Giusto Gervasutti , “Il fortissimo” , secondo gli storici portò la tecnica e soprattutto la mentalità dell’alpinismo dolomitico sulle Alpi Occidentali, realizzando nel periodo dal 1933 al 1946 una grande quantità di salite di prim’ordine, spesso in ambienti isolati e repulsivi. Ed è questo uno dei motivi per cui molte vie firmate dal “fortissimo” non soffrono della svalutazione derivante dal sovraffollamento: sui Piloni del Freney molte cordate salgono il Pilone Centrale mentre pochissime si avventurano sulla Gervasutti al Pilone NE, così come alle Jorasses lo Sperone Walker conta abituali ripetizioni mentre la grandiosa Parete Est viene visitata assai raramente.
Fatte queste premesse, appare quantomeno singolare che il nome di Gervasutti sia collegato dal grande pubblico degli alpinisti alla ripetutissima “Gerva” alla Rocca Sbarua, un must per i frequentatori delle falesie del Piemonte
http://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/giusto-gervasutti-i-100-anni-del-fortissimo.html
Per gentile concessione riportiamo l'interessante articolo pubblicato sul sito http://www.banff.it/category/gogna-blog/
Giusto Gervasutti a settant’anni dalla scomparsa
(ritratto di questo grande dell’alpinismo attraverso l’analisi della sua attività “di punta” 1931-1946)
di Carlo Crovella (SUCAI Torino e GISM)
“Formidabile sulla roccia e sul ghiaccio, lo era altresi come “senso alpino”, come esploratore e solutore di problemi. Taluno può stragli alla pari e magari aver realizzato di più in questo o in quel determinato campo – roccia dolomitica od occidentale, ghiaccio, salite miste – ma nessuno, che io sappia, può vantare una simile mole complessiva di lavoro, una personalità così dominante in tutti i campi dell’alpinismo, dall’arrampicata pura all’esplorazione (Renato Chabod, La Cima di Entrelor, Zanichelli, 1969)”.
Così l’amico e campagno di cordata Renato Chabod sintetizza mirabilmente le caratteristiche tecniche e ideologiche di Giusto Gervasutti, il celebre alpinista scomparso il 16 settembre 1946 durante un tentativo al Pilier Nord-est (oggi Pilier Gervasutti) del Mont Blanc du Tacul (gruppo del Monte Bianco). Gervasutti è uno degli “snodi” più rilevanti nella storia dell’alpinismo, almeno del periodo a cavallo degli anni ’30, perché seppe fondere in sé la visione della scuola orientale (cioè la mentalità del VI grado, che ha caratterizzato in particolare le Dolomiti) con i grandi terreni occidentali: alta quota, neve e ghiaccio, bufere, bivacchi in parete, lunghi e tortuosi avvicinamenti.
Comporre l’elenco delle imprese alpinistiche di Gervasutti è, paradossalmente, l’aspetto meno complicato dell’analisi di questo personaggio: altri sono infatti i risvolti psicolgici ed esistenziali dove si incentra il vero enigma della sua poliedrica personalità. Tuttavia Gervasutti fu innanzi tutto un insigne alpinista, o quanto meno è passato alla storia come tale: pertanto l’analisi della sua attività di punta consente di cogliere, attraverso le sue scelte alpinistiche, i più profondi aspetti della sua persona.
Per comprendere appieno l’attività alpinistica (che si svolse lungo un arco temporale di soli 15 anni: dal 1931 al 1946, cioè dall’arrivo a Torino fino alla scomparsa sul Tacul) torna molto utile seguire la falsariga che ci ha lasciato proprio Chabod nello specifico capitolo del libro La Cima di Entrelor (pag. 101-117).
Gervasutti, nato a Cervignano del Friuli il 17 aprile 1909, si trasferisce a Torino nel 1931, portando nel contesto “occidentale” quella mentalità “orientale” che gli era congenita, non fosse altro per la provenienza geografica: aveva infatti un discreto bagaglio di esperienze in Dolomiti e anche nelle Alpi Carniche e Giulie. Appena stabilito a Torino, Giusto cerca immediatamente il contatto con l’ambiente alpinistico subalpino e non ha difficoltà nel trovare compagni di gite, a dimostrazione di quanto il milieu torinese fosse “maturo” per l’innesto delle nuove concezioni.
Il primo assaggio della “grande” montagna occidentale avviene (con l’allora compagno di cordata Lupotto) nell’estate dello stesso anno (1931), grazie al trittico Aiguille Verte-Grépon-Dru (massiccio del Monte Bianco), vette tutte affrontate sulle corrispondenti vie normali, ma rese complicate dalle immancabili bufere d’alta quota, come se la montagna volesse fargli immediatamente capire a cosa corrispondono le caratteristiche “occidentali”. Dopo il suddetto trittico, Giusto si sposta nelle Dolomiti, evidenziando, fin da subito, l’estrema facilità a “saltare” fra occidentali e orientali (e viceversa). A oriente, sempre nel 1931, realizza un bottino che renderebbe orgoglioso anche l’alpinista odierno: Cima Piccola di Lavaredo (inizialmente dalla via normale, poi, qualche giorno dopo, attraverso una combinazione di vie più impegnative), seguita dalla Piccolissima (Via Preuss) e infine, nel settore d’Oltre Piave, realizza anche due “modeste” (specie se confrontate con i canoni del Gervasutti “maturo”) prime ascensioni (Cima Toro, parete nord-ovest, e Cima Both, parete Ovest-Nord Ovest). Queste prime ascensioni risulteranno pressochè le uniche nella sua pur pregevole frequentazione dolomitica (caratterizzata sostanzialmente da ripetizioni di rilievo, ma non dall’apertura di importati vie nuove). La campagna dolomitica del 1931 si completa con le ascensioni del Campanile Toro, Via Piaz, e del celeberrimo Campanile di Val Montagnaia (“il più bel campanile del mondo”). Anche senza prestigiose vie nuove, neppure in seguito, Gervasutti non dimenticherà mai le Dolomiti, sia per esigenze di allenamento e di perfezionamento tecnico, sia per l’attaccamento ai monti della sua giovinezza.
Sottolinea puntigliosamente Chabod (op. cit., pag 106-107), commentando l’attività del 1931: “Come primo saggio di “completezza” (cioè di connubio fra montagna occidentale ed orientale, ndr), non c’è davvero male, ma questo può dirsi soltanto il preludio di quanto il Fortissimo saprà fare negli anni successivi, sia pure con una spiccata predilezione, in punto grandi vie nuove, per le Occidentali, dove potrà meglio soddisfare il suo vivissimo gusto dell’esplorazione e perfezionarsi sempre più per le sognate future spedizioni extra europee… Però Egli rimarrà dolomitista e friulano, seppur diventato occidentalista e torinese, anche se per la menzionata sua passione esplorativa, darà le prove più eccelse del suo valore nelle grandi salite occidentali”. In un rapido flash, Chabod dipinge “tutto” Gervasutti: la sua origine, la sua multiforme attività sia a oriente che a occidente, la sua visione di una montagna “completa” e “trasversale”, le sue esperienze e i suoi sogni extra europei.
Il 1932 si apre, ben prima della stagione estiva, con due importanti imprese: a febbraio la prima invernale (e anche prima sciistica o, meglio, scialpinistica) alla Nordend (gruppo del Monte Rosa), insieme a Emanuele Andreis e Paolo Ceresa, e poi l’ascensione invernale del Cervino (con Gabriele Boccalatte e Guido De Rege), lungo una combinazione di vie (Cresta Furggen fin sotto la spalla e, per colpa del maltempo, ripiegamento sulla Cresta dell’Hornli fino alla vetta). Con l’estate del 1932, Gervasutti dà una prima significativa accelerata alla sua attività, preambolo di quella, irreversibile, dei tre anni successivi. Appunto in quella estate Giusto realizza con Boccalatte e Chabod la traversata della Aiguille Verte: salita per il Canalone Mummery (sesta ascensione) e discesa dal Canalone Whymper. Poi sale, da solo, sulla vicina Aiguille du Moine, ma, disgustato dalle pessime condizioni dell’alta montagna (per colpa di una negativa stagione meteorologica), scappa verso le sue amate Dolomiti: Torre Coldai da nord-ovest, Via Rudatis; Civetta, cresta nord; Torre Venezia, parete ovest e infine un drammatico tentativo sulla Via Solleder (il primo “sesto grado” della storia) sulla parete nord-ovest della Civetta. In tale occasione, il compagno di cordata, tal Schweiger (conosciuto la sera prima in rifugio), esaurisce presto le forze e ciò impone la ritirata. Nel corso della discesa, Schweiger si lascia letteralmente andare, appendendosi a corpo morto sulle corde sotto a uno strapiombo. Durante la manovra di recupero, Giusto viene sbalzato nel vuoto e resta appeso alle corde con la sola mano sinistra (!!!). Toltosi dai guai rimontando le corde a forza bruta, Gervasutti raggiunge poi il compagno e prende atto che ha una gamba fratturata. Di conseguenza lo assicura al terrazzino e prosegue la discesa a corde doppie, raggiungendo così il rifugio, per risalire il giorno dopo con altri alpinisti e riportare in salvo il compagno. Il conto aperto con la Solleder si chiuderà solo due anni dopo, ma nelle settimane successive a questo episodio Giusto percorre un’altra celebre via di Solleder (una delle classiche di VI grado), quella al Sass Maor (con Boccalatte).
Tornato in Piemonte, Giusto imbastisce, anche nelle Occidentali, quell’attività di esplorazione che lo caratterizzerà nel tempo, portandolo a realizzare non poche prime “minori”, spesso se vette appartate, poco appariscenti o addirittura considerate di “media montagna”: il 4 settembre 1932, con Paolo Ceresa e Vittorio Franzinetti, sale il Camino Gervasutti alla Punta Mattirolo dei Serous (Valle Stretta, Bardonecchia).
La parete nord-ovest del Pic d’Olan
Il 1933 è l’anno in cui Gervasutti accende il turbo. In primavera, durante il Trofeo Mezzalama, si guadagna quel soprannome, Il Fortissimo, che lo segnerà (Chabod dice: come unico e vero fortissimo) per tutta la vita. In estate, dopo qualche ascensione dal rifugio Torino (fra cui alcune guglie dell’Arête du Diable del Mont Blanc du Tacul, compagni Piero Zanetti, Gabriele Boccalatte e la signorina Ninì Pietrasanta – futura signora Boccalatte), realizza due imprese di rilievo, sempre con Zanetti. Dapprima gli riesce la seconda ascensione assoluta della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey, allora considerata la più difficile via di roccia nel gruppo del Bianco (e non è che, oggi, scherzi poi tanto…), aperta nel 1930 da due alfieri della scuola germanica, nello specifico Karl Brendel e Hermann Schaller, e storicamente considerata il primo esempio di applicazione della mentalità orientale su terreni occidentali. Successivamente Gervasutti effettua, sempre con Zanetti, la prima esplorazione (frustrata dal maltempo) alla parete nord delle Grandes Jorasses, dove (con l’acuto occhio “esplorativo” che lo contraddistingue fin dall’inizio) capisce immediatamente che il “punto debole” della parete non è l’affilato e intrigante Sperone Walker, ma il parallelo sperone Croz. Giusto termina poi la stagione in Dolomiti, con alcune interessanti salite fra cui spicca quella, con Aldo Bonacossa, alla Torre Re Alberto (gruppo Torri del Cameraccio), dedicata al Re alpinista.
Il 1934 è l’anno che consacra Gervasutti come stella alpinistica di prima grandezza. Nei mesi febbraio-aprile partecipa alla spedizione del conte Aldo Bonacossa diretta nelle Ande, dove fra l’altro partecipa alla prima ascensione del Picco Matteoda (punta cilena del Tronador), e poi si ferma a titolo personale con Luigi Binaghi, realizzando le prime ascensioni su due Cerros di oltre 5000 metri. Interessante l’annotazione che lo stesso Giusto inserisce (Scalate nelle Alpi, pag. 96) sul concetto di spedizione e di viaggio: “Il primo viaggio su un transatlantico è sempre una curiosità, ma per me questa partenza aveva un valore simbolico particolare. Avrebbe dovuto iniziare una nuova fase della mia vita… quella per la quale avevo rinunciato ed ero deciso a rinunciare a tante cose che sembrano importanti nella vita sociale”. In parole povere, Gervasutti focalizza definitivamente che l’alpinismo è la sua principale ragione di vita. Tornato in patria, Gervasutti inizia la stagione estiva del 1934 in Dolomiti (Campanile di Brabante, seconda ascensione) e poi passa al Bianco: un nuovo e più convinto tentativo (con Chabod) alla Nord delle Jorasses (tentativo che, seppur, frustrato dal maltempo, dà inizio a quella che Chabod chiama la “Corsa alle Jorasses”, culminata l’anno successivo con la “beffa” sullo Sperone Croz), seguito dalla prima ascensione (sempre con Chabod) del Canalone nord-est del Mont Blanc du Tacul (oggi Canalone Gervasutti). Tale impresa che è stata anticipata (“per allenamento”, ndr) dalla prima salita del Canalone ovest alla Tour Ronde. Infine, con il nuovo amico francese, Lucien Devies, Gervasutti si trasferisce in Delfinato, dove realizza la prima ascensione della parete nord-ovest del Pic d’Olan, “impresa che scuoterà gli alpinsiti francesi, come le precedenti avevano scosso gli occidentalisti piemontesi” (L. Devies, La Conquête de la muraille N.W. de l’Olan, pubblicato su Alpinisme, giugno 1935). Nello stesso articolo, Devies descrive a puntino l’azione di Gervasutti: “… guardo Giusto in arrampicata. Il suo stile non rivela lo sforzo. È di una semplicità e una purezza assolute. Tutto è sacrificato all’economia delle forze e al rendimento. Ogni gesto è prettamente previsto, eseguito, controllato. Si indovina, in ciascun movimento, la volontà tesa unicamente verso lo scopo. È il procedere trionfale di un conquistatore. Saliamo fin sotto un salto dello sperone, volgiamo un po’ a sinistra, poi riprendiamo a salire in linea retta. Giusto conduce come se avesse già fatto venti volte il percorso…”. Giusto è definitivamente entrato nell’olimpo dell’alpinismo, ma il 1934 gli regala ancora una bellissima impresa: nel mese di settembre, insieme al Conte Bonacossa e a Carlo Negri, Gervasutti compie una puntata nelle Alpi Centrali, realizzando la prima ascensione dello Spigolo sud della Punta Allievi (Gruppo Bregaglia-Disgrazia), una via molto apprezzata e ripetuta anche ai nostri giorni: il tratto chiave è quotato, ancora oggi, di V+ e VI.
E veniamo al 1935, forse uno degli anni più completi, alpinisticamente parlando, di Gervasutti: seconda ascensione, con Chabod, dello Sperone Croz alla Nord delle Jorasses (battuti di un soffio dai tedeschi Rudolf Peters e Martin Meier); prima ascensione della parete est del Monte Emilius (intrapresa come “allenamento” per le Jorasses); prima ascensione assoluta (con Chabod, Boccalatte e la Pietrasanta) del Pic Adolphe; un tentativo, con Luigi Binaghi, al Pilier del Tacul dove poi, nel 1946, Giusto incapperà nell’incidente fatale; terza ascensione, con Mario Piolti e Michele Rivero, della Cresta des Hirondelles alle Jorasses (probabilmente in questa occasione Gervasutti “adocchia” per la prima volta la contigua parete est). Poi si trasferisce nelle Dolomiti e chiude definitivamente il conto con la Solleder alla Nord-ovest della Civetta e, rimbalzato nuovamente nelle occidentali, compie quella inebriante cavalcata costituita dalla lunga Cresta sud-est (a forma di “cresta di gallo”) del Pic Gaspard in Delfinato, con Lucien Devies.
La parete nord-ovest dell’Ailefroide
Il 1936 è un anno bifronte per Giusto, che da un lato realizza (in Delfinato) una delle sue imprese più eclatanti, cioè la prima ascensione alla parete nord-ovest dell’Ailefroide, detta anche Muraille de Coste Rouge, ma dall’altra deve accettare un lungo stop per i postumi dell’incidente verificatosi proprio all’Ailefroide: nell’avvicinamento al buio, rotto solo dalla lanterna a mano (altro che i frontalini di oggi!), gli si gira sotto i piedi un masso e Gervasutti, cadendo, riporta diversi “danni fisici”, fra cui due costole fratturate, un taglio profondo al labbro e alcune denti che “ballano” nelle gengive. Giusto immediatamente capisce che, se torna indietro, dovrà fermarsi per lungo tempo, interrompendo l’attività alpinistica, e quindi… attacca con decisione la parete per non perdere l’occasione! Due giorni di dura lotta per realizzare quella che è stata soprannonimata la Walker dell’Oisans e che io personalmente reputo sia la più “gervasuttiana” delle sue imprese. François Labande, autore della guida alpinista del Delfinato, riporta (pag. 303) l’annotazione che, secondo lo stesso Gervasutti, la Nord-ovest dell’Ailefroide costituisce la sintesi sublime fra la Nord delle Jorasses e la Nord-ovest della Civetta. Se pensiamo che la Nord delle Jorasses è la “quintessenza” dello “stile face Nord”, per dirla alla francese, e che la Nord-ovest della Civetta è da sempre chiamata la “Parete delle Pareti”, ci rendiamo immediatamnete conto dell’intrinseco “valore” che caratterizza la Muraille de Coste Rouge. Per i puristi delle precisazioni alpinistiche, la Walker incorpora punte di difficoltà tecnica leggermenti superiori (pensiamo anche solo ai due famosi diedri di 70 metri, superati “caparbiamente” dall’altro grandissimo sestogradista dell’epoca, Riccardo Cassin), ma non si deve dimenticare che le difficoltà dell’Ailefroide si posizionano su un livello che è inferiore alla Walker solo di una minima “tacca” e che, in ogni caso, tali difficoltà sono inserite in un contesto ambientale ancor più severo e con maggiori pericoli oggettivi (vedi acclusa relazione, ndr) rispetto alla conformazione da “spigolo” che caratterizza la Walker. Dopo l’inevitabile convalescenza successiva all’incidente dell’Ailefroide, Gervasutti si rifà la bocca con l’alta montagna solo negli ultimi giorni del 1936, con la salita solitaria invernale al Cervino lungo la Cresta del Leone (normale italiana).
Il 1937, causa impegni di lavoro, è invece un anno con poco tempo libero per Gervasutti, il quale si deve sostanzialmente “accontentare” di una ripetizione alla Via Dibona al Dent du Requin e della terza ascensione della parete nord del Petit Dru. Sempre nel 1937 Giusto organizza, con Leo Dubosc (un accademico torinese), un primissimo tentativo alla Est delle Jorasses, ma non riesce neppure a raggiungere l’attacco della parete, per un errore nella scelta dell’itinerario sul ghiacciaio. Questo tentativo gli permetterà, però, di impostare correttamente i successivi attacchi (1940-1942) alla parete.
Il 1938 è apparentemente un anno di delusioni, se non addirittura di “sconfitte” (alpinistiche) per il nostro Giusto. Perde il treno della Nord dell’Eiger, per i troppi tentennamenti meteorologici degli anni precedenti (questa parete sarà vinta, proprio nell’estate del 1938, da quattro austro-tedeschi), ma soprattutto perde la Walker, conquistata invece da Cassin con il suo abituale stile (“veni, vidi, vici”). L’episodio gli pesa, eccome!, ma nel libro Scalate nelle Alpi (pag. 208), Giusto riconosce, con un animo nobile e leale, la magnifica impresa del collega-rivale. Però, nel pieno dell’estate del 1938, Giusto si prende una degna rivincita: con Grabriele Boccalatte disegna una splendida linea di salita sulla parete sud-ovest del Picco Gugliermina, ascensione considerata ancor oggi una delle più difficili scalate in libera nel massiccio del Bianco e, forse, in tutte le Alpi occidentali.
Il 1939 è un anno davvero poco “gervasuttiano” (almeno in termini di imprese alpinistiche di punta): incidono sia gli impegni di lavoro, sia l’assunzione del ruolo di Direttore della Scuola di alpinismo, da poco intitolata a Gabriele Boccalatte (Scuola che, seppur burocraticamente inserita nel GUF, era di fatto la Scuola del CAI Torino), sia il clima generale che si sta predisponendo all’imminente conflitto.
Nonostante tutto ciò, Giusto riesce a realizzare un’altra delle tante prime ascensioni su vette “minori”: la Cima Fer in Val Soana (propaggini piemontesi del gruppo del Gran Paradiso), salita nel giugno del 1939 con Maria Teresa Galeazzi, Ettore e Giuseppe Giraudo e A. Rivera. Si tratta di una via divenuta “classica”, perché (a dispetto di un avvicinamento un po’ complesso), comporta una intrigante arrampicata su bellissima roccia. Tuttavia il clima prebellico limita decisamente l’attività alpinistica: in più, in un periodo non esplicitato, ma più o meno a cavallo fra 1939 e 1940, Gervasutti viene richiamato alle armi e nominato comandante del sottosettore Bianco-Seigne, inserito nell’allora chiamato “Reparto autonomo valligiani Monte Bianco (R.A.V.M.B.)” (oggi Reparto Autonomo Monte Bianco, NdR). Va storicamente ricordato che i comandanti degli altri due sotto-settori del reparto in questione erano Chabod e Andreis, cioè altri due validi accademici piemontesi.
Pur di stanza sul confine con la “nemica” Francia, la veloce conclusione della fase di combattimenti, ha permesso a Gervasutti, nel corso del 1940, di “strappare” ai suoi superiori numerose autorizzazioni a compiere ascensioni in zona. Ad alcune “piccole prime” (in particolare sulla Pyramide des Aiguilles Grises), di limitato rilievo alpinistico, si alternano invece due imprese di grande portata: dapprima la sua seconda personale ascensione della Cresta sud dell’Aiguille Noire, e poi, con Paolo Bollini, la prima ascensione del Pilone Nord o di Destra (in seguito chiamato Pilone Gervasutti) dei quattro che compongono i Piloni del Freney (agosto 1940). In tal modo Giusto corregge una lacuna che sembra gli fosse sistematicamente rinfacciata nei salotti torinesi, ovvero quella di non aver ancora calcato la vetta del Monte Bianco. L’attività del 1940 si conclude con un nuovo e infruttuoso tentativo (sempre con Paolo Bollini) alla Est delle Jorasses: la partita con la Est è ormai aperta, ma sarà rinviata al ’42.
Il 1941 è infatti un’annata decisamente deludente, per la complicata combinazione fra impegni professionali e crescenti difficoltà connesse allo stato di guerra. Le difficoltà logistiche costringono gli alpinisti torinesi a muoversi su montagne relativamente vicine e comode: torna in prinmo piano la Valle Stretta, che si raggiunge con il treno Torino-Bardonecchia e, poi, con un paio d’ore a piedi. Un po’ tutti i torinesi compensano il minor prestigio della media montagna (rispetto alle grandi vette) con un’accentuata attività esplorativa. Nel corso del 1941 Giusto apre due itinerari d’arrampicata, che resteranno nella storia della Parete dei Militi (Valle Stretta): la “Gervasutti di destra” (con Michele Rivero) e la “Gervasutti di sinistra” (con Guido De Rege). Però, sul finire di settembre, Gervasutti riesce a tornare sulle alte quote e, con Giuseppe Gagliardone, realizza la salita completa (quarta ascensione assoluta e prima senza guide) della Cresta del Furggen al Cervino.
La parete est delle Grandes Jorasses
Arriva il 1942 che è fondamentalmente incentrato sull’ascensione della Est delle Jorasses: dopo un paio di tentativi, Gervasutti e Gagliardone realizzano la vittoria finale a metà agosto. Negli appunti di Giusto, questa via è l’unica che egli valuta indiscutibilmente di VI grado: anche per tale motivo, la Est delle Jorasses è considerata dai più il capolavoro alpinistico di Gervasutti.
Come segnala Chabod, il libro Scalate nelle Alpi si conclude con il resoconto di questa fulgida ascensione, ma in realtà l’attività di Giusto prosegue ancora per quattro anni. Nel 1943, in un contesto generale sempre più complicato, Gervasutti frequenta la Grignetta in giugno e poi “piazza” due discreti colpi nel Bianco: sale per la terza volta la Cresta sud della Noire e, a seguire, sale anche la Cresta nord-nord-ovest dell’Aiguille de Leschaux (in discesa, però viene travolto da una piccola slavina e cade in un crepaccio, procurandosi qualche “danno” non grave alle ginocchia).
Il Pilastro Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina
Neppure il 1944 è un anno di intensa attività alpinistica, ma, ciò nonostante, Gervasutti riesce a realizzare la completa salita dell’Arête du Diable al Tacul, l’ascensione del Monte Bianco dal bivacco della Fourche (non è ben chiaro quale percorso abbia effettivamente seguito, se la concatenazione delle vie normali Tacul-Maudit-Colle della Brenva-Monte Bianco oppure se abbia salito la Cresta Kuffner del Maudit, con proseguimento fino alla vetta massima) e soprattuto la prima salita (con Gigi Panei) del Pic Adolphe per una breve ma difficile via (dove si annidano numerosi passaggi di VI grado) lungo la parete sud-est.
Ancora peggio va considerata l’annata del 1945, dove l’attività di Gervasutti si limita sostanzialmente ad alcune salite di allenamento in Grignetta. Il clima generale non aiuta certo, ma Gervasutti ne approfitta per impostare, in prospettiva, l’auspicato rilancio. Infatti proprio in quel periodo Giusto costruisce dei legami molto profondi con i giovani (ventenni o poco più) della rinata SUCAI Torino e ricopre il ruolo di Direttore Responsabile del relativa pubblicazione (scritta e stampata a Torino, ma diffusa a tutte le SUCAI d’Italia). Inoltre Gervasutti, in quanto Direttore della Scuola Boccalatte (che nel 1944 era stata insignita del titolo di Scuola Nazionale di Alpinismo), focalizza l’opportunità di integrare l’organico istruttori della Scuola (costituito da accademici blasonati, ma spesso sulla breccia da quindici o vent’anni) con l’innesto di forze fresche, prelevate appunto dal serbatoio della SUCAI Torino. In tale contesto, alcuni sucaini vengono progressivamente inseriti nella Boccalatte come aiuto istruttori: il connubio fra accademici e giovani sucaini è così saldo che permette alla Scuola di superare, quasi senza sbandamenti, la successiva scomparsa del Direttore Gervasutti (settembre 1946). La Boccalatte entrerà invece in crisi nel corso del 1950 e ciò permetterà al CAI Torino di accettare nel suo ambito la Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti (in realtà fondata, nel 1948, in una sottosezione collaterale, l’ALFA). Da allora la Scuola Gervasutti ha operato all’interno del CAI Torino senza soluzione di continuità, onorando costantemente il suo ruolo con un’attività di elevatissimo prestigio.
Viceversa i giovani sucaini, che avevano preso gusto all’attività didattica svolta nella Boccalatte (dove erano stati progressivamente coinvolti fino a tutti gli anni ‘40 a seguito dell’iniziativa originaria di Gervasutti), fonderanno nel ’51-52 il “Corso Sci Alpinistico invernale SUCAI”, diretto erede del corso invernale (con uso degli sci) già concepito da Gervasutti per la Boccalatte fin dal 1939. Circa una decina di anni dopo, il Corso SUCAI si trasformerà in Scuola di scialpinismo (Scuola Nazionale dal 1968) e non ha mai interrotto l’attività in 65 anni, mantenendosi sempre su livelli di eccellenza.
Si può ragionevolmente sostenere che le due celebri Scuole del CAI Torino (la Gervasutti, in campo alpinistico, e la SUCAI, in campo scialpinistico) costituiscono i due filoni dell’eredità didattica di Gervasutti e rappresentano un altro risvolto dell’importante figura di questo alpinista.
Tornando invece all’attività alpinistica personale di Giusto, il 1946 costituisce l’annata conclusiva della stessa, ma solo perchè in tale anno si registra l’incidente fatale: in assenza di ciò, è presumibile infatti che l’attività di punta si sarebbe prolungata ancora per qualche stagione, considerata la “portata” ancora ben attiva del personaggio. Dopo una capatina in Grignetta nel giugno del 1946, già in luglio Giusto è nel gruppo del Bianco: Trident du Tacul, via Lepiney con piccola variente autonona (compagno Andrea Filippi); Grand Capucin (terza ascensione assoluto, con Giulio Salomone); Mont Maudit, Via Crétier (seconda ascensione, con Paolo Bollini); Mont Blanc du Tacul, Pilier Boccalatte (terza ascensione, ancora con Paolo Bollini); Petit Capucin, prima ascensione della parete est (con Carlo Antoldi e Giuseppe Gagliardone), realizzata il 16 agosto, cioè esattamente un mese prima dell’incidente al Tacul (in quest’ultima occasione, compagno di cordata di Gervasutti era Gagliardone).
L’incidente fatale spezza anche il grande “sogno” che Gervasutti stava coltivando da un po’ di tempo, cioè quello di organizzare una spedizione (tra l’altro autofinanziata e leggera, cioè in stile alpino, come diremmo oggi) al Fitz Roy, la vetta patagonica che era già stata oggetto di un tentativo di salita nel 1937 da parte del “solito” conte Bonacossa, accompagnato da Titta Gilberti, Ettore Castiglioni e Leo Dubosc. Il Fitz Roy sarà vinto solo nel 1952 dai francesi Lionel Terray e Guido Magnone, cioè da due giovani leoni della grande generazione francese che dominerà l’alpinismo a cavallo del 1950 (proprio nel 1950 i francesi scaleranno il primo 8000 della storia, l’Annapurna): anche questo episodio dimostra quanto Giusto fosse in anticipo sui tempi e sottolinea una volta di più la sua visione pionieristica ed esplorativa.
Nel saluto che gli rivolse dalla pagine dell’Unità (ottobre ’46), Massimo Mila (altro importante accademico torinese e molto amico di Giusto) così ha scritto: “Perchè il progresso della tecnica consiste appunto in questo: muta il giudizio degli uomini circa il possibile e l’impossibile”.
Questa è la grandezza di Gervasutti: attraverso la sua multiforme attività ha reso possibile ciò che, prima di lui, era ancora considerato impossibile.
Bibliografia di riferimento
Renato Chabod, La Cima di Entrelor, Zanichelli, Bologna, 1969
Giusto Gervasutti, Scalate nelle Alpi, Il Verdone, Torino, 1945 (in commercio si trovano più recenti edizioni, fra cui quella della Collana I Licheni, Vivalda Editore, Torino, 2005).
François Labande, Guide du Haute-Dauphiné, Cartothèche Édition, Joue Les Tours, 2007.
Il Mont Blanc du Tacul con, in primo piano, il possente Pilier Gervasutti
Ailefroide, parete nord-ovest, detta Muraille de Coste Rouge
(la più “gervasuttiana” delle sue prime ascensioni)
Relazione liberamente tratta dalla Guide du Haute-Dauphiné di F.Labande (pag 303 e seg.)
Per la sua ampiezza, la sua altezza (quasi 1100 m) e la sua ripida inclinazione, questa parete si inserisce nello stretto circolo delle più importanti “face Nord” di tutto l’arco alpino. Compresa fa la Cresta di Coste Rouge, a sinistra guardando, e il Glacier Long, a destra, la Muraille de Coste Rouge presenta quattro elementi salienti, partendo da sinistra: il Couloir de Coste Rouge; il Pilier Central che culmina alla quota 3946 m della cresta sommitale (circa 300 m lineari a nord-est dalla vetta massima); due grandi zone di placche ghiacciate, scendenti dal punto culminante; il Pilier Diagonale, che separa la parete nord-ovest dal versante ovest (incombente sul Glacier Long). Oggi almeno sei itinerari autonomi (cui si aggiungono numerose varianti e collegamenti vari) percorrono la parete, ma la Via Gervasutti-Devies, risalendo il Pilier Central, è la linea di salita più logica e comporta un’arrampicata sostenuta, splendida e molto esposta. La parte superiore risulta spesso verglassata. Inoltre alcuni tratti inferiori (traversata del Couloir) e mediani (Dalles Grises) sono esposti a frequenti cadute di pietre. Le difficoltà tecniche non sono mai davvero “estreme” (però alcuni passaggi – Pilier Centrale e uscita finale – sono ancor oggi quotati di V+ francese), ma l’engagement e la continuità della salita giustificano una quotazione d’insieme di ED-. Ricordiamo anche che l’attuale V+ francese corrisponde all’incirca al VI classico. La citata guida diffida dall’impegnarsi in questa impresa come se fosse “una scalata equipaggiata a spit, posta a fianco della strada”.
Approccio: da La Berarde si perviene al rifugio Temple-Écrins e da questo, attraverso un ghiacciaio non comodo neppure ai tempi di Gervasutti (cioè ben prima del ritiro dei ghiacciai), si approccia la parete in corrispondenza di un cono nevoso, che costituisce lo sbocco del Couloir de Coste Rouge. A questo punto si può anche giungere in discesa da un eventuale bivacco al Col de Coste Rouge, magari provenendo dal Glacier Noir (ovvero dalla Vallouise, soluzione logistivamente comoda, vista la più logica discesa sul versante est del massiccio).
Relazione: attaccando a sinistra del cono nevoso, si risalgono le rocce (III e IV) sulla sinistra del couloir, fino ad attraversarlo per raggiungere il Pilier Central. Si arrampica per diverse lunghezza con difficoltà intermedie (IV), fin dove il Pilier si raddrizza in un grande risalto triangolare. Proprio al centro di tale risalto si sale un marcato diedro nerastro (V+), si prosegue per due lunghezze in camino (V+, poi V), infine si reperisce il filo di una cresta, tramite il quale (IV) si giunge alla base di un muro verticale di 15 m, che si affronta direttamente (V+, in alcune relazioni viene dato anche un passo di 6a). Recuperato (a destra) il filo di cresta, lo si risale (IV, ma molto esposto) fino ad una selletta. Dopo breve discesa, ci si trova alla base di un nuovo imponente risalto. Lo si affronta dapprima lungo una fessura (V e V+, bella roccia rossastra) e successivamente per altre fessure oblique a sinistra e un po’ meno difficili, giungendo così in vetta al Pilier. I primi salitori in questro tratto si tennero più a sinistra, prima traversando su terreno franoso e poi risalendo un grande diedro grigio verticale (V+). Fin qui la citata guida indica un tempo di 6-8 ore dall’attacco. Dalla vetta del Pilier si segue una cresta nevosa che conduce alla base dell’immensa successione di lavagne chiamate Dalles Grises, lisce e molto inclinate (caduta sassi e difficoltà di assicurazioni per la roccia molto compatta). Si sale diritti lungo vaghe fessure (V), poi leggermente in obliquo verso destra (V+), poi, invece, verso sinistra alla base di una fessura in genere umida. La si risale (IV) e poi si contorna a destra (V+) un successivo muro molto ripido. Sempre sulla destra si contorna un primo tetto, si giunge alla base di un secondo tetto (V) e, sopra, si prosegue verso sinistra. Si raggiunge così una grande cengia a semicerchio, che si segue verso destra. Si perviene su una spalla di rocce rotte e in genere innevate o addirittura verglassate (IV+). Dalla splalla si sale il secondo corto couloir a sinistra (V-), che immette in una rampa ascendente verso sinistra. Dopo averla risalita (IV), si traversa a sinistra sotto un “naso” per addivenire a una grande terrazza alla base di un profondo camino verglassato e alto circa 100 m. Lo si risale (V) fin sotto lo strapiombo che lo blocca, dove si traversa a sinistra per una cengia aggettante e molto esposta (V+). Si giunge così su rocce più facili (IV+) che conducono alla cresta sommitale. La guida indica un tempo di 4-6 ore dal vertice del Pilier Central, per complessive 10-14 ore dall’attacco. Dall’uscita della via, girando a destra, si perviene per cresta al punto culminante.
Discesa: l’alternativa più indicata è costituita dalla discesa lungo lo sperone sud-orientale (II) fin sul Glacier dell’Ailefroide e da qui al Refuge du Selé. Dal rifugio, a seconda dell’originale punto di partenza, si può scendere il vallone del Selè verso est fino al paese di Ailefroide, oppure si valica il Col du Selè per tornare a La Berarde.
Questa nostra avventura inizia il 16 Agosto, quando arriviamo a Delhi e pochi giorni più tardi, il 21 Agosto, raggiungiamo il nostro campo base, chiamato Nandanban a circa 4400 metri, luogo idilliaco immerso nel verde dei prati, tra ruscelli di acqua chiarissima e con una stupenda visuale su Kedarnath, 6940m e Shivling, 6543m.
Ci avevano detto che quest’anno il monsone era debole, ed infatti il tempo è fin da subito abbastanza buono, e le montagne sono in condizioni piuttosto secche: i primi due giorni la coda del monsone ci porta ancora umidità, nebbia e pioggia pomeridiana, poi il tempo si fa man mano più bello e caldo.
Iniziamo fin da subito a trasportare il materiale al nostro campo base avanzato, posto ad una quota di circa 5000 metri, proprio nel mezzo di questa gigantesca “conca” formata dai Bhagirathi.
Il nostro obiettivo è quello di aprire una via nuova, in arrampicata libera, sulla ancora inviolata parete Ovest del Bhagirathi 4 (6193m).
Guardando il gruppo dei Bhagirathi, a mio parete la montagna più bella ed accattivante è il Bhagirathi 3, con il suo caratteristico, misterioso e tetro anfiteatro, sbarrato in cima dalla fascia nera di scisto.
Il Bhagirathi 4 si trova in secondo piano rispetto al 3 e a prima vista sembra più piccolo e più “addomesticabile”, anche se nonostante numerosi tentativi, nessuno è ancora riuscito a salirlo! (dalla parete Ovest)
Tuttavia, per qualche strano effetto ottico l’apparenza non rispecchia la realtà…
Il 26 di Agosto io e Luca ci avviciniamo alla nostra parete per la prima volta, con lo scopo di portare la portaledge e altro materiale fino alla base e studiare la linea che intenderemo attaccare; Giga soffre di forte mal di gola e febbre e ci attende al campo base.
Man mano che risaliamo faticosamente lo zoccolo che porta verso la parete, ci accorgiamo che questo muro è in realtà molto più ripido di quanto ci aspettassimo, pensiamo sarà molto molto dura salire dalla linea che avevamo immaginato a tavolino in centro alla parete. Dopo i primi 200 metri verticali o leggermente appoggiati, l’inclinazione della parete cambia drasticamente e tutto diventa strapiombante per circa 500 metri fino alla fascia finale di scisto al di sotto della cima.
Tra tutte le pareti che ho visto in vita mia, mi torna subito alla mente l’immagine della mitica parete di El Capitan. Queste due pareti sono così simili, forse la cosa che le rende più simili è lo spigolo, che sporge verso l’esterno proprio come il famigerato “nose” del Capitan e divide la parete in due lati.
Ma ci saranno anche qui le fessure che ci sono sul Capitan??
L’unico modo per saperlo è provare a salire.
Dopo essere ridiscesi al campo base ed aver riposato per bene, siamo pronti per il primo vero tentativo; nel frattempo anche Giga è guarito e sarà dei nostri.
Abbiamo raggiunto il campo base da meno di 10 giorni e il nostro stato di acclimatamento non è ancora ottimale; tuttavia siamo alla base della nostra linea dei sogni e proprio Giga apre le danze.
Dopo un primo tiro di riscaldamento, la fessura nel diedro scompare e subito le difficoltà si alzano.
Non senza fatica ci dirigiamo verso sinistra e nel primo pomeriggio riusciamo a vedere bene la parte centrale della via.
I presagi non sono per niente buoni: per accedere al grande diedro, c’è una sezione leggermente strapiombante di una cinquantina di metri, senza nessuna struttura evidente, solo qualche lama staccata qua e là in mezzo alla parete liscia. Ed inoltre con l’arrivo del sole la temperatura si sta alzando e diverse pietre stanno iniziando a cadere un po’ dappertutto, anche intorno a noi. Sapevamo che questa era una parete esposta alle scariche e che questo apparentemente è stato il motivo che ha fatto fallire molti dei tentativi precedenti, ed eravamo pronti ad accettare questo rischio, tuttavia quando ti trovi in mezzo, beh, non è mai proprio piacevole! Anche se i sassi cadevano solo sulla prima parte di parete perché più in alto, grazie alla sua natura strapiombante, il grande diedro restava riparato.
Tuttavia, capiamo che questa linea è troppo difficile per il nostro stile di salita. L’idea è sempre stata quella di scalare in libera e non siamo attrezzati (e nemmeno capaci) per fare artificiale difficile e scalare in libera su quel terreno è al di sopra delle nostre capacità. (Il nostro obiettivo era anche quello di non piazzare spit, sebbene ne avessimo con noi una decina in caso di emergenza)
La sera stessa attrezziamo le doppie e scendiamo, sotto una rada pioggia di sassi, per lo più di piccole dimensioni, che cadono dalla cima, terminiamo la discesa a notte fonda, stanchi, ma illesi e sempre più acclimatati.
Ed ora che si fa?!?
Chi mi conosce e ci conosce, sa che non siamo i tipi che abbandonano così facilmente…
Il nostro ragionamento è il seguente: “dato che la linea che avevamo pensato di salire, si è rivelata troppo strapiombante e liscia per essere scalata in libera, se proviamo a salire più a destra, dove la parete sembra più appoggiata, dovremmo trovare quello che stavamo cercando: un terreno sempre difficile, ma salibile”.
Una manciata di giorni dopo, siamo di nuovo pronti per un altro tentativo, partiamo 50 metri più in basso e più a destra della volta prima. Purtroppo per questo tentativo, su 3 settimane di tempo stabile e bello, riusciamo a beccare l’unico giorno di tempo pessimo. La temperatura fin dal mattino è particolarmente rigida, ma pensiamo che col tempo possa migliorare; dopo il primo tiro però inizia ad alzarsi un forte vento, dopo il secondo tiro il cielo si copre e alla fine del terzo tiro inizia a nevicare!
Non sapendo come potrebbe essere il tempo nei giorni successivi pensiamo che non ha molto senso mettersi a bivaccare in portaledge dopo nemmeno 100 metri e quindi decidiamo di scendere per ritentare in seguito.
Una volta tornati al campo base il tempo è perfetto e questa volta, nonostante ci fosse stato espressamente vietato, decidiamo di usare di nascosto il nostro telefono satellitare per chiedere al fido Deza le previsioni del tempo. Le notizie sono ottime: alta pressione con tempo bello, stabile e caldo (relativamente caldo…) per almeno 5 giorni.
Dopo solo un giorno di riposo partiamo ancora per quello che pensiamo possa essere l’assalto decisivo.
Il 12 Settembre iniziamo a scalare e questa volta i presagi sembrano essere ottimi. Luca scala da primo per tutta la prima giornata, fino al nevaio prima della seconda parte di parete. La sua progressione è liscia ed efficace, nonostante ancora una volta ci sembra di scalare in un freezer. Quando arriva il sole anche le difficoltà si alzano e un difficile tiro di placca, nel perfetto stile #lucaschiera ci porta all’inizio del nevaio.
Decidiamo di montare la portaledge al termine superiore del nevaio, contro la parete per evitare le scariche di sassi, che nel frattempo sono cominciate a cadere.
Ci svegliamo con le prime luci e dopo aver ri-impacchetato tutto è il mio turno ad andare da primo. La temperature è ben al di sotto dello zero e sono piuttosto intimorito all’idea di scalare con questo freddo. Infatti dopo circa un paio di metri, piedi e mani sono già insensibili, la circolazione dei piedi è completamente bloccata nonostante le scarpette relativamente larghe e i calzettoni.
Per lo meno la scalata è decisamente nel mio stile: un diedro fessurato, da salire per lo più con incastri e spaccate, è un tipo di arrampicata che so di poter fare anche con roccia bagnata o mani e piedi insensibili. Tuttavia quella che con temperature accettabili sarebbe stata una divertente scalata ora si trasforma in dolore e sofferenza, ma pian piano riesco a procedere in bello stile a un buon ritmo nonostante siamo ormai intorno ai 5700-5800 metri.
Matteo della Bordella in apertura assicurato da Matteo De Zaiacomo
Il diedro si fa sempre più ripido e la scalata si mantiene su difficoltà costanti. A un certo punto abbiamo una grande decisione da prendere: possiamo scegliere di continuare a salire dritti nel diedro ed arrivare quindi nel punto in cui lo scisto è più lungo, ma apparentemente rotto e facile, oppure prendere un ripido sistema di fessure e diedri che taglia tutta la parete verso sinistra e che porta dove la sezione di scisto ci sembra molto breve, anche se ripida.
Pensando che se andassimo a sinistra una eventuale ritirata sarebbe molto difficile per via della portaldege e dei sacchi pesanti, decidiamo di proseguire dritti, come prevedeva il nostro piano originario.
Purtroppo nell’ultima parte del diedro, il ghiaccio e la fatica mi obbligano ad abbandonare il sogno di una completa salita in libera a vista ed a ricorrere all’artificiale.
Arriviamo prima del tramonto a montare la portaledge, prima della fascia nera di scisto.
Come il sole abbandona la parete la temperatura precipita ed è solo infilandoci nella portaldge coperta dal telo che riusciamo a riposare, certo non si sta proprio comodi quando si è in 3 in una portaldge da due persone, ma ci sia arrangia…
Dovremmo essere circa a 5900 metri, più o meno a 200-250 dalla cima. Tra noi e la vetta solo la fascia di scisto nera, la grande incognita di questa montagna.
La mattina successiva è ancora più fredda della precedente, siamo più in alto e più esposti al vento, in pochi secondi le mie mani sono completamente congelate e fatico a muovere e a fare forza per smontare i pali della portaledge ed impacchettare il resto del materiale; ci impiegheremo quasi 3 ore per sistemare tutto.
Luca prende il comando, ma questa volta è decisamente troppo freddo per provare ad arrampicare e dopo qualche tentativo decidiamo di aspettare il sole. Arriva il sole e proviamo a salire sullo scisto nero marcio, prima verso destra, poi a sinistra ed infine dritti.
Non c’è modo di andare avanti, la roccia è inconsistente e si sfoglia al tattoo e, sfortunatamente, come sempre su questa parete, tutto è molto più ripido di quello che pensavamo!
Proviamo e riproviamo e valutiamo ogni possibile maniera di salire: consideriamo l’opzione di calarci in diagonale nel couloir tra il Bhagirathi 4 e il 3, ma purtroppo quest’ultimo è troppo a destra perché possiamo raggiungerlo.
Dopo qualche ora arriviamo alla conclusione che provare a salire su quel marciume sarebbe davvero troppo rischioso, a 6000 metri su una parete del genere, in un posto del genere, non si può sbagliare.
La decisione questa volta è dura da prendere e da digerire. Arrivare così vicini alla fine, dopo aver aperto 700 metri di parete, in ottimo stile e scalando bene e ritirarsi perché la roccia marcia ci impedisce di passare è come una beffa, non è facile da accettare.
Solitamente non rinuncio senza prima giocarmi ogni disperata carta che ho in mano, e se c’è da rischiare non mi tiro indietro, ma questa volta purtroppo è diverso, è tutto più difficile: il freddo, la fatica e soprattutto la roccia marcia che rende impossibile proteggersi e si rompe in mano, purtroppo non me la sento di prendere in mano la situazione e provare a salire comunque e così dopo una lunga “lotta interiore” mando giù la decisione presa di scendere.
Una volta giunti al campo base e dopo aver analizzato a mente lucida la situazione penso che alla fine la decisione presa è stata saggia. Non ho nulla da rimproverare a me ed ai miei compagni: abbiamo scalato bene, in due giorni e mezzo abbiamo fatto molta strada.
E’ un po’ come una partita di calcio in cui giochi bene, tieni in mano la partita, segni un goal e cerchi di amministrare fino alla fine, e poi all’ottantacinquesimo, con un contropiede gli avversari pareggiano e subito dopo, nei minuti di recupero, ti segnano il gol del 2-1. Un po’ tipo quell’Italia- Francia, finale degli Europei del 2000, vi ricordate?
Il bello dell’alpinismo e del nostro modo di fare alpinismo è che c’è sempre la possibilità di fallire.
Nei giorni successivi abbiamo intenzione di fare un altro tentativo su questa parete, seguendo un’altra possibile linea. Purtroppo non ne avremo l’occasione.
I giorni successive le temperature si abbassano e si mette e a nevicare, inoltre anche il mio fisico dopo 4 settimane di sforzi con carichi pesanti, mi chiede di fermarmi, facendomi uscire un fastidioso dolore all’inguine che non mi permette di camminare in salita.
Il bello di tentare obiettivo difficili è anche che spesso le chance che hai sono davvero contate.
Non so ancora se questo per noi sarà un addio o un arrivederci, sicuramente questa parete un po’ di amaro in bocca ce l’ha lasciato e la voglia di riuscire per primi a salirla con una bella via in bello stile è molto alta…Senza dubbio ancora una volta è stata una sconfitta della quale conservo un ricordo più bello rispetto a tanti altri successi.
Matteo Della Bordella – Ragni di Lecco, C.A.A.I.
La discussioni sui rapporti tra Accademico ed alpinismo professionistico hanno considetaro, tra gli altri, il caso dei soci del Club che hanno deciso, ad una certa svolta della loro carriera alpinistica, di diventare Guida. Ciò avvenne per la prima volta con Emilio Comici.
Il 1931 concluderà il periodo "accademico" di Emilio Comici. Ci sarà la magnifica "direttissima" italiana alla Nord Ovest del Civetta, altre nove "prime", ci sarà quello spostarsi in vari gruppi - Giulie Occidentali e Orientali, Pale di San Lucano, Civetta, Canon delle Meraviglie, in Istria, Cadini di Misurina, Lavaredo, Delfinato, Carniche - tipico della mentalità accademica, che verrà poi in parte a mancare.
SPIRO DALLA PORTA XIDIAS
Maurizio Oviglia del Gruppo Occidentale e Rolando Larcher del Gruppo Orientale assieme a Luca Giupponi aprono "El lobo del desierto", una nuova via sulle torri che dominano Monterrey.
470m con difficoltà sino al 7c e 7a+ obbligatorio con lo stile di apertura che contraddistingue gli apritori:dal basso in libera con chiodatura da cliff e obbligatorio elevato.
Il racconto dellla salita su Planetmountain: http://www.planetmountain.com/News/shownews1.lasso?l=1&keyid=43480
by R. Larcher
Luca Giupponi e Rolando Larcher durante la rotpunkt
Non so spiegare bene il motivo per cui mi sia innamorato dell’Ossola e delle sue valli ripide e selvagge, con pareti rade e spesso lontane dai fondovalle di roccia spesso non da cinque stelle.
Quello che so è che è successo e questa forte attrazione mi ha spinto 11 anni fà a trasfermici. Tutti noi alpinisti passiamo fasi nella vita, ognuno con i propri ritmi dettati da famiglia/e, lavoro, ispirazione, energia e casi che ti portano a fare cose che mai avresti detto. Da qualche anno mi ritrovo a praticare un alpinismo di scoperta e riscoperta e il territorio ossolano ben si presta a questa filosofia. Tante sono le pareti dimenticate, figuriamoci gli itinerari. Vie aperte e mai o pochissimo ripetute danno, per lo meno a me personalmente, uno stimolo per ravanate epiche come fossero delle prime.
Il libro scritto insieme ad Alberto Paleari, Guida Alpina che non necessita di presentazioni, e del nostro collega Accademico e arrampicatore di classe Andrea Bocchiola, è stata una scusa in più per andare a scoprire vie, luoghi, pareti, pieghe tra le rocce nel profondo. Nel profondo della loro morfologia concreta ma anche della loro storia, degli aneddoti di chi era passato prima. E’ stato un viaggio appassionante per tutti e tre che chissà possa aver fatto viaggiare con la mente ed i pensieri e qualche sogno anche qualche romantico lettore. L’aspetto a mio avviso più bello di questa filosofia alpinistica è quella di non stancarsi mai di frequentare gli stessi luoghi e le stesse pareti. Passato il periodo della conquista delle grandi classiche nelle Alpi, della ricerca continua di nuove montagne su itinerari di prestigio, del raggiungimento obbligatorio della vetta, oggi godo nel frequentare una via di fianco a quella già percorsa in cui notai una vecchia sosta e a scoprirne gli autori, a rifrequentare una stessa via già percorsa in un’altra stagione, con nuovi compagni. Lo zaino non pesa, la sveglia del mattino non è più un sacrificio, la soddisfazione è massima anche senza nessuna vetta.
Più difficile trascinare invece compagni in queste avventure tipicamente personali. Sono felice di aver contagiato un po’ di selvaggia Ossola nel nostro Marcello Sanguineti. Potrei scrivere un altro libro sulle ultime avventure, vorrei ora accennare all’ultima vissuta in questo tristemente anomalo inverno in cui sembrava che l’autunno mai volesse lasciare il posto all’inverno.
Non ero certo che fosse già stata effettuata la prima invernale alla via in oggetto, quello di cui ero certo era che avremmo vissuto una bellissima avventura in uno tra gli ambienti più bella delle sette valli ossolane. La carenza di informazioni è in stile all’ambiente. La via, pur non essendo difficile, ha pochissime ripetizioni e pensai a quella quando nel vociare alpinistico si parlava di sfruttare il momento caldo per tentare delle prime invernali. Marcello coinvolse marco Bagliani e così ci trovammo nella cordata perfetta da tre, ideale per dividere i carichi. Non ho grandi aneddoti da raccontare perché tutto andò liscio. L’avvicinamento al bivacco, salvo gli ultimi cento metri nella neve accumulata ed inconsistente che ci hanno impegnato molto, l’avvicinamento alla parete, la salita dello zoccolo con gli scarponi, la parete sommitale in scarpette e la guglia finale, la discesa e il rientro, tutto è andato liscio come in un team affiatato, che sa cosa deve fare. Il diedro rosso del terzultimo tiro sotto ad un cielo blu quasi finto, la vista su venti quattromila dalla guglia sommitale, l’esperienza della prima invernale che, per quanto agevolata, è sempre invernale e, per giunta a 3300 metri. Insomma, ancora una volta in Ossola ho trovato quello che cerco, quello di cui ho bisogno, quello che da un senso alla mia vita. E, come ho scritto in un post su facebook, nessuno di noi tre, dalla vetta non vetta, avrebbe fatto cambio con nessun altro posto in quel momento.
Alla prossima avventura ossolana!
Giovanni Pagnoncelli
28-29 dicembre 2015, Marco Bagliani, Marcello Sanguineti, Giovanni Pagnoncelli.
Pizzo Andolla, Pilastro Murgia, 450 m., VI- max, TD.
Dal senso esoterico della montagna e dell'alpinismo ai rapporti tra wilderness ed ecologia, alcune interessanti riflessioni sul vulcanico accademico veneziano
Ettore Zapparoli, nato a Mantova nel 1899 e scomparso sulla parete est del Monte Rosa nel 1951, accademico del CAAI, fu uno dei protagonisti dell’alpinismo classico tra il 1929 e il 1951, praticando l’alpinismo solitario con nuove vie sul Monte Rosa.
Da Planetmountain
Convegno CAAI: apritori a confronto al Forte di Bard
02.10.2007 di PlanetMountain
Il 6 ottobre il CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) organizza al Forte di Bard (AO) il Convegno Nazionale, mettendo a confronto grandi nomi dell’alpinismo sull’etica delle aperture in montagna.
“Impossibile by fair means”, diceva il biglietto lasciato dal grande Mummery e dalla guida forse più famosa dell’epoca, Alexander Burgener, alla base delle inscalabili rocce del Dente del Gigante sul Monte Bianco. Sappiamo com’è andata, pioli nella roccia e scale hanno avuto ragione dell’impossibile e la storia ha consegnato Sella e compagni come primi salitori del Dente. Chi ha avuto ragione?Non saremo noi i giudici, ma a partire da quel fatto, l’etica di apertura di una via è entrato come argomento nelle discussioni degli alpinisti. Il tema, in verità, non è mai passato di moda, anzi è particolarmente attuale e caldo in seguito alle aperture con protezioni fisse, i famigerati spit.
Tecnicamente si parla di aperture dal basso, di obbligatorio, di rischio di caduta ecc. tutti concetti nuovi e a totale discrezione dell’apritore. Non esistono regole conclamate tanto che una via a spit per alcuni deve essere sinonimo di sicurezza, per altri di protezione minima, anche con pericolo di caduta mortale.
Nella straordinaria cornice del Forte di Bard, concesso grazie al Patrocino della Presidenza della Regione Valle D’Aosta, si svolgerà il Convegno Nazionale del Club Alpino Accademico Italiano che vedrà protagonisti alcuni dei massimi esponenti dell’alpinismo contemporaneo e del passato, sul tema delle aperture in montagna su tutti i terreni.Il convegno non ha la pretesa di porre delle regole, ma l’obiettivo del CAAI è quello di aprire pubblicamente il dibattito attraverso la testimonianza diretta dei protagonisti . I nomi sono tra i più prestigiosi, arriverà eccezionalmente da Parigi, visto i novant’anni suonati, Guido Magnone, gloria dell’alpinismo francese che ancora oggi rivendica le sue origini italiane e torinesi .
Il Curriculum di Magnone è straordinario, citiamo solo la prima salita del Fitz Roy, considerata allora la montagna più difficile del mondo. Eppure anch’egli, in occasione della scalata della sua parete Ovest del Petit Dru, fu criticato per il metodo utilizzato.Tra gli ospiti interverranno grandi personaggi che hanno scritto pagine indimenticabili comeAlessandro Gogna, ed emergenti che esplorano nuovi terreni come Fabio Palma.
Sentiremo ovviamente gli interventi degli Accademici che hanno nel loro DNA l’apertura di vie nuove, molte, se non la maggior parte di quelle che ripetiamo sulle nostre Alpi, sono opera di soci del CAAI. Tra gli altri, in prima persona interverranno Rolando Larcher, Nando Nusdeo,Manrico Dell’Agnola, Ugo Manera, Erik Svab.
Si ringrazia Grivel e il Forte di Bard per il contributo.
Da Planetmountain
Il sogno di Sea, storie e memorie di arrampicata dal Meeting del Vallone di SEA
04.08.2011 di Planetmountain
Il 29, 30 e 31 luglio 2011 si è svolto il Meeting di arrampicata del Vallone di SEA (Val Grande di Lanzo) organizzato da Gism Gruppo italiano scrittori di montagna, Sasp Società arrampicata sportiva Palavela e CAAI Club Alpino Accademico Italiano. Andrea Giorda ce lo racconta con storie e memorie di arrampicata a tutto campo, tra Trad e No-Trad.
Dove è nato il nuovo mattino? In valle dell’Orco certo, ma le radici hanno avuto origine nella Val Grande di Lanzo, in particolare con la scalata della via del Naso al Bec di Mea, da parte di Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi nel 1969. Gian Piero Motti aveva casa a Breno, una frazione di Chialamberto. La Val Grande di Lanzo ha visto sorgere il sole del suo “ Nuovo Mattino”, ma è anche stata teatro del suo crepuscolo culminato con le “Antiche Sere” e la sua fine prematura.Gian Piero non aprì vie nel Vallone di Sea, che a partire da Forno Alpi Graie si dirama sinuoso come un solco di un drago nella parte alta della valle. Si limitò a dare i nomi alle pareti, attingendo alle credenze egizie e ai miti nordici. Nacquero così lo Specchio di Iside, il Trono di Osiride o la Torre di Gandalf il Mago, strutture di rocce lisciate da antichi ghiacciai e testimoni di grandi sconvolgimenti geologici.Se per Gian Piero il Vallone di Sea ebbe il sapore amaro del tramonto, per Gian Carlo rappresentò il sogno tanto cercato e desiderato. Un vallone dimenticato, lontano dai riflettori dove poter sfogare tutta la sua creatività, senza rendere conto a nessuno come piaceva a lui. Un vero terreno d’avventura che riservava sorprese ad ogni angolo.Oggi, con la mia compagna Sabrina e l’antico amico Gianni Battimelli di Roma, siamo all’attacco di una via simbolo, “ Il sogno di Sea” allo Specchio di Iside . Nome che Grassi utilizzò anche come titolo della sua dettagliata monografia che pubblicò nel 1988. E’ il primo giorno del Meeting di arrampicata voluto da Marco Blatto, strenuo divulgatore e difensore di questi luoghi. Quest’anno, oltre al Gism, Gruppo italiano scrittori di montagna e la Sasp , Società arrampicata sportiva Palavela, tra gli organizzatori c’è anche il CAAI.Negli anni in cui si aprivano le vie a Sea, ero attratto dal Vallone di Noaschetta o da Piantonetto, e un po’ mi sono perso la corsa all’oro di queste pareti, la curiosità di ripetere queste vie ora è grande. Purtroppo ha piovuto e tutte le fessure sono bagnate, occorre rivedere gli obiettivi. Ci consultiamo e individuiamo l’unico punto asciutto, una placca con una mitragliata di spit.
Meeting di arrampicata Vallone di Sea 2011 (Foto M. Blatto)
Dopo averla menata a tutti con il Trad è dura arrendersi, sperando di non essere individuati dal basso e come ladri in chiesa, ci lanciamo sulla via Super Controles dell’amico Joe Quercia. Una via molto bella, che offre un’ arrampicata sportiva logica e di grande soddisfazione, per i miei gusti personali le fessure potevano non essere spittate, un piccolo neo, ma si sa che non tutti gusti sono alla “ menta”. Sabrina, che oltre ad essere No Tav, è anche No Trad... mi zittisce e dice che va benissimo così! Ho la rivoluzione in casa.
Urlo nel silenzio (Foto G. Battimelli)
Secondo giorno di meeting, sfiliamo davanti alla solare Torre di Gandalf e gli volgiamo le spalle per il cupo Trono di Osiride, per la precisione ci dirigiamo verso il Bracciolo. Questa volta dal Trad non si scappa ho convinto i compagni a ripetere “Urlo nel silenzio” . Il primo tiro richiede subito attenzione, e infatti sbaglio e mi porto troppo a destra, finisco su roccia rotta e fessure cieche ed erbose, armeggio con micro-nut e imprecazioni e raggiungo con qualche brivido la sosta. Sabrina,che ritiene il mio attaccamento al Trad un delirio senile, vista la scena opta per l’ammutinamento. Rimango con il Battimelli, del quale mi fido ciecamente nonostante in due facciamo 116 anni, lui è più vecchio di me, intendiamoci, e la nostra amicizia risale a più di 30 anni fa, nata sulla Detassis alla Brenta Alta in dolomiti.Due simpatici ragazzi di Bergamo, Mauro e Andrea, ci precedono ed è una soddisfazione vedere che i giovanissimi abbiano ancora voglia di cercarsi grane e “freddo per il letto” su queste vie , non tutto è perduto.La via in sé ha due tiri veramente belli e da non sottovalutare, i passi chiave si snodano su fessuroni off width. Un vero banco di prova per i giovani apritori che trasudavano talento, Maurizio Oviglia, Daniele Caneparo, Roberto Mochino e Roberto Calosso. Ora, con i friend grossi, anche il numero cinque, è uno scherzo proteggersi. La pietra incastrata nella fessura ci ricorda che così non deve essere stato per chi, buttando il cuore oltre l’ostacolo è passato per tracciare la via.Il bilancio del meeting è stato ampiamente positivo, non parliamo di grandi folle, ma di un buon numero di intenditori che ha voluto conoscere meglio questi splendidi posti e queste bellissime pareti, ricche di storia ,ma che non hanno esaurito il loro potenziale, specie in un’ottica Trad.Marco, ha organizzato serate che hanno messo in luce la storia della valle, con testimoni come Ugo Manera, Angelo Siri, Marco Scolaris, e nell’occasione mi è stato consegnato il Premio di Alpinismo del Gism “Paolo Armando”. Deciso in quel di Udine da una giuria presieduta da Spiro dalla Porta Xydias. Un premio speciale è andato anche a Fiorenzo Michelin , l’infaticabile scopritore di posti come il Bourcet.Ricevere un premio per un’attività, per dirla con Lionel Terray, così inutile come l’apertura di vie di arrampicata è qualcosa che fa riflettere. Chi apre vie non sempre è il più bravo, ma è paragonabile a un artigiano che non si limita a ripetere in serie ma vuole creare qualcosa che rifletta il suo pensiero.Le vie nascono prima nella mente come dei sogni. Qualsiasi cosa che ci circondi creato dall’uomo, anche un tavolo o un bicchiere, qualcuno l’ha sognato in quel modo e in quella forma. Le vie non sono nulla di più, sono solo forse un po’ più inutili agli occhi dei non scalatori.Che il Sogno di Sea duri dunque a lungo, così come l’aveva inteso Gian Carlo Grassi. Può qualcuno modificare i sogni altrui, specie se non c’è più ? Pensiamoci quando mettiamo le mani su una vecchia via. Andrea Giorda - CAAI
Nota: a conclusione del meeting, domenica 31, si è svolta una gara boulder sui massi ai piedi delle grandi pareti. Vincitori sono stati la giovanissima e brava Ilaria Scolaris della SASP Torino e per gli uomini Alessandro Pesarini di Montagna Viva, Vicenza. I festeggiamenti gastronomici organizzati da Marco valevano da soli il viaggio, tenetelo in conto per il prossimo anno . Arrivederci a Sea 2012.
http://www.planetmountain.com/News/shownews1.lasso?l=1&keyid=38425#
Attraverso il ricordo del compagno di cordata Marco Furlani rievoca i momenti magici dell'apertura delle grandi vie in Valle del Sarca nei primi anni novanta.
VIA LUCE DEL PRIMO MATTINO al DAIN Andrea Andreotti/Marco Furlani 1991.
ANDREA UOMO CHE VOLAVA ALTO
di Marco Furlani
Quella notte avevo bivaccato benissimo, la sera prima mi ero scavato una piazzola niente male sulla testa del pilastrino, dove avevamo deciso di bivaccare, e mentre contemplavo la valle che era ancora nel buio e incerta avanzava la luce dell’alba, osservavo estasiato in alto, oltre i grandi strapiombi e il formidabile tetto: al canto insistente del cuculo il sole incominciò a illuminare la roccia tingendola di colori incredibili, uno spettacolo mozzafiato.
- Andrea, Andrea… ho trovato il nome della via… che ne dici di Luce del Primo Mattino?
Sul primo tiro: a sin in apertura, a destra in una recente ripetizione (Archivio A. Rampini)
Al contrario Andrea Andreotti, il mio compagno, usciva dal torpore di una notte passata male, dopo la prima dura giornata trascorsa in parete; era stanco e la sera precedente aveva preferito bivaccare in amaca. Non aveva dormito nulla, però a sentire il nome si destò e disse: - Bello, molto bello… la nostra via si chiamerà Luce del Primo Mattino!
Intanto la giornata radiosa di sole inondava tutta la sottostante valle e fu una ridda di sfumature e colori fantastici come solo la valle del Sarca può garantire a chi la guarda dall’alto.
Sul diedro grigio - 5° tiro (Archivio A. Rampini)
Il diedro bianco - 7° tiro (Archivio A. Rampini)
Andrea era un bell’uomo, alto, colto e con un volto particolare sempre abbronzato e incorniciato da una barba ben curata che lasciava spiccare la luminosità degli occhi: grande alpinista, uomo che volava alto, al di sopra di tutto, soprattutto delle sterili polemiche e chiacchiere che circondano la più insulsa delle attività umane cioè l’alpinismo, persona acuta, sapeva sdrammatizzare anche nella più critica delle situazioni, ma soprattutto era uno che sapeva quello che faceva e faceva quello che diceva.
Con modo gentile di fare, non si alterava mai e le uniche cose che gli interessavano erano famiglia, lavoro, e aprire belle vie: intendeva l’alpinismo come una forma d’arte suprema, quasi esoterica.
Nel trionfo della luce dunque ci destammo e facemmo una magra colazione, poi preparammo il saccone e ripartimmo. Il programma di quel giorno era superare la zona delle pance rosse. Io superai il diedro bianco, poi le placche color ruggine sotto le aggettanti pance rosse e lì riprese lui il comando. Io mi sistemai sul seggiolino di legno e assicurai attento il compagno che saliva lentamente lo strapiombo in un vuoto assoluto.
Nelle lunghe ore di attesa ero rapito dalla visione sul sottostante lago di Toblino con le sue acque appena increspate dalla leggera brezza dell’òra: era la fine di maggio 1990, il verde intenso creava un delicato contrasto con la fioritura bianco rosa dei meli che era al massimo splendore.
Mentre Andrea avanzava con pazienza, tenacia e meticolosità piantando quei piccoli chiodini a espansione che a salirci sopra ti vengono i brividi, mi chiedevo quale fosse il segreto di questo magnifico atleta. Stava appeso per ore e ore a martellare senza battere ciglio, aveva una resistenza che trascendeva l’umanamente possibile, non esisteva né caldo né freddo e aveva per la montagna una passione esaltante.
A un certo punto un rumore di ferraglia secco e un violento strappo alle corde mi risvegliò dalla contemplazione, uno di quei famigerati chiodini era uscito e Andrea era volato con i suoi 90 kg per qualche metro nel vuoto…
Tutto bene, riparte con la calma che lo distingue, supera il tiro, attrezza la sosta su di un appoggio, dove stavano appena i piedi, in un vuoto da mal di stomaco. Dopo sette ore posso ripartire.
Fra equilibrismi e contorsioni ci scambiamo e riprendo il comando, superando la grigio-rossa placca superiore con una roccia a gocce incredibilmente bella, fantastica, e con un’arrampicata libera stupenda raggiungo la cengia sotto il grande tetto. Lasciando riposare Andrea mi do da fare a spianare per il bivacco, poi pianto qualche chiodo nel tetto, ma presto diventa buio e ci prepariamo alla seconda notte in parete.
All'uscita dal grande tetto (Archivio A. Rampini)
Lo strapiombo del 12° tiro (Archivio A. Rampini)
Non ci manca niente, il saccone da traino era pesante da recuperare ma adesso abbiamo tutto quello che ci serve per una bella cena, pane, speck, persino torrone e acqua in abbondanza. Il tempo è sempre bellissimo, parliamo, facciamo progetti, siamo contenti per la via che è veramente bella, e poi di donne e della fatica che queste fanno a sopportare noi scalatori che siamo così presi dalla nostra passione che a volte egoisticamente ci dimentichiamo di loro… poi arriva il sonno ristoratore.
Un’altra alba, la terza sempre bella, sempre mozzafiato e le riflessioni sulla fortuna di abitare nel nostro ridente Trentino con tutte le sue bellezze. Andrea vuole finire di chiodare il tetto: - Così lo chiamerò Tetto delle Aquile dice.
Sul penultimo tiro (Archivio A. Rampini)
Io lo guardo e rispondo: - Ma che aquile… non vedi che sembri un passerotto impaurito?
Lui mi guarda e risponde: - Hai ragione, lo chiameremo Tetto dei Passerotti… va bene?
Annuisco ma il mio sguardo è preso dall’enorme soffitto.
Il tetto è veramente un tetto e richiede parecchie ore per chiodarlo. Finalmente verso mezzogiorno riesce a superarlo, io rapidamente sui chiodi lo seguo e riparto con due tiri di arrampicata sempre difficile ma su roccia ottima e raggiungiamo il bosco sommitale.
Conoscevo già Andrea per la sua eccezionale attività ma non avevamo mai scalato assieme prima che lui mi invitasse ad aprire questa via. Ci siamo veramente trovati bene anzi benissimo insieme, siamo due elementi che si compensano bene: le forze dell’uno equilibrano le lacune dell’altro, come deve essere in una cordata vera.
Verso il grande tetto, in apertura sulla fantastica placca gialla dell'undicesimo tiro.
Quella sera sulla cima del Dain Picol scesi con due certezze: una, che prima o poi sarei venuto ad abitare nella valle del Sarca, l’altra, che avevo trovato il compagno giusto per scalare i grandi tetti del monte Brento. Ma questa è un’altra storia.
Un maledetto male ce lo ha portato via lasciandoci attoniti increduli, proprio LUI così buono, generoso e solare. Come sempre rimaniamo senza parole, non riusciamo a mandarla giù.
Ciao Andrea… ci rivediamo!
Da Planetmountain
Si può essere Guide Alpine e insieme Accademici del Cai
23.10.2014 di Giacomo Stefani
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il commento di Giacomo Stefani (presidente CAAI) sulla modifica dell'art. 19 comma C dello statuto CAAI che sanciva l'incompatibilità assoluta tra l'essere appartenenti al Club Alpino Accademico Italiano e allo stesso tempo Guide Alpine.
Sabato 11 Ottobre si è svolto a Caprino Veronese il Convegno Nazionale del Club Alpino Accademico Italiano sul tema “La Libertà in Alpinismo”, argomento di grande attualità per i continui attacchi e limitazioni alla libera frequentazione della montagna. Ma per gli Accademici questa occasione è stata particolarmente importante anche perché al termine del Convegno si è tenuta l’Assemblea Generale con all’ordine del giorno la modifica di uno degli articoli più controversi del nostro statuto e cioè quello che sancisce una incompatibilità assoluta tra Accademici e Guide.
Da sinistra: Spiro Dalla Porta Xidias, Giancarlo Del Zotto, Alessandro Gogna
Photo by Alberto Rampini
Alessandro Gogna interviene al Convegno
Photo by Alberto Rampini
Questa incompatibilità giustificata formalmente dallo statuto del CAI fino a 3 anni fa, che vietava l’appartenenza contemporanea di un socio a 2 Sezioni Nazionali, appunto CAAI e AGAI, è stata rimossa dopo l’istituzione della 3a Sezione Nazionale e cioè il CNSAS per permettere a Guide ed Accademici di essere anche membri del Soccorso Alpino.Ma vi è sempre stata una forma più complessa di incompatibilità: storica, per l’origine del CAAI nato 110 anni fa come Alpinismo senza Guida e, direi, etico-filosofica, per una tradizione centenaria legata anche allo spirito dell’Accademico che è quello di salire le montagne con tutte le motivazioni possibili, ma non quella di averne un ritorno economico.Caduta l’incompatibilità formale è rimasta l’altra, ma nelle valutazioni del Consiglio Generale del CAAI che ha proposto la modifica, c’è stata la convinzione che alcuni aspetti dell’altra stessero cambiando. Oggi assistiamo a cambiamenti epocali e le convinzioni granitiche di ieri si sgretolano con incredibile rapidità, portandoci a scelte e decisioni individuali e collettive impensabili poco prima. Una volta la Guida era una scelta di vita legata all’ambiente di origine (i valligiani di molte rinomate località montane sono figli e padri di Guide) e tramandata nel tempo, oppure una scelta di professionismo tout court che permetteva a chi la faceva di ricavare il massimo dalla frequentazione della montagna, quindi non solo accompagnare i clienti, ma poter svolgere tutte le attività economiche connesse al mondo montano.Oggi ci sono giovani che fanno dell’Alpinismo Accademico di altissimo livello e diventano guide perché non trovano lavoro ed allora pensano di applicare la loro capacità ad una attività che gli permetta di vivere, senza rinunciare al piacere di salire le montagne. Se li vediamo però nella completezza della loro attività alpinistica, non disdegnano di salire vie nuove, di fare ascensioni con amici, non per guadagnare ma per il piacere e la soddisfazione di farlo, e molti di loro, ancorché guide, partecipano attivamente ai nostri Convegni.La modifica del regolamento, approvata con circa il 70% dei voti a favore (era necessaria la maggioranza dei 2/3) permette al socio Accademico che diventa Guida di rimanere a tutti gli effetti socio purchè lo richieda espressamente. Ci è sembrato indispensabile mettere questa condizione perché, crediamo, serve ad esprimere la volontà del socio di continuare a praticare, quando possibile, un alpinismo “Accademico” , pur nell’ambito di una attività lavorativa affine per caratteristiche. Questa modifica non è quindi una porta d’ingresso per le Guide, ma è un modo per tenere vicini dei soci che vivono ancora momenti di alpinismo accademico e possono ancora dare il loro contributo.
Una fase dello scrutinio dei voti
Photo by Alberto Rampini
Il pubblico del Convegno "La libertà in alpinismo"
Photo by Alberto Rampini
Il Consiglio è consapevole che questa modifica ha turbato molti Accademici che volevano si mantenesse una netta distinzione, morale e di fatto, tra Accademico e Guida, e non è stato facile prendere la decisione di proporre la modifica all’Assemblea dei Soci. Ma è bene ricordare che ideali ed etica dell’ Accademico non vengono minimamente toccati, e restano il nostro carattere distintivo. Qualcuno dice che i soci fondatori di 110 anni fa si rivolteranno nella tomba...io non credo, anche perché oggi si parla da parte di tutti della necessità di cambiare la costituzione italiana e nessuno immagina che i padri costituenti si rigireranno nella tomba per questo. Comprendere i cambiamenti dei tempi facendo in modo di non esserne travolti, ma senza stravolgere la propria identità è un dovere di tutti ed è con questo spirito che il Consiglio Generale ha proposto e l’Assemblea Generale dei soci ha ratificato la modifica dello statuto del CAAI.Giacomo Stefani
Presidente Generale Club Alpino Accademico ItalianoArt. 19 del regolamento del CAAI, comma C. - PRIMA DELLA MODIFICA
c) è causa della cessazione della qualità di socio per incompatibilità il conseguimento della qualifica di Guida Alpina o Aspirante Guida Alpina e, in ogni caso, l’esercizio dell’attività alpinistica come prevalente fonte di guadagno. Le decisioni sull’incompatibilità spettano al Consiglio Generale. Contro le decisioni del Consiglio Generale in materia di radiazione e incompatibilità è ammesso il ricorso al Collegio dei Probiviri del C.A.A.I. entro 60 giorni dalla data della comunicazione all’interessato. La cessazione dell’appartenenza al C.A.A.I. comporta la cessazione della qualità di socio ordinario di diritto del C.A.I. Qualora la cessazione della qualità di socio del C.A.A.I. sia dovuta al conseguimento della qualifica di Aspirante Guida Alpina o Guida Alpina, l’interessato conserva il diritto a partecipare ai convegni e a ricevere l’Annuario, ed è pertanto iscritto in apposito elenco.Art. 19 del regolamento del CAAI, comma C - DOPO LA MODIFICA APPROVATA DALL'ASSEMBLEA
c) è causa di cessazione della qualità di socio per incompatibilità il conseguimento della qualifica di Guida Alpina o Aspirante Guida Alpina e, in ogni caso, l’esercizio dell’attività alpinistica come prevalente fonte di guadagno. La cessazione di cui sopra non è applicabile nel caso in cui l’interessato faccia richiesta al Consiglio Generale di mantenere la qualità di socio.
Le decisioni sull’incompatibilità spettano al Consiglio Generale. Contro le decisioni del Consiglio Generale in materia di radiazione e incompatibilità è ammesso il ricorso al Collegio dei Probiviri del C.A.A.I. entro 60 giorni dalla data della comunicazione all’interessato. Qualora la cessazione della qualità di socio del C.A.A.I. sia dovuta al conseguimento della qualifica di Aspirante Guida Alpina o Guida Alpina, l’interessato che non intenda chiedere al Consiglio Generale di mantenere tale qualità, conserva comunque il diritto a partecipare ai convegni e a ricevere l’Annuario, ed è pertanto iscritto in apposito elenco.
http://www.clubalpinoaccademico.it
http://www.planetmountain.com/News/shownews1.lasso?l=1&keyid=42232