CAAI

Club Alpino Accademico Italiano
Martedì, 26 Aprile 2016 00:41

Annuario del CAAI del 2009.

Martedì, 26 Aprile 2016 00:39

Annuario del CAAI del 2007-08.

Martedì, 26 Aprile 2016 00:30

Annuario del CAAI del 2006.

Martedì, 26 Aprile 2016 00:26

Annuario del CAAI del 2005.

Giovedì, 21 Aprile 2016 22:15

 

 

  CONSIDERAZIONI SULL'UTILIZZO DELL'OSSIGENO NELLA PRATICA ALPINISTICA
     
     Contrariamente a quanto da molti sostenuto, ritengo che l’utilizzo dell’ossigeno nella pratica dell’alpinismo non possa definirsi “doping” per due ordini di motivi.
     Primo, perché doping nel linguaggio comune fa riferimento ad una attività sportiva agonistica o comunque strettamente prestazionale che è (o dovrebbe essere) del tutto estranea al mondo dell’alpinismo. E se non lo fosse, a mio avviso saremmo in presenza di un’attività sportiva che comunque con l’alpinismo ha ben poco a che vedere.
     Secondo, perché il doping agisce rafforzando e amplificando artificialmente le facoltà mentali e/o fisiche dell’atleta, in modo tale da consentirgli di esprimere risultati altrimenti impossibili, mentre  l’utilizzo dell’ossigeno, al di là di perseguire lo stesso risultato finale, non opera un innalzamento artificioso delle facoltà dell’individuo ma opera uno scardinamento di alcune delle fondamentali regole naturali che governano il pianeta, abbassando artificiosamente la quota delle montagne.
     Considerando che il fattore quota è sempre uno degli elementi che contribuiscono a definire i parametri di difficoltà ed impegno di una salita, e quindi dell’intima soddisfazione ed appagamento che ne derivano,    è evidente che riducendo questa componente viene ad essere stravolto il senso complessivo ed unico dell’esperienza che si va a vivere.
     Non si può parlare quindi di doping. Ma di truffa, sì.
     Truffa nei confronti della storia dell’alpinismo, che si cerca di forzare nelle sue tappe evolutive naturali, e truffa anche nei confronti di sé stessi, originando un insanabile dissidio tra l’essere e il voler essere.
     E ci limitiamo a quanto sopra, dando per scontato che tutti onestamente dichiarino le caratteristiche ed il perimetro sull’impresa effettuata, perché diversamente entreremmo nel campo del dolo.
     E’ pur vero, si potrà obiettare, che l’utilizzo dell’ossigeno affonda le sue radici già nei primordi dell’esperienza alpinistica alle quote superiori. Nelle prime spedizioni strutturate e significative all’Everest, quasi un secolo fa, la pratica era accettata, ma, si badi bene, come una presunta necessità, ritenendosi, per mancanza di sperimentazione, che alle quote massime la sopravvivenza dell’uomo non fosse altrimenti possibile.
     Già allora, tuttavia, nonostante questa convinzione, i protagonisti più sensibili intuivano che l’uomo poteva e doveva fare di più per rapportarsi anche all’alpinismo di quota “by fair means”, così come si era fatto, tranne qualche eccezione, nella conquista delle vette alpine.
     Noel Odell, riferendosi al tentativo Mallory, che seguì dall’ultimo campo, a proposito dell’uso dell’ossigeno scriveva:” Credo che la sua importanza  sia stata esagerata e un alpinista, purché sappia acclimatarsi (…) può benissimo farne a meno (...) anzi l’uso abbondante dell’ossigeno è fonte di pericolo, perché impedisce l’acclimatamento (…) ho la ferma convinzione che sia possibile scalare l’Everest e arrivare in vetta senza l’ausilio dell’ossigeno”. E siamo nel 1924.
     Riconosciuta la storicità dell’utilizzo dell’ossigeno, potrebbe apparire contradditorio auspicarne finalmente l’abbandono totale e senza compromessi.
     Ma così non è.
     La storia dell’alpinismo, nelle sue varie epoche e nelle sue varie espressioni, ci insegna che gli elementi che più allontanano la pratica alpinistica da un rapporto diretto e naturale dell’uomo con la montagna      sono destinati ad essere riassorbiti, anche se purtroppo l’andamento ciclico di queste situazioni crea inevitabili tensioni e contraddizioni.
     La crescente sensibilizzazione sul fenomeno genera perlomeno interrogativi di massa e di conseguenza un minor apprezzamento generalizzato per il fenomeno, il che porterà con ogni probabilità ad un calo progressivo della domanda e quindi dell’offerta, soprattutto da parte degli organizzatori delle spedizioni commerciali.
     Ad oggi comunque, al di là delle considerazioni già accennate in merito al rispetto per la naturale evoluzione della storia e per il significato etico del rapporto del singolo con la montagna, occorre anche prendere  atto dell’aspetto legato all’inquinamento che la pratica produce, sia quanto a garbage sia quanto semplicemente a sovraccarico ambientale.
     L’alpinismo “di massa”, al pari dell’arrampicata “di massa”, produce impatti significativi, spesso inopportuni e irreversibili, sull’ambiente naturale ed è evidente che in questo senso l’utilizzo dell’ossigeno    incrementa una frequentazione abnorme, rispetto alle caratteristiche ambientali specifiche, e di conseguenza non di rado poco consapevole.
     Ne derivano insistenza di sovraccarico in aree limitate e ben definite, con conseguente inquinamento ambientale in senso stretto.
     Ma preoccupa anche il correlato inquinamento culturale, in grado di danneggiare l’immagine dell’alpinismo come vorremmo che fosse.
     E questo vale non solo per l’ossigeno ma anche per i portatori. E i due discorsi si intrecciano.
     Per me sono problemi innanzitutto di carattere etico e storico, per altri  magari di valore prestazionale.
     Detto questo, a condizione che venga rispettato l’ambiente e gli altri, ognuno è libero di concepire e praticare un alpinismo diverso.
     Ma con onestà e consapevolezza del valore del proprio agire.

                                                                                                                                                              ALBERTO RAMPINI

 

 

Si riportano di seguito, per gentile concessione dal sito MW, i pareri di Carlo Alberto Pinelli, socio CAAI e Presidente di Mountain Wilderness Italia, di Renato Moro, già Presidente della Commissione per le spedizioni extaeuropee dell'UIAA, e delle guide alpine ed esperti himalaysti Maurizio Giordani e Paulo Grober.


Si tratta di un argomento di carattere apparentemente solo alpinistico, sia a motivo delle ricadute ambientali che i comportamenti di cui si discute hanno avuto e continuano ad avere sull’integrità degli ambienti himalayani, sia perché sin dall’inizio la nostra associazione ha compreso e interiorizzato i legami che uniscono in una complessa rete di rapporti espliciti o sotterranei la tutela “ecologica” e paesaggistica dell’ambiente montano alla qualità delle esperienze esistenziali che in quei luoghi “alti e incontaminati” possono essere sperimentate. Proprio da tali relazioni deriva il peculiare carattere “umanistico” che contraddistingue Mountain Wilderness. Gli interrogativi sulla liceità dell’uso delle bombole d’ossigeno in alta quota si sono riaffacciati alla ribalta e pretendono ormai spiegazioni non reticenti, sull’onda di quanto sta accadendo lungo la via normale alla vetta dell’Everest, degradata a penoso trampolino per l’affermazione di ambizioni personali che ben poco hanno in comune con i valori e le competenze del vero alpinismo. Personalmente sono convinto da sempre che l’utilizzazione dell’ossigeno equivalga a una droga dopante, anche se solo in senso lato. Con buona pace di Hillary e Tenzing (di fronte ai quali comunque mi levo il cappello) reputo che i primi autentici salitori dell’Everest siano stati coloro che ne hanno saputo raggiungere la vetta lottando lealmente contro l’ipossia. Il dibattito che Mountain Wilderness intende rilanciare non dovrebbe tuttavia restringersi entro confini accademici, ma sfociare in qualche proposta concreta, in grado di costringere i club alpini, l’UIAA che li riassume, i governi delle nazioni himalayane a prendere le distanze da una pratica così ambigua e sleale. Utopia? Chi può dirlo senza averci provato? Forse oggi i tempi sono maturi per proporre un simile salto di qualità. Il primo provvedimento che dovrebbe essere preso (e ne parla Renato Moro) in fondo non è troppo difficile: la compilazione di un elenco con due categorie di “vincitori”: quelli che sono saliti con le bombole e quelli che ci sono riusciti senza usarle. Basterebbe l’esistenza di un simile doppio binario e la sua capillare diffusione a far abbassare la cresta alle centinaia di vanitosi sprovveduti che si affannano a salire in fila indiana, come un esercito di processionarie, lungo il rosario di corde fisse piazzate dalla base della montagna alla vetta da legioni di sherpa.

Carlo Alberto Pinelli


  • Parere di Renato Moro, già presidente della Commissione per le spedizioni extra-europee dell’Unione Internazionale delle Associazioni di Alpinismo (UIAA). In merito al problema dell’uso dell’ossigeno in alta quota riassumo quanto è stato fatto (o meglio, non fatto) dalla Commissione Spedizioni extra-europee dell’UIAA quando ne ero Presidente. Avevo proposto di formare un ristretto gruppo di esperti che dopo aver analizzato il problema nei suoi aspetti giuridici, etici, sportivi  elaborasse un documento da sottoporre al consiglio centrale dell’UIAA. Contemporaneamente avevo analizzato il lato medico-sportivo con alcune federazioni e i giudizi in merito erano chiari. L'ossigeno è doping. Con mio disappunto la proposta venne bocciata con voto contrario anche della commissione medica dell’UIAA. In seguito proposi di istituire un elenco speciale di ascensioni agli ottomila realizzate con certezza senza l’utilizzazione delle bombole in qualsiasi fase della scalata. Mi sembrava logico fare due classifiche delle ascensioni “con e senza”, dando alle seconde il giusto valore. Tale metodo avrebbe dovuto essere adottato anche nel conferimento di contributi o onorificenze. Non ho vinto neanche su questo fronte. Da ciò è derivata la mia decisione di dimettermi dalla Commissione, la quale in seguito è stata soppressa. Come si vede una nuova iniziativa non riuscirebbe a cavare un ragno dal buco, perché troppo forti sono le pressioni sui decisori dell’UIAA della agenzie che organizzano spedizioni commerciali; dietro alle quali ci sono gli stessi governi delle nazioni himalayane, le lobbies dei portatori d’alta quota e la pressione di tanti alpinisti che desiderano aggiungere ai loro palmares anche l’Everest o il K2, ma non sarebbero in grado di scalare quelle vette prestigiose senza l’aiuto dopante dell’ossigeno. E' un mondo che non mi appartiene più. Forse sono vecchio. Di certo sono disilluso.
  • Parere di Maurizio Giordani, guida alpina, alpinista himalayano, garante di Mountain Wilderness International. Per etica e coerenza sono stato sempre contrario all'uso dell'ossigeno in quota e mai l'ho portato nelle mie spedizioni (piuttosto non salgo e torno indietro) ma credo, dato che il 90% di chi sale in alto lo usa... sia abbastanza problematico il suo bando...
  • Parere di Paulo Grobel, guida alpina francese, famoso organizzatore di spedizioni e trekking, garante internazionale di Mountain Wilderness. Aprire un dibattito sull'utilizzo dell'ossigeno in Himalaya? Semplicemente, a mio avviso, non c'è motivo di rivangare un simile argomento. La cosa infatti è assodata: le bombole d’ossigeno sono una droga dopante. Cioè un indebito elemento esterno che aumenta le prestazioni in quota. Punto e basta. Purtroppo la grande maggioranza degli alpinisti che affronta l'Everest continua a utilizzare l'ossigeno; e oggi questa pratica si sta diffondendo anche sui "piccoli" 8000. Per quale ragione un "desiderio di Everest" dovrebbe giustificare l'uso di qualsiasi mezzo per raggiungere la meta? Allora, a questo punto, paradossalmente, perché non utilizzare l’elicottero per evitare i rischi della prima seraccata, sopra il  campo base del versante nepalese? Che cosa spinge gli alpinisti, desiderosi di confrontarsi con le più alte vette della terra, a rifiutare di vivere pienamente ciò che costituisce la specificità della grande altitudine e il suo principale interesse: l'ipossia e i suoi pericoli? Certamente è lecito porci delle domande sul significato reale e sulla reale nobiltà delle realizzazioni di questi veri o presunti alpinisti. Ma alla fine dei conti quelli sono fatti loro. Che facciano e dicano dunque quello che vogliono, da Mazeau a Jourjon. Del resto l'uso dell'ossigeno non è che la parte visibile dell'iceberg dell'eccesso dei mezzi utilizzati indebitamente. Penso che l’abuso sistematico delle corde fisse e  la negazione della nozione della salita in cordata veicolino un messaggio ancora più deleterio. C'è un immenso rischio di vedere propagarsi e rendere sistematiche queste forme di ascensione devianti, da l'Island Peak all'Everest passando per l'Ama Dablam. Dunque porsi il problema della liceità dell’ossigeno equivale a mettere in discussione la quasi totalità dei mezzi utilizzati dagli alpinisti per realizzare un'ascensione “alla moda”. E stimola a riflettere sulla recente evoluzione (involuzione?) dell'alpinismo sulle più alte montagne della terra. Le previsioni non sono certo tranquillizzanti. Temo che l’avvenire non ci riservi sorprese positive, sull’Everest o altrove. Anche lasciando da parte le questioni etiche e filosofiche sono convinto che l'utilizzo dell'ossigeno sia oggettivamente pericoloso. Esso permette a chi se ne serve di ritrovarsi un bel momento in un luogo dove non potrebbe e non dovrebbe trovarsi. Se qualcosa nell’erogatore va storto o la bombola si svuota strada facendo, costui è perduto. Letteralmente perduto. In qualità di guida di alta montagna ritengo che sia una situazione molto complicata da gestire. Aiutare qualcuno ad andare più su di quanto sarebbe capace comporta l’accettazione di un rischio supplementare. La stessa guida potrebbe trovarsi in serie difficoltà nella gestione di un cliente sprovvisto di risorse psico-fisiche sufficienti (vedi gli incidenti al Manaslu con un cliente e al Makalu con un nepalese; le circostanze dei quali non sono state analizzate a dovere per trarne insegnamenti). Inoltre mi piace molto la nozione di condivisione e di apprendistato che esiste nell'alpinismo. Raggiungere una certa sobrietà nell'uso dei mezzi tecnici in Himalaya necessita un apprendistato che ha alla radice la reale volontà di mettere in gioco tutte le proprie risorse naturali, spesso al prezzo della riuscita. Senza aggiungere che questo approccio “by fair means” presuppone una catena organizzativa, relazionale e decisionale impeccabile. Per concludere non assumerò mai ossigeno e non lo faranno neppure i miei compagni di cordata. E non andrò mai sull'Everest... malgrado un forte "desiderio di Everest".
Mercoledì, 06 Aprile 2016 23:48

Edizioni del Club Alpino Accademico Italiano

I Quaderni dell’Annuario

Alpinismo e Cultura, Borgosesia 1996, pp. 110 – prende in esame i temi culturali legati alla pratica dell’alpinismo

Contributi alla storia dell’alpinismo, Borgosesia 2002, pp. 216 – contributi all’insegnamento della storia nelle scuole di alpinismo

Prime di prima, Borgosesia 2005, pp. 160 – imprese storiche nelle Alpi (1882-1939) nei documenti originali

Classici dell’alpinismo

K2 Chogori – Borgosesia 2004, pp. 160 – raccolta di testi originali sui tentativi e la prima ascensione

T. G. Brown – Brenva – Borgosesia 2006, pp.214 – prima edizione italiana

G. W. Young – Sulle Alte Cime (On High Hills) – Borgosesia 2009, pp. 328 – prima edizione italiana

P. Bauer – Al Kangchenjunga (Kampf um den Himalaja) – Borgosesia 2012, pp. 134 – prima edizione italiana

Mercoledì, 06 Aprile 2016 21:54

 

Prestigioso riconoscimento da parte del Presidente del Pakistan a Carlo Alberto Pinelli, socio CAAI, cofondatore e attuale Presidente di Mountain Wilderness Italia, in riconoscimento dell’attività svolta negli anni per la promozione a livello internazionale delle montagne del Pakistan e di un approccio ambientalmente sostenibile ed eticamente accettabile all’alpinismo di alta quota.

Nell’arco degli ultimi 50 anni Carlo Alberto ha organizzato e condotto 7 spedizioni alpinistiche ed esplorative in Himalaya ed Hindukush.

Nell’estate 1990 ha organizzato e felicemente portato a compimento la spedizione “Free K2”, raccogliendo e portando a valle parecchie tonnellate di rifiuti e rimuovendo la massa di corde fisse ormai inservibili abbandonate dalle spedizioni nel corso degli anni.

Più recentemente ha organizzato e diretto in India e Pakistan 6 corsi di alpinismo e ambientalismo per formare istruttori locali, con la collaborazione anche di soci dell’Accademico in qualità di formatori.

 

PINELLI AWARD 2016      Riconoscimento a Betto Pinelli

Mercoledì, 09 Marzo 2016 19:00

Giusto Gervasutti , “Il fortissimo” , secondo gli storici portò la tecnica e soprattutto la mentalità dell’alpinismo dolomitico sulle Alpi Occidentali, realizzando nel periodo dal 1933 al 1946 una grande quantità di salite di prim’ordine, spesso in ambienti isolati e repulsivi. Ed è questo uno dei motivi per cui molte vie firmate dal “fortissimo” non soffrono della svalutazione derivante dal sovraffollamento: sui Piloni del Freney molte cordate salgono il Pilone Centrale mentre pochissime si avventurano sulla Gervasutti al Pilone NE, così come alle Jorasses lo Sperone Walker conta abituali ripetizioni mentre la grandiosa Parete Est viene visitata assai raramente.

Fatte queste premesse, appare quantomeno singolare che il nome di Gervasutti sia collegato dal grande pubblico degli alpinisti alla ripetutissima “Gerva” alla Rocca Sbarua, un must per i frequentatori delle falesie del Piemonte

http://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/giusto-gervasutti-i-100-anni-del-fortissimo.html 

GIUSTO 1

 

 

 

Per gentile concessione riportiamo l'interessante articolo pubblicato sul sito http://www.banff.it/category/gogna-blog/

 

Giusto Gervasutti a settant’anni dalla scomparsa
(ritratto di questo grande dell’alpinismo attraverso l’analisi della sua attività “di punta” 1931-1946)
di Carlo Crovella (SUCAI Torino e GISM)

Formidabile sulla roccia e sul ghiaccio, lo era altresi come “senso alpino”, come esploratore e solutore di problemi. Taluno può stragli alla pari e magari aver realizzato di più in questo o in quel determinato campo – roccia dolomitica od occidentale, ghiaccio, salite miste – ma nessuno, che io sappia, può vantare una simile mole complessiva di lavoro, una personalità così dominante in tutti i campi dell’alpinismo, dall’arrampicata pura all’esplorazione (Renato Chabod, La Cima di Entrelor, Zanichelli, 1969)”.

                       

Così l’amico e campagno di cordata Renato Chabod sintetizza mirabilmente le caratteristiche tecniche e ideologiche di Giusto Gervasutti, il celebre alpinista scomparso il 16 settembre 1946 durante un tentativo al Pilier Nord-est (oggi Pilier Gervasutti) del Mont Blanc du Tacul (gruppo del Monte Bianco). Gervasutti è uno degli “snodi” più rilevanti nella storia dell’alpinismo, almeno del periodo a cavallo degli anni ’30, perché seppe fondere in sé la visione della scuola orientale (cioè la mentalità del VI grado, che ha caratterizzato in particolare le Dolomiti) con i grandi terreni occidentali: alta quota, neve e ghiaccio, bufere, bivacchi in parete, lunghi e tortuosi avvicinamenti.

Comporre l’elenco delle imprese alpinistiche di Gervasutti è, paradossalmente, l’aspetto meno complicato dell’analisi di questo personaggio: altri sono infatti i risvolti psicolgici ed esistenziali dove si incentra il vero enigma della sua poliedrica personalità. Tuttavia Gervasutti fu innanzi tutto un insigne alpinista, o quanto meno è passato alla storia come tale: pertanto l’analisi della sua attività di punta consente di cogliere, attraverso le sue scelte alpinistiche, i più profondi aspetti della sua persona.

Per comprendere appieno l’attività alpinistica (che si svolse lungo un arco temporale di soli 15 anni: dal 1931 al 1946, cioè dall’arrivo a Torino fino alla scomparsa sul Tacul) torna molto utile seguire la falsariga che ci ha lasciato proprio Chabod nello specifico capitolo del libro La Cima di Entrelor (pag. 101-117).

Gervasutti, nato a Cervignano del Friuli il 17 aprile 1909, si trasferisce a Torino nel 1931, portando nel contesto “occidentale” quella mentalità “orientale” che gli era congenita, non fosse altro per la provenienza geografica: aveva infatti un discreto bagaglio di esperienze in Dolomiti e anche nelle Alpi Carniche e Giulie. Appena stabilito a Torino, Giusto cerca immediatamente il contatto con l’ambiente alpinistico subalpino e non ha difficoltà nel trovare compagni di gite, a dimostrazione di quanto il milieu torinese fosse “maturo” per l’innesto delle nuove concezioni.

Il primo assaggio della “grande” montagna occidentale avviene (con l’allora compagno di cordata Lupotto) nell’estate dello stesso anno (1931), grazie al trittico Aiguille Verte-Grépon-Dru (massiccio del Monte Bianco), vette tutte affrontate sulle corrispondenti vie normali, ma rese complicate dalle immancabili bufere d’alta quota, come se la montagna volesse fargli immediatamente capire a cosa corrispondono le caratteristiche “occidentali”. Dopo il suddetto trittico, Giusto si sposta nelle Dolomiti, evidenziando, fin da subito, l’estrema facilità a “saltare” fra occidentali e orientali (e viceversa). A oriente, sempre nel 1931, realizza un bottino che renderebbe orgoglioso anche l’alpinista odierno: Cima Piccola di Lavaredo (inizialmente dalla via normale, poi, qualche giorno dopo, attraverso una combinazione di vie più impegnative), seguita dalla Piccolissima (Via Preuss) e infine, nel settore d’Oltre Piave, realizza anche due “modeste” (specie se confrontate con i canoni del Gervasutti “maturo”) prime ascensioni (Cima Toro, parete nord-ovest, e Cima Both, parete Ovest-Nord Ovest). Queste prime ascensioni risulteranno pressochè le uniche nella sua pur pregevole frequentazione dolomitica (caratterizzata sostanzialmente da ripetizioni di rilievo, ma non dall’apertura di importati vie nuove). La campagna dolomitica del 1931 si completa con le ascensioni del Campanile Toro, Via Piaz, e del celeberrimo Campanile di Val Montagnaia (“il più bel campanile del mondo”). Anche senza prestigiose vie nuove, neppure in seguito, Gervasutti non dimenticherà mai le Dolomiti, sia per esigenze di allenamento e di perfezionamento tecnico, sia per l’attaccamento ai monti della sua giovinezza.

Sottolinea puntigliosamente Chabod (op. cit., pag 106-107), commentando l’attività del 1931: “Come primo saggio di “completezza” (cioè di connubio fra montagna occidentale ed orientale, ndr), non c’è davvero male, ma questo può dirsi soltanto il preludio di quanto il Fortissimo saprà fare negli anni successivi, sia pure con una spiccata predilezione, in punto grandi vie nuove, per le Occidentali, dove potrà meglio soddisfare il suo vivissimo gusto dell’esplorazione e perfezionarsi sempre più per le sognate future spedizioni extra europee… Però Egli rimarrà dolomitista e friulano, seppur diventato occidentalista e torinese, anche se per la menzionata sua passione esplorativa, darà le prove più eccelse del suo valore nelle grandi salite occidentali”. In un rapido flash, Chabod dipinge “tutto” Gervasutti: la sua origine, la sua multiforme attività sia a oriente che a occidente, la sua visione di una montagna “completa” e “trasversale”, le sue esperienze e i suoi sogni extra europei.

Il 1932 si apre, ben prima della stagione estiva, con due importanti imprese: a febbraio la prima invernale (e anche prima sciistica o, meglio, scialpinistica) alla Nordend (gruppo del Monte Rosa), insieme a Emanuele Andreis e Paolo Ceresa, e poi l’ascensione invernale del Cervino (con Gabriele Boccalatte e Guido De Rege), lungo una combinazione di vie (Cresta Furggen fin sotto la spalla e, per colpa del maltempo, ripiegamento sulla Cresta dell’Hornli fino alla vetta). Con l’estate del 1932, Gervasutti dà una prima significativa accelerata alla sua attività, preambolo di quella, irreversibile, dei tre anni successivi. Appunto in quella estate Giusto realizza con Boccalatte e Chabod la traversata della Aiguille Verte: salita per il Canalone Mummery (sesta ascensione) e discesa dal Canalone Whymper. Poi sale, da solo, sulla vicina Aiguille du Moine, ma, disgustato dalle pessime condizioni dell’alta montagna (per colpa di una negativa stagione meteorologica), scappa verso le sue amate Dolomiti: Torre Coldai da nord-ovest, Via Rudatis; Civetta, cresta nord; Torre Venezia, parete ovest e infine un drammatico tentativo sulla Via Solleder (il primo “sesto grado” della storia) sulla parete nord-ovest della Civetta. In tale occasione, il compagno di cordata, tal Schweiger (conosciuto la sera prima in rifugio), esaurisce presto le forze e ciò impone la ritirata. Nel corso della discesa, Schweiger si lascia letteralmente andare, appendendosi a corpo morto sulle corde sotto a uno strapiombo. Durante la manovra di recupero, Giusto viene sbalzato nel vuoto e resta appeso alle corde con la sola mano sinistra (!!!). Toltosi dai guai rimontando le corde a forza bruta, Gervasutti raggiunge poi il compagno e prende atto che ha una gamba fratturata. Di conseguenza lo assicura al terrazzino e prosegue la discesa a corde doppie, raggiungendo così il rifugio, per risalire il giorno dopo con altri alpinisti e riportare in salvo il compagno. Il conto aperto con la Solleder si chiuderà solo due anni dopo, ma nelle settimane successive a questo episodio Giusto percorre un’altra celebre via di Solleder (una delle classiche di VI grado), quella al Sass Maor (con Boccalatte).

Tornato in Piemonte, Giusto imbastisce, anche nelle Occidentali, quell’attività di esplorazione che lo caratterizzerà nel tempo, portandolo a realizzare non poche prime “minori”, spesso se vette appartate, poco appariscenti o addirittura considerate di “media montagna”: il 4 settembre 1932, con Paolo Ceresa e Vittorio Franzinetti, sale il Camino Gervasutti alla Punta Mattirolo dei Serous (Valle Stretta, Bardonecchia).

La parete nord-ovest del Pic d’Olan

GIUSTO 2

Il 1933 è l’anno in cui Gervasutti accende il turbo. In primavera, durante il Trofeo Mezzalama, si guadagna quel soprannome, Il Fortissimo, che lo segnerà (Chabod dice: come unico e vero fortissimo) per tutta la vita. In estate, dopo qualche ascensione dal rifugio Torino (fra cui alcune guglie dell’Arête du Diable del Mont Blanc du Tacul, compagni Piero Zanetti, Gabriele Boccalatte e la signorina Ninì Pietrasanta – futura signora Boccalatte), realizza due imprese di rilievo, sempre con Zanetti. Dapprima gli riesce la seconda ascensione assoluta della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey, allora considerata la più difficile via di roccia nel gruppo del Bianco (e non è che, oggi, scherzi poi tanto…), aperta nel 1930 da due alfieri della scuola germanica, nello specifico Karl Brendel e Hermann Schaller, e storicamente considerata il primo esempio di applicazione della mentalità orientale su terreni occidentali. Successivamente Gervasutti effettua, sempre con Zanetti, la prima esplorazione (frustrata dal maltempo) alla parete nord delle Grandes Jorasses, dove (con l’acuto occhio “esplorativo” che lo contraddistingue fin dall’inizio) capisce immediatamente che il “punto debole” della parete non è l’affilato e intrigante Sperone Walker, ma il parallelo sperone Croz. Giusto termina poi la stagione in Dolomiti, con alcune interessanti salite fra cui spicca quella, con Aldo Bonacossa, alla Torre Re Alberto (gruppo Torri del Cameraccio), dedicata al Re alpinista.

Il 1934 è l’anno che consacra Gervasutti come stella alpinistica di prima grandezza. Nei mesi febbraio-aprile partecipa alla spedizione del conte Aldo Bonacossa diretta nelle Ande, dove fra l’altro partecipa alla prima ascensione del Picco Matteoda (punta cilena del Tronador), e poi si ferma a titolo personale con Luigi Binaghi, realizzando le prime ascensioni su due Cerros di oltre 5000 metri. Interessante l’annotazione che lo stesso Giusto inserisce (Scalate nelle Alpi, pag. 96) sul concetto di spedizione e di viaggio: “Il primo viaggio su un transatlantico è sempre una curiosità, ma per me questa partenza aveva un valore simbolico particolare. Avrebbe dovuto iniziare una nuova fase della mia vita… quella per la quale avevo rinunciato ed ero deciso a rinunciare a tante cose che sembrano importanti nella vita sociale”. In parole povere, Gervasutti focalizza definitivamente che l’alpinismo è la sua principale ragione di vita. Tornato in patria, Gervasutti inizia la stagione estiva del 1934 in Dolomiti (Campanile di Brabante, seconda ascensione) e poi passa al Bianco: un nuovo e più convinto tentativo (con Chabod) alla Nord delle Jorasses (tentativo che, seppur, frustrato dal maltempo, dà inizio a quella che Chabod chiama la “Corsa alle Jorasses”, culminata l’anno successivo con la “beffa” sullo Sperone Croz), seguito dalla prima ascensione (sempre con Chabod) del Canalone nord-est del Mont Blanc du Tacul (oggi Canalone Gervasutti). Tale impresa che è stata anticipata (“per allenamento”, ndr) dalla prima salita del Canalone ovest alla Tour Ronde. Infine, con il nuovo amico francese, Lucien Devies, Gervasutti si trasferisce in Delfinato, dove realizza la prima ascensione della parete nord-ovest del Pic d’Olan, “impresa che scuoterà gli alpinsiti francesi, come le precedenti avevano scosso gli occidentalisti piemontesi” (L. Devies, La Conquête de la muraille N.W. de l’Olan, pubblicato su Alpinisme, giugno 1935). Nello stesso articolo, Devies descrive a puntino l’azione di Gervasutti: “… guardo Giusto in arrampicata. Il suo stile non rivela lo sforzo. È di una semplicità e una purezza assolute. Tutto è sacrificato all’economia delle forze e al rendimento. Ogni gesto è prettamente previsto, eseguito, controllato. Si indovina, in ciascun movimento, la volontà tesa unicamente verso lo scopo. È il procedere trionfale di un conquistatore. Saliamo fin sotto un salto dello sperone, volgiamo un po’ a sinistra, poi riprendiamo a salire in linea retta. Giusto conduce come se avesse già fatto venti volte il percorso…”. Giusto è definitivamente entrato nell’olimpo dell’alpinismo, ma il 1934 gli regala ancora una bellissima impresa: nel mese di settembre, insieme al Conte Bonacossa e a Carlo Negri, Gervasutti compie una puntata nelle Alpi Centrali, realizzando la prima ascensione dello Spigolo sud della Punta Allievi (Gruppo Bregaglia-Disgrazia), una via molto apprezzata e ripetuta anche ai nostri giorni: il tratto chiave è quotato, ancora oggi, di V+ e VI.

E veniamo al 1935, forse uno degli anni più completi, alpinisticamente parlando, di Gervasutti: seconda ascensione, con Chabod, dello Sperone Croz alla Nord delle Jorasses (battuti di un soffio dai tedeschi Rudolf Peters e Martin Meier); prima ascensione della parete est del Monte Emilius (intrapresa come “allenamento” per le Jorasses); prima ascensione assoluta (con Chabod, Boccalatte e la Pietrasanta) del Pic Adolphe; un tentativo, con Luigi Binaghi, al Pilier del Tacul dove poi, nel 1946, Giusto incapperà nell’incidente fatale; terza ascensione, con Mario Piolti e Michele Rivero, della Cresta des Hirondelles alle Jorasses (probabilmente in questa occasione Gervasutti “adocchia” per la prima volta la contigua parete est). Poi si trasferisce nelle Dolomiti e chiude definitivamente il conto con la Solleder alla Nord-ovest della Civetta e, rimbalzato nuovamente nelle occidentali, compie quella inebriante cavalcata costituita dalla lunga Cresta sud-est (a forma di “cresta di gallo”) del Pic Gaspard in Delfinato, con Lucien Devies.

La parete nord-ovest dell’Ailefroide

GIUSTO3

Il 1936 è un anno bifronte per Giusto, che da un lato realizza (in Delfinato) una delle sue imprese più eclatanti, cioè la prima ascensione alla parete nord-ovest dell’Ailefroide, detta anche Muraille de Coste Rouge, ma dall’altra deve accettare un lungo stop per i postumi dell’incidente verificatosi proprio all’Ailefroide: nell’avvicinamento al buio, rotto solo dalla lanterna a mano (altro che i frontalini di oggi!), gli si gira sotto i piedi un masso e Gervasutti, cadendo, riporta diversi “danni fisici”, fra cui due costole fratturate, un taglio profondo al labbro e alcune denti che “ballano” nelle gengive. Giusto immediatamente capisce che, se torna indietro, dovrà fermarsi per lungo tempo, interrompendo l’attività alpinistica, e quindi… attacca con decisione la parete per non perdere l’occasione! Due giorni di dura lotta per realizzare quella che è stata soprannonimata la Walker dell’Oisans e che io personalmente reputo sia la più “gervasuttiana” delle sue imprese. François Labande, autore della guida alpinista del Delfinato, riporta (pag. 303) l’annotazione che, secondo lo stesso Gervasutti, la Nord-ovest dell’Ailefroide costituisce la sintesi sublime fra la Nord delle Jorasses e la Nord-ovest della Civetta. Se pensiamo che la Nord delle Jorasses è la “quintessenza” dello “stile face Nord”, per dirla alla francese, e che la Nord-ovest della Civetta è da sempre chiamata la “Parete delle Pareti”, ci rendiamo immediatamnete conto dell’intrinseco “valore” che caratterizza la Muraille de Coste Rouge. Per i puristi delle precisazioni alpinistiche, la Walker incorpora punte di difficoltà tecnica leggermenti superiori (pensiamo anche solo ai due famosi diedri di 70 metri, superati “caparbiamente” dall’altro grandissimo sestogradista dell’epoca, Riccardo Cassin), ma non si deve dimenticare che le difficoltà dell’Ailefroide si posizionano su un livello che è inferiore alla Walker solo di una minima “tacca” e che, in ogni caso, tali difficoltà sono inserite in un contesto ambientale ancor più severo e con maggiori pericoli oggettivi (vedi acclusa relazione, ndr) rispetto alla conformazione da “spigolo” che caratterizza la Walker. Dopo l’inevitabile convalescenza successiva all’incidente dell’Ailefroide, Gervasutti si rifà la bocca con l’alta montagna solo negli ultimi giorni del 1936, con la salita solitaria invernale al Cervino lungo la Cresta del Leone (normale italiana).

Il 1937, causa impegni di lavoro, è invece un anno con poco tempo libero per Gervasutti, il quale si deve sostanzialmente “accontentare” di una ripetizione alla Via Dibona al Dent du Requin e della terza ascensione della parete nord del Petit Dru. Sempre nel 1937 Giusto organizza, con Leo Dubosc (un accademico torinese), un primissimo tentativo alla Est delle Jorasses, ma non riesce neppure a raggiungere l’attacco della parete, per un errore nella scelta dell’itinerario sul ghiacciaio. Questo tentativo gli permetterà, però, di impostare correttamente i successivi attacchi (1940-1942) alla parete.

Il 1938 è apparentemente un anno di delusioni, se non addirittura di “sconfitte” (alpinistiche) per il nostro Giusto. Perde il treno della Nord dell’Eiger, per i troppi tentennamenti meteorologici degli anni precedenti (questa parete sarà vinta, proprio nell’estate del 1938, da quattro austro-tedeschi), ma soprattutto perde la Walker, conquistata invece da Cassin con il suo abituale stile (“veni, vidi, vici”). L’episodio gli pesa, eccome!, ma nel libro Scalate nelle Alpi (pag. 208), Giusto riconosce, con un animo nobile e leale, la magnifica impresa del collega-rivale. Però, nel pieno dell’estate del 1938, Giusto si prende una degna rivincita: con Grabriele Boccalatte disegna una splendida linea di salita sulla parete sud-ovest del Picco Gugliermina, ascensione considerata ancor oggi una delle più difficili scalate in libera nel massiccio del Bianco e, forse, in tutte le Alpi occidentali.

Il 1939 è un anno davvero poco “gervasuttiano” (almeno in termini di imprese alpinistiche di punta): incidono sia gli impegni di lavoro, sia l’assunzione del ruolo di Direttore della Scuola di alpinismo, da poco intitolata a Gabriele Boccalatte (Scuola che, seppur burocraticamente inserita nel GUF, era di fatto la Scuola del CAI Torino), sia il clima generale che si sta predisponendo all’imminente conflitto.

Nonostante tutto ciò, Giusto riesce a realizzare un’altra delle tante prime ascensioni su vette “minori”: la Cima Fer in Val Soana (propaggini piemontesi del gruppo del Gran Paradiso), salita nel giugno del 1939 con Maria Teresa Galeazzi, Ettore e Giuseppe Giraudo e A. Rivera. Si tratta di una via divenuta “classica”, perché (a dispetto di un avvicinamento un po’ complesso), comporta una intrigante arrampicata su bellissima roccia. Tuttavia il clima prebellico limita decisamente l’attività alpinistica: in più, in un periodo non esplicitato, ma più o meno a cavallo fra 1939 e 1940, Gervasutti viene richiamato alle armi e nominato comandante del sottosettore Bianco-Seigne, inserito nell’allora chiamato “Reparto autonomo valligiani Monte Bianco (R.A.V.M.B.)” (oggi Reparto Autonomo Monte Bianco, NdR). Va storicamente ricordato che i comandanti degli altri due sotto-settori del reparto in questione erano Chabod e Andreis, cioè altri due validi accademici piemontesi.

Pur di stanza sul confine con la “nemica” Francia, la veloce conclusione della fase di combattimenti, ha permesso a Gervasutti, nel corso del 1940, di “strappare” ai suoi superiori numerose autorizzazioni a compiere ascensioni in zona. Ad alcune “piccole prime” (in particolare sulla Pyramide des Aiguilles Grises), di limitato rilievo alpinistico, si alternano invece due imprese di grande portata: dapprima la sua seconda personale ascensione della Cresta sud dell’Aiguille Noire, e poi, con Paolo Bollini, la prima ascensione del Pilone Nord o di Destra (in seguito chiamato Pilone Gervasutti) dei quattro che compongono i Piloni del Freney (agosto 1940). In tal modo Giusto corregge una lacuna che sembra gli fosse sistematicamente rinfacciata nei salotti torinesi, ovvero quella di non aver ancora calcato la vetta del Monte Bianco. L’attività del 1940 si conclude con un nuovo e infruttuoso tentativo (sempre con Paolo Bollini) alla Est delle Jorasses: la partita con la Est è ormai aperta, ma sarà rinviata al ’42.

Il 1941 è infatti un’annata decisamente deludente, per la complicata combinazione fra impegni professionali e crescenti difficoltà connesse allo stato di guerra. Le difficoltà logistiche costringono gli alpinisti torinesi a muoversi su montagne relativamente vicine e comode: torna in prinmo piano la Valle Stretta, che si raggiunge con il treno Torino-Bardonecchia e, poi, con un paio d’ore a piedi. Un po’ tutti i torinesi compensano il minor prestigio della media montagna (rispetto alle grandi vette) con un’accentuata attività esplorativa. Nel corso del 1941 Giusto apre due itinerari d’arrampicata, che resteranno nella storia della Parete dei Militi (Valle Stretta): la “Gervasutti di destra” (con Michele Rivero) e la “Gervasutti di sinistra” (con Guido De Rege). Però, sul finire di settembre, Gervasutti riesce a tornare sulle alte quote e, con Giuseppe Gagliardone, realizza la salita completa (quarta ascensione assoluta e prima senza guide) della Cresta del Furggen al Cervino.

La parete est delle Grandes Jorasses

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Arriva il 1942 che è fondamentalmente incentrato sull’ascensione della Est delle Jorasses: dopo un paio di tentativi, Gervasutti e Gagliardone realizzano la vittoria finale a metà agosto. Negli appunti di Giusto, questa via è l’unica che egli valuta indiscutibilmente di VI grado: anche per tale motivo, la Est delle Jorasses è considerata dai più il capolavoro alpinistico di Gervasutti.

Come segnala Chabod, il libro Scalate nelle Alpi si conclude con il resoconto di questa fulgida ascensione, ma in realtà l’attività di Giusto prosegue ancora per quattro anni. Nel 1943, in un contesto generale sempre più complicato, Gervasutti frequenta la Grignetta in giugno e poi “piazza” due discreti colpi nel Bianco: sale per la terza volta la Cresta sud della Noire e, a seguire, sale anche la Cresta nord-nord-ovest dell’Aiguille de Leschaux (in discesa, però viene travolto da una piccola slavina e cade in un crepaccio, procurandosi qualche “danno” non grave alle ginocchia).

Il Pilastro Gervasutti-Boccalatte al Pic Gugliermina

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Neppure il 1944 è un anno di intensa attività alpinistica, ma, ciò nonostante, Gervasutti riesce a realizzare la completa salita dell’Arête du Diable al Tacul, l’ascensione del Monte Bianco dal bivacco della Fourche (non è ben chiaro quale percorso abbia effettivamente seguito, se la concatenazione delle vie normali Tacul-Maudit-Colle della Brenva-Monte Bianco oppure se abbia salito la Cresta Kuffner del Maudit, con proseguimento fino alla vetta massima) e soprattuto la prima salita (con Gigi Panei) del Pic Adolphe per una breve ma difficile via (dove si annidano numerosi passaggi di VI grado) lungo la parete sud-est.

Ancora peggio va considerata l’annata del 1945, dove l’attività di Gervasutti si limita sostanzialmente ad alcune salite di allenamento in Grignetta. Il clima generale non aiuta certo, ma Gervasutti ne approfitta per impostare, in prospettiva, l’auspicato rilancio. Infatti proprio in quel periodo Giusto costruisce dei legami molto profondi con i giovani (ventenni o poco più) della rinata SUCAI Torino e ricopre il ruolo di Direttore Responsabile del relativa pubblicazione (scritta e stampata a Torino, ma diffusa a tutte le SUCAI d’Italia). Inoltre Gervasutti, in quanto Direttore della Scuola Boccalatte (che nel 1944 era stata insignita del titolo di Scuola Nazionale di Alpinismo), focalizza l’opportunità di integrare l’organico istruttori della Scuola (costituito da accademici blasonati, ma spesso sulla breccia da quindici o vent’anni) con l’innesto di forze fresche, prelevate appunto dal serbatoio della SUCAI Torino. In tale contesto, alcuni sucaini vengono progressivamente inseriti nella Boccalatte come aiuto istruttori: il connubio fra accademici e giovani sucaini è così saldo che permette alla Scuola di superare, quasi senza sbandamenti, la successiva scomparsa del Direttore Gervasutti (settembre 1946). La Boccalatte entrerà invece in crisi nel corso del 1950 e ciò permetterà al CAI Torino di accettare nel suo ambito la Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti (in realtà fondata, nel 1948, in una sottosezione collaterale, l’ALFA). Da allora la Scuola Gervasutti ha operato all’interno del CAI Torino senza soluzione di continuità, onorando costantemente il suo ruolo con un’attività di elevatissimo prestigio.

Viceversa i giovani sucaini, che avevano preso gusto all’attività didattica svolta nella Boccalatte (dove erano stati progressivamente coinvolti fino a tutti gli anni ‘40 a seguito dell’iniziativa originaria di Gervasutti), fonderanno nel ’51-52 il “Corso Sci Alpinistico invernale SUCAI”, diretto erede del corso invernale (con uso degli sci) già concepito da Gervasutti per la Boccalatte fin dal 1939. Circa una decina di anni dopo, il Corso SUCAI si trasformerà in Scuola di scialpinismo (Scuola Nazionale dal 1968) e non ha mai interrotto l’attività in 65 anni, mantenendosi sempre su livelli di eccellenza.

Si può ragionevolmente sostenere che le due celebri Scuole del CAI Torino (la Gervasutti, in campo alpinistico, e la SUCAI, in campo scialpinistico) costituiscono i due filoni dell’eredità didattica di Gervasutti e rappresentano un altro risvolto dell’importante figura di questo alpinista.


 

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Tornando invece all’attività alpinistica personale di Giusto, il 1946 costituisce l’annata conclusiva della stessa, ma solo perchè in tale anno si registra l’incidente fatale: in assenza di ciò, è presumibile infatti che l’attività di punta si sarebbe prolungata ancora per qualche stagione, considerata la “portata” ancora ben attiva del personaggio. Dopo una capatina in Grignetta nel giugno del 1946, già in luglio Giusto è nel gruppo del Bianco: Trident du Tacul, via Lepiney con piccola variente autonona (compagno Andrea Filippi); Grand Capucin (terza ascensione assoluto, con Giulio Salomone); Mont Maudit, Via Crétier (seconda ascensione, con Paolo Bollini); Mont Blanc du Tacul, Pilier Boccalatte (terza ascensione, ancora con Paolo Bollini); Petit Capucin, prima ascensione della parete est (con Carlo Antoldi e Giuseppe Gagliardone), realizzata il 16 agosto, cioè esattamente un mese prima dell’incidente al Tacul (in quest’ultima occasione, compagno di cordata di Gervasutti era Gagliardone).

L’incidente fatale spezza anche il grande “sogno” che Gervasutti stava coltivando da un po’ di tempo, cioè quello di organizzare una spedizione (tra l’altro autofinanziata e leggera, cioè in stile alpino, come diremmo oggi) al Fitz Roy, la vetta patagonica che era già stata oggetto di un tentativo di salita nel 1937 da parte del “solito” conte Bonacossa, accompagnato da Titta Gilberti, Ettore Castiglioni e Leo Dubosc. Il Fitz Roy sarà vinto solo nel 1952 dai francesi Lionel Terray e Guido Magnone, cioè da due giovani leoni della grande generazione francese che dominerà l’alpinismo a cavallo del 1950 (proprio nel 1950 i francesi scaleranno il primo 8000 della storia, l’Annapurna): anche questo episodio dimostra quanto Giusto fosse in anticipo sui tempi e sottolinea una volta di più la sua visione pionieristica ed esplorativa.

Nel saluto che gli rivolse dalla pagine dell’Unità (ottobre ’46), Massimo Mila (altro importante accademico torinese e molto amico di Giusto) così ha scritto: “Perchè il progresso della tecnica consiste appunto in questo: muta il giudizio degli uomini circa il possibile e l’impossibile”.

Questa è la grandezza di Gervasutti: attraverso la sua multiforme attività ha reso possibile ciò che, prima di lui, era ancora considerato impossibile.

Bibliografia di riferimento
Renato Chabod, La Cima di Entrelor, Zanichelli, Bologna, 1969
Giusto Gervasutti, Scalate nelle Alpi, Il Verdone, Torino, 1945 (in commercio si trovano più recenti edizioni, fra cui quella della Collana I Licheni, Vivalda Editore, Torino, 2005).
François Labande, Guide du Haute-Dauphiné, Cartothèche Édition, Joue Les Tours, 2007.

Il Mont Blanc du Tacul con, in primo piano, il possente Pilier Gervasutti

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Ailefroide, parete nord-ovest, detta Muraille de Coste Rouge
(la più “gervasuttiana” delle sue prime ascensioni)
Relazione liberamente tratta dalla Guide du Haute-Dauphiné di F.Labande (pag 303 e seg.)

Per la sua ampiezza, la sua altezza (quasi 1100 m) e la sua ripida inclinazione, questa parete si inserisce nello stretto circolo delle più importanti “face Nord” di tutto l’arco alpino. Compresa fa la Cresta di Coste Rouge, a sinistra guardando, e il Glacier Long, a destra, la Muraille de Coste Rouge presenta quattro elementi salienti, partendo da sinistra: il Couloir de Coste Rouge; il Pilier Central che culmina alla quota 3946 m della cresta sommitale (circa 300 m lineari a nord-est dalla vetta massima); due grandi zone di placche ghiacciate, scendenti dal punto culminante; il Pilier Diagonale, che separa la parete nord-ovest dal versante ovest (incombente sul Glacier Long). Oggi almeno sei itinerari autonomi (cui si aggiungono numerose varianti e collegamenti vari) percorrono la parete, ma la Via Gervasutti-Devies, risalendo il Pilier Central, è la linea di salita più logica e comporta un’arrampicata sostenuta, splendida e molto esposta. La parte superiore risulta spesso verglassata. Inoltre alcuni tratti inferiori (traversata del Couloir) e mediani (Dalles Grises) sono esposti a frequenti cadute di pietre. Le difficoltà tecniche non sono mai davvero “estreme” (però alcuni passaggi – Pilier Centrale e uscita finale – sono ancor oggi quotati di V+ francese), ma l’engagement e la continuità della salita giustificano una quotazione d’insieme di ED-. Ricordiamo anche che l’attuale V+ francese corrisponde all’incirca al VI classico. La citata guida diffida dall’impegnarsi in questa impresa come se fosse “una scalata equipaggiata a spit, posta a fianco della strada”.

Approccio: da La Berarde si perviene al rifugio Temple-Écrins e da questo, attraverso un ghiacciaio non comodo neppure ai tempi di Gervasutti (cioè ben prima del ritiro dei ghiacciai), si approccia la parete in corrispondenza di un cono nevoso, che costituisce lo sbocco del Couloir de Coste Rouge. A questo punto si può anche giungere in discesa da un eventuale bivacco al Col de Coste Rouge, magari provenendo dal Glacier Noir (ovvero dalla Vallouise, soluzione logistivamente comoda, vista la più logica discesa sul versante est del massiccio).

Relazione: attaccando a sinistra del cono nevoso, si risalgono le rocce (III e IV) sulla sinistra del couloir, fino ad attraversarlo per raggiungere il Pilier Central. Si arrampica per diverse lunghezza con difficoltà intermedie (IV), fin dove il Pilier si raddrizza in un grande risalto triangolare. Proprio al centro di tale risalto si sale un marcato diedro nerastro (V+), si prosegue per due lunghezze in camino (V+, poi V), infine si reperisce il filo di una cresta, tramite il quale (IV) si giunge alla base di un muro verticale di 15 m, che si affronta direttamente (V+, in alcune relazioni viene dato anche un passo di 6a). Recuperato (a destra) il filo di cresta, lo si risale (IV, ma molto esposto) fino ad una selletta. Dopo breve discesa, ci si trova alla base di un nuovo imponente risalto. Lo si affronta dapprima lungo una fessura (V e V+, bella roccia rossastra) e successivamente per altre fessure oblique a sinistra e un po’ meno difficili, giungendo così in vetta al Pilier. I primi salitori in questro tratto si tennero più a sinistra, prima traversando su terreno franoso e poi risalendo un grande diedro grigio verticale (V+). Fin qui la citata guida indica un tempo di 6-8 ore dall’attacco. Dalla vetta del Pilier si segue una cresta nevosa che conduce alla base dell’immensa successione di lavagne chiamate Dalles Grises, lisce e molto inclinate (caduta sassi e difficoltà di assicurazioni per la roccia molto compatta). Si sale diritti lungo vaghe fessure (V), poi leggermente in obliquo verso destra (V+), poi, invece, verso sinistra alla base di una fessura in genere umida. La si risale (IV) e poi si contorna a destra (V+) un successivo muro molto ripido. Sempre sulla destra si contorna un primo tetto, si giunge alla base di un secondo tetto (V) e, sopra, si prosegue verso sinistra. Si raggiunge così una grande cengia a semicerchio, che si segue verso destra. Si perviene su una spalla di rocce rotte e in genere innevate o addirittura verglassate (IV+). Dalla splalla si sale il secondo corto couloir a sinistra (V-), che immette in una rampa ascendente verso sinistra. Dopo averla risalita (IV), si traversa a sinistra sotto un “naso” per addivenire a una grande terrazza alla base di un profondo camino verglassato e alto circa 100 m. Lo si risale (V) fin sotto lo strapiombo che lo blocca, dove si traversa a sinistra per una cengia aggettante e molto esposta (V+). Si giunge così su rocce più facili (IV+) che conducono alla cresta sommitale. La guida indica un tempo di 4-6 ore dal vertice del Pilier Central, per complessive 10-14 ore dall’attacco. Dall’uscita della via, girando a destra, si perviene per cresta al punto culminante.

Discesa: l’alternativa più indicata è costituita dalla discesa lungo lo sperone sud-orientale (II) fin sul Glacier dell’Ailefroide e da qui al Refuge du Selé. Dal rifugio, a seconda dell’originale punto di partenza, si può scendere il vallone del Selè verso est fino al paese di Ailefroide, oppure si valica il Col du Selè per tornare a La Berarde.

Lunedì, 07 Marzo 2016 20:34

Questa nostra avventura inizia il 16 Agosto, quando arriviamo a Delhi e pochi giorni più tardi, il 21 Agosto, raggiungiamo il nostro campo base, chiamato Nandanban a circa 4400 metri, luogo idilliaco immerso nel verde dei prati, tra ruscelli di acqua chiarissima e con una stupenda visuale su Kedarnath, 6940m e Shivling, 6543m.

Ci avevano detto che quest’anno il monsone era debole, ed infatti il tempo è fin da subito abbastanza buono, e le montagne sono in condizioni piuttosto secche: i primi due giorni la coda del monsone ci porta ancora umidità, nebbia e pioggia pomeridiana, poi il tempo si fa man mano più bello e caldo.

Iniziamo fin da subito a trasportare il materiale al nostro campo base avanzato, posto ad una quota di circa 5000 metri, proprio nel mezzo di questa gigantesca “conca” formata dai Bhagirathi.
Il nostro obiettivo è quello di aprire una via nuova, in arrampicata libera, sulla ancora inviolata parete Ovest del Bhagirathi 4 (6193m).
Guardando il gruppo dei Bhagirathi, a mio parete la montagna più bella ed accattivante è il Bhagirathi 3, con il suo caratteristico, misterioso e tetro anfiteatro, sbarrato in cima dalla fascia nera di scisto.
Il Bhagirathi 4 si trova in secondo piano rispetto al 3 e a prima vista sembra più piccolo e più “addomesticabile”, anche se nonostante numerosi tentativi, nessuno è ancora riuscito a salirlo! (dalla parete Ovest)
Tuttavia, per qualche strano effetto ottico l’apparenza non rispecchia la realtà…

Bhagirathi 4 line

 

Il 26 di Agosto io e Luca ci avviciniamo alla nostra parete per la prima volta, con lo scopo di portare la portaledge e altro materiale fino alla base e studiare la linea che intenderemo attaccare; Giga soffre di forte mal di gola e febbre e ci attende al campo base.
Man mano che risaliamo faticosamente lo zoccolo che porta verso la parete, ci accorgiamo che questo muro è in realtà molto più ripido di quanto ci aspettassimo, pensiamo sarà molto molto dura salire dalla linea che avevamo immaginato a tavolino in centro alla parete. Dopo i primi 200 metri verticali o leggermente appoggiati, l’inclinazione della parete cambia drasticamente e tutto diventa strapiombante per circa 500 metri fino alla fascia finale di scisto al di sotto della cima.
Tra tutte le pareti che ho visto in vita mia, mi torna subito alla mente l’immagine della mitica parete di El Capitan. Queste due pareti sono così simili, forse la cosa che le rende più simili è lo spigolo, che sporge verso l’esterno proprio come il famigerato “nose” del Capitan e divide la parete in due lati.
Ma ci saranno anche qui le fessure che ci sono sul Capitan??
L’unico modo per saperlo è provare a salire.

Dopo essere ridiscesi al campo base ed aver riposato per bene, siamo pronti per il primo vero tentativo; nel frattempo anche Giga è guarito e sarà dei nostri.
Abbiamo raggiunto il campo base da meno di 10 giorni e il nostro stato di acclimatamento non è ancora ottimale; tuttavia siamo alla base della nostra linea dei sogni e proprio Giga apre le danze.
Dopo un primo tiro di riscaldamento, la fessura nel diedro scompare e subito le difficoltà si alzano.
Non senza fatica ci dirigiamo verso sinistra e nel primo pomeriggio riusciamo a vedere bene la parte centrale della via.
I presagi non sono per niente buoni: per accedere al grande diedro, c’è una sezione leggermente strapiombante di una cinquantina di metri, senza nessuna struttura evidente, solo qualche lama staccata qua e là in mezzo alla parete liscia. Ed inoltre con l’arrivo del sole la temperatura si sta alzando e diverse pietre stanno iniziando a cadere un po’ dappertutto, anche intorno a noi. Sapevamo che questa era una parete esposta alle scariche e che questo apparentemente è stato il motivo che ha fatto fallire molti dei tentativi precedenti, ed eravamo pronti ad accettare questo rischio, tuttavia quando ti trovi in mezzo, beh, non è mai proprio piacevole! Anche se i sassi cadevano solo sulla prima parte di parete perché più in alto, grazie alla sua natura strapiombante, il grande diedro restava riparato.

Tuttavia, capiamo che questa linea è troppo difficile per il nostro stile di salita. L’idea è sempre stata quella di scalare in libera e non siamo attrezzati (e nemmeno capaci) per fare artificiale difficile e scalare in libera su quel terreno è al di sopra delle nostre capacità. (Il nostro obiettivo era anche quello di non piazzare spit, sebbene ne avessimo con noi una decina in caso di emergenza)
La sera stessa attrezziamo le doppie e scendiamo, sotto una rada pioggia di sassi, per lo più di piccole dimensioni, che cadono dalla cima, terminiamo la discesa a notte fonda, stanchi, ma illesi e sempre più acclimatati.

Ed ora che si fa?!?

Chi mi conosce e ci conosce, sa che non siamo i tipi che abbandonano così facilmente…
Il nostro ragionamento è il seguente: “dato che la linea che avevamo pensato di salire, si è rivelata troppo strapiombante e liscia per essere scalata in libera, se proviamo a salire più a destra, dove la parete sembra più appoggiata, dovremmo trovare quello che stavamo cercando: un terreno sempre difficile, ma salibile”.

Una manciata di giorni dopo, siamo di nuovo pronti per un altro tentativo, partiamo 50 metri più in basso e più a destra della volta prima. Purtroppo per questo tentativo, su 3 settimane di tempo stabile e bello, riusciamo a beccare l’unico giorno di tempo pessimo. La temperatura fin dal mattino è particolarmente rigida, ma pensiamo che col tempo possa migliorare; dopo il primo tiro però inizia ad alzarsi un forte vento, dopo il secondo tiro il cielo si copre e alla fine del terzo tiro inizia a nevicare!
Non sapendo come potrebbe essere il tempo nei giorni successivi pensiamo che non ha molto senso mettersi a bivaccare in portaledge dopo nemmeno 100 metri e quindi decidiamo di scendere per ritentare in seguito.

Una volta tornati al campo base il tempo è perfetto e questa volta, nonostante ci fosse stato espressamente vietato, decidiamo di usare di nascosto il nostro telefono satellitare per chiedere al fido Deza le previsioni del tempo. Le notizie sono ottime: alta pressione con tempo bello, stabile e caldo (relativamente caldo…) per almeno 5 giorni.

Dopo solo un giorno di riposo partiamo ancora per quello che pensiamo possa essere l’assalto decisivo.

Il 12 Settembre iniziamo a scalare e questa volta i presagi sembrano essere ottimi. Luca scala da primo per tutta la prima giornata, fino al nevaio prima della seconda parte di parete. La sua progressione è liscia ed efficace, nonostante ancora una volta ci sembra di scalare in un freezer. Quando arriva il sole anche le difficoltà si alzano e un difficile tiro di placca, nel perfetto stile #lucaschiera ci porta all’inizio del nevaio.
Decidiamo di montare la portaledge al termine superiore del nevaio, contro la parete per evitare le scariche di sassi, che nel frattempo sono cominciate a cadere.

Ci svegliamo con le prime luci e dopo aver ri-impacchetato tutto è il mio turno ad andare da primo. La temperature è ben al di sotto dello zero e sono piuttosto intimorito all’idea di scalare con questo freddo. Infatti dopo circa un paio di metri, piedi e mani sono già insensibili, la circolazione dei piedi è completamente bloccata nonostante le scarpette relativamente larghe e i calzettoni.
Per lo meno la scalata è decisamente nel mio stile: un diedro fessurato, da salire per lo più con incastri e spaccate, è un tipo di arrampicata che so di poter fare anche con roccia bagnata o mani e piedi insensibili. Tuttavia quella che con temperature accettabili sarebbe stata una divertente scalata ora si trasforma in dolore e sofferenza, ma pian piano riesco a procedere in bello stile a un buon ritmo nonostante siamo ormai intorno ai 5700-5800 metri.

5 Matteo Della Bordella assicurato da Matteo De Zaiacomo in apertura foto L. Schiera

                                                                           Matteo della Bordella in apertura assicurato da Matteo De Zaiacomo

 

Il diedro si fa sempre più ripido e la scalata si mantiene su difficoltà costanti. A un certo punto abbiamo una grande decisione da prendere: possiamo scegliere di continuare a salire dritti nel diedro ed arrivare quindi nel punto in cui lo scisto è più lungo, ma apparentemente rotto e facile, oppure prendere un ripido sistema di fessure e diedri che taglia tutta la parete verso sinistra e che porta dove la sezione di scisto ci sembra molto breve, anche se ripida.
Pensando che se andassimo a sinistra una eventuale ritirata sarebbe molto difficile per via della portaldege e dei sacchi pesanti, decidiamo di proseguire dritti, come prevedeva il nostro piano originario.

Purtroppo nell’ultima parte del diedro, il ghiaccio e la fatica mi obbligano ad abbandonare il sogno di una completa salita in libera a vista ed a ricorrere all’artificiale.

Arriviamo prima del tramonto a montare la portaledge, prima della fascia nera di scisto.

Come il sole abbandona la parete la temperatura precipita ed è solo infilandoci nella portaldge coperta dal telo che riusciamo a riposare, certo non si sta proprio comodi quando si è in 3 in una portaldge da due persone, ma ci sia arrangia…
Dovremmo essere circa a 5900 metri, più o meno a 200-250 dalla cima. Tra noi e la vetta solo la fascia di scisto nera, la grande incognita di questa montagna.

La mattina successiva è ancora più fredda della precedente, siamo più in alto e più esposti al vento, in pochi secondi le mie mani sono completamente congelate e fatico a muovere e a fare forza per smontare i pali della portaledge ed impacchettare il resto del materiale; ci impiegheremo quasi 3 ore per sistemare tutto.
Luca prende il comando, ma questa volta è decisamente troppo freddo per provare ad arrampicare e dopo qualche tentativo decidiamo di aspettare il sole. Arriva il sole e proviamo a salire sullo scisto nero marcio, prima verso destra, poi a sinistra ed infine dritti.
Non c’è modo di andare avanti, la roccia è inconsistente e si sfoglia al tattoo e, sfortunatamente, come sempre su questa parete, tutto è molto più ripido di quello che pensavamo!
Proviamo e riproviamo e valutiamo ogni possibile maniera di salire: consideriamo l’opzione di calarci in diagonale nel couloir tra il Bhagirathi 4 e il 3, ma purtroppo quest’ultimo è troppo a destra perché possiamo raggiungerlo.
Dopo qualche ora arriviamo alla conclusione che provare a salire su quel marciume sarebbe davvero troppo rischioso, a 6000 metri su una parete del genere, in un posto del genere, non si può sbagliare.

La decisione questa volta è dura da prendere e da digerire. Arrivare così vicini alla fine, dopo aver aperto 700 metri di parete, in ottimo stile e scalando bene e ritirarsi perché la roccia marcia ci impedisce di passare è come una beffa, non è facile da accettare.
Solitamente non rinuncio senza prima giocarmi ogni disperata carta che ho in mano, e se c’è da rischiare non mi tiro indietro, ma questa volta purtroppo è diverso, è tutto più difficile: il freddo, la fatica e soprattutto la roccia marcia che rende impossibile proteggersi e si rompe in mano, purtroppo non me la sento di prendere in mano la situazione e provare a salire comunque e così dopo una lunga “lotta interiore” mando giù la decisione presa di scendere.

Una volta giunti al campo base e dopo aver analizzato a mente lucida la situazione penso che alla fine la decisione presa è stata saggia. Non ho nulla da rimproverare a me ed ai miei compagni: abbiamo scalato bene, in due giorni e mezzo abbiamo fatto molta strada.

E’ un po’ come una partita di calcio in cui giochi bene, tieni in mano la partita, segni un goal e cerchi di amministrare fino alla fine, e poi all’ottantacinquesimo, con un contropiede gli avversari pareggiano e subito dopo, nei minuti di recupero, ti segnano il gol del 2-1. Un po’ tipo quell’Italia- Francia, finale degli Europei del 2000, vi ricordate?

Il bello dell’alpinismo e del nostro modo di fare alpinismo è che c’è sempre la possibilità di fallire.

Nei giorni successivi abbiamo intenzione di fare un altro tentativo su questa parete, seguendo un’altra possibile linea. Purtroppo non ne avremo l’occasione.
I giorni successive le temperature si abbassano e si mette e a nevicare, inoltre anche il mio fisico dopo 4 settimane di sforzi con carichi pesanti, mi chiede di fermarmi, facendomi uscire un fastidioso dolore all’inguine che non mi permette di camminare in salita.
Il bello di tentare obiettivo difficili è anche che spesso le chance che hai sono davvero contate.

Non so ancora se questo per noi sarà un addio o un arrivederci, sicuramente questa parete un po’ di amaro in bocca ce l’ha lasciato e la voglia di riuscire per primi a salirla con una bella via in bello stile è molto alta…Senza dubbio ancora una volta è stata una sconfitta della quale conservo un ricordo più bello rispetto a tanti altri successi.

Matteo Della Bordella – Ragni di Lecco, C.A.A.I.

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