VENTO DELL’OVEST
ALPINISMO TORINESE DALLA MORTE DI GERVASUTTI ALLE GARE DI ARRAMPICATA
di Ugo Manera
1. L’IMPORTANZA DI TORINO NELLA STORIA DELL’ALPINISMO
Torino si trova in un angolo estremo dell’Italia eppure negli ultimi 150 anni molti avvenimenti importanti hanno avuto avvio dalla nostra città. Limitatamente alla nostra attività è doveroso notare che il Club Alpino Italiano è stato fondato a Torino nel 1863 da Quintino Sella. Che qui è nato il Club Alpino Accademico Italiano nel 1904; che a Torino hanno sede la Biblioteca Nazionale ed il Museo della Montagna ed a Torino è nata la Rivista del CAI e vi è rimasta fino al 1976.
Sebbene, almeno nel dopoguerra, l’attività svolta dai torinesi sia stata meno voluminosa di quella svolta in altre città, soprattutto nel campo extraeuropeo, molte iniziative tra le più importanti hanno continuato a sorge ed a svilupparsi in ambito torinese, ad esempio qui sono nate le due riviste alpinistiche private (che purtroppo oggi sono scomparse): La Rivista della Montagna ed ALP e qui sono state organizzate le prime gare di arrampicata in Europa nel 1985.
Parlerò spesso di CAAI (Club Alpino Accademico), dedico perciò due parole per spiegare ai giovani che cosa é.
L’alpinismo nacque ad opera di esploratori che cominciarono a scalare montagne accompagnati da esperti montanari che divennero, in seguito, Guide Alpine: professionisti esperti che conducevano “i Signori Clienti” ed avevano la totale responsabilità della cordata. Il CAAI nacque per promuovere l’alpinismo senza guide, ossia emancipare gli alpinisti dal servizio dei professionisti. Negli anni l’Accademico divenne il gruppo di elite del Club Alpino Italiano che raccoglieva gran parte dei migliori alpinisti non professionisti. Va osservato che dalla fondazione fino ad epoca recente l’Accademico era riservato agli uomini, le donne non erano ammesse.
La motivazione era che il gentil sesso, per motivi di costituzione fisica, non era in grado di svolgere l’attività richiesta per l’ammissione. Dopo lunga ed ardua tenzone i progressisti, tra i quali il sottoscritto, riuscirono a vincere e questo anacronistico concetto venne eliminato. Ora ii CAAI è aperto agli scalatori, femmine e maschi che, per farne parte, debbono presentare, all’atto della domanda di ammissione, almeno 5 anni di attività alpinistica ad alto livello condotta da primo di cordata.
2. L’ALPINISMO COME AVVENTURA, RACCONTATA SCRITTA E NON SCRITTA
Le motivazioni che spingono a scalare sono molte e variegate, dal fascino dell’ambiente alpino alla prestazione sportiva, ma non c’è dubbio che il motivo trainante è il desiderio di avventura abbinato al fascino della scoperta. Non è detto che avventura e scoperta siano prerogative dell’alta montagna o delle pareti lontane, si possono anche trovare su una parete posta sul fianco di una valle o su di un masso disperso tra i boschi. E’ naturale che ad attirare gli scalatori è stata in primo luogo la sconosciuta alta montagna ma poi, esaurito questo terreno come luogo di scoperta, ci si è rivolti ad altre strutture ignote fino ad arrivare ai massi di pochi metri, ma sempre con la stessa sete di avventura e con pari dignità.
Capita che chi vive un’avventura tenga tale esperienza per sé, ma il più delle volte la racconta e, se l’avventura è stata grande ed ha richiesto un coinvolgimento totale, il protagonista sente la necessità di raccontarla anche per iscritto in modo che non vada dimenticata nel tempo.
L’alpinismo offre delle grandi avventure e fin dal suo albore molti protagonisti hanno scritto per esternare le proprie esperienze. E’ nata cosi una letteratura alpinistica, un po’ anomala, di tipo prettamente autobiografico che quasi mai ha offerto spunti a racconti romanzati. Io mi colloco tra quelli che, ritenendo le avventure alpine esperienze appassionanti, credono che non debbano andare perse, per cui amo raccontarle e mi adopero per fare si che anche quelle che non sono state scritte possano essere ricuperate.
Il periodo dell’alpinismo torinese che mi accingo a raccontare è stato denso di vicende interessanti, a volte drammatiche, ma spesso divertenti e curiose; con attori che non hanno mai scritto nulla. Cercherò perciò di trasmettere è a mia conoscenza affinché queste vicende, vissute sotto la spinta di una passione irresistibile, non svaniscano nel nulla.
3. LA MORTE DI GERVASUTTI – 1946
Il 12 settembre 1946 sul Mont Blanc du Tacul cadeva Giusto Gervasutti nel tentativo di aprire una via sul pilastro centrale della parete NE. Finiva un’epoca di cui il Fortissimo era stato uno dei massimi rappresentanti, certamente il principale protagonista torinese dell’“alpinismo eroico”. Gervasutti aveva solo 37 anni e se fosse vissuto avrebbe ancora avuto molto da esprimere, magari nell’alpinismo extraeuropeo. Il mondo alpinistico torinese si senti orfano ma in breve espresse una nuova generazione di scalatori diversi da quelli degli anni ’30.
4. CONNOTAZIONE SOCIALE DELL’ALPINISMO TORINESE PRIMA E DOPO LA GUERRA – NASCITA DEL G.A.M. – 1947
L’alpinismo torinese di punta dell’anteguerra ha una collocazione medio borghese, i suoi esponenti principali sono: avvocati, ingegneri, professionisti, artisti, studiosi….. La così detta “classe operaia” è quasi assente. Nell’immediato dopoguerra tale collocazione appare invertita. I giovani che, dopo la morte di Gervasutti, rilanciano l’alpinismo torinese sono in prevalenza operai e hanno vissuto da adolescenti, il dramma della guerra. Le loro disponibilità economiche sono scarse ed essi raggiungono le grandi montagne a prezzo di pesanti sacrifici.
Con l’obiettivo di unire e sostenere questi nuovi protagonisti nel 1946 nasce il GAM (Gruppo Alta Montagna) che, non a caso, trova origine nella sezione UGET che, tra le due sezioni torinesi, è quella dalla fisionomia più proletaria. Il GAM si propone di raccogliere gli scalatori con attività alpinistica rilevante al fine di promuovere la formazione di cordate in grado di affrontare le più difficili scalate dell’attualità.
Nel 1960 veniva pubblicato il primo numero dell’annuario Liberi Cieli della sezione UGET. Scorrendo lo storico bollettino appare evidente che, sebbene edito a nome della Sezione tutta, era principalmente l’espressione di uno dei componenti dell’UGET: il Gruppo Alta Montagna. Il presidente del GAM, Guido Rossa, in una scarna ed essenziale prefazione così sintetizzava storia ed intendimenti del Gruppo:
<< Nel 1947, dopo l’oscura parentesi della guerra, un gruppo di giovani torinesi, tagliati fuori dalle vicende belliche, dalle grandi tradizioni dell’alpinismo torinese, muniti solo di un immenso bagaglio di progetti e speranze, unitamente al desiderio di diventare degli autentici “montagnards” decisero di riunire in una unica somma le nozioni ricavate dalle loro disunite attività alpinistiche.
Nacque così il GAM in seno alla Sezione UGET i cui intendimenti, benché modesti, furono linearmente chiari: creare un ambiente alpinistico di un certo valore nelle leve giovanili nel quale poter trovare il compagno di cordata per affrontare le difficoltà delle: “Grandes Courses”.
Ora il GAM conta 13 anni, pochi, ma sembrano tanti ripensando agli amici incontrati, ai bei ricordi acquisiti, alle ore felici e piene vissute grazie ad esso.
Il GAM ha servito in questo modo, nel limite delle sue possibilità, la causa della grande montagna e dell’evoluzione dell’alpinismo. Per questo i soci del GAM salutano chi divide con loro una passione che è scuola di vita >>
Dalla sua fondazione il Gruppo aveva avuto, come presidenti: Salomone Giulio (1947-1949), Ghigo Luciano (1950-56), Mauro Giovanni (1957), Rossa Guido (1958-1960)
Il GAM non era un gruppo di “elite” confrontabile in sede nazionale al CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) ma era una selezione di alpinisti attivi ad alto livello formante groppo nel quale, come scrive Rossa, trovare il compagno per affrontare le grandi salite. Il Gruppo Alta Montagna aveva un limitato numero di soci dovuto alla dinamicità di un preciso regolamento che disciplinava sia l’ingresso che la permanenza.
Il regolamento prevedeva che per ottenere l’ammissione occorreva, tramite le salite compiute, totalizzare 1000 punti in due anni di attività. Per la permanenza nel Gruppo era necessario, in ogni caso, presentare l’attività biennale che doveva raggiungere gli 800 punti. Chi raggiungeva i 5 anni di permanenza e non svolgeva più una attività alpinistica rilevante, poteva rimanere nel Gruppo come socio onorario, senza diritto di voto. Il punteggio necessario per l’ammissione e la permanenza era ricavato attraverso una semplice e razionale valutazione delle salite tramite efficace metodologia comparativa.
Negli anni ’50 per i giovani raggiungere ed operare in “alta montagna” era un problema di difficile soluzione; ristrettezze economiche e scarsità dei mezzi di trasporto spesso diventavano difficoltà più impegnative di quelle incontrate in parete. Poteva capitare poi che l’impresa tanto desiderata non veniva neanche tentata perché mancava il compagno preparato e pronto per la scalata.
Il GAM aveva come intento proprio quello di facilitare il contatto tra scalatori per formare delle cordate forti e determinate. Era, tra gli obiettivi del Gruppo, anche quello di fornire un piccolo aiuto finanziario ai soci attivi per l’acquisto dei materiali di scalata.
Il Gruppo, grazie ai suoi intenti ed alla formula dinamica, rappresentava una entità ideale per i giovani di allora tanto che acquisì consensi e notorietà anche oltre i limiti regionali, troviamo infatti nel 1969 Alessandro Gogna come vicepresidente. Nel momento di massima fortuna del GAM si pensò anche di intervenire sulla formazione alpinistica ad alto livello organizzando, nel 1965, un corso di perfezionamento per alpinisti già esperti. Il corso venne però funestato dall’incidente mortale del pinerolese Raffi sul Corno Stella e l’iniziativa morì sul nascere.
Sul riflesso di idee maturate nel ’68 ed anni successivi, l’ammissione al Gruppo legata ad una formula matematica apparve come una limitazione alla maturità ed all’auto determinazione dell’uomo moderno per cui i punteggi per ingresso e permanenza vennero aboliti e questo fu l’inizio della fine del GAM. Qualche anno dopo, quando il Gruppo Alta Montagna era ormai agonizzante, ci fu un tentativo di reintrodurre il punteggio di ingresso ma il declino era ormai irreversibile, l’interesse tra gli scalatori attivi si era ormai perso ed il GAM terminò la sua vita nel 1981.
5. 1948 - NASCITA DELLA SCUOLA GERVASUTTI – GIUSEPPE DIONISI
Nel 1948 venne fondata la scuola di alpinismo Giusto Gervasutti al di fuori della Sezione di Torino del CAI in quanto nella Sezione già esisteva una scuola: la Boccalatte. Uno degli scopi dei due fondatori era quello di aprire alle esigenze dei giovani di estrazione sociale più popolare e non più con tendenze un po’ elitarie come la Boccalatte che era gestita in primis dal Club Alpino Accademico.
A fondarla furono Giuseppe Dionisi e Giorgio (Gino) Rosenkranz, due personaggi molto diversi tra di loro che si erano conosciuti attraverso la moglie di Dionisi che già scalava con i fratelli Rosenkranz.
Giorgio Rosenkranz era un atleta, riserva della nazionale olimpica di ginnastica, eccelleva nell’arrampicata su roccia ed avrebbe voluto orientare la scuola più su scalate tecniche su roccia che verso l’alta montagna, aveva poi, probabilmente, una visione più impostata sui rapporti amichevoli che sulla disciplina.
Pur essendo legati da grande amicizia, tra Dionisi e Rosenkranz sorsero dei contrasti nella conduzione della scuola che culminarono con le dimissioni di Dionisi nel 1952, rientrate poi due anni dopo quando la scuola versava in difficoltà e stava per chiudere l’attività.
Nota di colore: la scuola nacque senza le donne, nel periodo dell’assenza di Dionisi vennero ammesse da Rosenkanz e quando rientro trovò diverse ragazze tra gli allievi. Un incidente però ne causò la definitiva cacciata: in una uscita della scuola si pernottava al bivacco Gervasutti nel bacino di Fréboudze nel Gruppo del Monte Bianco; nella notte si ritrovarono un istruttore ed una allieva nella stessa cuccetta a fare delle manovre un poco agitate, la brandina cedette ed i due caddero su un’altra allieva che dormiva al di sotto, la poveretta ne uscì con un braccio rotto. Decisione di Dionisi: le donne sono causa di indisciplina perciò fuori dalla scuola.
Anni dopo nacque una scuola di alpinismo femminile nell’ambito della sottosezione USSI del CAI Torino. Quando però, nel 1972, Dionisi usci dalla scuola, subito avvenne l’unificazione e le donne ritornarono alla Gervasutti.
Giorgio Rosenkranz nel 1954 partecipò ad una sfortunata spedizione himalayana al Monte Api e non fece ritorno, morì di malore su quella lontana montagna.
Dionisi ha avuto una grande importanza nell’alpinismo torinese per le vicende legate alla scuola Gervasutti, e con il suo entusiasmo ha avviato all’alpinismo nomi importanti come suo nipote Franco Ribetti e più tardi Gian Piero Motti.
Sul piano dell’attività alpinistica nelle Alpi non espresse molto di importante anche se dobbiamo registrare un coraggioso tentativo alla difficilissima cresta nord dell’Aiguille Noire de Peuterey con Giorgio Rosenkranz, conclusasi con un avventuroso ripiego lungo il versante nord. L’impresa non era in quel momento alla loro portata, la cresta venne poi vinta da due grandi dell’alpinismo internazionale: Jean Couzy e René Desmaison.
Notevole invece l’attività di Dionisi nelle spedizioni sulle Ande Peruviane, ne effettuò numerose conseguendo anche dei risultati importanti come le prime ascensioni del Pucahirca Central nella Cordillera Blanca ed il Trapecio nella Cordillera Huayhuash.
Dionisi era circondato da un gruppo di “fedelissimi” tra i quali Luciano Ghigo, Gino Balzola e Giuseppe Marchese che furono indubbiamente condizionati, anche nella loro attività individuale, dalla spiccata personalità del leader.
6. OBIETTIVI ALPINISTICI ALLA FINE DEGLI ANNI ‘40
Dopo la parentesi della guerra l’orizzonte alpinistico è ancora dominato dall’eco delle grandi imprese degli anni ’30 che hanno dato una soluzione a quelli che erano ritenuti gli ultimi grandi problemi delle Alpi.
Primo obiettivo è perciò confrontarsi con quelle grandi imprese che da anni attendono i ripetitori. In questa rincorsa primeggia la nuova generazione di scalatori francesi, le grandi vie di Gervasutti vengono ripetute per la prima volta dai francesi Julien e Bastien; tra gli italiani, nel riprendere le tracce del passato, è molto attivo un gruppo di giovanissimi lombardi tra i quali primeggiano Walter Bonatti ed Andrea Oggioni.
Presto però le ripetizioni non bastano più, ci si accorge che sulle Alpi di grandi problemi da risolvere ce ne sono ancora molti e che fuori dall’Europa ci sono le grandi montagne del mondo che attendono. Sulle Alpi quattro prime segnano marcatamente il superamento dei limiti raggiunti in precedenza: la parete Est del Gran Capucin, la parete Ovest del Petit Dru e nelle Dolomiti la cima Scotoni e la Su Alto di George Livanos.
Alla soluzione del problema Gran Capucin partecipa un torinese: Luciano Ghigo come secondo di cordata di Bonatti. Luciano, diviene Guida Alpina, cessa poi tale attività ed entra nell’accademico. Appare come persona calma e riflessiva ma poi anche lui ama lo scherzo ed il divertimento, affianca presto Giuseppe Dionisi nella scuola Gervasutti e con Dionisi condivide gran parte della propria attività individuale, comprese alcune spedizioni nelle Ande
7. LA CORSA AL PILIER GERVASUTTI
Nei giorni 29 e 30 luglio 1951, cinque anni dopo la morte di Gervasutti, venne aperta la via sul pilastro del Mont Blanc du Tacul ove era caduto il “Fortissimo”. Tale salita era diventata l’obiettivo di varie cordate internazionali, ma ad aggiudicarselo furono due giovani torinesi: Piero Fornelli, capo cordata, e Giovanni Mauro, sorprendendo tutto il mondo alpinistico di allora. Mauro fu istruttore della scuola Gervasutti fin dalla fondazione oltre che membro del Gruppo Alta Montagna. Fornelli era giovanissimo, secondo di una famiglia di 3 fratelli ed una sorella, tutti alpinisti.
Piero entrò nella scuola Gervasutti proprio nel 1951, l’anno dell’impresa sul pilier del Tacul. Era un fuoriclasse dell’arrampicata su roccia, forse il più forte tra i torinesi in quel momento. Nell’ambiente viene denominato “Peru Bel” per distinguerlo da un altro Piero. Quel Piero Malvassora, apritore della celebre via sul Becco Meridionale della Tribolazione, che è denominato invece: “Peru Brut”. Fornelli svolge una notevole attività alpinistica aprendo varie nuove vie, nessuna però più al livello del Pilier Gervasutti.
Il versante ENE del Tacul si può definire torinese: Il pilier Gervasutti, come abbiamo visto, venne vinto da due torinesi e torinese fu la cordata che si aggiudicò la prima invernale nel 1965, composta da Gianni Ribaldone e Dino Rabbi. Anche la prima solitaria fu opera di un torinese: Gian Piero Motti 1969. Precedentemente il grande canalone era stato salito da Gervasutti e Renato Chabod nel 1934 ed il pilastro ad est da Gabriele Boccalatte con Nini Pietrasanta nel 1936. Successivamente Il Pilier a Tre punte venne salito per la prima volta da Andrea Mellano e Beppe Ton con altri due compagni nel 1959 (prima invernale Grassi, Manera, Motti con il biellese Rava Miller, 1971). Infine il Pilier Sans Nom venne salito in prima ascensione da Gian Carlo Grassi e la prima solitaria con concatenamento di questi ultimi due piliers venne compiuta da Marco Bernardi nel 1980.
8. GIOVANI EMERGENTI
Nel corso degli anni ’50 vi è un fiorire di giovani talenti che lasceranno il segno nell’alpinismo torinese e non solo, citerò i più rappresentativi che hanno espresso un’attività ad alto livello volta alla ricerca del nuovo sia sul piano tecnico che nelle realizzazioni, non limitandosi quindi alla ripetizione di salite importanti.
Corradino (Dino) Rabbi, classe 1930, rappresenta tutto quello che c’è di positivo nella visione classica dell’alpinismo: grande rispetto della tradizione e della storia senza scivolare nel conservatorismo, forte su tutti i terreni, il suo alpinismo si esprime in tutte le direzioni, dalle ripetizioni alla ricerca di terreni vergini, sia sulle Alpi che sulle montagne extraeuropee, è rispettoso delle istituzioni del CAI e non sfugge alle responsabilità: passa attraverso innumerevoli cariche sociali dalla direzione della scuola Gervasutti alla presidenza generale del Club Alpino Accademico Italiano impegnandosi sempre con tutte le sue forze e con la massima serietà. Nel 1954 vince la severa parete nord del Corno Stella nelle Marittime, uno dei problemi importanti di quel periodo, la sua attività ad alto livello è diluita in moltissimi anni mai molto concentrata perché Dino non trascura la famiglia per privilegiare la sua passione e quando, nel mese di agosto, gli amici sono scatenati sul Monte Bianco o nelle Dolomiti, egli è in vacanza famigliare in Sardegna.
Ha arrampicato con quasi tutti i giovani emergenti degli anni ’60 e ’70 in prime ascensioni, prime invernali, ripetizioni importanti, lasciando sempre via libera ai più giovani compagni ma contribuendo in modo determinante con il peso della sua esperienza. Una delle sue caratteristiche è stata quella di dare enorme valore al sentimento dell’amicizia, raramente ho scorto in altri un dolore così intenso come in Dino quando un amico cadeva in montagna o quando Guido Rossa venne assassinato dalle Brigate Rosse. Rabbi rappresentava la serietà in tutti i campi e non veniva coinvolto nelle imprese della banda di disperati della Villa Pisolino che vedremo in seguito.
Io cominciai a scalare montagne il 29 settembre 1957, ma non venni subito a contatto con il mondo degli scalatori di punta, avevo iniziato con un gruppo che praticava la collezione di cime rifuggendo le ascensioni difficili; quando cambiai indirizzo notai subito che vi era un nome che fungeva da riferimento tra gli arrampicatori: Guido Rossa, era riconosciuto da tutti come il più bravo e vi era un certo timore nell’affrontare i passaggi in libera delle vie da lui aperte. Si narra che la sua prima esperienza di arrampicata avvenne sulla parete dei Militi in valle Stretta a Bardonecchia condotto da Umberto Prato soprannominato “Tribula” per le tante tribolazioni che accompagnavano le sue scalate. Dopo aver superato “tribolando” e con dispendio di tempo il tratto iniziale, il capocordata comunicò all’inesperto compagno che era giunta l’ora di bivaccare e che avrebbero proseguito il giorno dopo.
Guido sulla Militi ritornò oltre trenta volte in tutte le stagioni ed anche in solitaria, tracciò delle vie che per quel tempo erano all’avanguardia e pochi avevano il coraggio di ripetere. Per rendere l’idea del livello e della sua determinazione basta osservare ciò che effettuò il 17 giugno 1956: sali lo spigolo Fornelli in 25 minuti, la via De Albertis in 40 minuti e la via Gervasutti di sinistra in un’ora.
Credo che da Gervasutti fino a Marco Bernardi nessuno a Torino abbia espresso un talento nell’arrampicata comparabile a quello di Guido Rossa. In gioventù era attratto dalla voglia di andare contro corrente rispetto ai canoni dell’autorità costituita e di scherzare a tutto campo, con il più giovane Franco Ribetti ne hanno combinate di tutti i colori, il loro motivo conduttore, riferendosi al prossimo, era: “an tuca feje giré le bale “.
Fece una breve comparsa nella scuola Gervasutti trascinato da Ribetti in quanto era in ballo una spedizione nelle Ande su un obiettivo con grandi difficoltà di roccia e loro due erano i più attrezzati in quel momento per l’arrampicata; poi Ribetti si fracassò all’Uia di Mondrone e Guido usci dalla scuola in quanto gli obiettivi e la disciplina che la caratterizzava non erano compatibili con la sua mentalità.
All’inizio degli anni ’60 rallentò il suo impegno nell’alpinismo attivo, militava politicamente nella sinistra e nel sindacato e l’impegno sociale divenne più importante della montagna stessa.
Ci siamo incontrati varie volte nelle assemblee del CAAI, abbiamo discusso di alpinismo e di temi sindacali ma ormai egli arrampicava solo saltuariamente anche se sempre sorretto da una classe eccezionale.
Era la sua una dirittura morale che non conosceva compromessi così egli, paladino dei diritti dei lavoratori, venne assassinato dalle Brigate Rosse.
Compagno di Guido Rossa nell’arrampicare ma più ancora nello studiare e combinare casini era Franco Ribetti; nipote di Dionisi. Cominciò ad arrampicare a 13 anni e a 16 era istruttore della Gervasutti. Franco non conosceva la paura, affrontava passaggi in libera con una determinazione che rasentava la temerarietà e perciò chiodava pochissimo. Come suo zio era conformista e molto rispettoso degli ideali tramandati dalla tradizione dell’alpinismo, così Franco era dissacrante e completamente inattaccabile da ogni sorta di mito. Era però molto affezionato a Dionisi, affetto ampiamente ricambiato, e spesso hanno arrampicato insieme dove a volte il più anziano veniva messo a dura prova dallo scatenato nipote.
Egli ha sempre preso molto sul serio la montagna per ciò che concerne rischi, preparazione e obiettivi, su tutto il resto si poteva scherzare e ridere. Con Franco arrampico da quasi 30 anni ed ho capito che della notorietà non glie ne è mai fregato nulla, scala perché gli piace e si diverte e perché ama fare gli sport di fatica. Non ha mai steso le relazioni delle vie che ha aperto ed ha scritto poche righe solo quando è stato costretto.
Dice che se mai scriverà un libro il titolo sarà: “Stronzate Alpine”, perché egli è portato a dissacrare questo mondo così incline a mitizzare azioni e personaggi. Ma un libro non lo scriverà mai e spesso sono tentato io di raccontare quelle che lui chiama stronzate.
Andrea Mellano faceva gruppo a sé, pur appartenendo al GAM, aveva un gruppo di amici con i quali scalava abitualmente. Nelle più importanti delle sue imprese è quasi sempre in compagnia di un lombardo: Romano Perego e spesso con un genovese: Enrico Cavaglieri. Andrea è un alpinista serio con le idee molto chiare, è un ricercatore e scopre i problemi per poi risolverli.
Altri scalatori torinesi di quel periodo erano probabilmente più forti di lui nell’arrampicata ma Andrea è stato un realizzatore, caratteristica tipica di chi, magari non sorretto da un talento naturale, impara ad impegnarsi a fondo per raggiungere i propri obiettivi.
Il nome di Mellano è associato alla salita delle tre pareti Nord, ultimi grandi problemi degli anni ’30: Cervino, Eiger e Walker alle Grandes Jorasses, impresa mai realizzata in precedenza da scalatori italiani; ma, a mio avviso l’importanza di Andrea va cercata in altre realizzazioni come vie nuove, scoperte e realizzate con intelligente lavoro di ricerca; dallo sperone Young alla Nord delle Grandes Jorasses al Pilier a Tre Punte sul Tacul, dalle vie sulla Testata della Valle Grande di Lanzo alla Nord del Breithon. Ma la perla più brillante di questa collezione è lo spigolo Ovest del Becco di Valsoera, vinto nel 1960.
Andrea, più degli altri torinesi di quel periodo, raccontava le sue ascensioni, numerosi sono i suoi articoli sulle riviste dell’epoca. La sua carriera come scalatore di punta non è stata molto lunga ma la sua opera è continuata con iniziative importanti e di ampie vedute, con il giornalista Emanuele Cassarà è stato l’inventore delle gare di arrampicata e uno dei fondatori del FASI (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana).
9. SCHERZO E DIVERTIMENTO
Il gruppo che faceva capo a Guido Rossa, pur nel rispetto dei pericoli legati all’alpinismo e fedeli alla tradizione che impone di non barare millantando imprese inesistenti, aveva eletto lo scherzo, spesso molto incisivo, come motivo conduttore nei momenti di pausa tra le scalate. Guido congedandosi dalla naja si era portato dietro un po’ di esplosivi: tritolo, petardi da esercitazione etc. Con quel materiale combinarono un bel po’ di casini. Sulla via Gervautti alla Sbarua, nel traverso del primo tiro, vi era una grande lama incastrata che muoveva (visibile in una foto storica), Guido la fece saltare con una carica di tritolo.
Un giorno con Ribetti si trovavano alla capanna Gnifetti al monte Rosa per salire la Nord del Lyskamm, per “caso” negli zaini, tra gli attrezzi di scalata, avevano delle cariche di tritolo. Saputo che doveva arrivare una delegazione di notabili del CAI e visto che esisteva un solo ponte di neve per accedere alle rocce, sempre fedeli al principio di fare girare le palle al prossimo, decisero di far saltare il ponte di neve. Al momento dello scoppio Ribetti si trovava troppo vicino e venne scaraventato in un crepaccio dallo spostamento d’aria, fortuna volle che ci fosse un ponte di neve dentro il crepaccio che arrestò la sua caduta.
La più bella però avvenne a Villa Pisolino, era questa una grangia che faceva parte del campeggio UGET in Val Veni, il gestore del campeggio, nonché presidente dell’UGET, Andreotti, lasciava gratuitamente questa grangia ai membri del Gruppo Alta Montagna che erano perennemente a corto di quattrini. Questi avevano denominato Villa Pisolino la vecchia baita. Un giorno era ospite del campeggio un prete che doveva celebrare una messa in vetta al Bianco, era un tipo grande e grosso e molto alla buona che Andreotti sistemò nella “Villa” dato che erano i disperati qui residenti che si erano offerti di accompagnarlo in cima al Bianco. Per le sue dimensioni venne sistemato in una branda collocata sul pavimento e mal glie ne incolse; una notte decisero di farlo saltare in aria. Collocarono sotto i piedini della branda 4 petardi da esercitazione e, nel cuore della notte, mentre il reverendo dormiva profondamente, li fecero esplodere; il poveretto si sveglio mentre veniva proiettato in alto lui e la brandina. Per sdebitarsi, oltre che al Bianco, Franco lo portò anche al Dente del Gigante.
In cambio di buoni pasto ed altre agevolazioni quelli di Villa Pisolino si prestavano ad accompagnare abusivamente (non essendo guide) degli inesperti ospiti del campeggio in vari giri tra i ghiacciai del Bianco; una delle mete era la traversata Rifugio Torino- Chamonix attraverso la Mer de Glace. Capitò che Guido e Franco giunti nella seraccata del Requin, anziché seguire la retta via portassero la numerosa comitiva in mezzo ai crepacci ove non si intravvedeva più possibilità di uscita, qui giunti, fingendo grande preoccupazione, comunicavano di aver perso la strada e di non sapere più cosa fare, arrivavano persino a far finta di piangere per simulare disperazione. Quando la disperazione vera cominciava a farsi strada tra i “clienti” Guido diventava serio e dicendo “abbiamo scherzato abbastanza, usciamo da qui” conducevano in salvo i malcapitati, e tutto si concludeva con grandi risate e qualche bevuta.
Un colpo micidiale lo fecero ad Arturo Rampini aspirante scrittore e giornalista, segretario della scuola Gervasutti e cantore delle glorie di Dionisi nella spedizione Ande 1961. Arturo era un gran rompiscatole e si lasciava andare a scherzi piuttosto cattivi. Durante un corso per guide alpine, corsi che a quei tempi venivano condotti con la collaborazione delle scuole di alpinismo e dell’Accademico, bisticciò con uno dei presenti e per ripicca gli pisciò nello zaino. Saputa la cosa i suoi “amici” glie la fecero pagare: tolsero la mollica ad una pagnotta, spalmarono l’interno di merda e la farcirono con abbondante prosciutto, poi chiamarono Rampini dicendogli che aveva dimenticato il panino che il rifugista aveva preparato per colazione. Allora non erano tempi di abbondanza, al vedere un panino così ben farcito il malcapitato si precipitò sopra e gli aguzzini gli comunicarono la verità quando ormai ne aveva divorato metà. Vi lascio immaginare la reazione del poveretto.
10. 1963 - SPEDIZIONE UGET AL LIRUNG - NEPAL
Nel 1963 ricorreva il centesimo anniversario della fondazione del Club Alpino Italiano, la sezione UGET volle celebrare la ricorrenza con una spedizione himalaiana, l’obiettivo era il Lirung, una cima di oltre 7000 metri vanamente tentata da spedizioni giapponesi, era una occasione importante tenuto conto anche delle scarse iniziative del genere a Torino. Capo spedizione era Lino Andreotti e gli alpinisti, provenienti dal GAM, erano: Andrea Mellano, Giovanni Brignolo, Dino Rabbi, Alberto Risso, Guido Rossa, Giorgio Rossi con Cesare Volante medico. Non era un gruppo omogeneo, forse gli unici con la giusta determinazione in quel momento erano Mellano e Rabbi mentre Rossa cominciava a percepire altri interessi che stavano prevalendo sull’alpinismo; gli altri erano personaggi di secondo piano senza la mentalità vincente da protagonista. La spedizione venne funestata da una grave tragedia: Rossi e Volante morirono travolti da una caduta di seracchi e l’obiettivo principale venne abbandonato. Furono salite 2 cime sopra i 6000 metri e 2 oltre i 5000 metri.
11. NUOVI PROTAGONISTI
Nel 1963 entrano nella scuola Gervasutti due giovani che non erano torinesi di origine, uno è a Torino per gli studi di ingegneria: Gianni Ribaldone, l’altro è valsesiano ed ha come obiettivo la professione di Guida Alpina: è Giorgio Bertone. Sono due scalatori eccezionali, spesso arrampicano insieme e sono legati da grande amicizia. Gianni è una forza della natura con una resistenza fisica eccezionale, ha una grande determinazione e non ci sono ostacoli che lo fermano, arrampica spesso con un altro giovane brillante della scuola: Alberto Marchionni e tra i due esistono divergenze di vedute espresse spesso vivacemente. Ribaldone spazia dalle Dolomiti al Monte Bianco, nelle Dolomiti ripete alcune delle vie più difficili del momento, nel Bianco ripete grandi vie, ne apre di nuove ed effettua delle prime invernali importanti come il pilier Gervasutti al Tacul e la via degli Svizzeri al Capucin. E’ un ragazzo intelligente e serio, che non trascura gli studi malgrado la travolgente passione per l’alpinismo; pratica anche la speleologia e gli viene assegnata la medaglia d’oro al valor civile per un salvataggio in grotta. E’ uno studioso ed in grotta scopre un insetto sconosciuto che ora porta il suo nome.
Nel 1966 durante un’uscita della scuola cade con due allievi sul canalone Gervasutti al Tacul.
Giorgio rimane alla scuola per due anni, scala con Ribaldone poi, conseguito il brevetto da guida, si trasferisce a Courmayeur. Diviene una delle più forti guide in attività, non scala solo con clienti e continua ad aprire vie estreme in estate ed in inverno. Arrampica anche con Gian Piero Motti e ne diviene grande amico. Con Renzino Cosson, anch’egli guida di Courmayeur, compie la prima italiana della via del Nose al Capitan. Ci fece ridere tutti quando, in una serata al teatro Regio organizzata dalla FILA e coordinata da Motti, ci raccontò in tono scherzoso, di come si erano presentati nel tempio degli scalatori americani da sprovveduti, con attrezzatura da alta montagna e scarponi rigidi. Diventò uno dei massimi esperti di soccorso alpino e di manovre di corda. Venne poi preso da una travolgente passione per il volo: troppo audace per la breve esperienza in quel campo, si schiantò con il velivolo sul Monte Bianco.
12. G.A.M. E SCUOLA GERVASUTTI CENTRI DI AGGREGAZIONE DELL’ALPINISMO DI PUNTA TORINESE
Alla metà degli anni ’60 la scuola Gervasutti ed il Gruppo Alta Montagna diventano sempre di più i centri d’incontro degli scalatori di punta torinesi e non solo, Il GAM sembra quasi mettere in secondo piano l’Accademico, quasi tutti i suoi membri sono anche istruttori della scuola.
Io fui ammesso al GAM nel 1964 e venni invitato come istruttore alla scuola nel 1965, ero autodidatta, non avevo mai abbastanza tempo per scalare, e fare l’allievo nella scuola mi sembrava una perdita di tempo. Spinto però da alcuni amici mi prestai volentieri ad entrare come istruttore, in questa veste mi resi conto di quanto si può apprendere e quanto ci si può migliorare restando nell’ambito di una scuola di alpinismo.
Nel 1965 divenimmo istruttori in 15 tra i quali un giovanissimo Gian Piero Motti che era stato brillante allievo e Giuseppe Castelli che aveva salito la Nord del Cervino con Mellano rimediando un congelamento ai piedi che però non limitò le sue eccezionali doti di arrampicatore.
La tragedia di Ribaldone sul Tacul lasciò un momentaneo vuoto nell’ambiente perché i personaggi che erano stati gli animatori degli anni precedenti avevano smesso o rallentato la loro spinta; Motti fu il primo ad occupare tale vuoto con una serie di ripetizioni di alta difficoltà e con l’apertura di nuove vie che spesso andavano oltre i limiti raggiunti dai predecessori, come la risoluzione del Diedro del Terrore sulla Militi, ove si era fermato Guido Rossa e dove si era arenato anche un tentativo di Bonatti.
Come sempre c’é chi frena su ciò che emerge, ed in quegli anni ho sentito più d’uno commentare negativamente l’attività esplosiva di Gian Piero formulando previsioni catastrofiche.
Per un po’ le nostre attività si svolsero parallele poi cominciammo a fare qualche cosa insieme e scoprimmo che seppure molto diversi, tante cose ci accomunavano. Ambedue amavamo il nuovo: mettere le mani su un tratto di roccia mai toccato da nessuno aveva per noi un fascino irresistibile.
Eravamo tutti e due appassionati di letteratura alpinistica e ci piaceva raccontare le nostre scalate e le emozioni che ne avevamo tratto, solo che mentre Gian Piero aveva una facilità di scrittura eccezionale, per me lo scrivere era sinonimo di difficoltà.
Cominciammo a scalare integrandoci a vicenda: Gian Piero sulla roccia arrampicava meglio di me ed io appresi molto da lui, io ero più forte su ghiaccio e terreno misto ed ero più duro e determinato in alta montagna. Ci piaceva andare da primi per cui iniziammo scalando insieme ma ciascuno a capo di una cordata, poi ci trovammo molto meglio a condividere la cordata alternandoci al comando.
Gian Piero proveniva da una famiglia borghese abbastanza agiata, la loro sede di vacanze era a Breno in Valle Grande di Lanzo e quella divenne “la Sua Valle“. Da ragazzo ne girò tutti gli angoli salendo colli e cime spesso da solo. I Motti conoscevano Giuseppe Dionisi il quale, vista tanta voglia di montagna, lo condusse alla scuola Gervasutti. Come allievo fu brillantissimo ad al termine dei corsi venne invitato nel corpo istruttori.
Gian Piero non è mai stato capito dai più, molti vedevano nel suo modo di presentarsi una forma di alterigia, certe sue assenze vennero interpretate come leggerezze egoistiche e poco responsabili. Invece egli era estremamente sensibile e soffriva molto per ogni atteggiamento critico nei suoi confronti; era generoso e timido di fronte al pubblico, in privato scriveva su tutti gli argomenti senza nessun timore nell’esternare le sue idee, anche se andavano contro corrente; di fronte ad un pubblico taceva, non mi ricordo di averlo mai visto condurre una proiezione o una conferenza, qualche volta, messo alle strette, catturava me e parlavo io; poi mi prendeva in giro per qualche frase colorita o impropria da me pronunciata; il nomignolo canzonatorio: Manera Pan e Pera me lo ha affibbiato lui.
A quei tempi non esistevano i telefoni “cellulari“ e neanche tutti avevano il telefono fisso, due erano i punti di ritrovo più in uso per parlare di scalate e per combinarne di nuove: al giovedì sera al CAI in via Barbaroux, oppure, tutte le volte che ci capitava, presso il negozio di materiali per alpinismo dei Fratelli Ravelli in Corso Ferrucci, (ora non esiste più) il negozio era condotto da Leonardo (Leo) Ravelli (anche lui istruttore della scuola) figlio del mitico “Cichin” (Francesco) Ravelli. Li c’era sempre Pipi Ravelli con la sua barba bianca che gestiva il laboratorio e brontolava contro la moda delle picozze con manico sempre più corto. Spesso nel negozio si incontrava Cichin novantenne, vestito sempre con giacca e cravatta e costantemente aggiornato sull’attualità alpinistica. Un giorno, mentre discutevo con Leo, vidi entrare un ragazzo, sembrava un bambino si guardava attorno quasi fosse spaventato, chiese informazione sul prezzo di qualche attrezzo, ringraziò ed uscì: era Gian Carlo Grassi.
Gian Carlo è una delle figure più importanti dell’alpinismo torinese del dopo guerra, ebbe un inizio alpinistico difficile, cominciò a scalare da ragazzo animato da un entusiasmo enorme. Fu allievo della scuola Gervasutti e divenne istruttore, ma non si trovò a suo agio, le regole che vigevano allora non coincidevano con il suo modo di praticare l’alpinismo. Faceva un lavoro che odiava e che lo rendeva insoddisfatto, egli avrebbe voluto scalare a tempo pieno e vedeva il lavoro come un penoso impedimento. Legò presto con Gian Piero Motti con il quale effettuò molte delle sue prime scalate difficili, ma in posizione subalterna; raramente con Gian Piero riusciva a scalare da primo di cordata. All’inizio il nostro ambiente non fu generoso con lui, la sua perenne insoddisfazione e qualche incidente da sfigato gli valsero il nomignolo di Calimero, il pulcino piccolo nero e sfortunato. Per vivere di montagna, tra molte difficoltà, fece il corso guide e divenne guida alpina: il suo sogno era realizzato. Lasciato alle spalle il personaggio Calimero, Gian Carlo si avviò a diventare un grande protagonista dell’alpinismo.
Ritornò a Torino un torinese che si era trasferito a Milano per gli studi universitari: Paolo Armando. Egli non aveva amici in città per cui un giovedì sera si recò al CAI per trovare qualcuno con cui arrampicare. L’ambiente torinese non era il più idoneo a favorire amicizie istantanee: sempre un po’ chiuso ed indifferente nei confronti degli estranei.
Nessuno, come si suole dire in linguaggio attuale, lo cagò, e ciò fece emergere il suo spirito caustico e sarcastico che orientò verso gli scalatori locali.
Amava dissacrare con battute provocatorie e molti sono gli episodi che mettono in evidenza il suo spirito pungente.
Paolo Armando al di là di tutto è stato un grande alpinista ed il valore delle sue imprese appianò ogni contrasto, entrò nel GAM, diventò amico di tutti anche se ogni tanto tra le sue battute emergeva ancora qualche punzecchiata. La sua seppur breve carriera alpinistica è notevole: con Alessandro Gogna e Gianni Calcagno si aggiudicò l’ambita prima invernale della Nord Est del Pizzo Badile anche se con una tecnica stile himalayano che sollevò qualche critica, salì grandi vie dalle Dolomiti alle Occidentali con qualche prima” di grande difficoltà come la via sullo Scarason nelle Marittime con Gogna.
Cadde sulla Parete Nord del Greuvetta nel 1970 tentando di aprire una nuova via diretta.
Io non ho mai scalato con Paolo ma sono uno dei pochi a non aver avuto scontri polemici con lui. Nelle interminabili chiacchierate in strada, dopo la chiusura della sezione del CAI, a volte mi confidava le sue idee sull’alpinismo e quando fece una serata alla Galleria d’Arte Moderna, pochi mesi prima dell’incidente, volle che fossi io a presentarlo.
13. LA RIVISTA DELLA MONTAGNA
Nel giugno 1970 esce il primo numero della Rivista della Montagna, è una pubblicazione indipendente, totalmente svincolata dagli organismi del CAI. Nel comitato di redazione vi sono Gian Piero Motti ed Andrea Mellano, quest’ultimo vi rimarrà solo per tre numeri mentre Motti ne diventerà direttore dal n. 22, ottobre 75, al n. 26, dicembre 76, per uscire poi dal comitato di redazione nel settembre 1978. Io all’inizio non ne condividevo completamente i contenuti perché mi pareva che la parte riservata all’alpinismo di punta fosse insufficiente, ma allora ero un po’ troppo assolutista, entrai poi a fare parte del comitato di redazione con il n. 28 del giugno 1977. La Rivista fu importante nel diffondere le nuove tendenze dell’alpinismo e dell’arrampicata che nel corso degli anni ’70 ebbe una vera e propria rivoluzione; questo soprattutto grazie all’opera di Motti che in quegli anni fu il punto di riferimento della cultura alpinistica torinese e non solo. Tutti gli argomenti innovativi vennero da lui affrontati e diffusi dalle pagine della Rivista con testi suoi e con traduzioni intelligentemente scelte dal mondo alpinistico anglo americano passando dall’apertura verso l’alto dell’ormai anacronistica scala Welzenbach delle difficoltà su roccia all’arrampicata ad incastro; dall’analisi dell’alpinismo californiano con le sue motivazioni, all’evoluzione dell’arrampicata in Gran Bretagna e all’uso delle pedule di arrampicata.
14. IL NUOVO MATTINO
All’inizio degli anni ’70 Gian Piero Motti era l’uomo di punta dell’alpinismo torinese e le sue idee influenzarono l’ambiente, non che fossero capite e condivise da tutti, anzi alcuni articoli male interpretati sollevarono critiche da alpinisti della vecchia guardia ma lui comunque era il punto di riferimento e lo rimase anche quando si allontanò dall’alpinismo attivo. E’ naturale quindi che ad inaugurare quel periodo che oggi si ricorda come “Nuovo Mattino” fosse lui.
Nel 1972 Gian Piero ed io scoprimmo il Caporal e vi apriamo la prima via che battezzammo con un nome molto significativo: “via dei Tempi Moderni”, fu l’atto d’inizio del “Nuovo Mattino” da un termine coniato appunto da Motti in un suo scritto. Quel periodo durò circa 3 anni.
Molto si è detto e scritto sul “Nuovo Mattino”, spesso in modo impreciso, si è anche detto che fu il movimento che influenzò il ritorno all’arrampicata libera in Italia, non è esatto, innanzitutto l’arrampicata libera come la vedevamo noi allora era ben diversa da come la intendiamo oggi; poi in Italia il massimo promotore di un ritorno all’arrampicata libera, dopo l’abbuffata tecnologica dovuta al diffondersi del chiodo a pressione, fu Reinhold Messner, come è dovuta principalmente a lui l’apertura verso l’alto della scala delle difficoltà su roccia: il superamento del sesto grado!
E’ vero che fummo soprattutto noi i primi a diffondere in Italia le tendenze che andavano affermandosi negli USA, nel Regno Unito e anche in Francia.
Visti a tanti anni di distanza gli obiettivi principali che originarono il nostro Nuovo Mattino furono:
Tracciare vie con livelli di difficoltà superiori a quanto era stato fatto prima di noi, sia in arrampicata libera che in artificiale.
Dare pari dignità alle pareti poste a bassa quota rispetto alle pareti di alta montagna: la grande avventura poteva essere vissuta ovunque indipendentemente dalla quota.
Uscire dalla concezione eroica, ideale e drammatica dell’alpinismo, ancora tanto radicata tra gli scalatori italiani e di lingua tedesca. Pur accettando dei rischi inevitabili, fatiche e privazioni, a scalare volevamo andare per vivere avventure grandi varie e complete, non per sfidare” eroicamente” la morte, volevamo inoltre privilegiare i fattori tecnici e ludici su quelli emotivi.
Non è che le nostre idee fossero tutte originali, molte erano già rintracciabili per esempio tra il gruppo che faceva riferimento a Guido Rossa, solo che loro non le esternavano con la scrittura. Nella prefazione di presentazione del GAM a firma di Rossa, presidente dello stesso, sul numero 1 di Liberi Cieli del 1960, compaiono ancora i concetti di: << … la causa della grande montagna ……evoluzione dell’alpinismo…….. passione che è scuola di vita>> Concetti ormai scomparsi nella nostra concezione Novomattiniana dell’alpinismo.
15. CIRCO VOLANTE E MUCCHIO SELVAGGIO
Nell’aprile 1972 con Gian Piero salii una difficile via sulla Paroi de Glandasse in Vercors, tale salita faceva parte della sistematica esplorazione delle pareti calcaree francesi intrapresa proprio da Motti e da me. Dietro di noi vi era una cordata di due giovanissimi uno dei quali era Danilo Galante, proveniva dalla scuola Gervasutti ove era stato allievo brillante. Si dimostrò subito molto dotato nell’arrampicata e, dopo i corsi alla scuola, iniziò a scalare con Gian Carlo Grassi che ritornava all’attività dopo il ricovero in sanatorio. Con lui si legò di grande amicizia. Danilo diventò il punto di riferimento per un gruppo di giovani tendenzialmente trasgressivo ed in questo gruppo venne chiamato “Il Mago” mentre Grassi, più anziano, veniva definito: “Maestro”. Il gruppo si autodefinisce, volta a volta, “Circo Volante” o “Mucchio Selvaggio”.
La trasgressione nell’alpinismo Torinese non era una novità, basta ricordare le imprese di Villa Pisolino, ma questa era una trasgressione diversa, non solo rivolta all’interno del proprio campo di attività ma manifestata a più ampio raggio come ad esempio: “spese proletarie”, prelievo di benzina da auto altrui ecc….
Eravamo tutti amici e quando capitava scalavamo assieme, ricordo con piacere un tentativo ad una grande parete calcarea francese nel giugno 1974, naufragato sotto la pioggia. Era condotto da Motti e da me seguiti da una cordata formata da Galante, Roberto Bonelli e Piero Pessa, tentativo sfortunato ma sorretto da tanta allegria. Ricordo con qualche rimpianto i lunghi discorsi sopratutto con Danilo e Roberto.
C’era però in questo gruppo una visione un po’ critica verso ciò che rappresentavamo io e Gian Piero.
Io ero per una forma di ordine, esemplificato da una ferrea volontà nel conseguire gli obiettivi e nel pretendere il rispetto delle regole che la tradizione ci aveva insegnato; Gian Piero era visto come il Principe, libero di scegliere senza tanti condizionamenti. Noi due poi eravamo un po’ ingombranti con le rubriche che curavamo sulla Rivista Mensile del CAI e con i tanti scritti che pubblicavamo. Ciò malgrado Danilo fu molto influenzato da Gian Piero.
Galante morì per sfinimento assistito da Grassi in Chartreuse, nel bosco sull’altopiano, stroncato dal maltempo, se fosse vissuto sarebbe stato uno dei protagonisti dell’arrampicata libera sportiva che sbocciò alla fine di quel decennio. Alcune sue vie dimostrano una concezione che era già proiettata in avanti.
Grassi, divenuto guida alpina incrementò ancora la sua enorme attività abbracciando tutti i campi; altri del Circo Volante continuarono a scalare ma senza formare più un gruppo definito e rappresentativo.
16. LA NUOVA ARRAMPICATA LIBERA
Nella seconda metà degli anni ’70 un vento di novità arriva ad investire l’arrampicata libera su roccia, proviene inizialmente dalla Regno Unito poi successivamente dalla Francia e dalla Germania. Ancora una volta è Gian Piero Motti a farsi portavoce traducendo sulla Rivista della Montagna n° 33 del settembre 1978, uno scritto di Peter Boardman: “Dove sta volando l’arrampicata in Gran Bretagna”.
L’arrampicata libera diventava sempre più “sportiva”, quindi con regole che la disciplinavano, parallelamente prendevano importanza scale di valutazione delle difficoltà aperte verso l’alto tali da registrare e classificare gli enormi miglioramenti conseguiti dagli scalatori atleti. Come in tutti gli sport vennero sviluppate tecniche di allenamento che consentirono di arrivare a livelli di difficoltà sempre più alti.
Nasce un nuovo obiettivo: superare con le regole dell’arrampicata sportiva le vie aperte con ricorso alla scalata artificiale, ossia senza usare ancoraggi né per la progressione né per il riposo.
Per definire le difficoltà in arrampicata libera, noi torinesi sposiamo fin dall’inizio il metodo francese che applica una scala di valutazione molto semplice e razionale; quella numerico-letterale, oggi usata quasi universalmente.
Molti ambienti restavano conservatori e all’epoca si opposero alle novità, mi ha fatto impressione rileggere il verbale di una assemblea del Club Alpino Accademico Gruppo Occidentale del 17 dicembre 1978 dove una mia mozione per l’apertura della scala delle difficoltà oltre il sesto grado venne bocciata 6 voti a 11.
Sempre più sport, quindi allenamento e necessità di tempo libero per praticarlo. Nasce perciò la voglia da parte di molti arrampicatori di scalare a tempo pieno come dei professionisti dello sport.
A Torino vi è molta sensibilità su questi temi. Promossi da Andrea Mellano, sempre aperto al nuovo, e da Emanuele Cassarà, vengono tenuti due convegni sul Settimo Grado, il secondo in occasione della Manifestazione Sportuomo 1980 promossa dal comune di Torino.
Fu un incontro importante, conoscemmo l’astro nascente del nuovo modo di arrampicare: il francese Patrik Berhault che si presentò con una chiarissima relazione sul suo modo di allenarsi sia fisicamente che psicologicamente, il suo fu un forte stimolo per i nostri campioni nascenti che servì a proiettare verso l’affermazione internazionale del più forte di tutti: Marco Bernardi.
17. MARCO BERNARDI
Marco Bernardi è stato, probabilmente, il più forte arrampicatore dell’ambiente torinese del dopo guerra, il suo era un talento naturale che egli affinò applicandosi con intelligenza allo studio della dinamica della scalata ed allenandosi intensamente e scientificamente. Quando le sue straordinarie capacità erano già note legò con Gianni Comino e Gian Carlo Grassi che lo iniziarono, quasi giovane allievo, al giaccio estremo. Allievo sul ghiaccio si intende perché sulla roccia era già insuperabile. Dopo la morte di Comino sui seracchi della Poire al Bianco, continuò a scalare con Grassi aprendo le prime vie con passaggi di settimo grado nel gruppo del Gran Paradiso. Il legame di amicizia tra i due si interruppe dopo una salita al Capitan in Yosemite negli Stati Uniti.
Bernardi si impone nell’alpinismo internazionale con una serie di prime solitarie eccezionali tra il 1980 e l’81: il concatenamento in solitaria del Pilier a Tre Punte ed il Pilier Sans Nom al Mont Blanc du Tacul, la prima solitaria della via Gervasutti alla Est delle Jorasses e la prima solitaria del Pilier Derobèe sulla Sud del Monte Bianco. A queste imprese nel Massiccio più ambito dagli scalatori torinesi, va aggiunta la prima solitaria della difficilissima via Armando- Gogna sullo Scarason nelle Alpi Marittime.
Quello delle solitarie e dei concatenamenti era il motivo conduttore dell’alpinismo di punta in quel momento. E’ però un modo di scalare che impone forti rischi che Marco non è disposto a correre per cui non continua su quella strada. Diviene Guida Alpina e si afferma sempre di più nella nuova “arrampicata sportiva”, sarà il tracciatore delle prime gare di arrampicata a Bardonecchia.
Sulla pubblicazione Monti e Valli della Sezione CAI di Torino del secondo semestre 1983, in un articolo dedicato all’orrido di Foresto, sintetizza molto bene lo scostamento che va formandosi tra l’”arrampicata sportiva” e la concezione tradizionale e classica della scalata: <<….se si era scoperto il nuovo terreno a bassa quota e si iniziava a vivere l’arrampicata come un gioco, la tendenza rimaneva quella di aprire vie nuove anziché cercare di realizzare quelle già esistenti in arrampicata libera. La sensazione data dal raggiungimento dell’armonia tra forza, movimento ed equilibrio rimanevano inferiori per intensità a quelle date dalla conquista di una parete………………Si era comunque compiuto il passo comprendendo che l’esercizio di salire una parete poteva essere vissuto sportivamente senza le implicazioni dell’alpinismo………….Si iniziava a distinguere tra Alpinismo finalizzato alla realizzazione di un’impresa e Arrampicata come movimento fine a se stesso…… arrampicare sportivamente significa allenarsi sia a secco che in parete e richiede un impegno simile a quello della danza classica o della ginnastica artistica……….>>
Nella seconda metà degli anni ’80 Marco Bernardi si allontana dalla scena discretamente, in punta di piedi: la Montagna non è più il suo principale interesse.
18. SPETTATORE ATTIVO
Pescando tra i ricordi dei fatti e dei personaggi mi sembra di esser uno spettatore che vede comparire, sparire, e ricomparire i protagonisti. Spettatore attivo però, sempre nella mischia condannato come: “L’Ebreo Errante” protagonista di un antico romanzo, a non fermarsi mai, sempre alla ricerca di nuovi compagni per nuove scalate. Ritorna Franco Ribetti dopo tanti anni di assenza, compare Isidoro Meneghin che mi è compagno in tante “Prime”
Nel 1981 chiude il Gruppo Alta Montagna, ha esaurito la sua spinta nell’alpinismo torinese.
Nel giugno 1983 si toglie la vita Gian Piero Motti, straordinario protagonista dell’alpinismo della nostra città.
19. SPEDIZIONI
Se i torinesi sono stati protagonisti in molti eventi, lo sono stati molto meno nelle spedizioni extraeuropee. Nel 1981 viene organizzata una spedizione importante, ad una delle più belle montagne che esistano: il Changabang. Era divenuta celebre per le imprese di alcuni dei massimi esponenti dell’alpinismo himalayano. Io vidi quella montagna nel 1976 ne rimasi affascinato e mi ripromisi di fare di tutto per salirla. La nostra spedizione era composta da alpinisti della domenica e qualche sorriso certamente ci accompagnò: << cosa cercano dei dilettanti su una montagna da professionisti? >>. Malgrado tutto il Changabang venne da noi salito per una nuova via, in vetta Lino Castiglia di Alba e Ugo Manera.
L’appetito vien mangiando, dicono, così nel 1984 nuova spedizione nell’Hindu Kush Pakistano con obiettivo la sconosciuta catena dei Bindu Gul Zom.
Una cavalcata attraverso cinque cime mai salite tra i 5200 e 6200 metri che offri una straordinaria arrampicata su granito seguita da aeree creste di misto. In vetta Lino Castiglia, Ugo Manera, Franco Ribetti e Claudio Sant’Unione. Parteciparono alla spedizione Corradino Rabbi e Giuseppe Dionisi, sessantanovenne, tante volte nelle Ande, desideroso di vedere l’Himalaya.
Due anni dopo il nocciolo duro della spedizione del Bindu Gul Zom con altri due scalatori ripartiva nuovamente per l’Hidu Kusch per un grande obiettivo ma fummo sfortunati, un fuoristrada si ribaltò nel viaggio di avvicinamento e nell’incidente perse la vita Alessandro Nacamuli, giovane istruttore della scuola Gervasutti.
20. GARE DI ARRAMPICATA - ALP
Nel 1985 nasce la rivista ALP che accompagnerà l’evoluzione dell’Arrampicata Sportiva che si sta creando il suo spazio sempre più ampio (Purtroppo il cammino editoriale di questa rivista è finito). Lo stesso anno vengono effettuate le prime gare di arrampicata in Europa Occidentale. A volerle e promuoverle, tra tante difficoltà, furono Andrea Mellano ed Emanuele Cassarà.