Nella foresteria del Forte incontro Roberto Serafin, coordinatore di redazione dello “Scarpone” cui mi sento legato da un lungo, reciproco rapporto di considerazione e di stima. Mi chiede se, secondo consuetudine, butto giù quattro righe a commento dell’evento. Confesso una certa stanchezza, soprattutto in relazione all’argomento in capitolo, che so essere delicato, oltre che interessante, ricco di opinioni contrastanti, difficile. Comunque adatto a dentature più giovani o più direttamente addentro nella pratica attiva. Accetto alla condizione che possa bastare un riassunto di massima, una interpretazione libera e personale, magari condita con un po’ di fantasia. Persuaso che tra i 120 circa accademici presenti, qualcuno potrebbe certamente fare meglio o dissentire.
“Apritori a confronto” è stato il tema trattato nel corso del Convegno Nazionale CAAI 2007. Un convegno che si è svolto, ricco di partecipazione e di interventi, nella spettacolare sede del Forte di Bard, in Val d’Aosta. In quel preciso punto, le fiancate montagnose della valle sono particolarmente alte e strette tra di loro, ed un cospicuo rilevamento roccioso divide in due rami il già angusto passaggio. Dei due, quello di destra, è, era, interamente occupato dal corso della Dora Baltea, l’altro, quello di sinistra, rilevato in forma di colle, la Gola di Bard, ospita l’antico borgo ed una stretta strada: la Via delle Gallie. Costruita dai Romani, negli anni di Cristo, per collegare Eporedia (Ivrea) alla regione cisalpina attraverso i valichi dell’Alpis Graia (Piccolo San Bernardo) e dell’Alpis Poenina (Gran San Bernardo). Sulla sommità del rilevamento centrale, domina la mole imponente del forte e delle sue opere accessorie, che, dopo lunga dismissione, attraverso un attento e preziosissimo lavoro di restauro e di agevolazione di fruibilità, costituisce oggi un polo museale di importanza europea incentrato sulle Alpi, sui loro aspetti culturali e di millenaria civiltà, sulla tradizionalmente povera economia e sulla notevole storia alpinistica.
Sono sicuramente da tributare elogio ed ammirazione a tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito a quella realizza-zione, gratitudine a chi ha permesso che tutto ciò venisse per un giorno messo a disposizione per il nostro convegno. Dopo i preamboli di rito si sono avvicen-dati al tavolo dei relatori otto grandi alpinisti/apritori di vie sulle montagne del mondo, la cui attività ha avuto luogo dal secondo dopoguerra fino ai giorni attuali.
Il primo di essi è Guido Magnone. Oggi novantenne, torinese di nascita, francese di adozione e nazionalità, grande sporti-vo nella prima gioventù, Magnone si è poi consacrato interamente all’alpinismo di qualità e di conquista. Fu lui a scalare per primo, nel 1951, in compagnia di Lionel Terray, il Fitz Roy, nelle Ande Patagoniche, e fu lui a risolvere per pri-mo il problema della parete ovest del Dru nel 1952, utilizzando strategie e mezzi allora impensati, che crearono, insieme all’ammirazione, anche un clamoroso strascico di critiche e discussioni. Magnone è stato presentato da Pietro Crivellaro, che con abile lavoro di inter-prete, moderatore e sollecitatore, lo ha condotto a far rivivere le fasi più critiche di quella storica impresa. A Guido Magnone, è stato nell’occasione conferito il titolo di socio onorario del club.
Secondo relatore, altro nome di grande notorietà e prestigio: Alessandro Gogna. Accademico dapprima, e poi guida per professione, Alessandro Gogna, ha rievocato lo spirito che lo animava al tempo delle sue grandi aperture, metten-do in evidenza la sua iniziale vocazione dilettantistica, e stigmatizzando poi la differenza tra la connotazione di “avven-tura” che caratterizzava le aperture di un tempo, e quella di “plaisir”, cioè di più gradevole fruibilità, che ai giorni nostri sembra avere non poco successo. Non ha trascurato di richiamare alla necessità che nelle scuole di alpinismo e/o di arrampicata si continui a dare il giusto maggior peso all’aspetto classico e storico della pratica della montagna.
Fabio Palma, terzo relatore, fa parte dei Ragni di Lecco ed è uno degli arrampica-tori moderni di punta che sta spingendo a limiti incredibilmente elevati il livello di difficoltà superabile in libera. Alcune vie aperte recentemente da lui e dai suoi compagni, uno tra l’altro giovanissimo, nei gruppi del Ratikon, del Wendenstock, e sulle montagne di Sardegna, stanno imponendosi all’attenzione, all’ammira-zione, al consenso della ristretta èlite dell’arrampicata di punta mondiale. Mostra documenti filmati di alcune realiz-zazioni, e insiste, a mio avviso un po’ troppo, sull’apologia della paura e del rischio, riportandomi alla memoria alcu-ne giovanili letture a firma di famosi, romantici, un po’ sfegatati arrampicatori germanici.
Assai più “terrestri”, o per lo meno più confrontabili con il livello di una buona parte dei presenti, mi sono sembrate le esternazioni di Nando Nusdeo, Ugo Manera, Manrico Dell’Agnola, che si sono in seguito avvicendati. Il primo, un lombardo doc, “alpinista operaio” come si è definito, probabilmen-te autodidatta; di quella specie alla quale appartennero anche i Taldo, gli Oggioni, gli Aiazzi, i Bonatti prima maniera, incol-lati per lo più a sudatissimi finesettimana, a mobilità limitata, che ha espresso il proprio potenziale di orgoglio e di capaci-tà, prevalentemente nelle Alpi centrali, ed attenendosi ai più classici e puri canoni in vigore: dal basso, in soluzione continua-ta, chiodi, martello, staffe, tanto intuito e tanto coraggio.
Il secondo, occidentale della Scuola Gervasutti, ha molti punti in comune col primo, forse una durata nel tempo più lunga, ed un amore per il duro ancor più esasperato, e più raffinato nella tecnica.
Il terzo, dolomitista, orientale, specialista di rocce difficili e di tecniche più moder-ne, fotografo eccezionale, apritore in stile classico e puro. Ammiro la sua velocità eletta a fattore di sicurezza: ha percorso in concatenamento, in una sola giornata la via Solleder-Lettenbauer e la Philipp-Flamm sulla parete nord-ovest del Civetta! Che dire: se penso che ho salito la prima nel 1961, con un bivacco, ed ho dovuto aspettare fino al 1999 per conquistarmi la seconda!
Poi ci hanno intrattenuto due autentici assi moderni.
Il primo, Rolando Larcher, un orientale, apritore su tutto il circo delle Alpi e anche fuori di vie di lungo sviluppo e di altissima difficoltà. Egli ci propone una sorta di “decalogo dell’apritore”, che riassume i principi cui si attiene personalmente, ed ai quali, sommessamente gradirebbe si attenessero anche altri. Tre punti mi hanno in particolare colpito, che partendo sempre dal basso occorre aprire arrampicando in libera con ogni sforzo, ricorrendo al chiodo o al perforatore solo in casi estremi, che comunque occorre riferire con estrema precisione e sincerità le modalità con cui si è passati, e che una volta aperta una via, al meglio, l’apritore dovrebbe saperla ripetere in libera, completando così il circolo virtuoso della propria creazione. Molto severo, o “talebano” come lo ha scherzosamente definito il buon Andrea Giorda, presentandolo.
Ancor più rigoroso mi è però parso Erik Svab, altro fortissimo accademico occidentale, ripetitore e apritore di itinerari durissimi di roccia, ghiaccio, misto e in “free tooling”. Egli sostiene la necessità di un allenamento pesantissimo, anche in palestra, per poter sviluppare al massimo grado forza e tecnica, tanto da riuscire a superare assolutamente in libera, anche in apertura, ogni itinerario di montagna. Dice Svab, spero un po’ provocatoriamente, che la “Via attraverso il pesce” dovrebbe andare a farla solo chi è sicuro di superarla in libera.
Questo è quanto, e a me sembra, che le otto esposizioni, come la quasi totalità dei commenti in sede di dibattito, possano rappresentare, più che un confronto, lo stato dell’arte e del pensiero dell’odierno impegnato andar per monti. Esposizioni tutte gradevoli e precise, che più che in confronto tra di esse, sembrano aver tracciato in tacito concerto, la storia dell’evoluzione del pensiero e dell’azione nell’alpinismo degli ultimi sessant’anni. Dallo spregiudicato spirito di rivalsa, o di recupero del tempo perduto del primo dopoguerra, al nascere e svilupparsi dei germi dell’etica, dell’auto- limitazione, di rispetto per l’ambiente, per il destino e lo spazio da lasciare ai poste-ri, nostri figli e nipoti degli anni più recenti. Con garbo, professionalità, rigore; e nella convinzione comunque che la pratica dell’Alpinismo è pratica di libertà, e quindi che nessuna opinione personale può ambire a diventare una norma. Ancorché, detta opinione, lasci trasparire evidente l’impronta di una orgogliosa, individualistica convinzione di essere quella giusta e quella meglio. Mentre per un confronto vero, quello che forse i più anziani in sala si sarebbero aspettati, sarebbe stata utile la presenza, o la viva testimonianza di alpinisti apritori d’anteguerra, come sarebbero ad esem-pio Whymper, Preuss, Cassin, Comici. Un confronto, ovviamente impossibile, e forse anche inutile sul piano etico e concettuale. Come sarebbe far correre, oggi insieme, in un granpremio di formula1 il Barone VonTrips con la sua Mercedes, e la Ferrari di Raikkonen. Un non confronto, dunque, una ribalta, semmai, di punti di vista e di convinzioni prevalentemente orientate secondo uno spirito squisitamente accademico, cioè di dilettantismo e passione, pur nell’impegno e nella dedizione che gli altissimi livelli richiedono; di rispetto della tradi-zione e dello spirito dentro i quali si mossero i nostri più illuminati predecessori. Senza perder di vista, anzi, con occhio attento ed interessato all’inarrestabile cambiare dei tempi. Punto di vista che l’Accademico potrebbe e dovrebbe opportunamente condensare in una reiterata e formale presa di posizione nei confronti di tante odierne, degeneri divagazioni. E mentre a tarda sera scendo, contento e ben pasciuto, lungo quei trasparenti ascensori panoramici, osservo gli imponenti ordini delle strutture del forte, illuminati a giorno, le più timide luci dell’antico borgo e della valle sottostanti, e provo ad immaginare un ipotetico, assurdo confronto con quei Romani della storia che intorno all’anno zero aprirono con coraggio e maestria la Via delle Gallie.
Il bivacco si trova su di un terrazzo erboso sostenuto da una fascia di rocce, nella selvaggia Vallaccia. Ha interesse alpinistico, ma serve anche per le traversate escursionistiche della zona. Il bivacco intitolato a Donato Zeni, medico di Vigo di Fassa, alpinista accademico caduto durante un’ascensione sulle Torri del Sella nel 1955. La costruzione venne posata nel 1970 per iniziativa del CAAI, il Club Alpino Accademico Italiano, ed inaugurata il 18 ottobre dello stesso anno.
Si trova poco sotto il Passaggio della Vergine, alla base della cresta est della Punta Kennedy, 200 m a ovest della Sentinella della Vergine. Collocato nel 1928 alla memoria dell’alpinista lombardo Angelo Taveggia e caduto nel 1926 in un tentativo di salita solitaria della parete nord-est del Roseg.
Anno di costruzione: 1925 (sostituito nel 1994).
Posti letto - quota: 12 - mt. 3.216
Accesso: Dalla diga di Place Moulin h. 5.30. Sentiero solo nella prima parte; in seguito si può considerare come ascensione facile, con tratti di terreno infido. Dalla diga si segue l’itinerario del rifugio Aosta fino a oltrepassare il torrente che scende dal settore meridionale del ghiacciaio delle Grandes Murailles, ma prima del grande ometto di sassi (m. 2250 circa). Il versante occidentale della Tête des Roèses è costituito nella sua parte inferiore da bastionate rocciose alternate a ripide terrazze d’erba, che bisogna superare. Si utilizza un ripido canale erboso dapprima, roccioso e detritico poi, che porta a una zona di terrazze. L’imbocco del canale è situato sopra una ripida zona morenica, prima della marcata curva del ghiacciaio delle Grandes Murailles. Si sale il canale su zolle erbose e sfasciumi a tratti molto ripido. Dopo una strozzatura rocciosa (3 metri, II grado), il canale piega a destra e sale detritico fino a una zona erbosa di terrazzi (m. 2700 circa). Si attraversano verso destra questi terrazzi per circa 200 metri (ometto), cioè fin quasi a un torrentello; poi, superate alcune roccette, si esce dalla ripida bastionata e ci si trova su una comoda dorsale erbosa che sale verso la larga Tête des Roèses. La si risale tutta (h 1.50), poi si superano facilmente le roccette bagnate che seguono e subito sopra si piega decisamente a sinistra. Con ardita diagonale su grossi detriti si oltrepassa la base della cresta ovest della Tête, quindi si sale direttamente nel canale roccioso che si apre subito a nord della cresta stessa, dove il canale, dopo circa 60 metri si allarga e forma un cono detritico e nevoso; si oltrepassa verso destra la cresta dietro la quale sorge il bivacco (h.5.20). (Da G. Buscaini Alpi Pennine vol. II).
Ascensioni principali: Dent d’Herens, Grandes Murailles, P. Budden.
Posto all’estremità del crestone nord-ovest della Roccia Viva che divide i ghiacciai di Gran Crou e di Money. Costruito nel 1930 è un bivacco “vecchio stile”, cioè di tipo basso alto m. 1.25, largo m 2.25 e profondo m. 2. Dedicato ad Alessandro Martinotti, di origine biellese, caduto sul Monte Mars (prealpi biellesi) nel 1927.
Si trova nell’alta val Torrone (valle laterale della val di Mello), presso lo zoccolo meridionale della Punta Ferrario. Fu collocato nel 1947 alla memoria di Antonio Manzi, comandante partigiano fucilato nel 1944. Sostituito nel 1994 con il contributo della Sezione C.A.I. di Monza (mutando l’originaria denominazione in Manzi-Pirrotta).
Il bivacco attuale sorge sulla cresta Sud-Ovest del Pic Eccles e sostituisce l’originale del 1939 andato disttrutto nel 1952, probabilmente per l’esplosione di un fornello a benzina.
Situato al Colle d’Estellette a settentrione delle Pyramides Calcaires tra l’Aiguille des Glaciers e l’Aiguille d’Estellette, è un bivacco “vecchio stile”, cioè di tipo basso, alto m. 1.25, largo m. 2.25 e profondo m. 2. Dedicato ad Adolfo Hess, tra i promotori e fondatori del C.A.A.I. del quale, succedendo a Borelli, fu presidente negli anni 1924-1925. Fu anche il disegnatore del distintivo del C.A.A.I. Ideatore e realizzatore dei bivacchi fissi, primo salitore della Aiguille de la Brenva e della Tour e Dent de Jetoula.
Si trova al passo di Mello, insellatura che separa il gruppo del Disgrazia a est dallo spartiacque Masino-Malenco-Bregaglia a ovest, e mette in comunicazione la val Sissone (Malenco) a nord e la valle Cameraccio (Masino) a sud. Collocato nel 1948 alla memoria degli alpinisti Nando Grandori, caduto nel 1945 sulla parete nordovest del Civetta, e Carla Odello caduta nell’inverno 1944 sulla Cima di Vazzeda.