Attraverso il ricordo del compagno di cordata Marco Furlani rievoca i momenti magici dell'apertura delle grandi vie in Valle del Sarca nei primi anni novanta.
VIA LUCE DEL PRIMO MATTINO al DAIN Andrea Andreotti/Marco Furlani 1991.
ANDREA UOMO CHE VOLAVA ALTO
di Marco Furlani
Quella notte avevo bivaccato benissimo, la sera prima mi ero scavato una piazzola niente male sulla testa del pilastrino, dove avevamo deciso di bivaccare, e mentre contemplavo la valle che era ancora nel buio e incerta avanzava la luce dell’alba, osservavo estasiato in alto, oltre i grandi strapiombi e il formidabile tetto: al canto insistente del cuculo il sole incominciò a illuminare la roccia tingendola di colori incredibili, uno spettacolo mozzafiato.
- Andrea, Andrea… ho trovato il nome della via… che ne dici di Luce del Primo Mattino?
Sul primo tiro: a sin in apertura, a destra in una recente ripetizione (Archivio A. Rampini)
Al contrario Andrea Andreotti, il mio compagno, usciva dal torpore di una notte passata male, dopo la prima dura giornata trascorsa in parete; era stanco e la sera precedente aveva preferito bivaccare in amaca. Non aveva dormito nulla, però a sentire il nome si destò e disse: - Bello, molto bello… la nostra via si chiamerà Luce del Primo Mattino!
Intanto la giornata radiosa di sole inondava tutta la sottostante valle e fu una ridda di sfumature e colori fantastici come solo la valle del Sarca può garantire a chi la guarda dall’alto.
Sul diedro grigio - 5° tiro (Archivio A. Rampini)
Il diedro bianco - 7° tiro (Archivio A. Rampini)
Andrea era un bell’uomo, alto, colto e con un volto particolare sempre abbronzato e incorniciato da una barba ben curata che lasciava spiccare la luminosità degli occhi: grande alpinista, uomo che volava alto, al di sopra di tutto, soprattutto delle sterili polemiche e chiacchiere che circondano la più insulsa delle attività umane cioè l’alpinismo, persona acuta, sapeva sdrammatizzare anche nella più critica delle situazioni, ma soprattutto era uno che sapeva quello che faceva e faceva quello che diceva.
Con modo gentile di fare, non si alterava mai e le uniche cose che gli interessavano erano famiglia, lavoro, e aprire belle vie: intendeva l’alpinismo come una forma d’arte suprema, quasi esoterica.
Nel trionfo della luce dunque ci destammo e facemmo una magra colazione, poi preparammo il saccone e ripartimmo. Il programma di quel giorno era superare la zona delle pance rosse. Io superai il diedro bianco, poi le placche color ruggine sotto le aggettanti pance rosse e lì riprese lui il comando. Io mi sistemai sul seggiolino di legno e assicurai attento il compagno che saliva lentamente lo strapiombo in un vuoto assoluto.
Nelle lunghe ore di attesa ero rapito dalla visione sul sottostante lago di Toblino con le sue acque appena increspate dalla leggera brezza dell’òra: era la fine di maggio 1990, il verde intenso creava un delicato contrasto con la fioritura bianco rosa dei meli che era al massimo splendore.
Mentre Andrea avanzava con pazienza, tenacia e meticolosità piantando quei piccoli chiodini a espansione che a salirci sopra ti vengono i brividi, mi chiedevo quale fosse il segreto di questo magnifico atleta. Stava appeso per ore e ore a martellare senza battere ciglio, aveva una resistenza che trascendeva l’umanamente possibile, non esisteva né caldo né freddo e aveva per la montagna una passione esaltante.
A un certo punto un rumore di ferraglia secco e un violento strappo alle corde mi risvegliò dalla contemplazione, uno di quei famigerati chiodini era uscito e Andrea era volato con i suoi 90 kg per qualche metro nel vuoto…
Tutto bene, riparte con la calma che lo distingue, supera il tiro, attrezza la sosta su di un appoggio, dove stavano appena i piedi, in un vuoto da mal di stomaco. Dopo sette ore posso ripartire.
Fra equilibrismi e contorsioni ci scambiamo e riprendo il comando, superando la grigio-rossa placca superiore con una roccia a gocce incredibilmente bella, fantastica, e con un’arrampicata libera stupenda raggiungo la cengia sotto il grande tetto. Lasciando riposare Andrea mi do da fare a spianare per il bivacco, poi pianto qualche chiodo nel tetto, ma presto diventa buio e ci prepariamo alla seconda notte in parete.
All'uscita dal grande tetto (Archivio A. Rampini)
Lo strapiombo del 12° tiro (Archivio A. Rampini)
Non ci manca niente, il saccone da traino era pesante da recuperare ma adesso abbiamo tutto quello che ci serve per una bella cena, pane, speck, persino torrone e acqua in abbondanza. Il tempo è sempre bellissimo, parliamo, facciamo progetti, siamo contenti per la via che è veramente bella, e poi di donne e della fatica che queste fanno a sopportare noi scalatori che siamo così presi dalla nostra passione che a volte egoisticamente ci dimentichiamo di loro… poi arriva il sonno ristoratore.
Un’altra alba, la terza sempre bella, sempre mozzafiato e le riflessioni sulla fortuna di abitare nel nostro ridente Trentino con tutte le sue bellezze. Andrea vuole finire di chiodare il tetto: - Così lo chiamerò Tetto delle Aquile dice.
Sul penultimo tiro (Archivio A. Rampini)
Io lo guardo e rispondo: - Ma che aquile… non vedi che sembri un passerotto impaurito?
Lui mi guarda e risponde: - Hai ragione, lo chiameremo Tetto dei Passerotti… va bene?
Annuisco ma il mio sguardo è preso dall’enorme soffitto.
Il tetto è veramente un tetto e richiede parecchie ore per chiodarlo. Finalmente verso mezzogiorno riesce a superarlo, io rapidamente sui chiodi lo seguo e riparto con due tiri di arrampicata sempre difficile ma su roccia ottima e raggiungiamo il bosco sommitale.
Conoscevo già Andrea per la sua eccezionale attività ma non avevamo mai scalato assieme prima che lui mi invitasse ad aprire questa via. Ci siamo veramente trovati bene anzi benissimo insieme, siamo due elementi che si compensano bene: le forze dell’uno equilibrano le lacune dell’altro, come deve essere in una cordata vera.
Verso il grande tetto, in apertura sulla fantastica placca gialla dell'undicesimo tiro.
Quella sera sulla cima del Dain Picol scesi con due certezze: una, che prima o poi sarei venuto ad abitare nella valle del Sarca, l’altra, che avevo trovato il compagno giusto per scalare i grandi tetti del monte Brento. Ma questa è un’altra storia.
Un maledetto male ce lo ha portato via lasciandoci attoniti increduli, proprio LUI così buono, generoso e solare. Come sempre rimaniamo senza parole, non riusciamo a mandarla giù.
Ciao Andrea… ci rivediamo!