo fare in fretta.
Questa cresta non finisce mai! A un certo punto però ecco la cornice sommitale. E’ rosa, illuminata ancora dall’ultimo Sole che dietro di lei sta tramontando. La supero ed esco. Alzo la piccozza al cielo. Il viaggio è concluso. Fa freddissimo, un vento gelido ci sferza portandoci via il calore accumulato nella salita. Saliamo in vetta al Bianco e poi giù alla Vallot. Ci fermiamo un attimo ma è sempre il solito immondezzaio e allora divalliamo al Gouter.
Qualcuno sta già salendo per anticipare il maltempo, ci sono i soliti giapponesi trainati da guide che non fanno nemmeno lo sforzo di fingere di divertirsi. Siamo sulla traccia e ci sleghiamo. Ognun per sé. A un certo punto mi siedo nella neve, mi sento svuotato di energie, ma ormai basta scendere.
"La cresta integrale di Peutérey rimarrà sempre una salita che difficilmente verrà ripetuta, infatti le probabilità di compiere l'intera scalata sono molto minori rispetto alla parete Nord dell'Eiger o allo sperone della Punta Walker, perchè le dimensioni della cresta superano quelle di entrambe le pareti, sia in altezza che in estensione: 8Km di arrampicata, discese a corda doppia, salite lungo roccia, ghiaccio e misto, contro i 2Km circa delle grandi pareti nord. Già la prima tappa, la cresta sud dell'Aguille Noire è di 2Km di scalata; poi la seconda frazione, 500mt di discesa a corda doppia lungo il verticale spigolo Nord dell'Aguille Noire, una grande incognita, soprattutto con il maltempo! L'ultimo tratto, infine, la traversata dell'Aguille Blanche, la discesa alla sella del Col de Peutérey e la salita di 900mt per raggiungere la vetta del Monte Bianco risulta tecnicamente più facile, ma certo non meno grandiosa ed impressionante".
Kurt Diemberger, rivista della montagna, n.°12, aprile 1973
Monte Bianco
Cresta Integrale di Peuterey
Ascensione effettuata nei giorni 20-24/08/2013 da Luca Brunati, Luca e Matteo Enrico
Relazione tecnica:
Dislivello: 4500m
Quota partenza: 1600m
Quota vetta/quota: 4810m
Esposizione: tutte
Grado: TD+
Località di partenza: Casolari di Peuterey
Punti d'appoggio: Rifugio Borelli - Bivacco Craveri
Note tecniche
Ascensione lunga e impegnativa, anche se mai tecnicamente difficile, rappresenta un vero viaggio alpinistico, con alcuni reali pericoli oggettivi. Questi sono rappresentati dalla discesa in doppia sul versante nord (se si incastrano, molto difficile se non impossibile risalire in molti tratti), pericolo di caduta sassi sulle doppie (soprattutto con altre cordate presenti), nell’attraversamento delle Dames Anglaises e sul Grand Pilier d’Angle, attraversamento di affilate creste nevose, possibile presenza di ghiaccio nel tratto finale.
Arrivare in giornata al Craveri è difficile, prevedere dunque un paio di bivacchi (partendo dal Borelli).
L’acqua si trova molto difficilmente e dipende molto dalla stagione e quindi dalla presenza di neve. In genere si trova alla Breche Centrale, difficilmente al Craveri (senza coperte e materassi), e poi verso la calotta della Blanche. Tenere in considerazione l’aspetto acqua.
Fondamentale il tempo ultra stabile per tutti i giorni dell’ascensione.
Le scappatoie, scesi dalla Noire, sono poche, difficili, e pericolose.
Nostre note:
Primo giorno: salita al Borelli.
Secondo giorno: cresta Sud della Noire, doppie sul versante nord e quindi risalita fino sotto la Punta Casati. Terzo giorno: attraversamento delle Dames Anglaises, risalita fin sotto il Gugliermina.
Quarto giorno: uscita sul Bianco.
Nostro materiale: 5 friends, 8 rinvii, 3 viti da ghiaccio (ma era meglio averne qualcuna in più), 1 piccozza a testa, ramponi, cordini, fornelletto e bombola nuova, frontale, scarpette, acqua (2 litri). Per coprirsi: pile leggero e pesante, giacca in goretex, piumino, sacco da bivacco, pantaloni pesanti e calza a maglia. Non avevamo il sacco a pelo e il materassino, ma devo dire l’abbiamo un po’ invidiato alle altre cordate che ce l’avevano…
Descrizione
La cresta integrale di Peuterey rappresenta un’ascensione unica nelle Alpi: un totale di 4500 metri di dislivello, di scalata su roccia come su ghiaccio, di difficoltà, di discese in doppia. Questa combinazione stupenda è senza dubbio il modo più bello di percorrere la cresta di Peuterey: ad una magnifica arrampicata su roccia, seguono un’audace discesa in doppia e il percorso estremamente vario di una cresta senza rivali nelle Alpi (guida Vallot).
L’ascensione comprende la scalata della cresta sud dell’Aiguille Noire du Peuterey, la discesa in doppia dal versante nord, l’attraversamento delle Dames Anglaises, la risalita verso le Aiguille Blanche du Peuterey passando sotto il Pic Gugliermina, la risalita al Grand Pilier d’Angle e la risalita fino in vetta al Monte Bianco di Courmayeur e quindi alla vetta principale.
Percorrere tutta la cresta sud dell’Aiguille Noire du Peuterey (vedi itinerario altrove descritto in questo sito).
Appena sotto la madonnina di vetta (circa 5-10 m), reperire il primo ancoraggio delle doppie del versante nord (chiodi). Attenzione a non prendere le doppie della forcelletta prima della vetta (quelle sono le calate della Ovest). Effettuare sempre doppie corte, reperendo (attualmente) quelle dotate di moschettone. Scendere, dopo circa tre doppie, un po’ a sx (faccia a monte), per reperire il profondo camino che porta alle cenge sottostanti la Breche delle Dames Anglaises. Circa 12 doppie.
Risalire il canalone (non andare alla Breche Sud), spostandosi progressivamente a sx, fino a giungere sotto il profondo camino della Punta Casati. Noi siamo saliti per circa 100/150 metri, poi, dove è presente una fettuccia, ci siamo spostati per una cengetta che taglia la parete da dx vs sx (non continuare nel camino!), effettuato un paio di tiri e quindi reperito la prima delle due doppie che portano alla Breche Centrale (si può anche giungere più facilmente, probabilmente, dallo speroncino di sx senza fare camino più cengetta).
Dalla Breche Centrale risalire con 2-3 tiri di corda l’Isolee, quindi con 2-3 doppie giungere al bivacco Craveri.
Spostarsi a sx per delle cenge, quindi andare verso le cenge Schneider e risalire il terreno fino sotto il Pic Gugliermina (stare a dx, non percorrere il canalone sotto la breche della punta).
Risalire in cresta, fare una breve doppia e quindi risalire vs dx per circa 100 m (versante Brenva) e quindi piegare a sx per andare in cresta (versante Freney), fino a raggiungere la neve dell’Aiguille Blanche di Peuterey.
Raggiungere la Punta Centrale, e, per una cresta molto aerea, raggiungere la punta NW. Calarsi con 4 doppie, saltando la terminale, e raggiungere il Col du Peuterey.
Da qui, superare la terminale del Grand Pilier d’Angle, a volte molto difficile, per risalire tutto il versante di questo (più o meno al centro), puntando al Grand Gendarme.
Si può evitare il Grand Pilier d’Angle per il couloir Eccles (se in condizioni), ma così facendo si svicolerà parte dell’integrale. Aggirare il Grand Gendarme sulla dx (passando dietro), e quindi raggiungere la cresta nevosa. Percorrerla tutta, non stare mai nel canale-pendìo in alto (pericolo reale di caduta sassi, visti di persona), ma stare sempre sulla cresta.
A 4500 m circa, in prossimità di rocce affioranti, andare a sx, breve passaggio su roccia, e quindi ancora cresta nevosa fino a bucare la cornice terminale (che può opporre ancora problemi) del Monte Bianco di Courmayeur.
Quindi in vetta al Bianco.
Il Club Alpino Accademico Italiano reputa inaccettabile il provvedimento liberticida della Regione Valle d’Aosta sulla pratica dello scialpinismo
Prendendo a pretesto necessità connesse con la situazione epidemica da Covid 19 la Regione Vda ha deliberato, tra l’altro, di vietare la pratica dello scialpinismo se non con l’accompagnamento di una Guida Alpina o Maestro di sci (Ordinanza n. 552 dell’11 dicembre 2020, punto 11).
Se la finalità è quella di limitare le potenziali necessità di interventi di soccorso e sanitari in questo momento delicato, la decisione appare incomprensibile sulla base dei dati statistici: le valanghe, anche di recente e anche proprio in Vda, hanno colpito sia praticanti privati sia gruppi accompagnati da professionisti.
Se viceversa la finalità, comunque non dichiarata, è quella di supportare una categoria professionale che sicuramente soffre disagi in questa situazione, la decisione appare arbitraria, discriminatoria e persino autolesionista in prospettiva futura. Possiamo infatti immaginare che anche una volta riaperta la Regione i turisti, nel dubbio o per presa di posizione, possano indirizzarsi a zone diverse, dove la libertà di movimento in montagna non ha subito queste limitazioni.
Appare quindi veramente inspiegabile sotto il profilo pratico questa disposizione, ma quello che più ci allarma è il suo significato liberticida.
Oggi con la scusa del Covid si limita con ordinanza regionale la pratica dello scialpinismo, domani potrà toccare all’alpinismo o all’arrampicata, alla mountain bike, all’escursionismo o ad altre attività in montagna perché è evidente che attività outdoor a rischio zero non esistono e pensare che sia possibile ridurre il rischio con un’ordinanza significa non aver capito molto del problema.
Il rischio si limita con politiche che promuovano attivamente la conoscenza, la cultura, la formazione e l’autoresponsabilità, riassegnando ai singoli la responsabilità delle loro scelte e l’assunzione delle conseguenze che ne derivano.
Questo non toglie, naturalmente, che i singoli comportamenti dettati da colpevole incoscienza o incapacità, da chiunque posti in essere, possano, e anzi debbano, essere sanzionati sotto tutti i profili.
Solo l’opposizione attiva, dura e senza sconti dell’intero mondo alpinistico a questo pericolosissimo precedente di limitazione arbitraria alla libertà delle persone potrà garantire per il futuro il mantenimento di quella libertà di accesso alla montagna che è presupposto non negoziabile di ogni esperienza alpinistica.
Anche il CAI ha preso posizione con l'articolo Non dividere gli amanti della montagna pubblicato su Lo Scarpone online.
Leggi anche gli articoli su Planetmountain e Montagna TV.
Il Collegio delle Guide Alpine della Lombardia prende posizione contro il provvedimento NON SIAMO D’ACCORDO
Franco Miotto se n’è andato e con lui una testimonianza importante, e sempre più rara, di alpinismo di scoperta e di avventura, in poche parole di ALPINISMO ACCADEMICO nel suo significato più profondo
a cura di Alberto Rampini
Ci ha lasciati lo scorso 7 ottobre, all’età di 88 anni, un grande interprete dell’Alpinismo con la A maiuscola.
FRANCO MIOTTO è stato Accademico per tutta la vita, quando percorreva le selvagge montagne dell’Agordino seguendo le tracce dei camosci, quando poi ha salito per vie nuove estremamente difficili e “ruvide” le grandi pareti nascoste delle Dolomiti e quando infine, più anziano, è tornato ad inventarsi i “viaz”, percorsi di scrambling, come oggi si direbbe, di difficoltà tecniche in genere contenute ma sui quali non si attenterebbero mai a mettere piede i forbiti arrampicatori del grado tecnologico attuale.
Una figura quindi di passaggio, dal carattere certamente non facile, ma che merita di essere approfondita così come l’insegnamento del suo percorso di vita verticale.
Ne tratteggia bene le caratteristiche il ricordo firmato da Ledo Stefanini e pubblicato su altitudini.it FRANCO_MIOTTO_ricordato_da_Ledo_Stefanini_su_altitudini.pdf
Innumerevoli gli altri articoli scritti in ricordo del nostro socio.
Ne proponiamo di seguito una breve scelta
Franco Miotto ricordato su Lo Scarpone
Una bella intervista su intraigiarun.com
Un ricordo diverso. Di Adriano Bee su old.altitudini.it
Infine, perchè no?, Franco Miotto come viene presentato da un reputato sito generalista
Franco Miotto raccontato da Wikipedia
Un ricordo indiretto nelle parole dei pochi che hanno avuto la curiosità e il coraggio di andare a ripetere vie selvagge e dimenticate che portano la firma di Miotto
Ripetizione della Miotto-Bee al Burel per Ballico e Roverato su Planetmountain.com
Le pubblicazioni di Franco Miotto
Ancora una volta partiamo da Forlì in direzione delle Dolomiti. Come spesso accade siamo già a Longarone e non abbiamo deciso dove andremo a scalare. Simone ed io, un mio ex studente che ho avuto il piacere di conoscere prima in classe e poi di ri-conoscere come scalatore, decidiamo di dirigerci a Santa Fosca in Val Fiorentina, per “raccattare” Fabrizio Grimandi, amico comune con il quale condividiamo allenamenti e sogni durante l’inverno.
Ceniamo e chiacchieriamo ma alle 9:30 non abbiamo ancora deciso quale parete salire: unica cosa certa è che andremo a sud, le temperature sono calate bruscamente e a nord sarebbe troppo freddo. Simone ha letto su “PlanetMountain” che sul Pomagagnon delle guide di Cortina hanno aperto una nuova via: 900m, VII+ e roccia ottima: combinazione perfetta! Gli piacerebbe farne la prima ripetizione, e a noi l’idea piace. Ci dirigiamo così ad Ospitale (piccola frazione sopra Cortina) per lasciare una macchina (in quanto la discesa dalla via avviene sul versante opposto del Pomagagnon) e poi ritorniamo a Cortina vicino all’Ospedale. Prepariamo il materiale, piantiamo la tenda e ci mettiamo a letto. La notte passa come sempre troppo in fretta e ci sveglia che ancora vorremmo sognare. Facciamo una breve colazione, chiudiamo la tenda e ci incamminiamo veloci fino all’attacco della via.
Scaliamo velocemente i primi facili tiri (dove occorre non sbagliare percorso per non finire su roccia pessima) e arriviamo alle prime lunghezze di corda difficili. Le superiamo agevolmente e, tiro dopo tiro, ci meravigliamo di quanto in questa parete, famosa per la roccia poco bella, tre giovani guide alpine siano riuscite a scovare una bella linea su roccia solida. Il morale è alto e, scherzando e ridendo, continuiamo a salire fino agli ultimi tiri difficili, che superiamo velocemente. Davvero una bella linea e davvero bravi gli apritori. Trovare un percorso con roccia ottima e difficoltà tutto sommato contenute è stata una bella intuizione.
Alle 16:00 circa siamo alla fine della penultima lunghezza, dove c’è il libro di via. Fabrizio e io lasciamo a Simone l’onore di aprirlo. “Simo” lo apre e, con grande stupore, siamo i primi ripetitori: “il sogno di Simo” si è avverato, e tutti noi siamo euforici! Saliamo in cima e in fretta ritorniamo all’Ospitale, perché tra poco si avvererà anche il secondo sogno: una bella pizza con una birra fresca!
Ceniamo, salutiamo Fabri (che per fortuna sua può restare in montagna) e ci dirigiamo di nuovo verso la pianura e la Romagna. Un avanti e indietro che mi accompagna per tutta l’estate: infatti, Francesco Piacenza, mio “fratello di Ancona” mi ha già inviato un messaggio, “prossimi giorni il tempo è bello, andiamo in Dolomiti?”.
Samuele Mazzolini (C.A.A.I.) http://www.samuelemazzolini.altervista.org/
Il punto sull’attualità e le prospettive del Club Alpino Accademico nelle relazioni presentate al Convegno Nazionale di Trento (17 e 18 ottobre 2020)
L’alpinismo di oggi è diverso da quello di qualche decennio fa ed è radicalmente diverso non solo e non tanto per l’evoluzione delle difficoltà, ma per l’approccio mentale. Questa la considerazione di base dalla quale sono partiti i relatori.
Se gli alpinisti, e in particolare gli Accademici, sono sempre stati figli del loro tempo e quindi partecipi in prima persona degli eventi politici e sociali del momento, oggi l’universo verticale sembra aver costruito barriere insormontabili attorno a sé e gli alpinisti paiono vivere in una sorta di realtà separata, nella quale i grandi eventi del mondo compaiono solo nella misura in cui determinano difficoltà o limitazioni all’esercizio di quell’unico bene supremo che è l’esercizio dell’arrampicata sempre e dovunque. E le reazioni alla pandemia attuale ne sono un esempio emblematico. Costi quel che costi il mondo non si può fermare perché noi dobbiamo arrampicare.
Ma anche rimanendo all’interno di questo mondo sospeso, le “regole” sono talmente diverse da renderlo praticamente irriconoscibile. Un tempo alpinismo e arrampicata erano scoperta e avventura, anche perché mancavano alternative, oggi sono essenzialmente prestazione atletica, che assume due valenze: quella dei big, professionisti che grazie all’allenamento intenso e all’uso di mezzi sempre più sofisticati confezionano imprese di livello irraggiungibile e quella della massa un po' amorfa ed adagiata su un alpinismo a bassa prestazione, fortemente protetto e al riparo da qualsiasi soffio di imprevisto e di avventura. Ed entrambe queste valenze, pur agli antipodi per difficoltà ed ingaggio, sembrano accomunate da un artificioso ingigantimento delle reali capacità dei protagonisti grazie ad un uso sistematico di aiuti tecnologici e più l’arrampicata è libera e difficile e più paradossalmente è artificiale.
Un tempo le vie nuove venivano aperte e basta, oggi l’apertura significa poco, la via nuova è quella della prima ripetizione, della libera raggiunta magari dopo mesi e mesi di tentativi. Tutti concetti che derivano da un approccio chiaramente sportivo anche all’alpinismo di montagna. Alcuni valori ne guadagnano, molti si perdono purtroppo per strada, come la spontaneità, l’avventura e il rischio, che erano un tempo valori cardine dell’esperienza alpinistica.
In questo contesto del tutto nuovo e in forte evoluzione, come si colloca il Club Alpino Accademico, da sempre portatore dei grandi valori di un alpinismo tradizionale oggi messi in secondo piano?
AR
Il Convegno sulle pagine di Planet Mountain
Le relazioni ed il dibattito hanno offerto molti punti di riflessione, che proponiamo con la pubblicazione del testo integrale degli interventi al convegno.
MARCO CORDIN un giovane alpinista non accademico
Abstract: è come se non ci fosse comunicazione. I giovani vedono la realtà degli accademici molto lontana
Quello che posso dire parlando da giovane e sentendo quello che dicono gli amici e anche gente forte, ben addentro al mondo dell’alpinismo, quindi gente che ne sa, è che la figura dell’accademico non è più forse tanto presa in considerazione al giorno d’oggi, e questo secondo me è un peccato. Oggi se un giovane cerca un riconoscimento prestigioso, una cosa ambiziosa, al di là dell’esercizio del lavoro, lo cerca nella patacca di guida alpina. Questa è la situazione al giorno d’oggi e io penso sia un peccato. Anche vedendo l’età media degli accademici è come se ad un certo punto fosse stato bloccato il ricambio generazionale. Anche parlando con gli amici giovani è come se non ci fosse comunicazione tra questa realtà degli accademici che noi vediamo molto lontani, tant’è che non sappiamo neanche bene come si entra nel mondo degli accademici e come funziona. E’ come se il CAI non stuzzicasse l’interesse dei giovani, ma non è che il CAI debba sforzarsi a stuzzicare l’interesse dei giovani, dovrebbe però fare una proposta costruttiva di apertura verso i giovani. Secondo me non c’è stata più comunicazione tra queste due realtà che ormai sono lontane.
ALESSANDRO GOGNA Moderatore
Dobbiamo prendere nota che non è stato formulato alcun consiglio su come risolvere questa mancanza di comunicazione sulla quale effettivamente siamo tutti d’accordo. E’ vero che non c’è, si è rotto qualcosa o non c’è mai stato, non so
GIACOMO STEFANI Past President
Abstract: Credo che l’Accademico sia sempre stato protagonista del suo tempo, non è mai stato avulso, gli alpinisti accademici hanno sempre vissuto in modo prepotente il loro tempo
Quando ho incontrato ad Arco Giuliano Bressan e mi ha chiesto di raccontare la mia esperienza e in sostanza la storia dell’Accademico mi sono sentito lusingato ma ho capito subito che non era facile fare una nota e mettere assieme tutte queste cose. Poi mi sono ricordato di quando ero al liceo e si diceva che il dubbio è l’inizio della conoscenza e ho pensato che da lì potesse partire in qualche modo la mia storia dell’Accademico. Ho pensato che si potesse parlare degli alpinisti perché sono gli alpinisti che fanno la storia e quindi ho pensato di rivedere un po' gli alpinisti accademici che ho conosciuto a volte di persona oppure perché ho salito le loro vie, le loro pareti. Andrich, Gervasutti “il fortissimo”, Carlesso, Boccalatte, Bonatti Accademico e Guida - ma ormai sembra che questa differenza giustamente non ci sia più - un idolo per noi lecchesi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo quando lui stava già smettendo e noi stavamo cominciando la nostra attività. E poi il suo compagno Oggioni, Aste che voi conoscete bene perché è di questi luoghi. Ho pensato a volte che potremmo raccontare la storia guardando le montagne, ovunque andiamo vediamo una cima e pensiamo “là ci sono stati degli Accademici”. Guardiamo ad esempio la grande parete Nord Ovest del Civetta, potrebbe da sola farci la storia dell’Accademico: abbiamo Carlesso, Tissi al Pan di Zucchero, Aste, Andrich, quelli che hanno fatto l’invernale al diedro Philipp, anche recentemente Baù, oppure Comici o se ci spostiamo più a destra abbiamo la Cima Su Alto con Piussi e i lecchesi, Ratti e Vitali. Questa montagna da sola ci può raccontare la storia dell’Accademico e quando io, come tanti altri, ho iniziato ad andare in montagna avevo in mente proprio di andare a fare queste vie, queste montagne, magari in modo un po' irriverente, ma l’idea era sicuramente di andare a fare le vie di questi alpinisti. Credo che l’Accademico sia sempre stato protagonista nel suo tempo, non è mai stato avulso, gli alpinisti accademici hanno vissuto in modo prepotente il loro tempo.
E questo fin dall’inizio. Se sfogliamo il primo Annuario CAAI del 1908, riedito in copia anastatica in occasione del centenario della sua pubblicazione, ci rendiamo conto che questi alpinisti avevano l’idea già di insegnare e mettevano quindi le basi di quelle che sarebbero state poi le scuole di alpinismo. Nella prima pagina del volume si affronta il tema identitario e si parla delle guide: “ci inchiniamo volentieri ad esse ogni qualvolta le crediamo degne ma non vogliamo ostracismi e comunque simo diversi”. Direi che al di là di queste frasi di cortesia, i nostri predecessori erano tutti avvocati, ingegneri, laureati e probabilmente non sopportavano l’idea che delle persone brave ma spesso rozze potessero avere una qualche supremazia nell’andare in montagna e si sono in qualche modo organizzati per contrapporsi a questa situazione. All’inizio i nostri predecessori erano soprattutto anche scrittori, quindi pubblicavano guide, Berti è stato uno dei primi ad entrare nell’Accademico al momento della fondazione, quindi all’epoca l’alpinismo non era forse così estremo ma c’era certamente molta cultura dietro all’Accademico. Tra le due guerre invece la parte alpinistica di difficoltà assume un aspetto più importante, spinta anche dal fascismo che era parte integrante della vita di molti e per praticare l’alpinismo ad un certo livello bisognava comunque avere l’imprimatur del fascio. Ne sanno qualcosa i nostri concittadini che hanno fatto il Badile e che hanno ricevuto un telegramma di congratulazioni dall’allora segretario del partito fascista Starace e hanno ricevuto l’invito a presentarsi a Roma in presenza del duce con “pantaloni alla zuava, giubbetto, camicia e cravatta nera, scarpe da passeggio, capo scoperto” per ritirare una medaglia e la cosa si è ripetuta poi l’anno dopo con le Jorasses. Due telegrammi anche da parte dell’allora presidente dell’Accademico Aldo Bonacossa che si congratulava e soprattutto diceva “non potevi dare risposta più clamorosa all’Eiger”. C’era ovviamente allora questo nazionalismo spinto che portava le persone a contrapporsi. Però l’Accademico è anche diverso, ci sono state persone come Ratti, che era compagno di Cassin e probabilmente non era inferiore a Cassin e quindi ha fatto anche delle belle salite da solo, che poi è entrato nella resistenza e il 26 aprile è morto da partigiano nella liberazione di Lecco.
Il dopoguerra porta rinascita e speranze e leggendo i nomi di coloro che sono entrati all’Accademico in questo periodo, fino agli anni ’60-65’ troviamo tante persone, e alcune le abbiamo conosciute personalmente, che hanno lasciato un’impronta: noi leggiamo un nome e sappiamo ciò che quella persona ha fatto. In realtà era una rinascita dell’Italia e dell’alpinismo. C’erano meno avvocati ma più lavoratori con la loro voglia di ritornare a fare qualche cosa dopo la guerra.
Si comincia con l’alpinismo extraeuropeo perché allora tutte le grandi nazioni dovevano conquistare una cima e l’Italia raggiunge il K2 con capospedizione Ardito Desio, che era un Accademico, e con diversi componenti accademici, tra i quali anche Bonatti che come dice la storia certamente non ha demeritato.
Oppure il G4 nel ’58, spedizione guidata da Cassin e con Mauri e Bonatti in cima.
Dicevo che l’Accademico non è fuori dal mondo. Quando comincia il ’68 comincia il ’68 anche nell’alpinismo con il nuovo mattino e c’è una contestazione della degenerazione dell’alpinismo eroico e un tentativo di fondare un nuovo umanesimo della montagna. Il simbolismo della cima sparisce e l’ascensione non è più un mezzo per raggiungere la vetta e quindi cambia molto quella che è la percezione dell’alpinismo. Vengono poi gli anni di piombo e anche qui gli accademici non si tirano indietro, Guido Rossa era un anticipatore della rivoluzione culturale che poi sarà portata avanti da Motti ma era anche una persona, un sindacalista che ha avuto un impegno civile e morale senza tentennamenti ed è stato ucciso come sindacalista dalle brigate rosse il 24 gennaio del ‘79. Nel 2013 sono stati festeggiati i 150 anni del Club Alpino Italiano e siamo stati invitati a Roma al Quirinale dall’allora Presidente Napolitano e mi hanno chiesto di fare una relazione di due minuti e io ho raccontato solo questi due episodi Ratti e Guido Rossa per far capire come l’Accademico non è solo fatto di forti alpinisti ma anche di persone che sanno vivere il loro tempo e se ne prendono la responsabilità. Però con il passare del tempo il CAI diventa un enorme contenitore di attività di montagna e l’alpinismo ne occupa una parte sempre minore e questo lo vediamo sfogliando la Rivista Montagne 360 e ce ne accorgiamo tutti i giorni. Fortunatamente, e questo devo dire che durante la mia presidenza ho potuto constatarlo, al CAAI viene riconosciuto, dalla dirigenza del CAI, di essere un po' l’anima storica dell’alpinismo e quindi ogniqualvolta c’era una qualche manifestazione venivamo comunque interpellati. Cito ad esempio il libro che è stato fatto per le 150 vette, la manifestazione credo più importante per i 150 anni del CAI, ed è stato l’Accademico che si è preso il compito di organizzarla, di affidare alle singole Sezioni la possibilità di scalare delle cime e alla fine di farne un libro. E questo credo che sia alla fine un segno di fiducia che il CAI ha nell’Accademico. Saper fare, e quindi saper scalare, è sempre stata la nostra capacità. Quello che invece non siamo mai stati capaci di fare è "far sapere" e quindi quello che dobbiamo sforzarci di fare è proprio "far sapere".
Lo facciamo con i nostri Convegni annuali, ai quali poi si sono aggiunti incontri con altre associazioni di montagna, con le Guide nella cui presidenza abbiamo trovato grande disponibilità, e con la Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo e anche con associazioni che in qualche modo promuovevano delle attività culturali, come ad esempio il Premio Carlo Mauri e naturalmente credo che un ringraziamento particolare vada a Mauro Penasa che da tantissimi anni cura l’uscita dell’Annuario CAAI che è il nostro simbolo che tutti ci invidiano. Importante anche il sito web, che è stato cambiato diverse volte, che non ha ovviamente, e non potrebbe avere, la plasticità di un sito come Planet Mountain, ma è importante per dare informazioni e tenerci aggiornati.
Naturalmente non ci sono solo rose, ci sono anche le spine. Nel 2008 c’è stato un gruppo di alpinisti che ha fondato una associazione chiamata GAISA Gruppo Accademico Italiano Sciatori Alpinisti e quindi come sciatori volevano diventare Accademici . C’è stata una contesa che alla fine ci ha visti vincitori con una delibera del CAI nella quale si affermava che il termine Accademico poteva essere riferito soltanto al nostro gruppo. E questo secondo me è importante perché ci è stato ulteriormente riconosciuto quello che abbiamo fatto. Ma il tempo cambia è c’è poi il tema dell’ecologia, la difesa della montagna e la nascita di Mountain Wilderness a Biella 33 anni fa avviene in un Convegno promosso dal Club Alpino Accademico Italiano e da altre associazioni ovviamente ma in primis il CAAI e la Fondazione Sella. Ma anche la difesa della libertà in montagna è una cosa importante: L’Osservatorio, che è gestito in modo prevalente da Alessandro, e molto bene, ma nel quale l’Accademico ha dato il suo contributo. E il Clean Climbing: vogliamo un ambiente pulito? Ecco che il trad, il clean climbing è il modo migliore e l’Accademico sta cercando di portarlo avanti nel modo più possibile efficace. I filosofi greci, padri della cultura Occidentale, dicevano che non vi è nulla di immutabile tranne l’esigenza di cambiare. E questa esigenza di cambiare l’abbiamo vista anche noi quando si è trattato di cambiare lo statuto del CAAI, Art 19 comma C che ci dice oggi che il socio accademico che diventa guida può rimanere a tutti gli effetti socio purchè lo richieda espressamente. E’una cosa che ha fatto soffrire molte persone, che ha in parte diviso l’Accademico, ci sono state dimissioni. Io l’ho vissuta da presidente due volte nel 2011 quando la proposta era stata bocciata per due voti e uno era il mio e l’altro quello del mio compagno di cordata Sergio Panzeri, che veramente non volevamo una cosa del genere. Tre anni dopo è passata con pochi voti, perché chiaramente con gli anni cambiano le cose, cambiano le persone, cambiamo noi e come ho detto prima non c’è nulla di immutabile salvo la necessità proprio di cambiare.
L’ultima nota è per una persona che conoscevo ovviamente di fama ma che ho avuto modo di conoscere personalmente quando ero presidente e con la quale ho mantenuto una continua frequentazione letteraria, è stata una persona di una grandezza che faccio fatica ad immaginarne un’altra uguale. Mi ha fatto capire molte cose, una persona limpida e voglio proprio concludere con quello che lui mi scriveva, riportato da Dante. Dante si riferiva all’amore per Beatrice mentre lui si riferiva all’amore per la montagna: “Intender non può chi non lo prova”.
RAMPINI ALBERTO presidente generale
Abstract: credo che il socio Accademico debba avere, anche per immagine e bagaglio culturale, un’esperienza molto ampia di zone, gruppi montuosi e, perché no, di alpinismo extraeuropeo. Inoltre qualità morali indiscusse e profilo culturale di adeguato spessore debbono tornare ad essere elementi fondamentali nello skill del candidato accademico
Come tutti voi ben sapete, l’Accademico nasce nel 1904 con la finalità di avviare scuole di alpinismo che rendessero autonomi gli alpinisti che volevano salire le montagne in autonomia, senza avvalersi dell’accompagnamento di guide. Per fare questo, l’Accademico radunò attorno a sé come soci i migliori alpinisti non professionisti dell’epoca.
La finalità prima, quindi, era la mission, fare scuola, e l’elevato profilo tecnico e culturale dei soci era funzionale a questo obiettivo, non era fine a sé stesso.
Addirittura all’inizio non si parlava di curriculum dei soci, poi si cominciò a richiederlo, infine il curriculum divenne determinante nel momento in cui il CAAI, assieme al CAI, divenne negli anni 30 una associazione di regime aderente al CONI e acquisì un profilo decisamente orientato verso lo sport arrampicata e alpinismo.
Ma assieme al curriculum tecnico eccezionale il socio doveva dare garanzia di qualità morali e culturali pure di eccellenza.
Nelle modifiche successive del nostro Statuto il curriculum tecnico acquisisce sempre maggior rilievo mentre i requisiti di moralità a cultura vengono progressivamente ridimensionati.
Anche la finalità originaria del CAAI – fare scuola – viene meno nel momento in cui nascono le Scuole di Alpinismo del CAI e la relativa Commissione Nazionale Scuole. Esse nascono negli anni cinquanta su iniziativa di soci del CAAI e i dirigenti e gli istruttori sono in buona parte Accademici, ma la funzione “scuola” esce dalle attività istituzionali del CAAI.
Nello Statuto del CAAI rimane la finalità generica di promozione dell’Alpinismo e la qualità dei soci si basa principalmente su un curriculum tecnico e in via accessoria su attività di carattere culturale, esplorativo e organizzativo. Nella pratica invalsa, tuttavia, il focus è esclusivamente sull’aspetto tecnico del curriculum.
Ma vediamo questi due aspetti, Curriculum tecnico e profilo etico/morale/culturale.
Curriculum tecnico
In base al Regolamento CAAI si richiede che l’Accademico abbia svolto attività alpinistica di particolare rilievo per almeno cinque anni e il Regolamento della Commissione Tecnica precisa che " L’attività alpinistica di particolare rilievo, alla quale è fatto riferimento in tale articolo, deve essere stata compiuta da capo-cordata o a comando alternato, e deve corrispondere a una delle seguenti alternative:
Appare chiaro che Attività alpinistica di particolare rilievo, salite di difficoltà estreme, salite con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme, anche se devono essere riferite al periodo storico in cui le salite sono state compiute, sono concetti piuttosto vaghi e difficili da standardizzare. Tant’è vero che diversi tentativi di materializzare questi concetti in un “metodo” scientifico di valutazione hanno manifestato la loro inadeguatezza (metodo Manera, Metodo Scalet) e così anche i tentativi più pragmatici di individuare tipologie di salite di riferimento non hanno riscosso condivisione pacifica.
Il criterio pragmaticamente adottato è quello di considerare estreme le salite che rappresentano il top della difficoltà raggiunta dall’alpinismo nel periodo storico di riferimento. Questo concetto ha funzionato egregiamente per anni ma ha manifestato tutta la sua inadeguatezza sicuramente da oltre un decennio a questa parte, da quando cioè il livello dell’alpinismo è stato alzato in modo eclatante sotto la spinta della prestazione sportiva, diventando uno sport estremo. E questo sport estremo, a questi livelli, è oggi appannaggio esclusivo di una ristrettissima elite di atleti sostanzialmente professionisti.
E’ di tutta evidenza che la figura del socio accademico non può identificarsi in questa categoria di atleti e il CAAI non può essere portavoce di questa tipologia di alpinismo sportivo estremo. O perlomeno solo di questo. Ci fa molto piacere che alpinisti estremi condividano anche idealità dell’Accademico e ne facciano parte ma dobbiamo renderci conto che il CAAI non può rappresentare solo questa categoria di alpinisti, che è avanguardia della difficoltà ma chiaramente non rappresentativa del mondo alpinistico diffuso, compreso quello di difficoltà estrema alla portata dell’alpinista non professionista. E qui affrontiamo un altro tema rilevante, quello del professionismo. L’Accademico è per sua natura e statuto associazione di alpinisti per diporto, generalmente del tempo libero, non professionisti. E di questo occorre tener conto nel dare un significato concreto ai termini di cui dicevo prima: Attività alpinistica di particolare rilievo, salite di difficoltà estreme, salite con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme.
In altre parole, secondo me, l’alpinista accademico “tipo” deve tornare ad essere non l’alpinista più forte in assoluto ma l’alpinista che presenta un curriculum di vie estreme per il periodo storico e per un non professionista, cioè una persona normale, che magari lavora, magari ha una famiglia, magari è anche impegnato nel CAI.
Ma non pensiate che con questo io intenda abbassare l’asticella di ammissione. Anzi!
Secondo me ad un parziale ridimensionamento del curriculum tecnico (non solo atleti fuoriclasse professionisti ma anche alpinisti estremi davvero anche se non atleti professionisti) si dovrebbe accompagnare una valutazione di più ampio respiro del curriculum stesso e un apprezzamento obbligatorio di attività veramente accademica, di avventura e di esplorazione. Oltre a requisiti culturali di cui parlerò dopo.
Torniamo al curriculum. Il curriculum deve essere ovviamente di qualità, le vie lunghe, difficili e di avventura, vie che un alpinista pur bravo in genere non affronta, e deve offrire l’immagine di una persona preparata tecnicamente, ma anche curiosa, amante della montagna e dell’avventura, dell’esplorazione di posti nuovi, che si mette in gioco su terreni diversi. Secondo me per valorizzare una significatività e rappresentatività della figura dell’accademico uno sbarramento necessario è quindi quello delle vie nuove: un Accademico non può non aver aperto vie nuove, la differenza tra un protagonista e un ripetitore è fondamentale e l’Accademico deve essere protagonista e indicare una strada, anche su come e dove si apre una via. E questo rimane nella storia dell’alpinismo.
Inoltre credo che l’Accademico debba avere anche per immagine e bagaglio culturale un’esperienza molto ampia di zone, gruppi montuosi e, perché no, di alpinismo extraeuropeo.
Non sostengo questo solo per un fatto di affezione, perché il mio curriculum personale rientra in questa categoria (e avrei quindi potuto essere presentato anche in un altro Gruppo), ma perché sono fermamente convinto che un curriculum anche estremo ma non diversificato è più proprio di uno sportivo che di un Accademico.
Guardando alla mia esperienza personale, sono contento di avere svolto un’attività completa. Sono entrato nel Gruppo Orientale ma avrei allo stesso modo potuto entrare nel Gruppo Occidentale.
Questo per quel che riguarda il curriculum.
Ma, come dicevo, l'impegnativo curriculum sopra delineato non deve essere l'unico elemento preso in considerazione. Se questo curriculum vale a qualificare la statura tecnica della persona, per qualificare la figura del socio accademico devono esserci ulteriori elementi. Profilo etico e profilo culturale.
Profilo etico
Non possiamo fare un processo alle intenzioni ma possiamo analizzare il curriculum e i comportamenti per capire se il candidato si è mosso e si muove in sintonia con i principi della nostra associazione. E lo possiamo dedurre dal carattere del curriculum, dal carattere in particolare delle vie aperte, dall'attività divulgativa e operativa nei vari ambiti in cui la persona ha operato e opera. La coerenza del socio accademico con i principi dell'associazione non può essere solo teorica ma deve guidare i comportamenti concreti. L'Accademico deve essere un esempio di comportamento corretto e coerente.
Profilo culturale
Siamo tutti convinti, credo e spero, che L'Accademico sarebbe ben poca cosa se si risolvesse in un semplice titolo onorifico. L'Accademico come associazione e quindi i singoli soci accademici sono investiti di una mission, che potremmo sintetizzare così: promuovere, o forse oggi sarebbe meglio dire tutelare, una forma di alpinismo d'avventura, creativo, poco invasivo, rispettoso della storia, dell'ambiente e basato sulle capacità dei singoli.
Per promuovere questi ideali i soci devono avere un adeguato profilo culturale e di iniziativa e questo si può ricavare dall'esame di quello che un candidato ha fatto (oltre le scalate): pubblicazioni, articoli, conferenze, partecipazione al dibattito sull' alpinismo, impegno didattico orientato ai principi del CAAI ecc ecc.
Il curriculum assicura il livello tecnico, il profilo culturale assicura le basi per poter contribuire alla mission dell'Accademico.
Perché facciamo parte del CAAI e siamo orgogliosi di farne parte? Per soddisfare la nostra ambizione? Forse anche, ma soprattutto per contribuire assieme agli altri soci a promuovere un alpinismo che ci piace e nel quale crediamo.
Ecco quindi che qualità morali indiscusse e profilo culturale di adeguato spessore debbono tornare ad essere elementi fondamentali nello skill del candidato accademico.
Quindi, concludendo in estrema sintesi:
A . Curriculum Alpinistico tradizionale di eccellenza, vario, su tutti i terreni e completo di spedizioni e vie nuove.
B. Profilo culturale elevato, comportamento alpinisticamente coerente
Ultimo punto al quale voglio fare cenno è quello relativo alla necessità di individuare canali di comunicazione e spunti per catalizzare l’interesse dei giovani. Credo che il CAAI in modo particolare, ma anche l’alpinismo più in generale, non possa e non debba diventare un’attività di massa, per cui, diversamente da tante altre Sezioni del CAI e dal CAI stesso, a noi non interessa aumentare il numero dei soci ma piuttosto tenerne alta la qualità e favorire l’ingresso di alpinisti giovani. Questo è veramente uno degli obiettivi fondamentali che dobbiamo perseguire per il rinnovamento del corpo sociale. E i dati che vi ho illustrato prima credo non necessitino di ulteriori commenti. Ma di queste problematiche parleranno poi nel loro intervento Samuele e Francesco.
MAURIZIO GIORDANI Accademico e Guida Alpina
Abstract: ritengo che l’alpinismo si sia spostato da un alpinismo di avventura (e tutti facevano quello perché c’era solo quello) ad un alpinismo sportivo, nel quale alcuni propongono grandi salite e la maggior parte delle persone scala, e scalano molte più persone di prima, ma su cose più normali, chiamiamole così. E’vero che si fanno delle cose eccezionali ma si riescono a fare solo perché c’è una montagna di tempo, di disponibilità, di materiali, di allenamento e questo è un po' falsato rispetto alle reali capacità di un arrampicatore, viene tutto ingigantito
Il tema che cercherò di sviluppare sicuramente non è semplice, perché l’alpinismo come è oggi lo vediamo ma dove andrà l’alpinismo nel futuro è davvero difficile da immaginare. Partiamo da un dato: guardandoci intorno oggi qui in sala sorge spontanea una domanda: i giovani dove sono? I giovani dell’Accademico ci sono stati e ci sono, io sono entrato a 25 anni così con tanti dei miei amici con i quali scalavo in quel periodo, allora si entrava a 25/30 anni e anche prima però poi magari molte di queste persone si disperdevano o non partecipavano alla vita sociale cosa che è importante. Questo permette anche di fare delle domande: cosa sta succedendo? Ci sono meno persone che arrampicano? Che fanno alpinismo? Non credo. Prima di venire qui ero questa mattina ad arrampicare in Valle del Sarca e quando sono in parete mi guardo intorno e devo essere sincero e dire che sulle pareti della Valle del Sarca c’erano decine e decine di cordate, cosa che sicuramente non capitava 20 o 30 anni fa quando sicuramente non c’era tanta gente che scalava. E quindi ci domandiamo: che tipo di alpinismo stanno facendo queste persone, questa quantità di persone che sta attaccata alla roccia? E’ anche abbastanza semplice dare una risposta. Se andate in Valle del Sarca e guardate vi rendete conto: ci sono pareti alte anche mille metri ma il 90/95% delle cordate le trovate nei primi 200 metri. Se poi con il binocolo alzate gli occhi verso l’alto e cercate qualcuno nella parte alta delle pareti è difficilissimo trovare qualcuno. Questo è un segnale che il mondo è cambiato ed è andato verso la direzione di comodità, di accesso facile, di togliersi le problematiche che ti potrebbero creare delle cose inaspettate: restiamo comodi, restiamo vicino a casa, restiamo sulle vie che conosciamo, dove tutto diventa più facile. Questa convinzione di come stanno andando le cose mi è stata un po' confermata da spunti venuti da analisi fatte anche in altri campi dell’attività umana: ci sono stati nella storia periodi in cui è venuto meno l’entusiasmo, ci sono stati invece periodi di grande crescita culturale ed economica, nei quali le persone gareggiavano a portare entusiasmo e a diffonderlo e quindi c’erano grandi cambiamenti in atto, veloci, che hanno portato l’evoluzione e il cambiamento. Si può pensare positivo o negativo, comunque qualcosa di importante è cambiato. Negli anni del boom economico sappiamo tutti cosa è successo nel nostro Paese, tutto diventava più florido, più facile, più interessante. Ci sono stati di contro altri periodi nei quali tutto si è smorzato. Io questo smorzamento lo vedo anche oggi nella nostra società. Non c’è più la rincorsa a migliorarsi in maniera importante, tutto è diventato un po' più rilassato, un po' più monotono, chiamiamolo “normale “ se vogliamo. E nell’alpinismo mi sembra sia successo più o meno la stessa cosa: è cambiata la qualità di quello che si fa. Naturalmente mi rifaccio alla mia esperienza personale, a come scalavo qualche anno fa o negli anni ’80: si ricercava l’avventura, la via nuova, cose un po' particolari.
Volevo prendere spunto da un libro che sicuramente qualcuno ricorderà “Sentieri verticali” un libro del 1987 che dava un quadro molto preciso di quello che stava succedendo e di quello che era successo in alpinismo fino a quel momento. Rileggendo recentemente alcuni capitoli, mi è venuto da pensare che cosa succedeva su alcune grandi pareti delle Dolomiti come Civetta o Marmolada, e parlo solo di queste perché sono casa mia e le conosco meglio. Con mezzi molto limitati, pochi chiodi, si superavano pareti selvagge affrontando difficoltà certamente non pari a quelle di oggi ma sicuramente da non sottovalutare, anzi.
Che cosa è successo oggi? Secondo me ci si è un po' allontanati da questo modo di scalare, la spinta verso l’approccio sportivo all’arrampicata ha ovviamente costretto l’arrampicatore a rivedere i mezzi di protezione perché salire una via di ottavo grado con quattro chiodi come si faceva sul sesto è ovviamente difficile quindi ci si protegge maggiormente per cercare di elevare la potenzialità fisica dell’arrampicata sportiva. Questo è successo e sta succedendo sempre di più. Il problema che io vedo nella diffusione di questo modo di fare è che elevare sempre di più la potenzialità fisica dell’arrampicata o si è professionisti e si fa solo quello oppure bisogna essere dei superdotati ma siccome tutti noi abbiamo due mani e due gambe i limiti dell’arrampicatore normale sono reali. Questa corsa all’irrealtà è un po' il problema di oggi: ci vogliamo proporre come dei supermen, dei supereroi dell’arrampicata, cosa che non possiamo essere, per varie ragioni.
Sarebbe molto più semplice fare qualche passo indietro verso la realtà di quello che possiamo fare e accontentarcene perché volere sempre di più, rincorrere verso l’alto la scala delle difficoltà comunque sia ci allontana da quelle che sono le nostre reali potenzialità. Leggevo su internet che per salire la via Quo Vadis al Sass dla Crusc Nicola Tondini, uno degli scalatori più eccezionali che ci sono, per riuscire a liberarla ha fatto 29 voli provando e riprovando finchè alla fine è riuscito nell’impresa. Io, col mio modo di pensare, se penso a 29 cadute penso che avrei dovuto morire 29 volte mentre facevo quel tentativo perché non ero all’altezza di passare senza la caduta e quindi ho avuto bisogno di un grande aiuto psicologico, fisico, di materiale per riuscire a proporre quel grandissimo exploit che è salire un nono grado su una parete delle Dolomiti. E questo mi fa pensare che effettivamente potrei non esserne stato all’altezza anche se poi alla fine a forza di tentativi a forza di provare e riprovare sono riuscito nell’intento. Però il mio intento l’ho portato a termine in che modo? Eticamente parlando in un modo che mi piace o in un modo che non mi piace? Personalmente sono convinto che questo modo non mi sarebbe piaciuto. Io sono sempre stato un ricercatore dell’incognita, dell’avventura, se una cosa riesco a catturarla al volo provando le varie emozioni di incognita appunto senza preparare a fondo quello che sto facendo mi dà un’enorme soddisfazione. Ma il lato sportivo è diverso. Noi allora scalavamo in quel modo nei nostri anni, non ci sarebbe mai venuto in mente di tornare sulla Via dell’Irreale o su Fantasia per cercare di liberarla: la via è nata così e così mi aveva dato soddisfazione. Il problema è che nessuno è più tornato a cercare di salire su queste vie quindi ci siamo allontanati effettivamente dall’alpinismo. Nella conclusione del libro di Sandro “Sentieri verticali” leggevo “…è ancora troppo presto per giudicare…” (parlava di alcune vie che avevo aperto in Marmolada) sono passati 35 anni e queste vie non sono ancora state ripetute quindi vuol dire che se era presto trentacinque anni fa oggi dove siamo finiti? Cosa abbiamo davanti? Ci siamo allontanati dalla possibilità di andare a toccare con mano quello che si faceva 30/40 anni fa. E ci siamo allontanati per una semplice ragione: perché ci siamo abituati alla comodità, alla comodità di approccio, alla comodità di protezione, alla diminuzione di rischio… non la sto vedendo come una cosa negativa, intendiamoci, è solo una valutazione di quello che succede. Questa incapacità, che riguarda anche me, perché anch’io scalo così oggi perché a sessant’anni non ho forse più la voglia di andare a fare quello che facevo a venti e quindi scalo in maniera diversa, vado un po' più prudente forse, però quello che facevo negli anni ottanta non era una situazione di rischio, mi sentivo sicuro a scalare in quel modo, con poche protezioni, cercando di limitare l’uso del materiale il più possibile, perché non ho mai azzardato in quello che facevo, ho sempre cercato di arrampicare in maniera molto sicura. Quello che facevo era semplicemente avvicinare IL MIO GRADO DI SCALATA REALE al grado che poi riuscivo a fare realmente in parete, senza esagerare.
Oggi devo dire che gli itinerari più importanti, ad esempio in Dolomiti, sono diventati praticamente irraggiungibili e le vie più famose, quelle che si trovano nei libri di storia, sempre meno persone sono disposte, non capaci, perchè non sto mettendo in discussione la capacità di chi scala al giorno d’oggi, anzi abbiamo visto che in casi eccezionali personaggi come Matteo della Bordella, come Nicola Tondini e tanti altri fanno delle cose eccezionali. Quindi le cose eccezionali si fanno anche oggi, quello che oggi ci ha allontanati un po' è il riuscire a riproporre un modo di scalare avventuroso e questo allontana un po' la massa dalle grandi salite che alla fine sono state e sono quasi dimenticate.
Ma vorrei sentire su questo il parere di Alessandro Gogna, visto che proprio dal suo libro ho tratto ispirazione per avviare il mio discorso. Cosa ne pensi di quello che succede? Ad esempio quest’anno ho telefonato a Dante Del Bon al Rifugio Falier in Marmolada e gli ho chiesto: ”mi sai dare un’idea di quante cordate nel 2020 sono arrivate in cima alla Marmolada?” Mi sembrava questa una cosa curiosa da sapere. Allora vi posso garantire che nel 2020 sono arrivate in cima alla Marmolada per la Parete Sud meno cordate che in un sabato di bel tempo del 1985. Tu Alessandro cosa ne pensi di questa situazione? La stessa domanda la posso fare a Marco Cordin, che è un forte arrampicatore e giovane e quindi con lo stesso entusiasmo che avevamo noi allora. Perché se più nessuno va a scalare su un certo tipo di vie, quale è il motivo? Ho citato la Marmolada, ma lo stesso vale per il Sassolungo e per tante altre grandi pareti, ma se vai al Falzarego fai fatica a trovare vie libere, praticamente devi fare la coda mentre se vai in Marmolada il Rifugio è praticamente vuoto e le cordate non ci sono.
Risponde Marco Cordin: "sono praticamente d’accordo con te, oggi c’è più spinta verso la comunità. Ti faccio un esempio: quando recentemente siamo andati a fare la Via del Pesce nella parte alta della parete non c’era praticamente nessuno, la maggior parte delle cordate arriva fino alla cengia e poi scende e allo stesso modo ad esempio si vanno a cercare quelle vie sullo Specchio, vie di difficoltà più elevate ed effettivamente è più comodo fare la metà più difficile della via e poi scendere piuttosto che farla tutta e portarsi dietro il materiale per scendere dal ghiacciaio eccetera".
Ma tu, dal tuo punto di vista di giovane, vedi anche tu che c’è stato un allontanamento da un certo tipo di alpinismo che si faceva anni fa o secondo te comunque c’è un interesse che viene mantenuto verso un certo tipo di scalate e di alpinismo?
Risponde Marco Cordin: “Io sono convinto che sia molto cambiato, soprattutto verso l’avventura ma vista sul lato dell’alta difficoltà. Se a uno che inizia a scalare gli racconti di queste vie, la prima cosa che ti chiede è “Ma che grado è?” piuttosto che chiederti quanti giorni siete stati su o come è stata l’avventura. Si cerca soprattutto il gesto tecnico e atletico sull’alta difficolta piuttosto che l’avventura”.
Sì, è vero, ma questo è riservato a pochissimi big, per cui possiamo affermare che esistono dei picchi di capacità che escono dalla normalità per cui ci sono personaggi che propongono grandi ascensioni prevalentemente sportive e dall’altra parte c’è una massa che si è un po' adagiata su ascensioni meno impegnative, meno scomode, meno rischiose e un po' più facili da portare a casa. Più divertenti magari e il termine plaisir nasce proprio da questo.
In conclusione quindi ritengo che l’alpinismo si sia spostato da un alpinismo di avventura (e tutti facevano quello perché c’era solo quello) ad un alpinismo sportivo, nel quale alcuni propongono grandi salite e la maggior parte delle persone scala, e scalano molte più persone di prima, ma su cose più normali, chiamiamole così.
Moderatore: dagli interventi di Giordani e Cordin emerge chiaramente come sia cambiato il senso dell’avventura. Se è vero che Tondini, che stimo molto come alpinista e come persona, si permette di volare 29 volte su un tiro in montagna e sopravvive mentre Giordani, come ci ha detto, ai sui tempi in quella situazione sarebbe morto 29 volte, è evidente che qualcosa è cambiato, anzi molto è cambiato. L’avventura è diversa e questo diverso è dato sicuramente dal discorso sportivo e dal fatto che si siano delle protezioni che ti permettono di fare questi 29 voli.
Giordani: questo mi porta a pensare che l’arrampicata di oggi, pur nella crescita esponenziale delle difficoltà che si riescono a fare, è molto più artificiale di quella che faceva Comici sulla Civetta con sei chiodi attaccati all’imbrago. Mi viene da pensare che è vero che si fanno delle cose eccezionali ma si riescono a fare solo perché c’è una montagna di tempo, di disponibilità, di materiali, di allenamento e questo è un po' falsato rispetto alle reali capacità di un arrampicatore, viene tutto ingigantito.
Moderatore: sono anche tante le regole del gioco che stanno cambiando: quando un Comici, un Cassin, un Giordani, chi volete, quando arrivavano in cima a una via, la via era fatta. Adesso no, non è più così, c’è chi arriva in cima e non lo dice neanche, aspetta un mese, due mesi, sei mesi, quel che serve, fino a quando riuscirà a percorrerla in libera. Solo allora si parla di prima ascensione.
Giordani: in effetti oggi spesso non si conosce come è stata aperta una via mentre la storia dell’alpinismo ha sempre insegnato che il valore di una salita era dato dal come veniva aperta. E’vero, è già da qualche anno che la prima ascensione viene nascosta e viene proposta la prima ripetizione, mai la prima ascensione.
Moderatore: questo la dice lunga sul discorso sportivo, che ha preso il sopravvento. La via è aperta quando viene ripetuta in libera, prima non è niente, sei solo passato di lì, ma la via non esiste. Un tempo questo era alpinisticamente valido, adesso “l’alpinisticamente valido” è stato soppiantato dallo "sportivamente valido”.
Giordani: vorrei alla fine dare qualche indicazione in ordine all’altro tema del convegno, relativo alla collocazione attuale e alle potenzialità dell’Accademico, per esserci ed esserci in modo importante. Mi piacerebbe che il mondo accademico potesse dire la sua nella storia dell’alpinismo, in maniera ancora più importante di come lo fa oggi con l’Annuario, che è sicuramente una delle pubblicazioni più importanti che abbiamo, però sarebbe bello che fosse disponibile un archivio dell’alpinismo, una enciclopedia dell’alpinismo gestita da una commissione di accademici, gente preparata, competente che può dare le indicazioni di quello che è stato fatto e di quello che si fa. Sappiamo benissimo che al giorno d’oggi l’informazione alpinistica è prevalentemente in mano ai giornalisti e questa non è una garanzia di chiarezza e spesso le notizie che arrivano sono distorte, falsate o spesso tanto “si dimentica” di dire. L’Accademico potrebbe gestire una sorta di Wikipedia della montagna.
ANSELMO GIOLITTI Accademico
Abstract: presento le conclusioni del Gruppo di Lavoro volte ad evidenziare nel modo migliore possibile l’attività accademica del candidato, sia essa di stampo più classico ma di “grande respiro”, o piuttosto rivolta in modo particolare verso una specializzazione in una particolare disciplina
LINEA GUIDA PRESENTAZIONE ATTIVITA’ CANDIDATI CAAI
La presente “Linea guida” non rappresenta un obbligo assoluto da rispettare da parte dei Presentatori e del candidato, si tratta piuttosto di consigli, di un indirizzo il cui intento mira ad evidenziare nel modo migliore possibile l’attività accademica del candidato sia che essa sia di altissimo livello, sia di stampo più classico ma di “grande respiro”, o ancora rivolta in modo particolare verso una specializzazione in una particolare disciplina
La modulistica che deve essere compilata si compone di sei parti distinte :
vie di alta difficoltà (ripetizioni, nuove aperture, solitarie, invernali)
in questo modulo vanno indicati i cinque anni migliori con 10/15 vie per ogni singolo anno.
L’attività alpinistica dovrà essere scremata riportando solo vie su roccia, ghiaccio o misto, significative, dal TD/TD+ e con lunghezze significative. Evitiamo vie di difficoltà inferiore al TD, sempre che non abbiano un valore particolare e le vie corte sotto i 200/300m, sempre che non siano particolarmente significative. Per le salite in quota (alta montagna) riportare solo salite con difficoltà D o superiore
attività extraeuropea
in questo modulo si ha libertà di indicare la propria attività riferita all’intera carriera alpinistica
attività sportiva, trad, dry tooling
indicare in questo modulo un massimo di 25/30 vie con una difficoltà minima di 7a a vista e 7c lavorato. Per le lunghezze Trad il grado minimo richiesto è il 7a, per quelle di dry tooling D8
attività sulle cascate di ghiaccio
indicare in questo modulo un massimo di 25/30 cascate (minimo due lunghezze - 80/100 m.) con una difficoltà minima pari al 5 e M6
attività didattica, culturale, divulgativa
indicare in questo modulo il proprio impegno in tal senso allegando articoli, blog, libri eventualmente prodotti.
elenco delle 25 migliori vie di tutta l’attività alpinistica
Tenendo conto di un’apertura verso nuove discipline è infine possibile aggiungere ai sopracitati moduli un estratto della propria attività (un esempio potrebbe essere dato dalla pratica dello Sci Ripido )
I presentatori devono aiutare il candidato nella compilazione della modulistica (eventualmente avvalendosi del consiglio dei membri della CT con i quali è auspicabile la maggior collaborazione possibile al fine di avere evidenze delle qualità del candidato stesso) controllando bene affinché la stessa risulti completa, corretta nei nomi, nelle difficoltà, nelle lunghezze e ogni altra caratteristica di ogni singola via;
Il candidato dovrà presentare due copie cartacee dei moduli relativi all‘attività , complete della domanda di ammissione firmata, oltre ad una versione pdf con pagine in formato A4;
Il candidato dovrà utilizzare solo i moduli ufficiali e non moduli personalizzati;
Su ogni modulo ufficiale si possono riportare più anni, basta lasciare una riga bianca tra un anno e il successivo.
ITER PROCEDURALE CONSIGLIATO PER LA PROPOSTA DI NUOVE CANDIDATURE
1) Un candidato deve essere presentato da almeno due soci del CAAI (presentatori)
2) Il candidato, in via preliminare, deve presentare il proprio curriculum compilando l’apposita modulistica che si compone di 6 parti distinte :
E’ necessario consegnare tutte e sei le parti delle quali si compone la modulistica anche nel caso che alcune di queste rimanessero in bianco (in questa fase preliminare non è invece necessario compilare tutti i campi “generici” dei moduli della parte iniziale, sono sufficienti età, anni complessivi di attività).
Facoltativamente è anche possibile presentare un CV completo esposto liberamente, indicando, nel caso, il numero (anche approssimativo) di salite effettuate nei gruppi differenti da quello di appartenenza e/o il proprio impegno nell’attrezzatura/manutenzione di falesie e vie.
3) Il candidato allega una lettera di presentazione riportando le ragioni per cui desidera entrare nel sodalizio;
4) I presentatori devono far visionare l’attività ai componenti della commissione tecnica, motivando adeguatamente le ragioni della candidatura (verbalmente o per via cartacea) per una valutazione preliminare;
5) La candidatura, accompagnata dalla valutazione preliminare della C.T., sarà presentata ufficialmente all’assemblea del “Gruppo” con le seguenti modalità:
6) Nel caso si avesse notizia di informazioni che mettono in discussione l’attendibilità o la veridicità della candidatura, chiunque (socio, componente della C.T, …) ha il dovere di informare il presidente del gruppo, il quale, a sua volta, informerà i presentatori per le necessarie verifiche.
Il presidente, sentiti i vari pareri e fatte le opportune verifiche, decide se dar corso alla candidatura o ritirarla, anche se la stessa è già passata al vaglio dell’assemblea o della C.T.C.
7) L’assemblea deve valutare il candidato riguardo tutti gli aspetti: tecnico, esplorativo, culturale, organizzativo ed etico;
8) La C.T.C. è l’organo di consulenza del C.G. e deve valutare le candidature esclusivamente sotto il profilo tecnico. Se sorgono dei dubbi in merito alla veridicità dell’attività o altri elementi negativi, si deve informare il presidente del gruppo che avvierà l’iter di verifica di cui al punto 6.
SAMUELE MAZZOLINI Accademico
Abstract: dobbiamo cercare di intercettare quelli che praticano arrampicata nel loro territorio e far loro capire che c’è anche un altro modo più avventuroso e alla fine più soddisfacente di andare in montagna
E’ vero quello che è stato detto, oggi nonostante tutto c’è molta gente che arrampica e io sono convinto che con queste persone noi dobbiamo comunicare per portare i nostri ideali. Vi porto un aneddoto. Io vengo dal mare, da Cesena, un paese in cui l’alpinismo è approdato tardi e io mi sono trovato ad allenarmi per poter fare proprio quelle vie classiche di cui parlava Giordani (quelle che oggi fanno in pochi…) perché sono sempre stato prima che un arrampicatore un amante dell’avventura. Iniziando come autodidatta una volta mi trovo alla palestra di La Saxe a Courmayeur con un amico cercando di fare una via in artificiale con delle figure meschine, mi immagino adesso. In quella situazione arriva un arrampicatore, credo forte ma che non ho mai capito chi potesse essere, fa slegato una via di fianco alla nostra e poi cominciamo a parlare. Gli confidiamo che il giorno dopo volevamo andare a fare una via in artificiale di Bertone perché, scarsi per scarsi, almeno una via in artificiale aveva i chiodi e questo ci sembrava già qualcosa. E lui, invece di dirci: ”ma dove volete andare, non vedete come siete scarsi?" ci disse semplicemente “ Guardate che Bertone aveva le braccia lunghe”. In modo molto elegante, non offensivo e tranquillo ci suggeriva di cambiare via. Questa delicatezza mi è rimasta impressa nella mente e credo che un atteggiamento simile dovremmo averlo con le tante persone, soprattutto i giovani, che incontriamo e che non sanno nulla di alpinismo, perché purtroppo oggi si parte dalle palestre con le prese di plastica quindi tutto quello che era rischio, tutto quello che era etica, tutto quello insomma che è capitato a noi ai ragazzi non capita. E non è certo facile trasmettere avventura oggi. Noi dobbiamo cercare di intercettare quelli che praticano arrampicata nel loro territorio e far loro capire che c’è anche un altro modo più avventuroso e alla fine più soddisfacente di andare in montagna. Credo che questo sia l’approccio corretto ai giovani arrampicatori piuttosto che ergersi sul piedistallo di quelli che fanno/hanno fatto cose che voi non riuscite neanche a comprendere. Anche le iniziative di arrampicata trad sono importanti, perché così la gente prova e riesce a capire la differenza tra lo spit e la tua autoprotezione e riesce poi anche a capire il valore delle vie storiche.
FRANCESCO PIACENZA neoaccademico
Abstract: gente che scala oggi ce n’è ben più di una volta, ma in gran parte indirizzata a pareti comode e ben protette e questo è figlio della ricerca quasi ossessiva della protezione sicura anche da parte del CAI nei suoi corsi e questo alla fine va contro l’alpinismo. Un nostro intervento sull’avventura potrebbe smorzare un po' l’ossessione verso questa ricerca della sicurezza che oggi prevale in modo assoluto
Voglio prendere spunto da alcuni concetti emersi oggi dalle relazioni e dal dibattito per cercare di proporre qualcosa che possa aumentare la comunicazione tra l’Accademico e il mondo reale.
Sono entrato da poco all’Accademico e mi ricordo che la prima volta che partecipai ad un convegno del Gruppo Orientale qualcuno disse che gli Accademici sono i cavalieri della storia, e questo mi ha colpito. Io sono istruttore di alpinismo e di arrampicata libera e mi sono chiesto quale è la differenza tra un istruttore o tra un alpinista normale e un Accademico: la differenza è che forse un accademico ha avuto più esperienze, più avventure, ha quindi una storia in più da raccontare e questo è importante sotto il profilo della comunicazione. Ma queste storie sarebbe bello che fossero raccontate. Ci sono diversi modi di raccontare una storia ma se ognuno di noi (e siamo oggi 291) scrivesse o si facesse intervistare su una delle migliaia di storie che abbiamo vissuto in montagna, ecco che ci sarebbero già 291 storie di accademici a disposizione del pubblico. Qualcuno poi parlava del titolo di accademico come riconoscimento. Io credo che non sia questo: quando io sono entrato ho assunto l’onere di essere come dicevamo un cavaliere della storia, con il compito di tramandare questi concetti a tutte le persone che vedo nei corsi di alpinismo. L’idea che deve passare ancora di più è che diventare socio del CAAI non deve passare solo attraverso un curriculum tecnico ma anche attraverso la capacità di trasferire l’etica dell’alpinismo, la passione per coltivare la storia dell’alpinismo tra le persone. Come associazione non mi serve un nuovo membro che prende la patacca e continua a fare la sua vita di prima senza farsi carico di questa mission di comunicazione.
E come fare quindi a trasmettere questi valori? Giacomo diceva prima che il socio accademico faceva scuola, aveva un profilo etico, culturale di alto livello. Oggi purtroppo assistiamo ad un decadimento culturale e di senso civico dell’italiano medio ai minimi termini. Dobbiamo quindi intervenire nelle scuole di alpinismo: se ad ogni corso ci fosse un Maurizio, uno qualunque di noi che racconta una propria avventura si darebbe quel quid in più per far venire in mente, per trasmettere al corsista che ancora ha la mente aperta e può recepire tutto ciò che gli diciamo. Anche noi a nostra volta abbiamo avuto delle persone di riferimento e se ora diventiamo noi le persone di riferimento nei corsi nasceranno forse degli alpinisti interessati all’etica, alla cultura e all’amore per l’alpinismo. Oggi la gente guarda i siti e la difficoltà dei tiri, nessuno si compra più il libro, nessuno legge la storia dell’alpinismo e in questa situazione una presenza sistematica degli accademici nei corsi sarebbe importante per introdurre i criteri di etica, avventura e alpinismo.
Come diceva Maurizio gente che scala oggi ce n’è ben più di una volta, ma in gran parte indirizzata a pareti comode e ben protette e questo è figlio della ricerca quasi ossessiva della protezione sicura anche da parte del CAI nei suoi corsi e questo alla fine va contro l’alpinismo ed è lì quindi che dopo una lezione sui tasselli, sui coefficienti di tenuta ecc un nostro intervento sull’avventura potrebbe smorzare un po' l’ossessione verso questa ricerca della sicurezza che oggi prevale in modo assoluto. Intendiamoci, ben venga la sicurezza naturalmente, ma anche lanciare qualcosa di diverso sembra molto importante.
Mazzolini: Credo che questi interventi di carattere didattico siano molto importanti ma sono convinto che quando una cosa la vedi e la proponi sia molto più coinvolgente. Far provare, magari anche un semplice monotiro, far posizionare i friend, capire se tengono, far capire la soddisfazione di autoproteggersi e capire quindi anche l’etica di apertura che dal vivo viene spiegata meglio che da tante parole. E capire che tra una protezione e l’altra bisogna scalare e capire che diversamente è un’altra attività e se queste cose vengono viste e spiegate aiuta poi molto anche a maturare una considerazione diversa sulle vie classiche e aiuta a mantenerle nello stato in cui sono nate. E quindi questa comunicazione è importante nei corsi del CAI e sarebbe utile insistere abbastanza sul rispetto della storia, su quello che è stato e su cosa significa veramente “arrampicata”. E trasmettere questi concetti si può fare in vario modo, scrivendo un articolo, portando i giovani a fare un’esperienza di avventura su una via o anche su un monotiro, cercando di andare ad intercettare le persone nei luoghi dove ora si inizia ad arrampicare
Daniele Caneparo, 55 anni, medico neurologo e accademico, partito in solitaria con gli sci, come spesso faceva, il 23 novembre 2019 sui monti di Champorcher (Valle d’Aosta), non è più ritornato.
E’ stato ritrovato a fine giugno 2020, allo scioglimento delle nevi che l’avevano travolto.
Proponiamo un articolo, non celebrativo ma di profonda umanità, per la penna del socio Matteo Enrico, che che lo frequentò insieme al fratello Luca condividendo con lui belle esperienze in montagna.
Alle 20 inoltrate di un giorno di agosto 2003, in quella che passerà agli annali come una delle estati più calde di sempre, io, mio fratello ed altri due amici siamo beatamente seduti sulla terrazza del Rifugio Envers des Aiguilles. Improvvisamente vediamo arrivare un uomo ed una donna. Prima di giungere sulla terrazza, l’uomo si ferma nei pressi di un rubinetto dell’acqua, si spoglia completamente, mutande incluse, ed inizia a darsi una bella rinfrescata. Lo riconosciamo, è Daniele Caneparo. Ridiamo divertiti. Ci salutiamo e scambiamo due battute. Non lo conosciamo ancora bene, se non per averlo incrociato in falesia qualche volta anni addietro.
Con Paolo Zanoli abbiamo appena iniziato a risalire sci a spalle un ripido canale nella zona di Bardonecchia, poco più avanti notiamo uno scialpinista che sta fissando gli sci sullo zaino. Ci avviciniamo, giacca arancione sbiadita, movimenti lenti e precisi. E’ Daniele Caneparo! Sono passati 6 anni da quel giorno sul Bianco, siamo contenti di rivederlo, risaliamo tutto il canale insieme fino in punta alla Guglia di Mezzodì. Ridiamo e scherziamo, Daniele è davvero simpatico. Decidiamo di organizzare altre gite insieme.
“E’ una cosa pazzesca, non si può scindere il rischio dall’alpinismo, l’alpinismo senza rischio semplicemente non esiste”. E’ un giorno d’inverno, l’auto risale con grinta i tornanti della valle ancora buia e addormentata, la meta è uno dei canali che solcano le ripide pareti del Monviso. Daniele è in preda a una delle sue memorabili e ferventi oratorie, i passeggeri dell’auto, un po’ addormentati e un po’ interessati seguono il ragionamento, così apparentemente assurdo ma così realmente vero. E Daniele non era uno che parlava a vanvera, a 14 anni aveva salito da solo e slegato grandi pareti nord delle Alpi, come il “Couloir Couturier” all’Aiguille Verte o la “Neruda” sulla nord del Lyskamm mentre il padre lo aspettava al rifugio.
O quando, a 16 anni, sulla grandiosa via “Major” al Bianco, nel cuore della Brenva, il compagno, pressoché coetaneo, cadde e morì. Immaginate un ragazzino di 16 anni, nel cuore di una delle pareti più selvagge e severe delle Alpi, da solo, senza possibilità di poter chiamare i soccorsi e senza cellulare, doversi ritirare in completa solitudine. Un qualcosa di cui forse oggi si sarebbero interessati, più che le testate di alpinismo, i servizi sociali. Tempi che cambiano, decisamente in peggio, in un mondo dove la libertà, ivi compreso il suo modo di morire, è sempre più costretta nel vincolo della sicurezza e nel trovare il capro espiatorio a tutti i costi. Un mondo dove anche chi va in montagna, spesso, invece di solidarizzare, si erge a grillo parlante con un “se l’è andata a cercare”. Sì, è vero, forse Daniele se l’è andata davvero a cercare in quell’ultima scialpinistica, in un luogo di una difficoltà insignificante per lui, ma l’ha fatto razionalmente e con la consapevolezza di chi ha sempre seguito uno stile di vita, coerente fino in fondo.
Fortissimo alpinista e audace esploratore di vie nuove, “spesso e volentieri gli alpinisti dimenticano o forse semplicemente ignorano luoghi un po’ cupi e solitari e per questo terribilmente affascinanti”, ripetè anche numerose vie in solitaria, spesso senza corda. A tal proposito voglio ricordare la solitaria della via “Bonington” al “Pilone Centrale del Freney” nel 1992, con accesso dal Col du Peuterey, legandosi solamente sul tratto della “Chandelle” con un cordino da 7 mm, o quella al “Pilier Cordier” ai Grand Charmoz, proprio in preparazione al Pilone “andai su da Chamonix in giornata ma all’attacco scoprii che avevo dimenticato le scarpette..allora..ahahahahahah..iniziai a fare i primi due tiri a piedi scalzi. Poi però mi accorsi che sarei stato troppo lento così tornai il giorno dopo”. Questo era Daniele Caneparo, un alpinista, un accademico con la A maiuscola. Sempre alla ricerca delle novità e di un qualcosa di nuovo, fu tra i primi a ripetere le vie moderne di Michel Piola, tra cui “Folies Bergere” e “Panne de Sense” (il primo 6c obbligato del Bianco). “Voyage selon Gulliver” la prima volta non riuscì a farla, perché nel viaggio di andata riuscì a ribaltarsi con la sua auto e sentire l’asfalto attraverso il tettuccio del veicolo. Sì perché Daniele era sempre oltre, lui che arrivava sparato alla barriera del Telepass (“fino agli 80 km/h si apre”), veloce sulla sua Seat Ibiza TDI 1900, inseguito dalla Polizia mentre tornava in Toscana (“Ah! La macchina migliore che abbia mai avuto. Peccato che l’abbia distrutta”).
In Piemonte fu uno dei protagonisti assoluti degli anni ’80 in Valle dell’Orco, autore di prime libere e vie memorabili, basti ricordare “Legoland”, la “Separate Reality” italiana. Daniele fu però anche letteralmente stregato dal selvaggio Vallone di Sea, dove tracciò una delle sue linee più pure ed estetiche, “Così parlò Zarathustra, una via per tutti e per nessuno”, ma anche “Gente Distratta”, “Apprendisti Stregoni”, “Misteri della Meccanica” e “Misteri della Fisica”, dove a causa di un imprevisto, bivaccò tutta la notte. Daniele, seppur dopo qualche tentennamento, dovuto alla sua concezione di alpinismo, approvò comunque la nostra opera di rivisitazione delle vie del Vallone, “è giusto che chi è ancora in attività segua le tendenze attuali dell’arrampicata”, in fondo felice che le sue vie venissero di nuovo ripetute. Per scherzare, spesso gli dicevamo che avevamo o avremmo messo una mitragliata di spit solamente sulle sue vie, e lui rideva divertito.
Daniele trovò, dopo aver smesso di scalare, la sua dimensione con lo scialpinismo e con lo sci ripido. Le gite con Daniele erano sempre lunghe, selvagge, profondamente scialpinistiche e avventurose, talvolta in luoghi che non erano mai stati battuti prima con gli sci. I “ravanamenti” iniziali erano sempre ampiamente ripagati da pendii strepitosi e da luoghi solitari. Non sempre però era facile combinare gite con Daniele, più la stagione avanzava e più lui diventava euforico, e talvolta era difficile seguirlo nei suoi progetti. Ricordo che Paolo Gallina mi raccontò che un giorno Daniele, in una delle sue oratorie, disse che non si capacitava come mio fratello ed io, non avendo figli, fossimo talvolta troppo conservativi non avendo nulla da perdere! Questo era Daniele, sempre oltre, a tal punto da perdere l’equilibrio sulla nord del Viso, su un pezzo ghiacciato e fermarsi miracolosamente su una lamina dello sci. Ma Daniele era duro, forte, e anche orgoglioso. Alle 17 di un lontano inverno apparve uno squillo a suo nome sia sul telefono di mio fratello che su quello di Enrico Pessiva, poi più nulla. Daniele non era raggiungibile. Tutti si allertarono, non si sapeva dove fosse. Fu di nuovo raggiungibile alle 22, mentre mangiava un panino all’autogrill. Aveva avuto, durante la discesa dalla sud del Frioland una distrazione al ginocchio. Percorse centinaia di metri di dislivello praticamente strisciando, pur di non chiamare l’elisoccorso. Una forza della natura, come quando sferzato dal gelido vento invernale, si fermava a parlare con altri gitanti, con solo addosso la maglietta di cotone intrisa di sudore. Poi arrivava in cima, e chiedeva se volevi del thè caldo, che altro non era che aranciata gelata.
Della mancata chiamata all’Elisoccorso ne fece le spese anche Paolo Gallina, che verso la fine di una gita alle Rocce del Fraiteve non vide un muretto a secco e si fratturò un piede. Daniele improvvisò una barella e lo porto giù fino all’auto, “oggi mi sono divertito tantissimo, da morir dal ridere”, disse al telefono la sera dell’infortunio, con il suo ironico cinismo e la sua straordinaria umanità.
Quell’umanità che tutti notammo, ancora una volta, un lontano giorno di dicembre, quando tutta la nostra combriccola si prodigò a portare giù Lucy, cane vecchio e glorioso, che ci aveva seguito fino sulla vetta del monte Briccas. Erano le 16.30, stava diventando buio, e c’era così talmente tanta neve da non riuscire a curvare, e la povera cagnolona non riusciva a scendere. Io, grande amante dei cani, non ebbi il minimo dubbio, e rimbrottai anzi un po’ Daniele che iniziava ad esordire con un “capisci, questa è selezione naturale”…ma pochi secondi dopo ce l’aveva in spalla, e con una staffetta memorabile facemmo ciascuno un tratto con Lucy sulle spalle, portandola sana e salva a valle. A seguito di quell’episodio Daniele scrisse una meravigliosa lettera al suo amico Marco L.
Potrei andare avanti con altri aneddoti, altri episodi, altre vicende che hanno legato me e mio fratello a Daniele in questi anni.
Posso dire che Daniele è stata una persona straordinaria, e lo affermo senza l’ipocrisia di dare la gloria ai morti, estremamente umana e professionalmente molto competente (potendolo affermare a ragion veduta, in quanto ebbe in cura nostro papà per diverso tempo), sempre con un consiglio giusto, ragionato. Perché Daniele era anche uno studioso, non solo nel campo medico, ma in tanti altri settori della cultura e dell’esistenza in generale. Porterò sempre con me il ricordo di una gita il primo dell’anno del 2013, dove, di ritorno dalla Rossa di Sea, mi parlò con enfasi e un velo di tristezza di tanti aspetti della vita, anche privati.
Passammo a casa di Sergio Sibille il capodanno del 2018, non sapendo che per te sarebbe stato l’ultimo. Ancora una volta ci raccontasti dei tuoi studi e delle tue peripezie. Fu un brindisi alla vita.
Quando quel lunedì 25 novembre 2019 squillò il telefono e dall’altro capo c’era Enrico Pessiva che ci chiedeva se avevamo notizie di Daniele, disperso da sabato, un oscuro pensiero si palesò in noi, “la valanga è il vero corpo a corpo con la montagna”...già, Daniele caro, ma stavolta aveva vinto lei. Ma sono, siamo sicuri, che anche in quell’attimo, nel momento fatale del trapasso, con il tuo solito e impagabile cinismo, avrai fatto un brindisi. Non alla morte, ma alla vita.
Ormai ci stiamo abituando a vivere a “fasi”.
Luca e Matteo Enrico, dopo la fase del primo lockdown, rivivono il momento in cui ci si è riaffacciati a pareti e falesie e si è cercato di riannodare i fili di discorsi e progetti rimasti in sospeso.
Ma le fasi si susseguono così rapidamente che l’articolo che proponiamo ha ormai già il sapore di una cosa d’altri tempi…
#FASE2, UNA NUOVA ESTATE IN VAL GRANDE
Un’antica leggenda narra che Sant’Eldrado, uscito nel giardino del convento per meditare, si fosse assopito un istante al canto di un usignolo accorgendosi, una volta risvegliatosi, che in realtà erano passati 300 anni…
Noi appassionati di montagna ci siamo addormentati che era ancora inverno ed ora, che parte del peccato di volersi muovere è stato sufficientemente espiato, ci siamo risvegliati alle porte dell’estate.
Quando abbiamo riaperto gli occhi, alla magia della neve, dei canali, dei boschi innevati e della luce invernale si sono sostituiti i prati verdi, le pareti quasi asciutte e libere dal verglas, i sentieri e le mulattiere ormai camminabili, le giornate lunghe e piene di sole.
Al mondo freddo e cristallizzato dell’inverno è subentrato un mondo più caldo e vitale che ci condurrà all’estate vera a propria, fatta del rumore delle acque impetuose, degli animali al pascolo e di tutti quelli selvatici ormai usciti dal loro letargo.
Al rumore delle lamine sulla neve e del fruscio delle pelli si sta sostituendo quello degli scarponi sui sentieri e quello delle grida di comando degli scalatori in parete.
Un po’ come Sant’Eldrado ci siamo risvegliati non riconoscendo più cosa ci sta intorno, riprenderemo però a sbirciare le condizioni e il meteo, a progettare le uscite e a fantasticare nuovamente su tutto ciò che in questo lasso di tempo sospeso è stato interrotto.
E lassù in Val Grande cosa mai succederà?
La stagione, lo scorso autunno, si era chiusa anzitempo, per via di abbondanti piogge e precoci, copiose, nevicate e purtroppo si era chiusa con un increscioso episodio, ovvero la rimozione di fix su un nostro itinerario, operato dai soliti “ignoti”, fautori innanzitutto dell’ “etica” dell’anonimato…
A quel disdicevole episodio avevamo dato una risposta chiara e tangibile, aprendo una nuova via sullo Specchio di Iside. Una via che supera la grande arcata che delimita sulla sinistra le placche dello Specchio. Abbiamo voluto piazzare solo le soste, tutto il resto è trad, chi è bravo si porterà pochi friends, chi è meno bravo se ne porterà tanti e magari maledirà un po’ gli apritori per un passaggio un po’ expo sull’ultimo tiro. Ma tant’è, non si può mai accontentare tutti e d’altra parte a volte un pizzico di suspence ed avventura non guastano. A breve vi forniremo anche la relazione!
Da quando abbiamo iniziato questo lungo e faticoso lavoro di ripristino sono passati ormai 5 anni e potremmo quasi dire che la Fase 1 (giusto per rimanere in tema!) si è conclusa.
Ora la Val Grande (e nel Vallone di Sea in particolare) può vantare un bel numero di vie ripristinate. Considerato l’enorme lavoro da noi svolto, in termini di tempo, fatica e denaro, per cercare di rendere fruibili itinerari dimenticati da decenni (alcuni mai percorsi) ci piacerebbe che nessuno, sotto forma di anonimato, ripetesse incresciosi gesti come quello dello scorso autunno.
In Sea si sono riportati alla luce itinerari dimenticati ed impraticabili, il fix è stato utilizzato in sostituzione degli spit-roc piazzati da Grassi negli anni ’80 o per rendere fattibile la scalata in libera di sezioni altrimenti da farsi in artificiale. Non abbiamo mai banalizzato gli itinerari e i passaggi, senza però comunque cadere nell’errore di lasciare le vie allo stato
originario, perché ciò vorrebbe dire talvolta lasciare anche le fessure intasate di terra e gli arbusti a rendere ostico un ribaltamento.
Queste vie per vivere e non tornare inghiottite dalla vegetazione devono poter essere percorse frequentemente e quindi non solo da pochi agguerriti top climbers, o presunti tali. Insomma, abbiamo, finora, cercato di trovare un compromesso che non scateni assurde guerre che porterebbero solo a danneggiare la roccia e l’ambiente naturale.
Il mondo dell’arrampicata si sa com’è, ci sarà sempre chi vorrebbe lasciare le vie intasate d’erba per meglio aggrapparsi ai ciuffi, chi vorrebbe avere visibilità senza muovere un dito, chi dice sempre e solo “qualcuno dovrebbe fare”… qualcun altro ovviamente, chi si sentirà un fenomeno da salotto citando etiche e decaloghi vari… ci sarà però anche chi scalerà per il piacere di farlo, unicamente per quello, e chi si prodigherà per riportare alla luce vecchi itinerari inghiottiti dal tempo e dal muschio.
E ora? E ora lanciamo anche noi, tutti insieme, la Fase 2!
La via dell’arcata è in realtà già una di queste! L’idea, dopo il primo “pacchetto” di vie ripristinate, perdonateci il paragone, alla “Motto style” sarebbe quella di rivedere altri itinerari secondo tre filoni ben precisi:
Speriamo dunque che la stagione prosegua con il tempo bello, come è stato in questi mesi di reclusione forzata. I progetti ci sono e vorrebbero rendere ancora più varia e corposa la scelta, già comunque cospicua, che la nuova guida “Val Grande in Verticale” propone.
Questa pubblicazione è solo il punto di partenza per proseguire l’opera di valorizzazione di un posto così magico qual è Sea. Come dicevamo i progetti ci sono, vie classiche e più misteriose, se non addirittura irripetute, attendono solo di essere salite ed esplorate.
Sarebbe anche bello poter visitare zone di Sea più recondite, al limite con l’alpinismo, e magari scovare qualche nuova linea. In realtà qualcosa abbiamo già adocchiato...
La nuova stagione che si preannuncia, sicuramente travagliata per i lunghi spostamenti o la pianificazione di vie lontane da casa, se non addirittura fuori dai confini, potrebbe proprio essere l’occasione per frequentare maggiormente Sea e la Val Grande. Magari confrontandosi costruttivamente si potrebbe dar vita a dei bei “cantieri” ed unendo le forze molti potrebbero provare l’ebbrezza delle chiodature, dello stare appesi a pulire e provare il passaggio, vivendo magari un’estate un po’ diversa dal solito ma che alla fine saprà regalare bei ricordi.
La stagione dell’arrampicata è ormai avviata e sperando di poterci sempre più liberamente muovere potremo divertirci a salire placche e fessure, confidando non nel distanziamento sociale ma in quello da certe ideologie incancrenite, cercando di assaporare la vera essenza della scalata.
Quindi speriamo che sia un’estate dove tutti potranno divertirsi e la polemica, di cui nessuno in questo periodo ha bisogno, possa davvero essere la grande assente dell’estate.
In uno scritto di Costantino Piazzo le straordinarie avventure alpine ed extraalpine di Mario Piacenza,
socio Accademico e una delle figure più rappresentative del mondo alpinistico all'inizio del XX secolo.
Si ringrazia la FONDAZIONE SELLA per le immagini pubblicate
Cima alle Coste - Parete Centrale - T. Quecchia (C.A.A.I.), D. Ballerini, C. Stefani, F. Prati (C.A.A.I.), F. Culazzu 1995
Percorre le grandi placconate dello Scudo e supera poi direttamente la parete superiore seguendo una linea molto logica tra muri e strapiombi. Una linea di concezione e difficoltà moderne affrontata con attrezzatura tradizionale e pochi spit.
Sono passati 25 anni dall’apertura, ma la via conserva il suo fascino di grande via classica, soprattutto nella parte alta, rimasta chiodata in modo parsimonioso.
Una bella impresa della cordata guidata dall’Accademico Tiberio Quecchia, personaggio tra i più rappresentativi dell’alpinismo moderno bresciano.
Alcune immagini di Samuele Mazzolini (ripetizione del settembre 2020) e Alberto Rampini (ripetizione dell'aprile 2015)
Storico bivacco del C.A.A.I., posizionato nel 1933 poco sopra la Breche Nord des Dames Anglaises a quota 3.490 metri, rappresenta un punto di appoggio fondamentale per le cordate che percorrono la Cresta Integrale di Peuterey. Situato su un piccolo gradino roccioso in piena parete, è un minuscolo bivacco a botte, alto m. 1,25, largo m. 2,25 e profondo m. 2, in legno ricoperto di lamiera zincata. Può offrire riparo a 4 persone.
Nel settembre scorso è stato oggetto di lavori di manutenzione straordinaria che assicurano oggi ospitalità spartana ma sicura in caso di necessità. Il manufatto è stato anche dipinto esternamente di colore verde intenso (RAL 6037 ) che garantisce la migliore resistenza agli agenti atmosferici e facilita l’individuazione anche in condizioni di ridotta visibilità.
I lavori sono stati eseguiti dalla Ditta Barbolini Carlo, socio CAAI, coadiuvato da Tommaso Castorina e Beppe Villa (CAAI e GA) in qualità di assistente per il mezzo aereo. Il trasporto dei materiali e degli operatori, operazione davvero impegnativa per l’ubicazione del bivacco, è stato effettuato dalla HELIMONTBLANC, pilota Alex Busca.
E’ stata anche raccolta e portata a valle la spazzatura abbandonata sul posto da alpinisti incivili, comprese numerose paia di scarpette (dal bivacco fino alla vetta del Bianco non servono più….). Vogliamo fare un appello ad un maggiore senso di responsabilità da parte degli utilizzatori della struttura.
I bivacchi del Club Alpino Accademico Italiano sono oltre 20, posizionati in siti strategici sull’arco alpino, e sono a disposizione gratuitamente per tutti gli alpinisti, ai quali si chiede solamente rispetto delle strutture e dei luoghi che le ospitano.
a cura di A. Rampini
Il Convegno Nazionale 2020 del C.A.A.I. si terrà il 17/18 ottobre
a TRENTO presso la Sala Conferenze del Grand Hotel Trento
Piazza Dante, 20
TEMA DEL CONVEGNO
L’Accademico ieri, oggi e domani
Attualità e prospettive per il rilancio dei valori storici
del C.A.A.I. e della figura del socio
Relatori:
Giacomo Stefani
Il C.A.A.I. visto da un socio
quarantennale con 9 anni di presidenza generale
Alberto Rampini
La figura dell’Accademico oggi e l’evoluzione dei
parametri di ammissione
Maurizio Giordani
Attualità del socio C.A.A.I.
Dove va l’alpinismo oggi?
Samuele Mazzolini e Francesco Piacenza
La comunicazione: creare interesse verso il C.A.A.I.
Sergio De Leo
Candidature e nuova modulistica
Moderatore: Alessandro Gogna
PROGRAMMA DEL CONVEGNO
Sabato 17 ottobre
Ore 13,00 – Arrivo e registrazione dei partecipanti
Ore 14,30 – Inizio dei lavori
Ore 19,00 – Chiusura dei lavori
Ore 20,00 – Cena offerta dalla Presidenza Generale
Per gli accompagnatori si prevede una visita
guidata alla città.
Domenica 18 ottobre
Arrampicate ed escursioni in zona
La sala che ci ospiterà si trova a Trento in centro città,
facilmente raggiungibile con breve passeggiata
dai vari parcheggi che servono il centro cittadino.
Le varie fasi del Convegno vengono organizzate in
modo da rispettare le normative vigenti in tema di
protezione contro la diffusione del Covid19.
Tutti i partecipanti dovranno rispettare il distanziamento
ed essere muniti di idonea mascherina da
indossare quando necessario.
Parcheggi consigliati:
Parcheggio Europa via Vannetti, 16
oppure Autosilo Buonconsiglio di via Petrarca.
Entrambi distano 2 minuti a piedi dall’hotel.