Il punto sull’attualità e le prospettive del Club Alpino Accademico nelle relazioni presentate al Convegno Nazionale di Trento (17 e 18 ottobre 2020)
L’alpinismo di oggi è diverso da quello di qualche decennio fa ed è radicalmente diverso non solo e non tanto per l’evoluzione delle difficoltà, ma per l’approccio mentale. Questa la considerazione di base dalla quale sono partiti i relatori.
Se gli alpinisti, e in particolare gli Accademici, sono sempre stati figli del loro tempo e quindi partecipi in prima persona degli eventi politici e sociali del momento, oggi l’universo verticale sembra aver costruito barriere insormontabili attorno a sé e gli alpinisti paiono vivere in una sorta di realtà separata, nella quale i grandi eventi del mondo compaiono solo nella misura in cui determinano difficoltà o limitazioni all’esercizio di quell’unico bene supremo che è l’esercizio dell’arrampicata sempre e dovunque. E le reazioni alla pandemia attuale ne sono un esempio emblematico. Costi quel che costi il mondo non si può fermare perché noi dobbiamo arrampicare.
Ma anche rimanendo all’interno di questo mondo sospeso, le “regole” sono talmente diverse da renderlo praticamente irriconoscibile. Un tempo alpinismo e arrampicata erano scoperta e avventura, anche perché mancavano alternative, oggi sono essenzialmente prestazione atletica, che assume due valenze: quella dei big, professionisti che grazie all’allenamento intenso e all’uso di mezzi sempre più sofisticati confezionano imprese di livello irraggiungibile e quella della massa un po' amorfa ed adagiata su un alpinismo a bassa prestazione, fortemente protetto e al riparo da qualsiasi soffio di imprevisto e di avventura. Ed entrambe queste valenze, pur agli antipodi per difficoltà ed ingaggio, sembrano accomunate da un artificioso ingigantimento delle reali capacità dei protagonisti grazie ad un uso sistematico di aiuti tecnologici e più l’arrampicata è libera e difficile e più paradossalmente è artificiale.
Un tempo le vie nuove venivano aperte e basta, oggi l’apertura significa poco, la via nuova è quella della prima ripetizione, della libera raggiunta magari dopo mesi e mesi di tentativi. Tutti concetti che derivano da un approccio chiaramente sportivo anche all’alpinismo di montagna. Alcuni valori ne guadagnano, molti si perdono purtroppo per strada, come la spontaneità, l’avventura e il rischio, che erano un tempo valori cardine dell’esperienza alpinistica.
In questo contesto del tutto nuovo e in forte evoluzione, come si colloca il Club Alpino Accademico, da sempre portatore dei grandi valori di un alpinismo tradizionale oggi messi in secondo piano?
AR
Il Convegno sulle pagine di Planet Mountain
Le relazioni ed il dibattito hanno offerto molti punti di riflessione, che proponiamo con la pubblicazione del testo integrale degli interventi al convegno.
MARCO CORDIN un giovane alpinista non accademico
Abstract: è come se non ci fosse comunicazione. I giovani vedono la realtà degli accademici molto lontana
Quello che posso dire parlando da giovane e sentendo quello che dicono gli amici e anche gente forte, ben addentro al mondo dell’alpinismo, quindi gente che ne sa, è che la figura dell’accademico non è più forse tanto presa in considerazione al giorno d’oggi, e questo secondo me è un peccato. Oggi se un giovane cerca un riconoscimento prestigioso, una cosa ambiziosa, al di là dell’esercizio del lavoro, lo cerca nella patacca di guida alpina. Questa è la situazione al giorno d’oggi e io penso sia un peccato. Anche vedendo l’età media degli accademici è come se ad un certo punto fosse stato bloccato il ricambio generazionale. Anche parlando con gli amici giovani è come se non ci fosse comunicazione tra questa realtà degli accademici che noi vediamo molto lontani, tant’è che non sappiamo neanche bene come si entra nel mondo degli accademici e come funziona. E’ come se il CAI non stuzzicasse l’interesse dei giovani, ma non è che il CAI debba sforzarsi a stuzzicare l’interesse dei giovani, dovrebbe però fare una proposta costruttiva di apertura verso i giovani. Secondo me non c’è stata più comunicazione tra queste due realtà che ormai sono lontane.
ALESSANDRO GOGNA Moderatore
Dobbiamo prendere nota che non è stato formulato alcun consiglio su come risolvere questa mancanza di comunicazione sulla quale effettivamente siamo tutti d’accordo. E’ vero che non c’è, si è rotto qualcosa o non c’è mai stato, non so
GIACOMO STEFANI Past President
Abstract: Credo che l’Accademico sia sempre stato protagonista del suo tempo, non è mai stato avulso, gli alpinisti accademici hanno sempre vissuto in modo prepotente il loro tempo
Quando ho incontrato ad Arco Giuliano Bressan e mi ha chiesto di raccontare la mia esperienza e in sostanza la storia dell’Accademico mi sono sentito lusingato ma ho capito subito che non era facile fare una nota e mettere assieme tutte queste cose. Poi mi sono ricordato di quando ero al liceo e si diceva che il dubbio è l’inizio della conoscenza e ho pensato che da lì potesse partire in qualche modo la mia storia dell’Accademico. Ho pensato che si potesse parlare degli alpinisti perché sono gli alpinisti che fanno la storia e quindi ho pensato di rivedere un po' gli alpinisti accademici che ho conosciuto a volte di persona oppure perché ho salito le loro vie, le loro pareti. Andrich, Gervasutti “il fortissimo”, Carlesso, Boccalatte, Bonatti Accademico e Guida - ma ormai sembra che questa differenza giustamente non ci sia più - un idolo per noi lecchesi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo quando lui stava già smettendo e noi stavamo cominciando la nostra attività. E poi il suo compagno Oggioni, Aste che voi conoscete bene perché è di questi luoghi. Ho pensato a volte che potremmo raccontare la storia guardando le montagne, ovunque andiamo vediamo una cima e pensiamo “là ci sono stati degli Accademici”. Guardiamo ad esempio la grande parete Nord Ovest del Civetta, potrebbe da sola farci la storia dell’Accademico: abbiamo Carlesso, Tissi al Pan di Zucchero, Aste, Andrich, quelli che hanno fatto l’invernale al diedro Philipp, anche recentemente Baù, oppure Comici o se ci spostiamo più a destra abbiamo la Cima Su Alto con Piussi e i lecchesi, Ratti e Vitali. Questa montagna da sola ci può raccontare la storia dell’Accademico e quando io, come tanti altri, ho iniziato ad andare in montagna avevo in mente proprio di andare a fare queste vie, queste montagne, magari in modo un po' irriverente, ma l’idea era sicuramente di andare a fare le vie di questi alpinisti. Credo che l’Accademico sia sempre stato protagonista nel suo tempo, non è mai stato avulso, gli alpinisti accademici hanno vissuto in modo prepotente il loro tempo.
E questo fin dall’inizio. Se sfogliamo il primo Annuario CAAI del 1908, riedito in copia anastatica in occasione del centenario della sua pubblicazione, ci rendiamo conto che questi alpinisti avevano l’idea già di insegnare e mettevano quindi le basi di quelle che sarebbero state poi le scuole di alpinismo. Nella prima pagina del volume si affronta il tema identitario e si parla delle guide: “ci inchiniamo volentieri ad esse ogni qualvolta le crediamo degne ma non vogliamo ostracismi e comunque simo diversi”. Direi che al di là di queste frasi di cortesia, i nostri predecessori erano tutti avvocati, ingegneri, laureati e probabilmente non sopportavano l’idea che delle persone brave ma spesso rozze potessero avere una qualche supremazia nell’andare in montagna e si sono in qualche modo organizzati per contrapporsi a questa situazione. All’inizio i nostri predecessori erano soprattutto anche scrittori, quindi pubblicavano guide, Berti è stato uno dei primi ad entrare nell’Accademico al momento della fondazione, quindi all’epoca l’alpinismo non era forse così estremo ma c’era certamente molta cultura dietro all’Accademico. Tra le due guerre invece la parte alpinistica di difficoltà assume un aspetto più importante, spinta anche dal fascismo che era parte integrante della vita di molti e per praticare l’alpinismo ad un certo livello bisognava comunque avere l’imprimatur del fascio. Ne sanno qualcosa i nostri concittadini che hanno fatto il Badile e che hanno ricevuto un telegramma di congratulazioni dall’allora segretario del partito fascista Starace e hanno ricevuto l’invito a presentarsi a Roma in presenza del duce con “pantaloni alla zuava, giubbetto, camicia e cravatta nera, scarpe da passeggio, capo scoperto” per ritirare una medaglia e la cosa si è ripetuta poi l’anno dopo con le Jorasses. Due telegrammi anche da parte dell’allora presidente dell’Accademico Aldo Bonacossa che si congratulava e soprattutto diceva “non potevi dare risposta più clamorosa all’Eiger”. C’era ovviamente allora questo nazionalismo spinto che portava le persone a contrapporsi. Però l’Accademico è anche diverso, ci sono state persone come Ratti, che era compagno di Cassin e probabilmente non era inferiore a Cassin e quindi ha fatto anche delle belle salite da solo, che poi è entrato nella resistenza e il 26 aprile è morto da partigiano nella liberazione di Lecco.
Il dopoguerra porta rinascita e speranze e leggendo i nomi di coloro che sono entrati all’Accademico in questo periodo, fino agli anni ’60-65’ troviamo tante persone, e alcune le abbiamo conosciute personalmente, che hanno lasciato un’impronta: noi leggiamo un nome e sappiamo ciò che quella persona ha fatto. In realtà era una rinascita dell’Italia e dell’alpinismo. C’erano meno avvocati ma più lavoratori con la loro voglia di ritornare a fare qualche cosa dopo la guerra.
Si comincia con l’alpinismo extraeuropeo perché allora tutte le grandi nazioni dovevano conquistare una cima e l’Italia raggiunge il K2 con capospedizione Ardito Desio, che era un Accademico, e con diversi componenti accademici, tra i quali anche Bonatti che come dice la storia certamente non ha demeritato.
Oppure il G4 nel ’58, spedizione guidata da Cassin e con Mauri e Bonatti in cima.
Dicevo che l’Accademico non è fuori dal mondo. Quando comincia il ’68 comincia il ’68 anche nell’alpinismo con il nuovo mattino e c’è una contestazione della degenerazione dell’alpinismo eroico e un tentativo di fondare un nuovo umanesimo della montagna. Il simbolismo della cima sparisce e l’ascensione non è più un mezzo per raggiungere la vetta e quindi cambia molto quella che è la percezione dell’alpinismo. Vengono poi gli anni di piombo e anche qui gli accademici non si tirano indietro, Guido Rossa era un anticipatore della rivoluzione culturale che poi sarà portata avanti da Motti ma era anche una persona, un sindacalista che ha avuto un impegno civile e morale senza tentennamenti ed è stato ucciso come sindacalista dalle brigate rosse il 24 gennaio del ‘79. Nel 2013 sono stati festeggiati i 150 anni del Club Alpino Italiano e siamo stati invitati a Roma al Quirinale dall’allora Presidente Napolitano e mi hanno chiesto di fare una relazione di due minuti e io ho raccontato solo questi due episodi Ratti e Guido Rossa per far capire come l’Accademico non è solo fatto di forti alpinisti ma anche di persone che sanno vivere il loro tempo e se ne prendono la responsabilità. Però con il passare del tempo il CAI diventa un enorme contenitore di attività di montagna e l’alpinismo ne occupa una parte sempre minore e questo lo vediamo sfogliando la Rivista Montagne 360 e ce ne accorgiamo tutti i giorni. Fortunatamente, e questo devo dire che durante la mia presidenza ho potuto constatarlo, al CAAI viene riconosciuto, dalla dirigenza del CAI, di essere un po' l’anima storica dell’alpinismo e quindi ogniqualvolta c’era una qualche manifestazione venivamo comunque interpellati. Cito ad esempio il libro che è stato fatto per le 150 vette, la manifestazione credo più importante per i 150 anni del CAI, ed è stato l’Accademico che si è preso il compito di organizzarla, di affidare alle singole Sezioni la possibilità di scalare delle cime e alla fine di farne un libro. E questo credo che sia alla fine un segno di fiducia che il CAI ha nell’Accademico. Saper fare, e quindi saper scalare, è sempre stata la nostra capacità. Quello che invece non siamo mai stati capaci di fare è "far sapere" e quindi quello che dobbiamo sforzarci di fare è proprio "far sapere".
Lo facciamo con i nostri Convegni annuali, ai quali poi si sono aggiunti incontri con altre associazioni di montagna, con le Guide nella cui presidenza abbiamo trovato grande disponibilità, e con la Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo e anche con associazioni che in qualche modo promuovevano delle attività culturali, come ad esempio il Premio Carlo Mauri e naturalmente credo che un ringraziamento particolare vada a Mauro Penasa che da tantissimi anni cura l’uscita dell’Annuario CAAI che è il nostro simbolo che tutti ci invidiano. Importante anche il sito web, che è stato cambiato diverse volte, che non ha ovviamente, e non potrebbe avere, la plasticità di un sito come Planet Mountain, ma è importante per dare informazioni e tenerci aggiornati.
Naturalmente non ci sono solo rose, ci sono anche le spine. Nel 2008 c’è stato un gruppo di alpinisti che ha fondato una associazione chiamata GAISA Gruppo Accademico Italiano Sciatori Alpinisti e quindi come sciatori volevano diventare Accademici . C’è stata una contesa che alla fine ci ha visti vincitori con una delibera del CAI nella quale si affermava che il termine Accademico poteva essere riferito soltanto al nostro gruppo. E questo secondo me è importante perché ci è stato ulteriormente riconosciuto quello che abbiamo fatto. Ma il tempo cambia è c’è poi il tema dell’ecologia, la difesa della montagna e la nascita di Mountain Wilderness a Biella 33 anni fa avviene in un Convegno promosso dal Club Alpino Accademico Italiano e da altre associazioni ovviamente ma in primis il CAAI e la Fondazione Sella. Ma anche la difesa della libertà in montagna è una cosa importante: L’Osservatorio, che è gestito in modo prevalente da Alessandro, e molto bene, ma nel quale l’Accademico ha dato il suo contributo. E il Clean Climbing: vogliamo un ambiente pulito? Ecco che il trad, il clean climbing è il modo migliore e l’Accademico sta cercando di portarlo avanti nel modo più possibile efficace. I filosofi greci, padri della cultura Occidentale, dicevano che non vi è nulla di immutabile tranne l’esigenza di cambiare. E questa esigenza di cambiare l’abbiamo vista anche noi quando si è trattato di cambiare lo statuto del CAAI, Art 19 comma C che ci dice oggi che il socio accademico che diventa guida può rimanere a tutti gli effetti socio purchè lo richieda espressamente. E’una cosa che ha fatto soffrire molte persone, che ha in parte diviso l’Accademico, ci sono state dimissioni. Io l’ho vissuta da presidente due volte nel 2011 quando la proposta era stata bocciata per due voti e uno era il mio e l’altro quello del mio compagno di cordata Sergio Panzeri, che veramente non volevamo una cosa del genere. Tre anni dopo è passata con pochi voti, perché chiaramente con gli anni cambiano le cose, cambiano le persone, cambiamo noi e come ho detto prima non c’è nulla di immutabile salvo la necessità proprio di cambiare.
L’ultima nota è per una persona che conoscevo ovviamente di fama ma che ho avuto modo di conoscere personalmente quando ero presidente e con la quale ho mantenuto una continua frequentazione letteraria, è stata una persona di una grandezza che faccio fatica ad immaginarne un’altra uguale. Mi ha fatto capire molte cose, una persona limpida e voglio proprio concludere con quello che lui mi scriveva, riportato da Dante. Dante si riferiva all’amore per Beatrice mentre lui si riferiva all’amore per la montagna: “Intender non può chi non lo prova”.
RAMPINI ALBERTO presidente generale
Abstract: credo che il socio Accademico debba avere, anche per immagine e bagaglio culturale, un’esperienza molto ampia di zone, gruppi montuosi e, perché no, di alpinismo extraeuropeo. Inoltre qualità morali indiscusse e profilo culturale di adeguato spessore debbono tornare ad essere elementi fondamentali nello skill del candidato accademico
Come tutti voi ben sapete, l’Accademico nasce nel 1904 con la finalità di avviare scuole di alpinismo che rendessero autonomi gli alpinisti che volevano salire le montagne in autonomia, senza avvalersi dell’accompagnamento di guide. Per fare questo, l’Accademico radunò attorno a sé come soci i migliori alpinisti non professionisti dell’epoca.
La finalità prima, quindi, era la mission, fare scuola, e l’elevato profilo tecnico e culturale dei soci era funzionale a questo obiettivo, non era fine a sé stesso.
Addirittura all’inizio non si parlava di curriculum dei soci, poi si cominciò a richiederlo, infine il curriculum divenne determinante nel momento in cui il CAAI, assieme al CAI, divenne negli anni 30 una associazione di regime aderente al CONI e acquisì un profilo decisamente orientato verso lo sport arrampicata e alpinismo.
Ma assieme al curriculum tecnico eccezionale il socio doveva dare garanzia di qualità morali e culturali pure di eccellenza.
Nelle modifiche successive del nostro Statuto il curriculum tecnico acquisisce sempre maggior rilievo mentre i requisiti di moralità a cultura vengono progressivamente ridimensionati.
Anche la finalità originaria del CAAI – fare scuola – viene meno nel momento in cui nascono le Scuole di Alpinismo del CAI e la relativa Commissione Nazionale Scuole. Esse nascono negli anni cinquanta su iniziativa di soci del CAAI e i dirigenti e gli istruttori sono in buona parte Accademici, ma la funzione “scuola” esce dalle attività istituzionali del CAAI.
Nello Statuto del CAAI rimane la finalità generica di promozione dell’Alpinismo e la qualità dei soci si basa principalmente su un curriculum tecnico e in via accessoria su attività di carattere culturale, esplorativo e organizzativo. Nella pratica invalsa, tuttavia, il focus è esclusivamente sull’aspetto tecnico del curriculum.
Ma vediamo questi due aspetti, Curriculum tecnico e profilo etico/morale/culturale.
Curriculum tecnico
In base al Regolamento CAAI si richiede che l’Accademico abbia svolto attività alpinistica di particolare rilievo per almeno cinque anni e il Regolamento della Commissione Tecnica precisa che " L’attività alpinistica di particolare rilievo, alla quale è fatto riferimento in tale articolo, deve essere stata compiuta da capo-cordata o a comando alternato, e deve corrispondere a una delle seguenti alternative:
- numerose salite su ogni tipo di terreno con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme;
- numerose salite su roccia con difficoltà estreme;
- numerose salite con difficoltà di poco inferiori a quelle di cui ai punti 1 e 2, purchè integrate dalle attività non meramente alpinistiche previste all’ultimo paragrafo dell’art. 4 del Regolamento del C.A.A.I.
Appare chiaro che Attività alpinistica di particolare rilievo, salite di difficoltà estreme, salite con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme, anche se devono essere riferite al periodo storico in cui le salite sono state compiute, sono concetti piuttosto vaghi e difficili da standardizzare. Tant’è vero che diversi tentativi di materializzare questi concetti in un “metodo” scientifico di valutazione hanno manifestato la loro inadeguatezza (metodo Manera, Metodo Scalet) e così anche i tentativi più pragmatici di individuare tipologie di salite di riferimento non hanno riscosso condivisione pacifica.
Il criterio pragmaticamente adottato è quello di considerare estreme le salite che rappresentano il top della difficoltà raggiunta dall’alpinismo nel periodo storico di riferimento. Questo concetto ha funzionato egregiamente per anni ma ha manifestato tutta la sua inadeguatezza sicuramente da oltre un decennio a questa parte, da quando cioè il livello dell’alpinismo è stato alzato in modo eclatante sotto la spinta della prestazione sportiva, diventando uno sport estremo. E questo sport estremo, a questi livelli, è oggi appannaggio esclusivo di una ristrettissima elite di atleti sostanzialmente professionisti.
E’ di tutta evidenza che la figura del socio accademico non può identificarsi in questa categoria di atleti e il CAAI non può essere portavoce di questa tipologia di alpinismo sportivo estremo. O perlomeno solo di questo. Ci fa molto piacere che alpinisti estremi condividano anche idealità dell’Accademico e ne facciano parte ma dobbiamo renderci conto che il CAAI non può rappresentare solo questa categoria di alpinisti, che è avanguardia della difficoltà ma chiaramente non rappresentativa del mondo alpinistico diffuso, compreso quello di difficoltà estrema alla portata dell’alpinista non professionista. E qui affrontiamo un altro tema rilevante, quello del professionismo. L’Accademico è per sua natura e statuto associazione di alpinisti per diporto, generalmente del tempo libero, non professionisti. E di questo occorre tener conto nel dare un significato concreto ai termini di cui dicevo prima: Attività alpinistica di particolare rilievo, salite di difficoltà estreme, salite con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme.
In altre parole, secondo me, l’alpinista accademico “tipo” deve tornare ad essere non l’alpinista più forte in assoluto ma l’alpinista che presenta un curriculum di vie estreme per il periodo storico e per un non professionista, cioè una persona normale, che magari lavora, magari ha una famiglia, magari è anche impegnato nel CAI.
Ma non pensiate che con questo io intenda abbassare l’asticella di ammissione. Anzi!
Secondo me ad un parziale ridimensionamento del curriculum tecnico (non solo atleti fuoriclasse professionisti ma anche alpinisti estremi davvero anche se non atleti professionisti) si dovrebbe accompagnare una valutazione di più ampio respiro del curriculum stesso e un apprezzamento obbligatorio di attività veramente accademica, di avventura e di esplorazione. Oltre a requisiti culturali di cui parlerò dopo.
Torniamo al curriculum. Il curriculum deve essere ovviamente di qualità, le vie lunghe, difficili e di avventura, vie che un alpinista pur bravo in genere non affronta, e deve offrire l’immagine di una persona preparata tecnicamente, ma anche curiosa, amante della montagna e dell’avventura, dell’esplorazione di posti nuovi, che si mette in gioco su terreni diversi. Secondo me per valorizzare una significatività e rappresentatività della figura dell’accademico uno sbarramento necessario è quindi quello delle vie nuove: un Accademico non può non aver aperto vie nuove, la differenza tra un protagonista e un ripetitore è fondamentale e l’Accademico deve essere protagonista e indicare una strada, anche su come e dove si apre una via. E questo rimane nella storia dell’alpinismo.
Inoltre credo che l’Accademico debba avere anche per immagine e bagaglio culturale un’esperienza molto ampia di zone, gruppi montuosi e, perché no, di alpinismo extraeuropeo.
Non sostengo questo solo per un fatto di affezione, perché il mio curriculum personale rientra in questa categoria (e avrei quindi potuto essere presentato anche in un altro Gruppo), ma perché sono fermamente convinto che un curriculum anche estremo ma non diversificato è più proprio di uno sportivo che di un Accademico.
Guardando alla mia esperienza personale, sono contento di avere svolto un’attività completa. Sono entrato nel Gruppo Orientale ma avrei allo stesso modo potuto entrare nel Gruppo Occidentale.
Questo per quel che riguarda il curriculum.
Ma, come dicevo, l'impegnativo curriculum sopra delineato non deve essere l'unico elemento preso in considerazione. Se questo curriculum vale a qualificare la statura tecnica della persona, per qualificare la figura del socio accademico devono esserci ulteriori elementi. Profilo etico e profilo culturale.
Profilo etico
Non possiamo fare un processo alle intenzioni ma possiamo analizzare il curriculum e i comportamenti per capire se il candidato si è mosso e si muove in sintonia con i principi della nostra associazione. E lo possiamo dedurre dal carattere del curriculum, dal carattere in particolare delle vie aperte, dall'attività divulgativa e operativa nei vari ambiti in cui la persona ha operato e opera. La coerenza del socio accademico con i principi dell'associazione non può essere solo teorica ma deve guidare i comportamenti concreti. L'Accademico deve essere un esempio di comportamento corretto e coerente.
Profilo culturale
Siamo tutti convinti, credo e spero, che L'Accademico sarebbe ben poca cosa se si risolvesse in un semplice titolo onorifico. L'Accademico come associazione e quindi i singoli soci accademici sono investiti di una mission, che potremmo sintetizzare così: promuovere, o forse oggi sarebbe meglio dire tutelare, una forma di alpinismo d'avventura, creativo, poco invasivo, rispettoso della storia, dell'ambiente e basato sulle capacità dei singoli.
Per promuovere questi ideali i soci devono avere un adeguato profilo culturale e di iniziativa e questo si può ricavare dall'esame di quello che un candidato ha fatto (oltre le scalate): pubblicazioni, articoli, conferenze, partecipazione al dibattito sull' alpinismo, impegno didattico orientato ai principi del CAAI ecc ecc.
Il curriculum assicura il livello tecnico, il profilo culturale assicura le basi per poter contribuire alla mission dell'Accademico.
Perché facciamo parte del CAAI e siamo orgogliosi di farne parte? Per soddisfare la nostra ambizione? Forse anche, ma soprattutto per contribuire assieme agli altri soci a promuovere un alpinismo che ci piace e nel quale crediamo.
Ecco quindi che qualità morali indiscusse e profilo culturale di adeguato spessore debbono tornare ad essere elementi fondamentali nello skill del candidato accademico.
Quindi, concludendo in estrema sintesi:
A . Curriculum Alpinistico tradizionale di eccellenza, vario, su tutti i terreni e completo di spedizioni e vie nuove.
B. Profilo culturale elevato, comportamento alpinisticamente coerente
Ultimo punto al quale voglio fare cenno è quello relativo alla necessità di individuare canali di comunicazione e spunti per catalizzare l’interesse dei giovani. Credo che il CAAI in modo particolare, ma anche l’alpinismo più in generale, non possa e non debba diventare un’attività di massa, per cui, diversamente da tante altre Sezioni del CAI e dal CAI stesso, a noi non interessa aumentare il numero dei soci ma piuttosto tenerne alta la qualità e favorire l’ingresso di alpinisti giovani. Questo è veramente uno degli obiettivi fondamentali che dobbiamo perseguire per il rinnovamento del corpo sociale. E i dati che vi ho illustrato prima credo non necessitino di ulteriori commenti. Ma di queste problematiche parleranno poi nel loro intervento Samuele e Francesco.
MAURIZIO GIORDANI Accademico e Guida Alpina
Abstract: ritengo che l’alpinismo si sia spostato da un alpinismo di avventura (e tutti facevano quello perché c’era solo quello) ad un alpinismo sportivo, nel quale alcuni propongono grandi salite e la maggior parte delle persone scala, e scalano molte più persone di prima, ma su cose più normali, chiamiamole così. E’vero che si fanno delle cose eccezionali ma si riescono a fare solo perché c’è una montagna di tempo, di disponibilità, di materiali, di allenamento e questo è un po' falsato rispetto alle reali capacità di un arrampicatore, viene tutto ingigantito
Il tema che cercherò di sviluppare sicuramente non è semplice, perché l’alpinismo come è oggi lo vediamo ma dove andrà l’alpinismo nel futuro è davvero difficile da immaginare. Partiamo da un dato: guardandoci intorno oggi qui in sala sorge spontanea una domanda: i giovani dove sono? I giovani dell’Accademico ci sono stati e ci sono, io sono entrato a 25 anni così con tanti dei miei amici con i quali scalavo in quel periodo, allora si entrava a 25/30 anni e anche prima però poi magari molte di queste persone si disperdevano o non partecipavano alla vita sociale cosa che è importante. Questo permette anche di fare delle domande: cosa sta succedendo? Ci sono meno persone che arrampicano? Che fanno alpinismo? Non credo. Prima di venire qui ero questa mattina ad arrampicare in Valle del Sarca e quando sono in parete mi guardo intorno e devo essere sincero e dire che sulle pareti della Valle del Sarca c’erano decine e decine di cordate, cosa che sicuramente non capitava 20 o 30 anni fa quando sicuramente non c’era tanta gente che scalava. E quindi ci domandiamo: che tipo di alpinismo stanno facendo queste persone, questa quantità di persone che sta attaccata alla roccia? E’ anche abbastanza semplice dare una risposta. Se andate in Valle del Sarca e guardate vi rendete conto: ci sono pareti alte anche mille metri ma il 90/95% delle cordate le trovate nei primi 200 metri. Se poi con il binocolo alzate gli occhi verso l’alto e cercate qualcuno nella parte alta delle pareti è difficilissimo trovare qualcuno. Questo è un segnale che il mondo è cambiato ed è andato verso la direzione di comodità, di accesso facile, di togliersi le problematiche che ti potrebbero creare delle cose inaspettate: restiamo comodi, restiamo vicino a casa, restiamo sulle vie che conosciamo, dove tutto diventa più facile. Questa convinzione di come stanno andando le cose mi è stata un po' confermata da spunti venuti da analisi fatte anche in altri campi dell’attività umana: ci sono stati nella storia periodi in cui è venuto meno l’entusiasmo, ci sono stati invece periodi di grande crescita culturale ed economica, nei quali le persone gareggiavano a portare entusiasmo e a diffonderlo e quindi c’erano grandi cambiamenti in atto, veloci, che hanno portato l’evoluzione e il cambiamento. Si può pensare positivo o negativo, comunque qualcosa di importante è cambiato. Negli anni del boom economico sappiamo tutti cosa è successo nel nostro Paese, tutto diventava più florido, più facile, più interessante. Ci sono stati di contro altri periodi nei quali tutto si è smorzato. Io questo smorzamento lo vedo anche oggi nella nostra società. Non c’è più la rincorsa a migliorarsi in maniera importante, tutto è diventato un po' più rilassato, un po' più monotono, chiamiamolo “normale “ se vogliamo. E nell’alpinismo mi sembra sia successo più o meno la stessa cosa: è cambiata la qualità di quello che si fa. Naturalmente mi rifaccio alla mia esperienza personale, a come scalavo qualche anno fa o negli anni ’80: si ricercava l’avventura, la via nuova, cose un po' particolari.
Volevo prendere spunto da un libro che sicuramente qualcuno ricorderà “Sentieri verticali” un libro del 1987 che dava un quadro molto preciso di quello che stava succedendo e di quello che era successo in alpinismo fino a quel momento. Rileggendo recentemente alcuni capitoli, mi è venuto da pensare che cosa succedeva su alcune grandi pareti delle Dolomiti come Civetta o Marmolada, e parlo solo di queste perché sono casa mia e le conosco meglio. Con mezzi molto limitati, pochi chiodi, si superavano pareti selvagge affrontando difficoltà certamente non pari a quelle di oggi ma sicuramente da non sottovalutare, anzi.
Che cosa è successo oggi? Secondo me ci si è un po' allontanati da questo modo di scalare, la spinta verso l’approccio sportivo all’arrampicata ha ovviamente costretto l’arrampicatore a rivedere i mezzi di protezione perché salire una via di ottavo grado con quattro chiodi come si faceva sul sesto è ovviamente difficile quindi ci si protegge maggiormente per cercare di elevare la potenzialità fisica dell’arrampicata sportiva. Questo è successo e sta succedendo sempre di più. Il problema che io vedo nella diffusione di questo modo di fare è che elevare sempre di più la potenzialità fisica dell’arrampicata o si è professionisti e si fa solo quello oppure bisogna essere dei superdotati ma siccome tutti noi abbiamo due mani e due gambe i limiti dell’arrampicatore normale sono reali. Questa corsa all’irrealtà è un po' il problema di oggi: ci vogliamo proporre come dei supermen, dei supereroi dell’arrampicata, cosa che non possiamo essere, per varie ragioni.
Sarebbe molto più semplice fare qualche passo indietro verso la realtà di quello che possiamo fare e accontentarcene perché volere sempre di più, rincorrere verso l’alto la scala delle difficoltà comunque sia ci allontana da quelle che sono le nostre reali potenzialità. Leggevo su internet che per salire la via Quo Vadis al Sass dla Crusc Nicola Tondini, uno degli scalatori più eccezionali che ci sono, per riuscire a liberarla ha fatto 29 voli provando e riprovando finchè alla fine è riuscito nell’impresa. Io, col mio modo di pensare, se penso a 29 cadute penso che avrei dovuto morire 29 volte mentre facevo quel tentativo perché non ero all’altezza di passare senza la caduta e quindi ho avuto bisogno di un grande aiuto psicologico, fisico, di materiale per riuscire a proporre quel grandissimo exploit che è salire un nono grado su una parete delle Dolomiti. E questo mi fa pensare che effettivamente potrei non esserne stato all’altezza anche se poi alla fine a forza di tentativi a forza di provare e riprovare sono riuscito nell’intento. Però il mio intento l’ho portato a termine in che modo? Eticamente parlando in un modo che mi piace o in un modo che non mi piace? Personalmente sono convinto che questo modo non mi sarebbe piaciuto. Io sono sempre stato un ricercatore dell’incognita, dell’avventura, se una cosa riesco a catturarla al volo provando le varie emozioni di incognita appunto senza preparare a fondo quello che sto facendo mi dà un’enorme soddisfazione. Ma il lato sportivo è diverso. Noi allora scalavamo in quel modo nei nostri anni, non ci sarebbe mai venuto in mente di tornare sulla Via dell’Irreale o su Fantasia per cercare di liberarla: la via è nata così e così mi aveva dato soddisfazione. Il problema è che nessuno è più tornato a cercare di salire su queste vie quindi ci siamo allontanati effettivamente dall’alpinismo. Nella conclusione del libro di Sandro “Sentieri verticali” leggevo “…è ancora troppo presto per giudicare…” (parlava di alcune vie che avevo aperto in Marmolada) sono passati 35 anni e queste vie non sono ancora state ripetute quindi vuol dire che se era presto trentacinque anni fa oggi dove siamo finiti? Cosa abbiamo davanti? Ci siamo allontanati dalla possibilità di andare a toccare con mano quello che si faceva 30/40 anni fa. E ci siamo allontanati per una semplice ragione: perché ci siamo abituati alla comodità, alla comodità di approccio, alla comodità di protezione, alla diminuzione di rischio… non la sto vedendo come una cosa negativa, intendiamoci, è solo una valutazione di quello che succede. Questa incapacità, che riguarda anche me, perché anch’io scalo così oggi perché a sessant’anni non ho forse più la voglia di andare a fare quello che facevo a venti e quindi scalo in maniera diversa, vado un po' più prudente forse, però quello che facevo negli anni ottanta non era una situazione di rischio, mi sentivo sicuro a scalare in quel modo, con poche protezioni, cercando di limitare l’uso del materiale il più possibile, perché non ho mai azzardato in quello che facevo, ho sempre cercato di arrampicare in maniera molto sicura. Quello che facevo era semplicemente avvicinare IL MIO GRADO DI SCALATA REALE al grado che poi riuscivo a fare realmente in parete, senza esagerare.
Oggi devo dire che gli itinerari più importanti, ad esempio in Dolomiti, sono diventati praticamente irraggiungibili e le vie più famose, quelle che si trovano nei libri di storia, sempre meno persone sono disposte, non capaci, perchè non sto mettendo in discussione la capacità di chi scala al giorno d’oggi, anzi abbiamo visto che in casi eccezionali personaggi come Matteo della Bordella, come Nicola Tondini e tanti altri fanno delle cose eccezionali. Quindi le cose eccezionali si fanno anche oggi, quello che oggi ci ha allontanati un po' è il riuscire a riproporre un modo di scalare avventuroso e questo allontana un po' la massa dalle grandi salite che alla fine sono state e sono quasi dimenticate.
Ma vorrei sentire su questo il parere di Alessandro Gogna, visto che proprio dal suo libro ho tratto ispirazione per avviare il mio discorso. Cosa ne pensi di quello che succede? Ad esempio quest’anno ho telefonato a Dante Del Bon al Rifugio Falier in Marmolada e gli ho chiesto: ”mi sai dare un’idea di quante cordate nel 2020 sono arrivate in cima alla Marmolada?” Mi sembrava questa una cosa curiosa da sapere. Allora vi posso garantire che nel 2020 sono arrivate in cima alla Marmolada per la Parete Sud meno cordate che in un sabato di bel tempo del 1985. Tu Alessandro cosa ne pensi di questa situazione? La stessa domanda la posso fare a Marco Cordin, che è un forte arrampicatore e giovane e quindi con lo stesso entusiasmo che avevamo noi allora. Perché se più nessuno va a scalare su un certo tipo di vie, quale è il motivo? Ho citato la Marmolada, ma lo stesso vale per il Sassolungo e per tante altre grandi pareti, ma se vai al Falzarego fai fatica a trovare vie libere, praticamente devi fare la coda mentre se vai in Marmolada il Rifugio è praticamente vuoto e le cordate non ci sono.
Risponde Marco Cordin: "sono praticamente d’accordo con te, oggi c’è più spinta verso la comunità. Ti faccio un esempio: quando recentemente siamo andati a fare la Via del Pesce nella parte alta della parete non c’era praticamente nessuno, la maggior parte delle cordate arriva fino alla cengia e poi scende e allo stesso modo ad esempio si vanno a cercare quelle vie sullo Specchio, vie di difficoltà più elevate ed effettivamente è più comodo fare la metà più difficile della via e poi scendere piuttosto che farla tutta e portarsi dietro il materiale per scendere dal ghiacciaio eccetera".
Ma tu, dal tuo punto di vista di giovane, vedi anche tu che c’è stato un allontanamento da un certo tipo di alpinismo che si faceva anni fa o secondo te comunque c’è un interesse che viene mantenuto verso un certo tipo di scalate e di alpinismo?
Risponde Marco Cordin: “Io sono convinto che sia molto cambiato, soprattutto verso l’avventura ma vista sul lato dell’alta difficoltà. Se a uno che inizia a scalare gli racconti di queste vie, la prima cosa che ti chiede è “Ma che grado è?” piuttosto che chiederti quanti giorni siete stati su o come è stata l’avventura. Si cerca soprattutto il gesto tecnico e atletico sull’alta difficolta piuttosto che l’avventura”.
Sì, è vero, ma questo è riservato a pochissimi big, per cui possiamo affermare che esistono dei picchi di capacità che escono dalla normalità per cui ci sono personaggi che propongono grandi ascensioni prevalentemente sportive e dall’altra parte c’è una massa che si è un po' adagiata su ascensioni meno impegnative, meno scomode, meno rischiose e un po' più facili da portare a casa. Più divertenti magari e il termine plaisir nasce proprio da questo.
In conclusione quindi ritengo che l’alpinismo si sia spostato da un alpinismo di avventura (e tutti facevano quello perché c’era solo quello) ad un alpinismo sportivo, nel quale alcuni propongono grandi salite e la maggior parte delle persone scala, e scalano molte più persone di prima, ma su cose più normali, chiamiamole così.
Moderatore: dagli interventi di Giordani e Cordin emerge chiaramente come sia cambiato il senso dell’avventura. Se è vero che Tondini, che stimo molto come alpinista e come persona, si permette di volare 29 volte su un tiro in montagna e sopravvive mentre Giordani, come ci ha detto, ai sui tempi in quella situazione sarebbe morto 29 volte, è evidente che qualcosa è cambiato, anzi molto è cambiato. L’avventura è diversa e questo diverso è dato sicuramente dal discorso sportivo e dal fatto che si siano delle protezioni che ti permettono di fare questi 29 voli.
Giordani: questo mi porta a pensare che l’arrampicata di oggi, pur nella crescita esponenziale delle difficoltà che si riescono a fare, è molto più artificiale di quella che faceva Comici sulla Civetta con sei chiodi attaccati all’imbrago. Mi viene da pensare che è vero che si fanno delle cose eccezionali ma si riescono a fare solo perché c’è una montagna di tempo, di disponibilità, di materiali, di allenamento e questo è un po' falsato rispetto alle reali capacità di un arrampicatore, viene tutto ingigantito.
Moderatore: sono anche tante le regole del gioco che stanno cambiando: quando un Comici, un Cassin, un Giordani, chi volete, quando arrivavano in cima a una via, la via era fatta. Adesso no, non è più così, c’è chi arriva in cima e non lo dice neanche, aspetta un mese, due mesi, sei mesi, quel che serve, fino a quando riuscirà a percorrerla in libera. Solo allora si parla di prima ascensione.
Giordani: in effetti oggi spesso non si conosce come è stata aperta una via mentre la storia dell’alpinismo ha sempre insegnato che il valore di una salita era dato dal come veniva aperta. E’vero, è già da qualche anno che la prima ascensione viene nascosta e viene proposta la prima ripetizione, mai la prima ascensione.
Moderatore: questo la dice lunga sul discorso sportivo, che ha preso il sopravvento. La via è aperta quando viene ripetuta in libera, prima non è niente, sei solo passato di lì, ma la via non esiste. Un tempo questo era alpinisticamente valido, adesso “l’alpinisticamente valido” è stato soppiantato dallo "sportivamente valido”.
Giordani: vorrei alla fine dare qualche indicazione in ordine all’altro tema del convegno, relativo alla collocazione attuale e alle potenzialità dell’Accademico, per esserci ed esserci in modo importante. Mi piacerebbe che il mondo accademico potesse dire la sua nella storia dell’alpinismo, in maniera ancora più importante di come lo fa oggi con l’Annuario, che è sicuramente una delle pubblicazioni più importanti che abbiamo, però sarebbe bello che fosse disponibile un archivio dell’alpinismo, una enciclopedia dell’alpinismo gestita da una commissione di accademici, gente preparata, competente che può dare le indicazioni di quello che è stato fatto e di quello che si fa. Sappiamo benissimo che al giorno d’oggi l’informazione alpinistica è prevalentemente in mano ai giornalisti e questa non è una garanzia di chiarezza e spesso le notizie che arrivano sono distorte, falsate o spesso tanto “si dimentica” di dire. L’Accademico potrebbe gestire una sorta di Wikipedia della montagna.
ANSELMO GIOLITTI Accademico
Abstract: presento le conclusioni del Gruppo di Lavoro volte ad evidenziare nel modo migliore possibile l’attività accademica del candidato, sia essa di stampo più classico ma di “grande respiro”, o piuttosto rivolta in modo particolare verso una specializzazione in una particolare disciplina
LINEA GUIDA PRESENTAZIONE ATTIVITA’ CANDIDATI CAAI
La presente “Linea guida” non rappresenta un obbligo assoluto da rispettare da parte dei Presentatori e del candidato, si tratta piuttosto di consigli, di un indirizzo il cui intento mira ad evidenziare nel modo migliore possibile l’attività accademica del candidato sia che essa sia di altissimo livello, sia di stampo più classico ma di “grande respiro”, o ancora rivolta in modo particolare verso una specializzazione in una particolare disciplina
La modulistica che deve essere compilata si compone di sei parti distinte :
vie di alta difficoltà (ripetizioni, nuove aperture, solitarie, invernali)
in questo modulo vanno indicati i cinque anni migliori con 10/15 vie per ogni singolo anno.
L’attività alpinistica dovrà essere scremata riportando solo vie su roccia, ghiaccio o misto, significative, dal TD/TD+ e con lunghezze significative. Evitiamo vie di difficoltà inferiore al TD, sempre che non abbiano un valore particolare e le vie corte sotto i 200/300m, sempre che non siano particolarmente significative. Per le salite in quota (alta montagna) riportare solo salite con difficoltà D o superiore
attività extraeuropea
in questo modulo si ha libertà di indicare la propria attività riferita all’intera carriera alpinistica
attività sportiva, trad, dry tooling
indicare in questo modulo un massimo di 25/30 vie con una difficoltà minima di 7a a vista e 7c lavorato. Per le lunghezze Trad il grado minimo richiesto è il 7a, per quelle di dry tooling D8
attività sulle cascate di ghiaccio
indicare in questo modulo un massimo di 25/30 cascate (minimo due lunghezze - 80/100 m.) con una difficoltà minima pari al 5 e M6
attività didattica, culturale, divulgativa
indicare in questo modulo il proprio impegno in tal senso allegando articoli, blog, libri eventualmente prodotti.
elenco delle 25 migliori vie di tutta l’attività alpinistica
Tenendo conto di un’apertura verso nuove discipline è infine possibile aggiungere ai sopracitati moduli un estratto della propria attività (un esempio potrebbe essere dato dalla pratica dello Sci Ripido )
I presentatori devono aiutare il candidato nella compilazione della modulistica (eventualmente avvalendosi del consiglio dei membri della CT con i quali è auspicabile la maggior collaborazione possibile al fine di avere evidenze delle qualità del candidato stesso) controllando bene affinché la stessa risulti completa, corretta nei nomi, nelle difficoltà, nelle lunghezze e ogni altra caratteristica di ogni singola via;
Il candidato dovrà presentare due copie cartacee dei moduli relativi all‘attività , complete della domanda di ammissione firmata, oltre ad una versione pdf con pagine in formato A4;
Il candidato dovrà utilizzare solo i moduli ufficiali e non moduli personalizzati;
Su ogni modulo ufficiale si possono riportare più anni, basta lasciare una riga bianca tra un anno e il successivo.
ITER PROCEDURALE CONSIGLIATO PER LA PROPOSTA DI NUOVE CANDIDATURE
1) Un candidato deve essere presentato da almeno due soci del CAAI (presentatori)
2) Il candidato, in via preliminare, deve presentare il proprio curriculum compilando l’apposita modulistica che si compone di 6 parti distinte :
- vie di alta difficoltà (ripetizioni, nuove aperture, solitarie, invernali)
- attività extraeuropea
- attività sportiva, arrampicata trad, dry tooling
- attività sulle cascate di ghiaccio
- attività didattica, culturale, divulgativa
- elenco delle 25 migliori vie di tutta l’attività alpinistica.
E’ necessario consegnare tutte e sei le parti delle quali si compone la modulistica anche nel caso che alcune di queste rimanessero in bianco (in questa fase preliminare non è invece necessario compilare tutti i campi “generici” dei moduli della parte iniziale, sono sufficienti età, anni complessivi di attività).
Facoltativamente è anche possibile presentare un CV completo esposto liberamente, indicando, nel caso, il numero (anche approssimativo) di salite effettuate nei gruppi differenti da quello di appartenenza e/o il proprio impegno nell’attrezzatura/manutenzione di falesie e vie.
3) Il candidato allega una lettera di presentazione riportando le ragioni per cui desidera entrare nel sodalizio;
4) I presentatori devono far visionare l’attività ai componenti della commissione tecnica, motivando adeguatamente le ragioni della candidatura (verbalmente o per via cartacea) per una valutazione preliminare;
5) La candidatura, accompagnata dalla valutazione preliminare della C.T., sarà presentata ufficialmente all’assemblea del “Gruppo” con le seguenti modalità:
- a) Il candidato, con l’aiuto dei presentatori, compila la sua attività sugli appositi moduli ufficiali del CAAI (2 copie cartacee). Si raccomanda la corretta e completa compilazione dei moduli. Dovrà essere fornita anche una versione digitale;
- b) I presentatori dovranno allegare una lettera per motivare le ragioni di tale candidatura, illustrando lo stile alpinistico del candidato ed eventualmente il carattere e le potenzialità di quest’ultimo.
- c) Il candidato allega la lettera di presentazione di cui al punto 3) riportando le ragioni per le quali desidera entrare nel sodalizio.
- d) Il candidato dovrà far pervenire tutta la modulistica ufficiale in 2 copie (utilizzando gli appositi file digitali modificabili, compilandoli e salvandoli in formato PDF) e la lettera di presentazione alla presidenza o al segretario, entro il termine ultimo del 15 ottobre;
6) Nel caso si avesse notizia di informazioni che mettono in discussione l’attendibilità o la veridicità della candidatura, chiunque (socio, componente della C.T, …) ha il dovere di informare il presidente del gruppo, il quale, a sua volta, informerà i presentatori per le necessarie verifiche.
Il presidente, sentiti i vari pareri e fatte le opportune verifiche, decide se dar corso alla candidatura o ritirarla, anche se la stessa è già passata al vaglio dell’assemblea o della C.T.C.
7) L’assemblea deve valutare il candidato riguardo tutti gli aspetti: tecnico, esplorativo, culturale, organizzativo ed etico;
8) La C.T.C. è l’organo di consulenza del C.G. e deve valutare le candidature esclusivamente sotto il profilo tecnico. Se sorgono dei dubbi in merito alla veridicità dell’attività o altri elementi negativi, si deve informare il presidente del gruppo che avvierà l’iter di verifica di cui al punto 6.
SAMUELE MAZZOLINI Accademico
Abstract: dobbiamo cercare di intercettare quelli che praticano arrampicata nel loro territorio e far loro capire che c’è anche un altro modo più avventuroso e alla fine più soddisfacente di andare in montagna
E’ vero quello che è stato detto, oggi nonostante tutto c’è molta gente che arrampica e io sono convinto che con queste persone noi dobbiamo comunicare per portare i nostri ideali. Vi porto un aneddoto. Io vengo dal mare, da Cesena, un paese in cui l’alpinismo è approdato tardi e io mi sono trovato ad allenarmi per poter fare proprio quelle vie classiche di cui parlava Giordani (quelle che oggi fanno in pochi…) perché sono sempre stato prima che un arrampicatore un amante dell’avventura. Iniziando come autodidatta una volta mi trovo alla palestra di La Saxe a Courmayeur con un amico cercando di fare una via in artificiale con delle figure meschine, mi immagino adesso. In quella situazione arriva un arrampicatore, credo forte ma che non ho mai capito chi potesse essere, fa slegato una via di fianco alla nostra e poi cominciamo a parlare. Gli confidiamo che il giorno dopo volevamo andare a fare una via in artificiale di Bertone perché, scarsi per scarsi, almeno una via in artificiale aveva i chiodi e questo ci sembrava già qualcosa. E lui, invece di dirci: ”ma dove volete andare, non vedete come siete scarsi?" ci disse semplicemente “ Guardate che Bertone aveva le braccia lunghe”. In modo molto elegante, non offensivo e tranquillo ci suggeriva di cambiare via. Questa delicatezza mi è rimasta impressa nella mente e credo che un atteggiamento simile dovremmo averlo con le tante persone, soprattutto i giovani, che incontriamo e che non sanno nulla di alpinismo, perché purtroppo oggi si parte dalle palestre con le prese di plastica quindi tutto quello che era rischio, tutto quello che era etica, tutto quello insomma che è capitato a noi ai ragazzi non capita. E non è certo facile trasmettere avventura oggi. Noi dobbiamo cercare di intercettare quelli che praticano arrampicata nel loro territorio e far loro capire che c’è anche un altro modo più avventuroso e alla fine più soddisfacente di andare in montagna. Credo che questo sia l’approccio corretto ai giovani arrampicatori piuttosto che ergersi sul piedistallo di quelli che fanno/hanno fatto cose che voi non riuscite neanche a comprendere. Anche le iniziative di arrampicata trad sono importanti, perché così la gente prova e riesce a capire la differenza tra lo spit e la tua autoprotezione e riesce poi anche a capire il valore delle vie storiche.
FRANCESCO PIACENZA neoaccademico
Abstract: gente che scala oggi ce n’è ben più di una volta, ma in gran parte indirizzata a pareti comode e ben protette e questo è figlio della ricerca quasi ossessiva della protezione sicura anche da parte del CAI nei suoi corsi e questo alla fine va contro l’alpinismo. Un nostro intervento sull’avventura potrebbe smorzare un po' l’ossessione verso questa ricerca della sicurezza che oggi prevale in modo assoluto
Voglio prendere spunto da alcuni concetti emersi oggi dalle relazioni e dal dibattito per cercare di proporre qualcosa che possa aumentare la comunicazione tra l’Accademico e il mondo reale.
Sono entrato da poco all’Accademico e mi ricordo che la prima volta che partecipai ad un convegno del Gruppo Orientale qualcuno disse che gli Accademici sono i cavalieri della storia, e questo mi ha colpito. Io sono istruttore di alpinismo e di arrampicata libera e mi sono chiesto quale è la differenza tra un istruttore o tra un alpinista normale e un Accademico: la differenza è che forse un accademico ha avuto più esperienze, più avventure, ha quindi una storia in più da raccontare e questo è importante sotto il profilo della comunicazione. Ma queste storie sarebbe bello che fossero raccontate. Ci sono diversi modi di raccontare una storia ma se ognuno di noi (e siamo oggi 291) scrivesse o si facesse intervistare su una delle migliaia di storie che abbiamo vissuto in montagna, ecco che ci sarebbero già 291 storie di accademici a disposizione del pubblico. Qualcuno poi parlava del titolo di accademico come riconoscimento. Io credo che non sia questo: quando io sono entrato ho assunto l’onere di essere come dicevamo un cavaliere della storia, con il compito di tramandare questi concetti a tutte le persone che vedo nei corsi di alpinismo. L’idea che deve passare ancora di più è che diventare socio del CAAI non deve passare solo attraverso un curriculum tecnico ma anche attraverso la capacità di trasferire l’etica dell’alpinismo, la passione per coltivare la storia dell’alpinismo tra le persone. Come associazione non mi serve un nuovo membro che prende la patacca e continua a fare la sua vita di prima senza farsi carico di questa mission di comunicazione.
E come fare quindi a trasmettere questi valori? Giacomo diceva prima che il socio accademico faceva scuola, aveva un profilo etico, culturale di alto livello. Oggi purtroppo assistiamo ad un decadimento culturale e di senso civico dell’italiano medio ai minimi termini. Dobbiamo quindi intervenire nelle scuole di alpinismo: se ad ogni corso ci fosse un Maurizio, uno qualunque di noi che racconta una propria avventura si darebbe quel quid in più per far venire in mente, per trasmettere al corsista che ancora ha la mente aperta e può recepire tutto ciò che gli diciamo. Anche noi a nostra volta abbiamo avuto delle persone di riferimento e se ora diventiamo noi le persone di riferimento nei corsi nasceranno forse degli alpinisti interessati all’etica, alla cultura e all’amore per l’alpinismo. Oggi la gente guarda i siti e la difficoltà dei tiri, nessuno si compra più il libro, nessuno legge la storia dell’alpinismo e in questa situazione una presenza sistematica degli accademici nei corsi sarebbe importante per introdurre i criteri di etica, avventura e alpinismo.
Come diceva Maurizio gente che scala oggi ce n’è ben più di una volta, ma in gran parte indirizzata a pareti comode e ben protette e questo è figlio della ricerca quasi ossessiva della protezione sicura anche da parte del CAI nei suoi corsi e questo alla fine va contro l’alpinismo ed è lì quindi che dopo una lezione sui tasselli, sui coefficienti di tenuta ecc un nostro intervento sull’avventura potrebbe smorzare un po' l’ossessione verso questa ricerca della sicurezza che oggi prevale in modo assoluto. Intendiamoci, ben venga la sicurezza naturalmente, ma anche lanciare qualcosa di diverso sembra molto importante.
Mazzolini: Credo che questi interventi di carattere didattico siano molto importanti ma sono convinto che quando una cosa la vedi e la proponi sia molto più coinvolgente. Far provare, magari anche un semplice monotiro, far posizionare i friend, capire se tengono, far capire la soddisfazione di autoproteggersi e capire quindi anche l’etica di apertura che dal vivo viene spiegata meglio che da tante parole. E capire che tra una protezione e l’altra bisogna scalare e capire che diversamente è un’altra attività e se queste cose vengono viste e spiegate aiuta poi molto anche a maturare una considerazione diversa sulle vie classiche e aiuta a mantenerle nello stato in cui sono nate. E quindi questa comunicazione è importante nei corsi del CAI e sarebbe utile insistere abbastanza sul rispetto della storia, su quello che è stato e su cosa significa veramente “arrampicata”. E trasmettere questi concetti si può fare in vario modo, scrivendo un articolo, portando i giovani a fare un’esperienza di avventura su una via o anche su un monotiro, cercando di andare ad intercettare le persone nei luoghi dove ora si inizia ad arrampicare