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Club Alpino Accademico Italiano

WALTER BONATTI - Un mito che non tramonta

Sabato, 23 Novembre 2019 10:27

Un mito che non tramonta mai

WALTER BONATTI (1930-2011)

Grande Guida Alpina, Accademico ed Esploratore

E prima di tutto Grande Uomo. 

Sembra una contraddizione. L’Accademico è una Sezione Nazionale del CAI che comprende da sempre forti alpinisti non professionisti. Solo dal 2014 gli Accademici che diventano Guida possono rimanere a tutti gli effetti membri del Club Alpino Accademico Italiano: in precedenza perdevano il titolo. Ma, naturalmente, questo era solo un aspetto formale: chi ha meritato il titolo di Accademico e si è riconosciuto nei valori relativi tale rimane per sempre. E questo oggi è stato riconosciuto.

Perché l’Accademico richiede ai suoi soci di non essere professionisti? Non certo perché la professione di Guida sia considerata meno nobile di qualsiasi altra professione, ma semplicemente per il fatto che fini professionali ed economici possono condizionare ed orientare l’attività in modo non coerente con l’assoluta libertà e gratuità che rappresenta l’aspetto più nobile dell’andare in montagna e scalare le montagne. Non per necessità di guadagno, quindi, ma solo per soddisfazione ed appagamento del proprio spirito, in assoluta libertà.

Si può affermare senza tema di smentite che lo spirito accademico di un alpinismo alto, di ricerca e di avventura e con connotazioni fortemente etiche è stato il filo conduttore dell’esperienza di Bonatti dall’inizio alla fine, da alpinista non professionista, poi da Guida e infine anche da Viaggiatore.

Ecco perché consideriamo Bonatti uno dei più coerenti rappresentanti dello spirito accademico.

Alberto Rampini Presidente Generale

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Di seguito un appassionato ritratto di Walter Bonatti per la penna di Alessandro Gogna, nostro socio, pubblicato su Gognablog (per gentile concessione).

Che cosa è stato Walter Bonatti

Le sue imprese, e ancor più la marmorea fedeltà alle proprie idee nel realizzarle, ne fanno una figura di spicco assoluto nella storia dell’alpinismo mondiale del Dopoguerra. Dino Buzzati scrisse che se Bonatti fosse vissuto ai tempi di Omero le sue imprese sarebbero state raccontate con un grande poema.

Nato a Bergamo il 22 giugno 1930, si trasferisce a Monza e cresce alpinisticamente nel locale gruppo dei “Pel e Oss” (Pelle e ossa). Appena diciannovenne (1949) ripete la parete nord-est del Pizzo Badile, la Ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey e la via Cassin sulla Nord dello Sperone Walker alle Grandes Jorasses. Nel 1951 balza alla ribalta con una scalata che spinge all’estremo il concetto di arrampicata artificiale, tecnica fino a quel momento in uso più che altro sul calcare delle Alpi Orientali e delle Dolomiti: assieme a Luciano Ghigo, la trasferisce sul granito e vince così la parete est del Grand Capucin.

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Nel 1953, mentre Ardito Desio comincia a selezionare la squadra di alpinisti destinati a tentare la prima ascensione del K2 8611 m, Bonatti scala con Carlo Mauri (per alcuni anni i due sono ritenuti la coppia più forte del mondo) la Nord della Cima Ovest di Lavaredo in prima invernale. Subito dopo compie (con Roberto Bignami) un’altra prima invernale aprendo la diretta della Cresta Furggen sul Cervino.

Nel 1954, a 24 anni, partecipa alla spedizione italiana diretta dallo scienziato Ardito Desio sulla seconda montagna più alta del mondo, il K2. Una spedizione destinata al successo, con l’epica salita in vetta di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Il giorno prima, Bonatti, il più giovane della spedizione, sceso al campo inferiore per recuperare altre bombole di ossigeno, risale con il portatore hunza Amir Mahdi. Giunti a quota 8100 m circa i due scoprono che Lacedelli e Compagnoni non hanno allestito l’ultimo campo, il IX, nel luogo concordato, bensì oltre una fascia rocciosa che, nella notte incipiente, si rivela un ostacolo insormontabile per la cordata di appoggio. Il vento ostacola le comunicazioni, ma Compagnoni e Lacedelli si limitano a suggerire da lontano di lasciare l’ossigeno e tornare indietro. Vista l’impossibilità di scendere a quell’ora, Bonatti e Mahdi trascorrono la notte a temperature polari, senza alcun riparo. Sopravvivono – all’epoca si credeva fosse impossibile – e scendono alle prime luci, prima l’hunza e poi Bonatti, mentre Compagnoni e Lacedelli, recuperate le bombole, salgono fino in vetta. Mahdi, semiassiderato, subisce l’amputazione di numerose dita.

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 La spedizione al K2 del 1954 lascia una traccia amara e indelebile nella vita di Bonatti. Per equivoco o per scelta (polemiche e discussioni si sono trascinate per anni, anche nei tribunali) Compagnoni e Lacedelli si sono macchiati di omissione di soccorso. Soltanto nel 2004 la commissione d’inchiesta del Club Alpino Italiano riconosce la versione di Bonatti. «A 53 anni dalla conquista del K2 – scriverà Bonatti – sono state finalmente ripudiate le falsità e le scorrettezze contenute nei punti cruciali della versione ufficiale del capospedizione Ardito Desio. Si è così ristabilita, in tutta la sua totalità, la vera storia dell’accaduto in quell’impresa nei giorni della vittoria».

Un Bonatti più determinato che mai affronta così la stagione successiva: la lotta solitaria durata sei giorni sul Petit Dru lancia il suo nome anche al di fuori dell’ambiente alpinistico. A Natale dello stesso anno affronta con Silvano Gheser la scalata invernale dello Sperone Moore, sul Monte Bianco. Al bivacco della Fourche i due incontrano i giovani scalatori Jean Vincendon e François Henry, un francese e un belga. Nella bufera le due cordate si uniscono ed escono insieme sulla calotta sommitale. Bonatti, che ha il compagno Gheser sfinito, invita Vincendon e Henry a seguirli subito al rifugio Vallot, ma i due si fermano per rifocillarsi e al Vallot non arriveranno mai. Gheser e Bonatti sono recuperati da una squadra italiana. Vincendon ed Henry, nonostante un’operazione di soccorso francese, straordinaria quanto caotica, muoiono dopo 8 giorni e i cadaveri sono recuperati soltanto il 19 marzo. Bonatti è, ingiustamente, accusato di non aver prestato sufficiente aiuto ai due colleghi.

Nel 1958 compone la cordata di punta insieme a Carlo Mauri nella spedizione guidata da Riccardo Cassin al Gasherbrum IV 7929 m, una delle più difficili vette del Karakorum e ne compie la prima ascensione assoluta. Alterna quindi l’attività sul Monte Bianco (Grand Pilier d’Angle, Pilastro Rosso di Brouillard con Andrea Oggioni) con le spedizioni extraeuropee (Patagonia e Ande Peruviane) fino a quando, nel luglio del 1961, si ritrova al centro di una nuova ondata di polemiche. All’inizio di luglio, due cordate tentano la prima ascensione del Pilone Centrale del Frêney (Monte Bianco): Bonatti con Andrea Oggioni e Roberto Gallieni; il francese Pierre Mazeaud con Pierre Kohlmann, Robert Guillaume e Antoine Vieille. A soli 120 metri dalla fine delle grandi difficoltà, tutti devono desistere per una tormenta violentissima. Dopo giorni di bivacchi al gelo cercano scampo scendendo alla capanna Gamba. Solo Bonatti, Gallieni e Mazeaud ci riescono. Accorsero a Courmayeur i giornalisti e vi fu un grande dispiegamento di media, attratti dalle fosche tinte della tragedia.

La difesa di Mazeaud, che spiega come Bonatti fosse riuscito comunque a portare in salvo due dei sei compagni, non basta a tenere l’italiano al riparo dalle critiche. Ma la Francia lo insignisce della Legion d’Onore.

Nel 1963, assieme a Cosimo Zappelli, compie la prima invernale dello Sperone Walker. Nel 1964, con Michel Vaucher, una nuova via su un altro sperone (Whymper) delle Jorasses. Nel 1965 il capolavoro che ne chiude in pratica la carriera alpinistica d’alto livello: una via nuova, diretta, invernale e solitaria, sulla Nord del Cervino.

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Walter Bonatti 0Foto Archivio Rampini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizia la seconda vita di Walter Bonatti, quella di reporter nei luoghi più selvaggi della terra. Nando Sampietro, l’allora direttore del settimanale Epoca, era affascinato dall’idea che qualcuno potesse incarnare, nel secolo XX, la mitica figura di viaggiatore ed esploratore di Henry Stanley, una specie di moderno Ulisse. Bonatti accetta la sfida, interpretando a suo modo quest’idea e rifiutando gli aiuti esterni: da Capo Nord all’isola di Pasqua; dentro le viscere infuocate del vulcano Nyragongo, o sull’isola di Mas a Tierra da novello Robinson Crusoe; attraverso il deserto della Namibia o il ghiacciaio di San Valentin; tra i pigmei dell’Ituri e gli aborigeni dell’Orinoco.

Le sorgenti del Rio delle Amazzoni sono l’oggetto di ricerca di due diverse spedizioni, a Sumatra studia il comportamento della tigre al cospetto dell’uomo. Nelle isole Marchesi è sui percorsi delle avventure raccontate in Typee e Omoo, i romanzi dove Herman Melville racconta di essere scappato dalla baleniera Acushnet sulla quale era arruolato per finire prigioniero dei cannibali e fuggire ancora fortunosamente. Bonatti tenta di dimostrare la veridicità di tale storia. Sono degli anni Settanta le spedizioni in solitaria a Capo Horn, lungo 500 km di fiordi della Patagonia, lungo il corso del fiume Santa Cruz, in Congo, in Guyana, in Alaska e in Antartide. Sono parecchie decine i suoi viaggi, prima raccontati su Epoca, ma poi anche su Airone.

Ha scritto anche una quindicina di libri autobiografici. Muore di cancro al pancreas il 13 settembre 2011, a Roma.

Che cosa è stato Walter Bonatti

Certamente uomo dall’infanzia difficile, con un’adolescenza vissuta in tempo di guerra, Walter Bonatti comincia giovanissimo ad arrampicare in Grignetta sognando il Monte Bianco e le Dolomiti.

A dispetto delle dimensioni delle torri della Grigna, il terreno è assai adatto a forgiare delle personalità: basta pensare a quella di Riccardo Cassin. Infatti, ben presto il giovane Walter dimostra di avere dentro di sé una forza e una volontà del tutto sconosciute ad altri sia pur forti arrampicatori.

Sono soprattutto la determinazione, la tenacia fuori del comune, la pazienza nelle attese, unitamente a una calma glaciale e un’istintuale capacità di calcolo, che gli permettono di avere ancora prima di partire una completa visione generale del problema da affrontare, così declinata nei singoli dettagli da poter affrontare anche gli imprevisti.

Lo dicono già le sue prime imprese, tipiche di un giovane che non è mai veramente soddisfatto di ciò che ha appena realizzato, perché i suoi programmi sono ben superiori alla realtà appena vissuta. Chi lo conosceva poteva vedere, dietro a quello sguardo un po’ glaciale e penetrante, dietro a quel sorriso stretto, l’immensa arsura della sua anima, così fermamente tesa al futuro da non potersi concedersi alcuna gioia duratura nel presente.

Come arrampicatore è stato giudicato “freddo, calmo, forse un po’ lento”. Indubbiamente al suo tempo vi erano alpinisti forse più brillanti e perfino più dotati di lui, sia in Italia che in Europa. Ma nessuno era così calmo e così costante, nessuno aveva la forza interiore della locomotiva Bonatti. Di certo, dove altri erano passati, passava anche lui, anche se magari impiegando qualche ora in più. Non è altrettanto certo il contrario…

Dopo neppure due anni Bonatti è pronto a travalicare quei limiti che nessuno aveva neppure ancora concepito. Il suo concetto di possibile ha compreso progetti che per l’élite di allora erano ancora compresi nel campo dell’impossibile. Come sulla Est del Grand Capucin o sul Petit Dru, sul pilastro che, prima di crollare nel 2005, portava il suo nome. Entra nell’avventura del mai osato con un autocontrollo che non può che essere imitato. Perché lucida freddezza e piena coscienza del proprio esatto valore non si possono imparare come una qualunque tecnica: bisogna nascerci così.

Mentre pensa alle imprese alpine, si allena sistematicamente, è certamente ambizioso e perfezionista. E come tutti i perfezionisti stenta a considerarsi davvero soddisfatto di un risultato.

In pratica riunisce la grande capacità realizzativa di un Riccardo Cassin con l’individualismo sognatore di un Giusto Gervasutti. Ed è alla ricerca dell’avventura perfetta: forse per ottenere quel riscatto, agognato da tutti i suoi contemporanei, italiani colpiti nel loro orgoglio, ferito in un perduto conflitto mondiale e anche smarrito in una guerra civile. In una parola Bonatti diventa eroe salvifico, redentore dell’azione, per ridare il valore all’uomo.

In questa missione, grande è il suo fastidio per le regole e per le restrizioni. È probabilmente questo il motivo che spinse il capospedizione del K2, Ardito Desio, a non includerlo nella cordata scelta per l’attacco finale alla vetta.

La grande ricerca di Bonatti è sempre stata volta al miglioramento dell’uomo, con una grandiosità tale d’intenti da escludere con sicurezza che il suo primo obiettivo fosse l’ingigantimento della sua figura. Questo era più una conseguenza che una causa.

Purtroppo tutto ciò non è stato compreso dai più, in un diluvio di critiche, di invidie e di calunnie. La stampa per prima non si rendeva conto che lo stava deificando, attribuendogli caratteristiche da superuomo. Pronta però a farlo cadere dalle stelle alle stalle al primo incidente di percorso. E del resto così sono sempre stati trattati i provocatori, coloro che sono in grado con la loro creatività di dare scossoni positivi a un’umanità dormiente, ma che alla fine della parabola, sono giudicati scomodi e negativi. Da imprigionare e magari sopprimere. Le tragedie del Natale 1956 e del luglio 1961, entrambe sul Monte Bianco, sono le rampe di lancio del lungo scontro, quasi cinquantennale, tra Bonatti e la stampa. Un sordido gioco al massacro, nel quale tanto più la figura dell’alpinista veniva esaltata, tanto più si aggrediva e si malgiudicava l’umano che necessariamente era il protagonista delle imprese.

Da una parte Bonatti per le masse è unico e irraggiungibile: “tutti cadono e muoiono, ma Bonatti non muore”, sintetizza amaramente Gian Piero Motti. Dall’altra si scatenano così contro di lui gli editoriali dei benpensanti del boom economico degli anni ’60, dei moralisti, degli scribacchini che razzolano nel torbido e nella facile sensazione.

Ad ogni attacco segue una nuova impresa, ad ogni nuova impresa seguono le lodi unitamente a nuovi attacchi. Non c’è dunque da stupirsi se Bonatti, per non cadere egli stesso nella schizofrenia dell’informazione, decide di lasciare, chiudendo in bellezza con l’ultima stupefacente impresa sul Cervino. Prima di essere vittima definitiva di un circolo vizioso che prima o poi lo avrebbe ucciso, Bonatti spiazza tutti con il suo memorabile abbandono.

Per me Walter Bonatti ha rappresentato (e rappresenta tuttora) il maestro che ha forgiato, con le sue imprese e i suoi libri, la mia nascente e giovanile voglia d’avventura, incanalandola sulle montagne. Tramite i suoi racconti ho capito come si possa essere liberi di creare in piena libertà proprio rispettando solo poche ed elementari regole di etica.

Tutta la sua vita alpinistica è stata un grande e unico esempio, dalle più audaci solitarie e invernali alle prime di enorme levatura, da imprese quasi ineguagliate come quella al Gasherbrum IV alla pazzesca avventura umana del K2. Un uomo segnato tanto da successi senza precedenti nel mondo mediatico quanto da tragedie con il seguito di decennali polemiche (è rimasto memorabile nel 2004 il rifiuto del titolo di Cavaliere di Gran Croce, dopo aver saputo che il presidente Ciampi avrebbe dato la stessa onorificenza anche ad Achille Compagnoni!).

Un nome noto in tutto il mondo, limpido, cristallino come le sue montagne. Un nome che conferma a un’Italia, in questo momento assai dubbiosa dei propri valori, quanto invece sia ricca di individui di fama planetaria che l’hanno fatta grande. E Dio solo sa quanto abbiamo bisogno ogni tanto di ricordarcelo.

Walter Bonatti su Wikipedia

Walter Bonatti su Enciclopedia Treccani

Walter Bonatti su Biografieonline

 

 

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