Daniele Caneparo, 55 anni, medico neurologo e accademico, partito in solitaria con gli sci, come spesso faceva, il 23 novembre 2019 sui monti di Champorcher (Valle d’Aosta), non è più ritornato.
E’ stato ritrovato a fine giugno 2020, allo scioglimento delle nevi che l’avevano travolto.
Proponiamo un articolo, non celebrativo ma di profonda umanità, per la penna del socio Matteo Enrico, che che lo frequentò insieme al fratello Luca condividendo con lui belle esperienze in montagna.
Alle 20 inoltrate di un giorno di agosto 2003, in quella che passerà agli annali come una delle estati più calde di sempre, io, mio fratello ed altri due amici siamo beatamente seduti sulla terrazza del Rifugio Envers des Aiguilles. Improvvisamente vediamo arrivare un uomo ed una donna. Prima di giungere sulla terrazza, l’uomo si ferma nei pressi di un rubinetto dell’acqua, si spoglia completamente, mutande incluse, ed inizia a darsi una bella rinfrescata. Lo riconosciamo, è Daniele Caneparo. Ridiamo divertiti. Ci salutiamo e scambiamo due battute. Non lo conosciamo ancora bene, se non per averlo incrociato in falesia qualche volta anni addietro.
Con Paolo Zanoli abbiamo appena iniziato a risalire sci a spalle un ripido canale nella zona di Bardonecchia, poco più avanti notiamo uno scialpinista che sta fissando gli sci sullo zaino. Ci avviciniamo, giacca arancione sbiadita, movimenti lenti e precisi. E’ Daniele Caneparo! Sono passati 6 anni da quel giorno sul Bianco, siamo contenti di rivederlo, risaliamo tutto il canale insieme fino in punta alla Guglia di Mezzodì. Ridiamo e scherziamo, Daniele è davvero simpatico. Decidiamo di organizzare altre gite insieme.
“E’ una cosa pazzesca, non si può scindere il rischio dall’alpinismo, l’alpinismo senza rischio semplicemente non esiste”. E’ un giorno d’inverno, l’auto risale con grinta i tornanti della valle ancora buia e addormentata, la meta è uno dei canali che solcano le ripide pareti del Monviso. Daniele è in preda a una delle sue memorabili e ferventi oratorie, i passeggeri dell’auto, un po’ addormentati e un po’ interessati seguono il ragionamento, così apparentemente assurdo ma così realmente vero. E Daniele non era uno che parlava a vanvera, a 14 anni aveva salito da solo e slegato grandi pareti nord delle Alpi, come il “Couloir Couturier” all’Aiguille Verte o la “Neruda” sulla nord del Lyskamm mentre il padre lo aspettava al rifugio.
O quando, a 16 anni, sulla grandiosa via “Major” al Bianco, nel cuore della Brenva, il compagno, pressoché coetaneo, cadde e morì. Immaginate un ragazzino di 16 anni, nel cuore di una delle pareti più selvagge e severe delle Alpi, da solo, senza possibilità di poter chiamare i soccorsi e senza cellulare, doversi ritirare in completa solitudine. Un qualcosa di cui forse oggi si sarebbero interessati, più che le testate di alpinismo, i servizi sociali. Tempi che cambiano, decisamente in peggio, in un mondo dove la libertà, ivi compreso il suo modo di morire, è sempre più costretta nel vincolo della sicurezza e nel trovare il capro espiatorio a tutti i costi. Un mondo dove anche chi va in montagna, spesso, invece di solidarizzare, si erge a grillo parlante con un “se l’è andata a cercare”. Sì, è vero, forse Daniele se l’è andata davvero a cercare in quell’ultima scialpinistica, in un luogo di una difficoltà insignificante per lui, ma l’ha fatto razionalmente e con la consapevolezza di chi ha sempre seguito uno stile di vita, coerente fino in fondo.
Fortissimo alpinista e audace esploratore di vie nuove, “spesso e volentieri gli alpinisti dimenticano o forse semplicemente ignorano luoghi un po’ cupi e solitari e per questo terribilmente affascinanti”, ripetè anche numerose vie in solitaria, spesso senza corda. A tal proposito voglio ricordare la solitaria della via “Bonington” al “Pilone Centrale del Freney” nel 1992, con accesso dal Col du Peuterey, legandosi solamente sul tratto della “Chandelle” con un cordino da 7 mm, o quella al “Pilier Cordier” ai Grand Charmoz, proprio in preparazione al Pilone “andai su da Chamonix in giornata ma all’attacco scoprii che avevo dimenticato le scarpette..allora..ahahahahahah..iniziai a fare i primi due tiri a piedi scalzi. Poi però mi accorsi che sarei stato troppo lento così tornai il giorno dopo”. Questo era Daniele Caneparo, un alpinista, un accademico con la A maiuscola. Sempre alla ricerca delle novità e di un qualcosa di nuovo, fu tra i primi a ripetere le vie moderne di Michel Piola, tra cui “Folies Bergere” e “Panne de Sense” (il primo 6c obbligato del Bianco). “Voyage selon Gulliver” la prima volta non riuscì a farla, perché nel viaggio di andata riuscì a ribaltarsi con la sua auto e sentire l’asfalto attraverso il tettuccio del veicolo. Sì perché Daniele era sempre oltre, lui che arrivava sparato alla barriera del Telepass (“fino agli 80 km/h si apre”), veloce sulla sua Seat Ibiza TDI 1900, inseguito dalla Polizia mentre tornava in Toscana (“Ah! La macchina migliore che abbia mai avuto. Peccato che l’abbia distrutta”).
In Piemonte fu uno dei protagonisti assoluti degli anni ’80 in Valle dell’Orco, autore di prime libere e vie memorabili, basti ricordare “Legoland”, la “Separate Reality” italiana. Daniele fu però anche letteralmente stregato dal selvaggio Vallone di Sea, dove tracciò una delle sue linee più pure ed estetiche, “Così parlò Zarathustra, una via per tutti e per nessuno”, ma anche “Gente Distratta”, “Apprendisti Stregoni”, “Misteri della Meccanica” e “Misteri della Fisica”, dove a causa di un imprevisto, bivaccò tutta la notte. Daniele, seppur dopo qualche tentennamento, dovuto alla sua concezione di alpinismo, approvò comunque la nostra opera di rivisitazione delle vie del Vallone, “è giusto che chi è ancora in attività segua le tendenze attuali dell’arrampicata”, in fondo felice che le sue vie venissero di nuovo ripetute. Per scherzare, spesso gli dicevamo che avevamo o avremmo messo una mitragliata di spit solamente sulle sue vie, e lui rideva divertito.
Daniele trovò, dopo aver smesso di scalare, la sua dimensione con lo scialpinismo e con lo sci ripido. Le gite con Daniele erano sempre lunghe, selvagge, profondamente scialpinistiche e avventurose, talvolta in luoghi che non erano mai stati battuti prima con gli sci. I “ravanamenti” iniziali erano sempre ampiamente ripagati da pendii strepitosi e da luoghi solitari. Non sempre però era facile combinare gite con Daniele, più la stagione avanzava e più lui diventava euforico, e talvolta era difficile seguirlo nei suoi progetti. Ricordo che Paolo Gallina mi raccontò che un giorno Daniele, in una delle sue oratorie, disse che non si capacitava come mio fratello ed io, non avendo figli, fossimo talvolta troppo conservativi non avendo nulla da perdere! Questo era Daniele, sempre oltre, a tal punto da perdere l’equilibrio sulla nord del Viso, su un pezzo ghiacciato e fermarsi miracolosamente su una lamina dello sci. Ma Daniele era duro, forte, e anche orgoglioso. Alle 17 di un lontano inverno apparve uno squillo a suo nome sia sul telefono di mio fratello che su quello di Enrico Pessiva, poi più nulla. Daniele non era raggiungibile. Tutti si allertarono, non si sapeva dove fosse. Fu di nuovo raggiungibile alle 22, mentre mangiava un panino all’autogrill. Aveva avuto, durante la discesa dalla sud del Frioland una distrazione al ginocchio. Percorse centinaia di metri di dislivello praticamente strisciando, pur di non chiamare l’elisoccorso. Una forza della natura, come quando sferzato dal gelido vento invernale, si fermava a parlare con altri gitanti, con solo addosso la maglietta di cotone intrisa di sudore. Poi arrivava in cima, e chiedeva se volevi del thè caldo, che altro non era che aranciata gelata.
Della mancata chiamata all’Elisoccorso ne fece le spese anche Paolo Gallina, che verso la fine di una gita alle Rocce del Fraiteve non vide un muretto a secco e si fratturò un piede. Daniele improvvisò una barella e lo porto giù fino all’auto, “oggi mi sono divertito tantissimo, da morir dal ridere”, disse al telefono la sera dell’infortunio, con il suo ironico cinismo e la sua straordinaria umanità.
Quell’umanità che tutti notammo, ancora una volta, un lontano giorno di dicembre, quando tutta la nostra combriccola si prodigò a portare giù Lucy, cane vecchio e glorioso, che ci aveva seguito fino sulla vetta del monte Briccas. Erano le 16.30, stava diventando buio, e c’era così talmente tanta neve da non riuscire a curvare, e la povera cagnolona non riusciva a scendere. Io, grande amante dei cani, non ebbi il minimo dubbio, e rimbrottai anzi un po’ Daniele che iniziava ad esordire con un “capisci, questa è selezione naturale”…ma pochi secondi dopo ce l’aveva in spalla, e con una staffetta memorabile facemmo ciascuno un tratto con Lucy sulle spalle, portandola sana e salva a valle. A seguito di quell’episodio Daniele scrisse una meravigliosa lettera al suo amico Marco L.
Potrei andare avanti con altri aneddoti, altri episodi, altre vicende che hanno legato me e mio fratello a Daniele in questi anni.
Posso dire che Daniele è stata una persona straordinaria, e lo affermo senza l’ipocrisia di dare la gloria ai morti, estremamente umana e professionalmente molto competente (potendolo affermare a ragion veduta, in quanto ebbe in cura nostro papà per diverso tempo), sempre con un consiglio giusto, ragionato. Perché Daniele era anche uno studioso, non solo nel campo medico, ma in tanti altri settori della cultura e dell’esistenza in generale. Porterò sempre con me il ricordo di una gita il primo dell’anno del 2013, dove, di ritorno dalla Rossa di Sea, mi parlò con enfasi e un velo di tristezza di tanti aspetti della vita, anche privati.
Passammo a casa di Sergio Sibille il capodanno del 2018, non sapendo che per te sarebbe stato l’ultimo. Ancora una volta ci raccontasti dei tuoi studi e delle tue peripezie. Fu un brindisi alla vita.
Quando quel lunedì 25 novembre 2019 squillò il telefono e dall’altro capo c’era Enrico Pessiva che ci chiedeva se avevamo notizie di Daniele, disperso da sabato, un oscuro pensiero si palesò in noi, “la valanga è il vero corpo a corpo con la montagna”...già, Daniele caro, ma stavolta aveva vinto lei. Ma sono, siamo sicuri, che anche in quell’attimo, nel momento fatale del trapasso, con il tuo solito e impagabile cinismo, avrai fatto un brindisi. Non alla morte, ma alla vita.
Ormai ci stiamo abituando a vivere a “fasi”.
Luca e Matteo Enrico, dopo la fase del primo lockdown, rivivono il momento in cui ci si è riaffacciati a pareti e falesie e si è cercato di riannodare i fili di discorsi e progetti rimasti in sospeso.
Ma le fasi si susseguono così rapidamente che l’articolo che proponiamo ha ormai già il sapore di una cosa d’altri tempi…
#FASE2, UNA NUOVA ESTATE IN VAL GRANDE
Un’antica leggenda narra che Sant’Eldrado, uscito nel giardino del convento per meditare, si fosse assopito un istante al canto di un usignolo accorgendosi, una volta risvegliatosi, che in realtà erano passati 300 anni…
Noi appassionati di montagna ci siamo addormentati che era ancora inverno ed ora, che parte del peccato di volersi muovere è stato sufficientemente espiato, ci siamo risvegliati alle porte dell’estate.
Quando abbiamo riaperto gli occhi, alla magia della neve, dei canali, dei boschi innevati e della luce invernale si sono sostituiti i prati verdi, le pareti quasi asciutte e libere dal verglas, i sentieri e le mulattiere ormai camminabili, le giornate lunghe e piene di sole.
Al mondo freddo e cristallizzato dell’inverno è subentrato un mondo più caldo e vitale che ci condurrà all’estate vera a propria, fatta del rumore delle acque impetuose, degli animali al pascolo e di tutti quelli selvatici ormai usciti dal loro letargo.
Al rumore delle lamine sulla neve e del fruscio delle pelli si sta sostituendo quello degli scarponi sui sentieri e quello delle grida di comando degli scalatori in parete.
Un po’ come Sant’Eldrado ci siamo risvegliati non riconoscendo più cosa ci sta intorno, riprenderemo però a sbirciare le condizioni e il meteo, a progettare le uscite e a fantasticare nuovamente su tutto ciò che in questo lasso di tempo sospeso è stato interrotto.
E lassù in Val Grande cosa mai succederà?
La stagione, lo scorso autunno, si era chiusa anzitempo, per via di abbondanti piogge e precoci, copiose, nevicate e purtroppo si era chiusa con un increscioso episodio, ovvero la rimozione di fix su un nostro itinerario, operato dai soliti “ignoti”, fautori innanzitutto dell’ “etica” dell’anonimato…
A quel disdicevole episodio avevamo dato una risposta chiara e tangibile, aprendo una nuova via sullo Specchio di Iside. Una via che supera la grande arcata che delimita sulla sinistra le placche dello Specchio. Abbiamo voluto piazzare solo le soste, tutto il resto è trad, chi è bravo si porterà pochi friends, chi è meno bravo se ne porterà tanti e magari maledirà un po’ gli apritori per un passaggio un po’ expo sull’ultimo tiro. Ma tant’è, non si può mai accontentare tutti e d’altra parte a volte un pizzico di suspence ed avventura non guastano. A breve vi forniremo anche la relazione!
Da quando abbiamo iniziato questo lungo e faticoso lavoro di ripristino sono passati ormai 5 anni e potremmo quasi dire che la Fase 1 (giusto per rimanere in tema!) si è conclusa.
Ora la Val Grande (e nel Vallone di Sea in particolare) può vantare un bel numero di vie ripristinate. Considerato l’enorme lavoro da noi svolto, in termini di tempo, fatica e denaro, per cercare di rendere fruibili itinerari dimenticati da decenni (alcuni mai percorsi) ci piacerebbe che nessuno, sotto forma di anonimato, ripetesse incresciosi gesti come quello dello scorso autunno.
In Sea si sono riportati alla luce itinerari dimenticati ed impraticabili, il fix è stato utilizzato in sostituzione degli spit-roc piazzati da Grassi negli anni ’80 o per rendere fattibile la scalata in libera di sezioni altrimenti da farsi in artificiale. Non abbiamo mai banalizzato gli itinerari e i passaggi, senza però comunque cadere nell’errore di lasciare le vie allo stato
originario, perché ciò vorrebbe dire talvolta lasciare anche le fessure intasate di terra e gli arbusti a rendere ostico un ribaltamento.
Queste vie per vivere e non tornare inghiottite dalla vegetazione devono poter essere percorse frequentemente e quindi non solo da pochi agguerriti top climbers, o presunti tali. Insomma, abbiamo, finora, cercato di trovare un compromesso che non scateni assurde guerre che porterebbero solo a danneggiare la roccia e l’ambiente naturale.
Il mondo dell’arrampicata si sa com’è, ci sarà sempre chi vorrebbe lasciare le vie intasate d’erba per meglio aggrapparsi ai ciuffi, chi vorrebbe avere visibilità senza muovere un dito, chi dice sempre e solo “qualcuno dovrebbe fare”… qualcun altro ovviamente, chi si sentirà un fenomeno da salotto citando etiche e decaloghi vari… ci sarà però anche chi scalerà per il piacere di farlo, unicamente per quello, e chi si prodigherà per riportare alla luce vecchi itinerari inghiottiti dal tempo e dal muschio.
E ora? E ora lanciamo anche noi, tutti insieme, la Fase 2!
La via dell’arcata è in realtà già una di queste! L’idea, dopo il primo “pacchetto” di vie ripristinate, perdonateci il paragone, alla “Motto style” sarebbe quella di rivedere altri itinerari secondo tre filoni ben precisi:
Speriamo dunque che la stagione prosegua con il tempo bello, come è stato in questi mesi di reclusione forzata. I progetti ci sono e vorrebbero rendere ancora più varia e corposa la scelta, già comunque cospicua, che la nuova guida “Val Grande in Verticale” propone.
Questa pubblicazione è solo il punto di partenza per proseguire l’opera di valorizzazione di un posto così magico qual è Sea. Come dicevamo i progetti ci sono, vie classiche e più misteriose, se non addirittura irripetute, attendono solo di essere salite ed esplorate.
Sarebbe anche bello poter visitare zone di Sea più recondite, al limite con l’alpinismo, e magari scovare qualche nuova linea. In realtà qualcosa abbiamo già adocchiato...
La nuova stagione che si preannuncia, sicuramente travagliata per i lunghi spostamenti o la pianificazione di vie lontane da casa, se non addirittura fuori dai confini, potrebbe proprio essere l’occasione per frequentare maggiormente Sea e la Val Grande. Magari confrontandosi costruttivamente si potrebbe dar vita a dei bei “cantieri” ed unendo le forze molti potrebbero provare l’ebbrezza delle chiodature, dello stare appesi a pulire e provare il passaggio, vivendo magari un’estate un po’ diversa dal solito ma che alla fine saprà regalare bei ricordi.
La stagione dell’arrampicata è ormai avviata e sperando di poterci sempre più liberamente muovere potremo divertirci a salire placche e fessure, confidando non nel distanziamento sociale ma in quello da certe ideologie incancrenite, cercando di assaporare la vera essenza della scalata.
Quindi speriamo che sia un’estate dove tutti potranno divertirsi e la polemica, di cui nessuno in questo periodo ha bisogno, possa davvero essere la grande assente dell’estate.
In uno scritto di Costantino Piazzo le straordinarie avventure alpine ed extraalpine di Mario Piacenza,
socio Accademico e una delle figure più rappresentative del mondo alpinistico all'inizio del XX secolo.
Si ringrazia la FONDAZIONE SELLA per le immagini pubblicate
Cima alle Coste - Parete Centrale - T. Quecchia (C.A.A.I.), D. Ballerini, C. Stefani, F. Prati (C.A.A.I.), F. Culazzu 1995
Percorre le grandi placconate dello Scudo e supera poi direttamente la parete superiore seguendo una linea molto logica tra muri e strapiombi. Una linea di concezione e difficoltà moderne affrontata con attrezzatura tradizionale e pochi spit.
Sono passati 25 anni dall’apertura, ma la via conserva il suo fascino di grande via classica, soprattutto nella parte alta, rimasta chiodata in modo parsimonioso.
Una bella impresa della cordata guidata dall’Accademico Tiberio Quecchia, personaggio tra i più rappresentativi dell’alpinismo moderno bresciano.
Alcune immagini di Samuele Mazzolini (ripetizione del settembre 2020) e Alberto Rampini (ripetizione dell'aprile 2015)
Storico bivacco del C.A.A.I., posizionato nel 1933 poco sopra la Breche Nord des Dames Anglaises a quota 3.490 metri, rappresenta un punto di appoggio fondamentale per le cordate che percorrono la Cresta Integrale di Peuterey. Situato su un piccolo gradino roccioso in piena parete, è un minuscolo bivacco a botte, alto m. 1,25, largo m. 2,25 e profondo m. 2, in legno ricoperto di lamiera zincata. Può offrire riparo a 4 persone.
Nel settembre scorso è stato oggetto di lavori di manutenzione straordinaria che assicurano oggi ospitalità spartana ma sicura in caso di necessità. Il manufatto è stato anche dipinto esternamente di colore verde intenso (RAL 6037 ) che garantisce la migliore resistenza agli agenti atmosferici e facilita l’individuazione anche in condizioni di ridotta visibilità.
I lavori sono stati eseguiti dalla Ditta Barbolini Carlo, socio CAAI, coadiuvato da Tommaso Castorina e Beppe Villa (CAAI e GA) in qualità di assistente per il mezzo aereo. Il trasporto dei materiali e degli operatori, operazione davvero impegnativa per l’ubicazione del bivacco, è stato effettuato dalla HELIMONTBLANC, pilota Alex Busca.
E’ stata anche raccolta e portata a valle la spazzatura abbandonata sul posto da alpinisti incivili, comprese numerose paia di scarpette (dal bivacco fino alla vetta del Bianco non servono più….). Vogliamo fare un appello ad un maggiore senso di responsabilità da parte degli utilizzatori della struttura.
I bivacchi del Club Alpino Accademico Italiano sono oltre 20, posizionati in siti strategici sull’arco alpino, e sono a disposizione gratuitamente per tutti gli alpinisti, ai quali si chiede solamente rispetto delle strutture e dei luoghi che le ospitano.
a cura di A. Rampini
Il Convegno Nazionale 2020 del C.A.A.I. si terrà il 17/18 ottobre
a TRENTO presso la Sala Conferenze del Grand Hotel Trento
Piazza Dante, 20
TEMA DEL CONVEGNO
L’Accademico ieri, oggi e domani
Attualità e prospettive per il rilancio dei valori storici
del C.A.A.I. e della figura del socio
Relatori:
Giacomo Stefani
Il C.A.A.I. visto da un socio
quarantennale con 9 anni di presidenza generale
Alberto Rampini
La figura dell’Accademico oggi e l’evoluzione dei
parametri di ammissione
Maurizio Giordani
Attualità del socio C.A.A.I.
Dove va l’alpinismo oggi?
Samuele Mazzolini e Francesco Piacenza
La comunicazione: creare interesse verso il C.A.A.I.
Sergio De Leo
Candidature e nuova modulistica
Moderatore: Alessandro Gogna
PROGRAMMA DEL CONVEGNO
Sabato 17 ottobre
Ore 13,00 – Arrivo e registrazione dei partecipanti
Ore 14,30 – Inizio dei lavori
Ore 19,00 – Chiusura dei lavori
Ore 20,00 – Cena offerta dalla Presidenza Generale
Per gli accompagnatori si prevede una visita
guidata alla città.
Domenica 18 ottobre
Arrampicate ed escursioni in zona
La sala che ci ospiterà si trova a Trento in centro città,
facilmente raggiungibile con breve passeggiata
dai vari parcheggi che servono il centro cittadino.
Le varie fasi del Convegno vengono organizzate in
modo da rispettare le normative vigenti in tema di
protezione contro la diffusione del Covid19.
Tutti i partecipanti dovranno rispettare il distanziamento
ed essere muniti di idonea mascherina da
indossare quando necessario.
Parcheggi consigliati:
Parcheggio Europa via Vannetti, 16
oppure Autosilo Buonconsiglio di via Petrarca.
Entrambi distano 2 minuti a piedi dall’hotel.
Via nuova allo Spallone del Sassolungo - Pilastro Lupezza - ad opera di Filippo Nardi (C.A.A.I.) e Jacopo Biserni
UN SOGNO LUNGO OTTO ANNI
Sassolungo, montagna del cuore, montagna di una vita. Molti anni fa, faccio la conoscenza di Ivo Rabanser, e le sue vie, insieme ai suoi preziosi consigli, alimentano e fanno crescere il mio interesse per questo gruppo montuoso. Il fascino che esercita su di me è qualcosa di misterioso e che non riesco a spiegarmi. Scorrono gli anni e si sommano, numerosissime, le mie ripetizioni delle sue vie, anche di quelle meno conosciute. Sulle sue pareti, con gli amici vivo avventure bellissime e provo emozioni profonde, come difficilmente mi succede su altre montagne. Si fa strada l’idea di aprire una nuova via: la parete sud-est dello Spallone attira la mia attenzione e mi intriga.
Nel dicembre del 2012, ha inizio così, con il fido Beppe Prati, il sogno. I primi 4 tiri nascono in fretta. Ad inizio estate dell’anno successivo ne aggiungiamo altri due, arrivando sotto ad un muraglione giallo impressionante. Dubbi e perplessità. Saliamo qualche metro, piantiamo qualche chiodo. Il tutto cade poi in un oblio alpinistico: altre idee, altri progetti, altre avventure. Nel frattempo conosco Jacopo Biserni, pieno di vita e determinazione. Facciamo parecchie salite insieme e, quest’estate, il suo entusiasmo e la sua tenacia, mi stimolano a riprendere in mano il progetto. Mi piace il suo modo di vivere la nuova avventura, di sentirla. Come fosse stato presente sin dal 2012. Si susseguono risalite di tiri, trasporti di carichi notevoli, sulle spalle o al traino, chiodi piantati, dita schiacciate, dubbi sulla linea ed un bivacco scomodissimo, che ricorderò come il più penoso della mia vita. Proprio durante quella notte, sotto il cielo trapuntato della Val Gardena, nasce l’idea: è morto da poco il grande maestro Ennio Morricone e l’interesse per la musica, che mi accomuna a Jacopo, fa il resto. La via si chiamerà proprio “Ennio Morricone”! A settembre la terminiamo, sulla punta di un piccolo pilastro staccato, dove il resto della parete perde di qualità, continuità ed interesse. Proponiamo di intitolarlo ad un amico di tante avventure, scomparso purtroppo qualche anno fa. Ne sarà sicuramente felice.
RELAZIONE DELLA VIA
GRUPPO DEL SASSOLUNGO
SPALLONE DEL SASSOLUNGO M. 3081 – PARETE SUD - EST
PILASTRO LUPEZZA (TOP. PROPOSTO)
VIA “ ENNIO MORRICONE”
Primi salitori: Filippo Nardi e Giuseppe Prati i primi 5 tiri, nel 2012. Filippo Nardi e Jacopo Biserni dalla lunghezza 6 sino al termine, durante l’estate del 2020.
Sviluppo: 500 m. circa, 14 tiri.
Difficoltà: VI+, VII, VII+, IX- (oppure VII e A0, in un tiro)
Materiale: Utilizzati e lasciati in posto 44 chiodi e 7 spit (esclusivamente sul tiro più difficile), oltre ad alcuni cordini nelle poche clessidre presenti. Le prime 5 soste sono su 3 o 4 chiodi, mentre tutte le restanti hanno un fix con anello ed un chiodo. Per una ripetizione si consiglia una serie completa di friends BD Camelot (dallo 0,3 al 3 ed un paio di misure micro, verde e rosso), una piccola scelta di nuts e 3-4 chiodi assortiti. Necessarie corde da 60 metri.
Tempo di salita: 6-8 ore
Il nuovo itinerario supera, con direttiva pressoché diretta, la verticale porzione della parete sud-est compresa tra la via “Fiamme Gialle” (a sinistra) e il Pilastro Est (a destra) dove sale la via “Cristina”, terminando sulla punta di un piccolo pilastro staccato che i primi salitori hanno voluto chiamare con il nome di un amico e compagno di molte salite, scomparso alcuni anni fa. La salita presenta un’arrampicata molto bella ed elegante, in alcuni tratti decisamente esposta, su roccia generalmente buona e compatta, salvo in alcuni tratti nei tiri 4 e 5, dove la roccia è in parte friabile. La gialla fascia centrale, sopra l’incrocio con la via della Rampa, viene superata con due belle ed estetiche lunghezze in placca, lasciate ben chiodate. La via è stata percorsa in arrampicata libera dagli stessi apritori.
ACCESSO: Dal parcheggio della cabinovia Sassolungo per il rif. Demetz, si segue il sentiero per il rif. Comici sino in corrispondenza della stazione a monte del primo impianto sciistico (seggiovia) che si incontra. Per prati prima e ripide ghiaie poi, si raggiunge la parete est. L’attacco è posto un centinaio di metri a sx (faccia a monte) rispetto all’inizio della via della Rampa, sotto un evidente sistema di fessure di roccia grigio/nera (fare anche riferimento alla fotografia allegata). Ometto alla base + chiodo e cordone, dopo un breve zoccoletto. (ore 0.45)
1) Salire l’evidente sistema di fessure di bella roccia compatta, sino ad un terrazzino di sosta (30 metri, IV+/V, nessun chiodo).
2) Proseguire lungo la sovrastante fessura, raggiungere una zona più facile e per fessure, leggermente in diagonale verso dx, raggiungere la sosta (30 metri, VI/V+/V/IV+, 1 chiodo).
3) Superare verso sx il breve strapiombino subito sopra la sosta, continuare per il camino- fessura e per risalti verticali al punto di sosta (30 metri, V/IV+, un cordino in clessidra).
4) Salire il soprastante diedro aperto (sulle rocce di dx roccia migliore), poi proseguire diritto in parete (roccia delicata) sino sotto ad un’evidente zona strapiombante giallastra. Traversare 3 metri a dx (tratto friabile), aggirare uno spigoletto accennato ed in verticale arrivare in sosta, presso una nicchia gialla (30 metri, VI/VI+/V, 5 chiodi e un cordino in clessidra).
5) Superare la fessura gialla che sale in diagonale a sx ( roccia scagliosa), guadagnare una zona più facile, salire un breve caminetto sulla dx e, per risalti e paretine, raggiungere la sosta, posta sotto una zona strapiombante scura (incrocio con la via della Rampa) (50 metri, IV+/III, 2 chiodi).
6) Salire in diagonale verso sx, in direzione di due prue nere strapiombanti, superarle e continuare diritti per alcuni metri, sino ad una grande clessidra con cordone. Da qui proseguire in diagonale verso dx, superare un bel muretto di roccia nera e molto lavorata, raggiungendo poi la sosta, posta presso una cengetta con un grande scaglione staccato (45 metri, V+/IV+, 1 chiodo e 4 cordini in clessidre).
7) Dalla sosta alzarsi sulla bella placca con buchetti, in diagonale verso dx, salire alcuni metri diritto e poi traversare decisamente a sx, sino ad una grande lama che si segue fino alla sosta su terrazzino inclinato. Tiro estetico (15 metri, VI+/VII+/V+, 9 chiodi).
8) Salire la bellissima placca verso dx, poi diritti per alcuni metri piuttosto impegnativi, quindi verso sx, superando infine il sovrastante leggero strapiombo alla sua estremità dx. Sosta scomoda. Tiro molto bello (25 metri, VIII-/IX- (VII e A0), 7 chiodi e 7 spit).
9) Traversare subito a sx con alcuni passaggi ostici, aggirare uno spigoletto accennato e continuare a traversare verso sx, superando infine una difficile placca con un buco evidente e due buchetti più piccoli. Sosta pochi metri sopra, su comoda cengetta (25 metri, VII/VI/VII+, 4 chiodi e 1 cordino in clessidra).
10) Traversare a sx, all’inizio anche abbassandosi un paio di metri, superando il lungo strapiombetto sovrastante alla sua estremità sx, proseguire in verticale su bella placca compatta (più in alto visibili 3 chiodi a pressione della via “Fiamme Gialle”), sino a quando è possibile traversare verso dx per raggiungere l’evidente diedro superficiale che si segue sino in sosta, su comoda cengia, presso una nicchietta gialla ed un grottino (35 metri, VI/VI+/VII, 6 chiodi).
11) Spostandosi di poco verso sx, superare un breve strapiombino ed entrare poi nell’evidente diedro soprastante che, con bella arrampicata, conduce in sosta (20 metri, VI/V, 2 chiodi ed un cordino in clessidra).
12) Superare lo strapiombino sopra la sosta e proseguire lungo l’atletico diedro sino sotto ad un tetto che va superato traversando in placca verso dx. Raggiunta una zona più facile, si prosegue in direzione di un breve diedrino, al termine del quale, presso un grande spuntone, si trova la sosta. Alla base dello spuntone, libretto di via in un contenitore metallico (45 metri, VI+/IV+/V, 4 chiodi e un cordino in clessidra).
13) In breve si raggiunge una piccola conca ghiaiosa e, dopo un breve risalto verticale, si raggiunge la comoda sosta su cengetta, dove sale anche la via Delago (20 metri, III, nessun chiodo).
14) Salire a dx (lasciare sulla sx il camino della via Delago) lungo lo spigoletto della cuspide dell’evidente piccolo pilastro staccato, sino al suo termine (15 metri, V, nessun chiodo)
DISCESA: Si scende in doppia lungo la via di salita, su ancoraggi molto ben attrezzati, saltando le soste n° 13 - 9 - 8 - 1. Necessarie corde da 60 metri.
L'intenso we del MEETING "VALGRANDE IN VERTICALE 2020" (5 e 6 settembre)
di Luca Enrico (CAAI Gruppo Occidentale)
Vi ricordate quelle feste pagane dell’antichità? Quando l’uomo festeggiava la fine o l’inizio di qualcosa? poteva essere il raccolto o un passaggio stagionale, un modo per segnare un cambio meteorologico con la scusa di ingraziarsi gli dei e i fenomeni atmosferici.
Il raduno Val Grande in Verticale per certi versi ricorda quegli antichi riti, se ci pensate è sempre fatto alla fine della prima settimana di settembre, quando ormai le vacanze estive dei più sono terminate e quando le ombre ormai lunghe ci ricordano che l’estate, quella vera del solleone, della luce abbacinante del nostro astro allo zenit, è ormai solo più un ricordo. L’estate sta scivolando via e l’atmosfera, i colori, lo stormire delle foglie cambia seppur ancora impercettibilmente da quello che era pochi giorni addietro.
Il raduno cade lì, proprio lì ed è una grande festa che quando finisce porta con sé la velata malinconia di un’altra estate che se n’è andata, con i suoi progetti e le sue realizzazioni. Chiude un periodo dell’anno, un periodo della nostra vita, ricordandoci che un’altra estate arriverà ma che bisognerà pazientare un anno intero.
Salendo sulla stradina di Sea, diretto verso il masso della “prova scalata” per bambini, la mia attenzione è stata richiamata dal fruscio delle foglie, allora ho alzato lo sguardo e osservando la luce sulle pareti e sugli enormi blocchi della grande pietraia ho avuto proprio quella sensazione: che qualcosa era diverso, cambiato da pochi giorni prima. Quelle rocce mi hanno mostrato come impercettibilmente ma inesorabilmente si stiano preparando all’inverno. Il raduno segna questo passaggio.
Un raduno che ormai è un appuntamento fisso, immancabile, lo è stato anche quest’anno in quest’era travagliata e incerta, eppure Sea è riuscita a sconfiggere anche il morbo della pandemia, primitiva ed immutabile ha richiamato a sé una gran moltitudine di arrampicatori ed escursionisti, accogliendoli nel suo regno scarno, essenziale ma incontaminato. Non era così scontato prevedere un siffatto afflusso di gente, eppure è avvenuto. Forse perché inconsapevolmente ci portiamo dentro il ricordo di quelle antiche feste pagane, ne abbiamo bisogno.
I numeri contano ma conta soprattutto l’atmosfera che si è creata. Sono transitate circa 250 persone che, in alcuni casi, hanno letteralmente riempito e preso d’assalto alcune pareti. Da quelle di Sea alla Paretina di Forno a Rociruta.
I bambini si sono presentati a decine, sia ai massi di Cantoira che a Forno Alpi Graie, per provare l’ebbrezza della loro prima scalata, seguiti ed edotti dai pazienti e preparati istruttori delle scuole Lavesi e Ribaldone. E forse i loro genitori erano persino più euforici ancora nel vederli cimentarsi su quelle placche, cercando un appoggio sicuro per un piede o un appiglio per le loro piccole dita.
Se gli adulti più esperti hanno potuto scegliersi in completa autonomia la via e la scalata più consona alle loro caratteristiche, quelli meno esperti hanno potuto avvalersi degli insegnamenti trasmessi nel corso di “arrampicata trad” della scuola Gervasutti del CAI Torino. Le richieste sono state tante e da ogni dove, ad indicare che Sea e la Val Grande non sono più quelle lande semisconosciute di qualche anno fa, quando solo pochissimi appassionati ed estimatori ancora cercavano di rivivere le gesta dei grandi del passato, da Manera a Meneghin e soprattutto Grassi che in queste valli sognò ed esplorò, lasciandoci un patrimonio di itinerari davvero unico.
Pareti ed arrampicata, ma la montagna ha pure una sua dimensione meno drasticamente verticale, meno brutale e impattante, la montagna è anche quella dei sentieri, della riscoperta degli antichi itinerari percorsi non da famosi alpinisti ma da anonimi quanto tenaci pastori e montanari che seppero erigere incredibili opere edili, spostando enormi lose e pesanti blocchi squadrati. L’escursione al Col di Fea, organizzata dalle sezioni CAI Uget, Venaria e Lanzo, ha condotto i partecipanti su pascoli un tempo fecondi e rigogliosi, attraverso un sentiero dai colpi d’occhio spettacolari e recentemente, anche se non ancora integralmente, ritracciato dai volontari proprio in vista della manifestazione. E se non tutti sono riusciti a giungere fino al colle poco importa, chi si è fermato ha potuto lo stesso rimirare gli antichi gias, gli alpeggi in pietra disseminati sulla montagna, guardando da lontano ciò che rimane di ghiacciai un tempo estesi.
Il cambiamento climatico sta portando alla scomparsa delle nevi perenni mutando non solo il paesaggio alpino ma anche gli itinerari alpinistici. Il tema è stato affrontato sabato pomeriggio, nella meravigliosa cornice del giardino dello storico Albergo Savoia, durante la presentazione del nuovo libro di Marco Blatto intitolato “Valli di Lanzo”, erede della vecchia “guidina grigia” del CAI-TCI. Ne ha parlato l’autore insieme agli ospiti: Lino Fornelli, autore proprio della vecchia guida, Matteo Enrico e Andrea Bosticco. Una bella introduzione è stata fatta dal presidente Alberto Rampini che ha ricordato come il Club Alpino Accademico Italiano abbia da sempre creduto ed appoggiato i raduni Val Grande in Verticale, quasi una sorta di laboratorio, nel panorama italiano, per la promozione di un certo tipo di montagna.
E gli intenti del Gruppo Valli di Lanzo in Verticale, formato dalle sezione CAI di Lanzo, Venaria, Uget e Torino e proprio dal Club Alpino Accademico Italiano, sono proprio quelli di far rivivere pareti e sentieri invogliando gli appassionati a frequentare queste valli che meritano di essere visitate da un turismo meno becero e mordi e fuggi che troppe volte, purtroppo, vediamo nelle domeniche estive. Il raduno pertanto non è solamente una grande festa fine a se stessa ma è un modo per rivitalizzare la montagna e ogni partecipante in più rappresenta un piccolo ma indispensabile tassello per poter fare un bollo bianco e rosso o piazzare uno spit inox. Lo sforzo di questi anni sta proprio qui, nel cercare di infondere questa consapevolezza e grandi passi sono stati fatti dalla prima edizione che fu quasi una scommessa, un raduno molto “casalingo” che resta però il fondamento di ciò che è venuto dopo.
Accanto alle classiche attività montane ne esistono anche altre. Purtroppo quest’anno non è stato possibile organizzare la corsa al rifugio Daviso ma è stata introdotta una novità che ha destato molta curiosità ed ammirazione. Grazie agli amici dell’associazione “Torino sul filo” è stata portata in valle un’attività di montagna meno convenzionale: la slack line. Chi non ha mai ammirato a bocca aperta gli acrobati del circo? Ebbene in queste due giornate è stato possibile assistere allo spettacolo di questi ragazzi che si dilettano a camminare sulla slack line, una sorta di fettuccia posizionata su grandi vuoti. Ma è stato pure possibile provare a camminarci sopra a pochi centimetri da terra, su linee dimostrative posizionate nel giardino del Savoia e che hanno fatto felici grandi e piccoli.
Da non dimenticare, dopo la cena conviviale di sabato presso lo storico ristorante Cesarin di Breno, la serata con il brillantissimo Siegfried Stohr, già pilota di Formula 1 e poi alpinista ed amico di Grassi e Meneghin con i quali aprì diverse vie proprio nel Vallone di Sea. A Cantoira ci ha parlato di automobilismo e montagna, in un parallelo sui pericoli che corre un pilota e quelli che corre un alpinista. In fondo, a ben pensarci, le due attività hanno molte similitudini, da una parte bisogna arrivare a tagliare un traguardo e dall’altro bisogna arrivare in vetta a una montagna. Due cose di per sé forse inutili ma immensamente belle ed affascinanti.
Se le antiche feste pagane terminavano con balli e magari sacrifici, nella nostra uomini ed animali non hanno avuto nulla da temere, anzi sono stati più che soddisfatti dopo la distribuzione di ricchi premi e gadget ancora una volta nel giardino del Savoia. Qualcuno è stato più fortunato, qualcun altro meno, qualcuno ha ricevuto in dono articolo tecnici e di abbigliamento mentre qualcun altro ha ricevuto ottimi prodotti mangerecci locali. Ma tutti sono stati contenti. La festa ha avuto la sua degna conclusione.
E così anche quest’anno il primo pensiero dopo la fine è già al prossimo, al 2021. Il successo impone quasi di proseguire in questa bella iniziativa che vive, bisogna riconoscerlo, anche grazie ai tanti sponsor che la supportano. Sponsor noti e meno noti ma tutti indispensabili per soddisfare tutti.
Non resta allora che dire: al prossimo anno!!
07/09/2020
MEETING VALLI DI LANZO 2020
Sabato 5 e Domenica 6 Settembre 2020
Un appuntamento da non perdere per gli amanti dell’arrampicata trad e non trad
E’ sotto gli occhi di tutti che il filone oggi di gran lunga prevalente nell’editoria di montagna è quello delle pubblicazioni “utili”, cioè essenzialmente guide nei vari settori, dall’arrampicata alla mountain bike, dall’escursionismo alle ferrate ecc. Tramontata l’era delle guide sistematiche, oggi i titoli evocano in modo accattivante i criteri della selezione, condizionando così il mondo dei fruitori, inconsapevolmente limitati nella loro possibilità di scelta ed indirizzati verso obiettivi standardizzati.
Filone secondario è quello della narrativa o saggistica che trae spunto normalmente dalle vicende di attualità o tornate di attualità.
Anche l’editoria di montagna, quella della carta stampata, oggi più che mai assediata dal web, non può che seguire le regole del mercato: produrre quello che presumibilmente incontrerà il gradimento del pubblico e quindi venderà copie sufficienti a coprire le spese e assicurare un utile.
Il CAAI, come associazione senza fine di lucro, si inserisce nell’editoria di montagna in modo del tutto particolare, marginale se vogliamo, ma con caratteri identitari ben definiti, originali e mirati alla diffusione della cultura dell’alpinismo, prescindendo da qualsivoglia obiettivo di carattere commerciale.
Pubblichiamo approfondimenti storici e opere spesso inedite per il pubblico di lingua italiana, tasselli importanti per arricchire la conoscenza della storia dell’alpinismo e, con la conoscenza, il rispetto. Un ringraziamento particolare va al past president Giovanni Rossi che, assieme a Claudio Ramella, ha curato molte di queste pubblicazioni
Di seguito le opere della collana "Quaderni del CAAI" ancora disponibili per gli appassionati, che possono essere richieste direttamente alla Redazione scrivendo all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
L’attività editoriale del CAAI, oltre ai volumi sotto elencati, comprende anche “L’ANNUARIO CAAI” disponibile presso il distributore ufficiale https://www.ideamontagna.it/librimontagna/catalogolibrimontagna.asp?col=Accademico
A cura di Alberto Rampini
BRENVA
di Thomas Graham Brown
Giovanni Rossi e Claudio Ramella traducono per la prima volta in italiano l’appassionante storia dell’esplorazione del versante Brenva del Monte Bianco, scritta nel 1944 da uno dei protagonisti, Thomas G. Brown
SULLE ALTE CIME
di Geoffrey Winthrop Young
Ancora Giovanni Rossi e Claudio Ramella traducono per la prima volta in italiano un’opera fondamentale sulla fase pioneristica della scoperta delle Alpi
Sommario del volume SULLE ALTE CIME
PRIME DI PRIMA
Autori Vari
Gli infaticabili Giovanni Rossi e Claudio Ramella riuniscono in questo volume i testi originari, spesso in prima traduzione italiana, scritti dai protagonisti di alcune delle più significative ascensioni del periodo 1882-1939
Sommario del volume PRIME DI PRIMA
La prima ascensione del Dente del Gigante
MONTAGNE CON UNA DIFFERENZA
di Geoffrey Winthrop Young
Tradotta per le prima volta in italiano da Giovanni Rossi, l’ultima opera del grande alpinista-letterato-sognatore G.W. Young affronta da un punto di vista molto particolare il tema del rapporto uomo-montagna
Sommario del volume MONTAGNE CON UNA DIFFERENZA
K2 - CHOGORI
Raccolta di testi originali sui tentativi al K2 e sulla prima ascensione
Sommario del volume K2 - CHOGORI
AL KANGCHENJUNGA
di Paul Bauer
Le spedizioni tedesche del 1929 e 1931 al Kangchenjunga sono considerate una pietra miliare nello sviluppo dell’esplorazione alpinistica dell’Himalaya. Giovanni Rossi traduce per la prima volta in italiano il resoconto del capospedizione Paul Bauer
Sommario del volume AL KANGCHENJUNGA
Oltre ai volumi sopra riportati risulta ancora disponibile anche 150 VETTE, le più belle vette d'Italia salite dai soci del CAI e del CAAI nell'anno del 150° di fondazione dell'associazione.
Alla testata della Val Grande di Lanzo un’imponente muraglia rocciosa si eleva dai ghiacciai del Mulinet e offre un ambiente dove ancora oggi è possibile praticare un alpinismo di vera avventura in assoluta solitudine.
Luca Enrico (CAAI) ne ricostruisce la storia e indica gli itinerari da riscoprire.
La testata della Val Grande, la più settentrionale delle tre valli di Lanzo, è grosso modo caratterizzata, tralasciando il lungo vallone di Sea, da tre grandi bacini glaciali: quello del Mulinet, diviso in ghiacciaio nord e sud, quello del Martellot e quello della Levanna Orientale.
Il bacino della Gura è quello che comprende i due ghiacciai del Mulinet, divisi dal lungo costone che si origina dalla Uja della Gura; tale anfiteatro parte, a sinistra, dal colle di S.Stefano e termina, a destra, sul crestone della Dent d’Ecot.
Tale zona è orograficamente assai particolare: se infatti dal versante francese il ghiacciaio arriva a lambire le vette, da quello italiano si presenta come una ripida muraglia di circa 500 metri, che affonda le sue radici nei due sopracitati ghiacciai del Mulinet, oggi giorno in forte ritiro.
E’ quindi facile intuire che se il versante transalpino è terreno ideale per lo sci alpinista, quello piemontese lo è per l’alpinista.
E per quest’anfiteatro si deve e si può parlare di alpinismo vero; l’isolamento, dovuto anche al fatto che non vi sono “normali” e, tanto meno, itinerari escursionistici, la scarsissima, se non quasi nulla, frequentazione delle vie, le ritirate difficili e le discese lunghe e complesse conferiscono a questo gruppo un fascino particolare, molte volte difficilmente riscontrabile in altri luoghi ben più blasonati ma, forse, più addomesticati.
La roccia, di tipo granitoide, non è purtroppo della migliore qualità anche se non è raro trovare lunghi tratti di roccia saldissima, soprattutto nella parte alta degli itinerari; il pilastro Castagneri sulla cresta di Mezzenile, a parte l’uscita del primo tiro e le due lunghezze che superano la fascia strapiombante, presenta una roccia buona, ottima sul monolite finale. Questa salita rappresenta forse l’itinerario più elegante e difficile del gruppo.
Oggigiorno l’isolamento di questa porzione di Alpi Graie è acuita dalla mancanza di un bivacco dopo che il Rivero è stato portato via per la terza volta dalla valanga o addirittura dal vento che, in caso di “gonfia”, soffia qui violentissimo. Le partenze si effettuano direttamente dal Daviso, posto più in basso, in posizione un po’ decentrata. Da segnalare la presenza in zona dello storico rifugio Ferreri, che una decina di anni fa è stato oggetto di una ristrutturazione. Questo rifugio, uno dei primi ad essere costruito sulle Alpi, venne eretto nel lontano 1887 e in seguito dedicato a Eugenio Ferreri, precursore nella compilazione delle prime “Guide dei monti d’Italia”.
Storicamente questi luoghi sono assai importanti e il motivo è certamente da ricercarsi nella vicinanza con Torino, cosa che, quando l’automobile era un’utopia per i più, non era certo di importanza trascurabile.
Su queste pareti son quindi passate generazioni di alpinisti, per lo più torinesi: Mellano e poi Motti, Manera per finire con Grassi, solo per ricordarne alcuni. Con la morte di Grassi, grande conoscitore ed estimatore di queste zone, le pareti caddero nell’oblio, schiacciate dalla concorrenza di luoghi famosi e più alla moda.
Bisogna però pensare alle parole scritte, più di un secolo fa, da Corrà, a proposito della sua ascensione all’Uja della Gura: “E se la Valgrande non possiede nel suo distretto punte di grandissima elevazione, ha pur tuttavia per compenso in questo da sola – non per l’altezza, ma per le sue affascinanti difficoltà e pel modo vario ed attraente con cui si presenta – di che largamente supplire alla deficienza di tutte le altre assieme, offrendo la sua salita tutti i caratteri inerenti alle ascensioni di primordine”.
Solo nel 2014 finalmente una nuova via viene tracciata su Punta Corrà, seguita da un'altra nel 2015 sul Campanile di Mezzenile. Opere entrambe di un trio di estimatori ed appassionati di questi luoghi: Luca Brunati e i fratelli Luca e Matteo Enrico.
La storia alpinistica delle grandi montagne delle valli di Lanzo è cosa nota, molte riviste e pubblicazioni specializzate parlano della Ciamarella, della Bessanese o dell’Uja di Mondrone e i personaggi che furono artefici di quelle imprese sono ben conosciuti: la guida Castagneri, Martelli e Vaccarone e l’ingegnere catastale Tonini che, per motivi “lavorativi” scalò per primo le vette più importanti.
Grazie a queste imprese, non ultima la salita invernale della Mondrone (24 dicembre 1874), prima ascensione italiana di questo genere, contribuirono a rendere famose le Valli di Lanzo e, in particolar modo, la Val d’Ala.
Del bacino della Gura invece mai nessuno parla, forse il motivo è da ricercarsi nel fatto che qui non vi sono salite di alpinismo classico medio facile, fruibile da una vasta fetta di alpinisti; se infatti il versante francese è più scialpinistico che alpinistico quello piemontese è riservato al solo arrampicatore.
Una delle prime e documentate esperienze alpinistiche sulla cerchia di monti che chiude la Val Grande risale al 1870. Non riguarda però propriamente il bacino della Gura ma il colle Girard, posto più a destra, tra il bacino del Martellot e la Levanna orientale.
Nell’agosto di quell’anno una comitiva composta, tra gli altri, dal dottor Vallino e dalla sorella, e guidata da un contadino di Groscavallo, certo Girardi Pietro, compì l’allora difficile ascesa al colle Girard con successiva traversata al colle di Sea. Per l’epoca si trattò certo di una salita impegnativa, soprattutto per la sorella del Vallino che “impacciata dalle sue sottane, che offrivano larga presa al soffiar della bufera, fu quella che ne sofferse maggiormente”.
Nel 1878 Lionello Nigra con alcuni parenti della celebre guida Castagneri salì il colle del Martellot, posto sopra l’omonimo ghiacciaio (della compagnia faceva parte anche Leopoldo Barale che, febbricitante, rinunciò alla salita). Anche in questo caso non venne messo piede nel bacino della Gura vero e proprio ma è da notare, nel resoconto del Nigra, il carattere esplorativo dell’ascensione: “Nessun alpinista ch’io mi sappia aveva fin allora percorso questo bellissimo cantuccio delle belle Graie, e noi vi andavamo alla ricerca dell’ignoto ed a lume di naso.”.
Per quanto riguarda invece il più facile versante francese vediamo muoversi, negli ultimi decenni del IXX secolo, Coolidge, per lo più accompagnato dalle guide Ulrich e Christian Almer; questi conquisteranno, almeno “ufficialmente”, alcune delle vette della “Gura” probabilmente già in parte raggiunte da cacciatori di camosci. Non bisogna però dimenticare gli alpinisti italiani e, in particolar modo, Giuseppe Corrà che molto diede all’esplorazione di questi luoghi.
Sarà proprio Corrà, insieme a Luigi Vaccarone e alla guida Michele Ricchiardi, a compiere forse la prima ascensione dal versante Est della Gura.
Il 24 agosto del 1885 i tre salirono a un colle ancora innominato, lo chiamarono di “S.Stefano” avendo corso, durante la salita, un grande rischio di lapidazione.
In realtà questa fu un’ascensione di ripiego, i tre erano infatti partiti alla volta del crestone est dell’Uja della Gura, all’epoca ancora conosciuta con il toponimo di Uja di Molinet. Il 23 agosto, alle ore 23, Vaccarone partì da Chialamberto e grazie a una “vettura” arrivò a Forno circa a mezzanotte, non dopo aver raccolto, a Pialpetta, Corrà e Ricchiardi; normalmente oggigiorno questo tragitto richiede, sì e no, un quarto d’ora di auto! il terzetto si mise subito in marcia e in circa cinque ore di cammino, sferzato da un forte vento, giunse in prossimità della morena. Studiato il percorso decisero di tentare l’attacco dal ghiacciaio nord, nonostante l’accesso allo sperone fosse più facile dal soprastante ghiacciaio sud. Per giungere a questo si sarebbe però dovuta risalire la seraccata, a quell’epoca molto imponente. A tal proposito il Vaccarone scrive: “Deliberammo di salire sulla sponda sinistra del ghiacciaio nord […] si sarebbe potuto girare la posizione, salendo per le seracche, e guadagnare il ghiacciaio sud […] ma c’era di mezzo la questione del tempo grande che ci avrebbe rubato la gradinata”
Nonostante la grande quantità di neve (oggi a fine agosto c’è solo un po’ di ghiaccio sporco) i tre attaccarono finalmente lo sperone: “Arrivati alle 9 sullo sperone […] ci fermammo a pigliare un po’ di riposo […] La costiera si innalzava davanti a noi molto ripida […] Nel caso poi fossimo stati impediti di procedere sulla cresta, non ci sarebbe venuta meno la ritirata, calandoci sul ghiacciaio sud del Molinet. Ed è ciò che accadde.”
Rinunciato all’obiettivo primario, con grande perseveranza, la comitiva si portò verso la zona più debole della muraglia e cominciò la faticosa ed “estrema” salita “alle 1.40 pom. un potente jodel salutava la nostra vittoria. Avevamo raggiunto sulla cresta di confine quella depressione […] alla quale abbiamo dato il nome di Passo di Santo Stefano”. Non paghi però, traversando sul ghiacciaio “savoiardo”, raggiunsero alle 14.30 l’Uja di Molinet.
In quest’occasione venne solamente forzata, nel punto più debole, la muraglia: le pareti e gli speroni aspettavano ancora di essere conquistati.
Quattro anni più tardi, il 14 settembre del 1889, ancora Corrà, questa volta solo con la guida Ricchiardi, ritentò l’ascensione. I due, partiti alle 3.30 dal Rifugio della Gura (l’attuale Ferreri, edificato, nel 1887 e quindi non ancora presente all’epoca del primo tentativo), seguirono inizialmente l’itinerario dell’85 “ma da questo punto conveniva studiare un nuovo piano d’attacco”. Ricchiardi riuscì a trovare il passaggio, Corrà mette in evidenza la dura lotta sostenuta, su delle rocce di qualità non proprio eccelsa: “ogni metro che si sale è una parziale vittoria che si riporta contro il monte riluttante e fiero. I massi sono molto instabili e disgregati ed i passi difficili si succedono con crescente frequenza”. Dopo tre ore di intensa scalata i due raggiunsero la vetta. E’ facile immaginare che, per gli standard moderni, questa scalata non sia arrampicatoriamente appetibile, lo è sicuramente da un punto di vista storico.
Per rivedere una ascensione bisogna aspettare il 30 agosto 1895 quando M. Bouvier con la guida savoiarda Blanc le Graffier realizza la traversata della cresta di Mezzenile, poi più nulla fino al 1909.
Il 30 giugno di quell’anno Brofferio, Gamna, Negri e Sigismondi salirono al colletto posto a sinistra del S.Stefano e comunemente considerato come continuazione di questo. Il colle verrà chiamato Ricchiardi, in onore della grande guida di Pialpetta.
Successivamente, tra gli anni ’20 e il 1981, verranno realizzate tutte le altre ascensioni, poi l’attività si fermerà e queste pareti non conosceranno la nuova era delle aperture a spit, se non fino al nuovo millennio.
Negli anni ’30 furono molto attivi gli alpinisti Michele Rivero, Firmino Palozzi e Mario Gatto che realizzarono alcune prime, dal Campanile di Mezzenile alla P.ta Groscavallo.
Proprio la via del ’35 sulla Groscavallo, portata a termine dalla cordata Gatto-Palozzi, è una delle più belle ascensioni di media difficoltà della zona. A metà percorso il passaggio più difficile, costituito da una larga fessura alta 6 metri, così cita la relazione originale: “larga quel tanto che basta al corpo, incuneatosi dentro, d’innalzarsi con faticosi movimenti da rettile”. Durante la ripetizione di quest’itinerario Gian Carlo Grassi intuì, tra i giochi di ombre e luci, un possibile nuovo itinerario sulla Cresta Mezzenile; così dieci giorni dopo aprì, insieme a Gianni Comino, un nuovo interessante itinerario. Anche se la relazione di Grassi non riporta una data la salita è da porsi probabilmente intorno alla metà-fine degli anni ’70, e sicuramente prima del 1980, anno in cui morì Comino. Pertanto questa via, la Manera-Pessiva (09/09/79), sempre sulla Mezzenile, e la Grassi-Ala sulla Corrà (09/08/1981) sono da ritenersi le ultime “aperture” realizzate in zona per quanto riguarda l’epoca di maggior frequentazione. Bisognerà aspettare ben 33 anni per vedere una nuova linea, la già citata via alla Corrà, aperta dal trio Brunati-fr.lli Enrico. Su questa via, chiamata “via del tetto a sette”, vengono piazzati i primi spit-fix del gruppo, seppur solo alle soste di calata. Sulla successiva via del 2015, la “diretta di lou couars” sulla Mezzenile, comparirà invece anche il primo spit-fix di passaggio.
Da ricordare infine che alla fine degli anni ’50 grande protagonista fu Andrea Mellano, in particolare sua è la bella via sulla P.ta Corrà; sulla stessa parete, otto anni dopo, Ugo Manera tracciò una sua via, più a destra di quella di Mellano.
Il pilastro Castagneri venne invece salito nel 1968 e fu considerato da Gian Piero Motti “le dernier grand probleme della zona” . Nel bell’articolo “Anatomia di una prima” così descrive il pilastro: “il pilastro è lassù: bello, elegante e logico nelle sue forme, svelto e leggero nel suo stacco verso il cielo.” E conclude così: “Qualche giorno dopo […] me ne sto sulla piazzetta di Forno a guardare con il naso in su […] guardando lassù mi sento il più ricco degli uomini”.
Ulteriori notizie sul bel sito VALLIDILANZOINVERTICALE
Vie di salita e discesa
1) Colle Ricchiardi 3226 m:
Brofferio-Gamna-Negri-Sigismondi 28/06/1909
Prima discesa in sci: S.Debenedetti aprile 1980
2) Colle di S. Stefano 3228 m:
G.Corrà-L.Vaccarone-M.Ricchiardi 24/08/1885
Prima discesa in sci: S.Debenedetti aprile 1980
3) Torre di Bramafam 3293 m:
via Mellano-Brignolo 270m VI-
via Migliasso-Alpo 270 m III/IV
4) P.ta Corrà 3337 m:
via Mellano-Tron 13/09/1959 300 m TD+ difficoltà max originale A1/A2, in libera circa 6a+ / 6b
via Manera-Giglio 21/10/1967 300 m TD+
via Del tetto a sette-Brunati/fr.lli Enrico 17/08/2014 250m difficoltà 6b
5) Uja della Gura 3364 m:
via cresta est – G.Corrà-M.Ricchiardi 14/09/1889 350 m III
6) Colle della Gura 3340 m:
canale est – M.Debenedetti-S.Gambini-C.Virando 26/06/1927 400 m max 50° uscita ramo di sx (colle sud). Dall’uscita è possibile salire abbastanza facilmente all’Uja della Gura.
Nell’aprile 1980 Stefano Debenedetti compì la prima discesa in sci sia del ramo sud che di quello nord.
7) Punta di Mezzenile 3429 m:
gli unici itinerari partono dal colletto di Mezzenile, raggiungibile dal versante francese. Non vi sono itinerari sul versante est.
8) Uja di Mezzenile (o Campanile di Mezzenile) 3420 m:
via Cresta est – Rivero-Fava-Gatto 30/06/1935 500 m fino al monolite finale. Roccia marcia nella parte inferiore
Salita integrale (con il monolite finale, esclusi gli ultimi 15 m): L.Fornelli-Miglio 1956 IV – V
Via diretta di lou couars-Brunati/fr.lli Enrico 12/07/2015 350m TD+ diff. 6a+/6b
9) Cresta di Mezzenile (tra le P.te Mezzenile e Groscavallo)
– sviluppo in lunghezza circa 800 m:
traversata: M.Bouvier-Blanc le Graffier 30/08/1895 AD
traversata integrale N-S dal col Girard: Brunati/fr.lli Enrico/Margiotta 09/07/16 D+
via Mellano-Brignolo-Risso-Tron 31/08/1958 500 m TD
via Grassi-Sant’Unione 20/08/1969 500 m D+
via Pilastro est di p.ta Castagneti: Comba-Motti-Manera-Pivano
06/10/1968 500 m TD+
via Manera-Pessiva 09/09/1979 500 m TD (possibile salire la prima parte del
Castagneri, fin dopo i tetti, e all’altezza del canale camino proseguire per questa
via, ne risulta una difficile combinazione)
via Castelli-Palozzi-Rivero-Ronco fine anni ’30 500 m
via Grassi-Comino 400 m D+
10) Punta di Groscavallo 3423 m:
cresta sud-est Gatto-Palozzi 21/07/1935 D
11) Dent d’Ecot 3402 m:
cresta est-sud-est Andreis-Mila 06/08/1948
percorso integrale parte inferiore: G. Migliasso-L.Alpo fino al torrione prima della “Guglietta” – ancora G.Migliasso con la sig.na G.Ermini per il percorso integrale fino in vetta 24-25/08/1963 - 1100 m di dislivello
Proponiamo questo interessante studio sulla tenuta dei diversi tipi di fettuccia nelle diverse situazioni operative (punto di ancoraggio, punto di assicurazione).
Si ringraziano gli autori e il Centro Studi Materiali e Tecniche CAI e VFG che chiedono ai lettori la pazienza di leggere le più recenti note conclusive anche alla luce di altri studi fatti successivamente.
NOTE CONCLUSIVE - INTEGRAZIONE
Alla luce dell’evoluzione degli strumenti di misura e delle relative nuove informazioni ricavate dall’analisi dei test fatti per lo studio delle soste (svoltisi successivamente a questo scritto), riteniamo doverose alcune precisazioni.
Per quanto riguarda i test eseguiti a trazione lenta e a fattore di caduta 1, si conferma quanto espresso già all’epoca, ossia un’importante perdita di prestazione che consiglia quindi di utilizzare un moschettone tra i due anelli, qualora si dovesse avere la necessità di prolungare una protezione.
Le prove sono state eseguite a corda bloccata per renderle più possibili ripetitive e la scelta di non superare, come fattore di caduta, il valore di “uno”, nasce per avvicinarsi al caso peggiore di corda rinviata. In ambiente reale, in ogni caso, è presente un freno che dissipa energia e il compagno che con la sua capacità di frenare, abbassa i carichi nella catena di sicurezza; tuttavia per prudenza e in considerazione del caso che per i più svariati motivi il freno potrebbe non entrare in azione, è bene applicare sempre il ragionamento “a favore di sicurezza” e cioè che se mi metto nella condizione peggiore (quella da noi simulata: corda bloccata e fc = 1), significa che nel caso reale, dove il freno fa ciò per cui è utilizzato, le cose non possono che andare meglio, sollecitando meno i materiali che si trovano a resistere, anche se interconnessi tra loro in un modo che porta inevitabilmente a una perdita di resistenza.
Per quanto riguarda l‘utilizzo in sosta è d’obbligo una precisazione; nelle conclusioni precedenti, per ovviare al problema dello schiacciamento delle fettucce in Dyneema da 8 mm, nel caso di cedimento di un ancoraggio e sosta mobile, o per limitare al massimo il fenomeno di fusione nel caso di scorrimento dei nodi, quando si analizzava il caso di fettucce in Dyneema utilizzate nella costruzione di una sosta semimobile (sempre con cedimento di un ancoraggio), si affermava che era preferibile utilizzare fettucce in Nylon di buono spessore, anelli di Kevlar o spezzoni di mezza corda dinamica.
A oggi, alla luce delle prove eseguite dopo questo lavoro, in particolare nello studio delle soste e delle “longe”, si è visto come l’utilizzo di materiale dinamico nella costruzione di una sosta sia di gran lunga da preferire ai materiali analizzati in questo testo. Certo, se si arriva in sosta e si hanno a disposizione solamente delle fettucce in Dyneema o degli anelli in Kevlar, la sosta si farà col materiale che si ha, ma se si può scegliere, è meglio utilizzare del materiale dinamico che aiuta ad abbassare i carichi in sosta in caso di cedimento di un ancoraggio.
Siamo sicuri che in futuro, nuovi studi realizzati con moderni strumenti, quali ad esempio, l’utilizzo di un manichino, al posto della massa d’acciaio, e apparecchiature wireless con cui “strumentare” lo stesso, porteranno a nuovi sviluppi e considerazioni nello studio teorico e pratico dei materiali alpinistici e quello che oggi era una certezza, domani magari lo sarà un po’ meno e si capiranno meglio alcuni fenomeni. Questo è il bello dell’evoluzione nella ricerca che va a pari passi con lo sviluppo degli apparati di misurazione, che via via, diventano sempre più accessibili anche da un punto di vista economico.
Lo studio può essere scaricato qui in formato pdf. Ulteriori approfondimenti di carattere tecnico sul sito CSMT
Fettucce: normal, midi, micro…
Bressan Giuliano CSMT CAI – CAAI
Polato Massimo CSMT VFG – CAI Sez. Mirano
Come per un apparato elettronico di ultima generazione, anche le fettucce utilizzate in alpinismo hanno subito negli anni un processo di riduzione delle dimensioni.
Chi di noi non è mai stato tentato, almeno una volta, da quelle bellissime fettucce in Dyneema da 8 mm, così fini e leggere, simbolo della più recente tecnologia costruttiva in fatto di materiale alpinistico? E’ di questi dispositivi che vogliamo occuparci in questo articolo, cercando di analizzarne, in modo oggettivo, le prestazioni.
L’avvento di nuovi materiali, in particolare dal mondo della nautica (in cui si ricercano alti carichi di rottura e basso assorbimento di acqua), ha portato anche in campo alpinistico delle novità; a fianco al classico Nylon, hanno fatto la loro comparsa, nella costruzione di cordini e fettucce, nuovi materiali quali Kevlar, Dyneema, Spectra, Technora, Vectran e tutte le varianti miste tra questi, come, ad esempio, il Tech Web ossia un mix di Nylon e Dyneema. Dietro ad ognuno di questi nomi commerciali ci sta un composto chimico ben preciso, frutto di molta ricerca, conclusa con un brevetto depositato.
Tralasciando le specificità dei materiali presenti nel mercato (anche se la cosa potrebbe essere oggetto di un lavoro successivo), ci vogliamo concentrare su alcuni aspetti che riguardano le fettucce, elencando alcuni casi concreti di utilizzo in cui si potrebbero verificare delle criticità. In particolare vorremmo analizzare due tipi di impiego delle fettucce; uno legato al loro uso come protezione e l’altro riguardante il loro utilizzo nella costruzione di una sosta.
In particolare vorremmo rispondere a queste domande:
Per dare risposta a queste domande abbiamo eseguito una serie di test, impiegando una gran quantità di fettucce di vario spessore e materiale; in particolare abbiamo preso in considerazione questi tipi di fettucce precucite: Nylon, larghezza 15 mm, Dyneema larghezza 12 mm e Dyneema larghezza 8 mm.
Per cercare di rispondere alla prima domanda, abbiamo iniziato una serie di test sia statici che dinamici.
Ogni alpinista può portare con sé differenti fettucce di diversi materiali e, nel prolungare una protezione, può dare origine ad un mix di situazioni totalmente casuali; tra la grande varietà di casi possibili, ne abbiamo isolati quattro che riteniamo significativi ai fini della nostra analisi.
Nello specifico abbiamo individuato due tipi di giunzione degli anelli di fettuccia precucita; una generata da un nodo a strozzo e l’altra da un nodo piano. Il passo successivo, nella creazione del “mix” di situazioni è stato quello di unire assieme differenti tipologie di spessori e materiali.
Nella foto (immagine 1), due esempi delle combinazioni appena esposte: nodo a strozzo (a sinistra) e piano (a destra), utilizzando le fettucce in Dyneema da 8 e 12 mm.
Stessa cosa vale per il sistema Dyneema 8 mm – Nylon 15 mm.
I test a trazione lenta, eseguiti presso il laboratorio del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI, hanno evidenziato che a causa dell’ “effetto” nodo che viene a crearsi, la resistenza meccanica del sistema si riduce di molto rispetto a quella della singola fettuccia. Ricordiamo che per una fettuccia precucita, il valore di resistenza minima prescritto dalla norma EN-566, è di 22 kN.
TIPO PROVA | CARICO MEDIO [daN] |
CASO A (nodo a strozzo) Dyneema 8 mm / Dyneema 12 mm |
1346 |
CASO A (nodo a strozzo) Dyneema 8 mm / Nylon 15 mm |
1401 |
CASO B (nodo piano) Dyneema 8 mm / Dyneema 12 mm |
1355 |
CASO B (nodo piano) Dyneema 8 mm / Nylon 15 mm |
1161 |
Nella tabella qui sopra si riportano i carichi medi ottenuti nelle prove effettuate con le varie configurazioni precedentemente descritte.
Una volta analizzato il comportamento delle fettucce accoppiate assieme a trazione lenta, siamo passati ai test dinamici eseguiti all’apparecchio Dodero del laboratorio CSMT-CAI, opportunamente configurato per eseguire le prove (immagine 2).
Perché le prove sono state effettuate a fattore di caduta 1? Perché all’inizio ci eravamo chiesti quale fosse stato il comportamento delle fettucce, qualora fossero state utilizzate accoppiate (nei vari modi precedentemente descritti), per prolungare una protezione.
Ecco allora che in questo caso il fattore di caduta di riferimento più vicino a tale caso è quello pari a 1.
La massa di 80 kg, viene fatta cadere dalla posizione in cui si vede nella foto precedente (immagine 2) e quindi la caduta può essere pari al massimo alla lunghezza delle due fettucce.
Nella foto seguente (immagine 3), un particolare del nodo a strozzo utilizzato in uno dei vari accoppiamenti. Nel caso specifico: Dyneema 8 mm / Nylon 15 mm.
I risultati di questi test sono in perfetta sintonia con quanto si è visto in uno studio effettuato sulle “Longe” e con quanto compare in letteratura riguardo a delle prove sullo stesso argomento effettuate all’estero (vedi “Sling and anchor of outrageous fortune” di George McEwan).
Nel passare da materiali “dinamici” come il Nylon a materiali più “rigidi” come il Dyneema, il comportamento delle fettucce cambia.
La resistenza meccanica dell’intero sistema formato dall’accoppiamento delle due fettucce cala bruscamente e, di conseguenza, il sistema cede. I dati riportati nella tabella che segue rappresentano i carichi medi a cui le varie combinazioni hanno ceduto.
TEST DINAMICO (CADUTA A FC=1) | |
TIPO PROVA | CARICO MEDIO [daN] |
CASO A (nodo a strozzo) Dyneema 8 mm / Dyneema 12 mm |
432 |
CASO A (nodo a strozzo) Dyneema 8 mm / Nylon 15 mm |
864 |
CASO B (nodo piano) Dyneema 8 mm / Dyneema 12 mm |
442 |
CASO B (nodo piano) Dyneema 8 mm / Nylon 15 mm |
1067 |
Le immagini 4, 5 e 6, riportano alcune foto delle fettucce al termine delle prove.
Lo stesso tipo di test eseguito con delle fettucce in Nylon riutilizzate, produce dei risultati molto diversi; e questo conferma quanto sappiamo sul diverso comportamento tra Nylon e altri materiali più “rigidi”, quando a questi ultimi si affidi il compito di assorbire energia e non solo di trasmettere forze (vedi “Longe e Daisy Chain: impieghi” , G. Bressan, M. Polato, Annuario Accademico 2012-2013)
Nella tabella che segue troviamo i risultati di questi test. Nessuna fettuccia si è rotta ma attenzione ai valori di forza d’arresto registrati, che sono comunque superiori a 1200 daN e siamo “solo” a fattore di caduta 1 !!!
TEST DINAMICO (CADUTA A FC=1) | |
TIPO PROVA | CARICO MEDIO [daN] |
Nylon 15 mm / Nylon 15 mm nodo piatto Fettucce già utilizzate nelle prove precedenti |
1451 |
TEST CON IMPIEGO IN SOSTA
Per dare risposta alla seconda domanda che ci eravamo posti all’inizio, ci siamo spostati alla “torre” del CSMT del CAI a Padova e abbiamo eseguito dei test, utilizzando sempre le tre tipologie di fettucce usate nelle prove precedenti e impiegandole nella costruzione di tre tipi di soste: una “mobile”, una “semimobile” ed una “fissa-bilanciata”; tutte su due ancoraggi.
Per ognuna di queste, inoltre, abbiamo eseguito dei test ipotizzando due diverse situazioni operative:
3.1 Utilizzo delle fettucce in sosta SENZA cedimento di un ancoraggio.
Nella foto a lato (immagine 7), viene indicata la configurazione della prova con la fettuccia in Dyneema 8 mm.
Tale configurazione vale anche per le prove eseguite con gli altri tipi di fettuccia e di sosta.
La massa (di 80 kg), viene fatta cadere da un’altezza di 1,5 m sopra il vertice della sosta (quindi per una lunghezza di volo complessiva di ≈3 m), ed è collegata alla sosta in modo fisso (non vi è la presenza di alcun freno). In questo modo si simula la situazione più critica che possa succedere ad una cordata, ovvero, la caduta del primo direttamente sulla sosta.
Questo accorgimento si è reso necessario per poter avere un elevato grado di ripetibilità in tutte le prove. È sicuramente una condizione di prova severa, ma ribadiamo che nello studio dei materiali alpinistici è bene porsi sempre nella situazione peggiore (anche se ha bassa probabilità di verificarsi), perché se il sistema resiste in questa configurazione, a maggior ragione resisterà quando si troverà a lavorare in una modalità migliore. Nel caso alpinistico ricordiamo che il sistema si trova a lavorare in “condizioni migliori” quando tra la massa e il vertice della sosta è interposto un freno, che dissipa la quasi totalità dell’energia di caduta.
In questa prima situazione si è visto come non ci sia sostanzialmente alcun problema per quel che riguarda tutti i tipi di fettuccia impiegati nell’utilizzo su sosta mobile e semimobile.
Alcune criticità si sono verificate con la sosta fissa-bilanciata nel caso delle fettucce in dyneema da 8 mm, in cui la fettuccia si è tranciata o lesionata (immagine 8) nel nodo al vertice.
3.2 Utilizzo delle fettucce in sosta CON cedimento di un ancoraggio.
Se nel caso precedente non si sono evidenziati tutto sommato grossi problemi, nel caso in cui uno dei due ancoraggi di sosta dovesse cedere la questione si pone in termini ben più critici dal punto di vista del comportamento delle fettucce.
Il set-up di prova in questo caso è quello riportato nell’immagine 10 e il cedimento di uno degli ancoraggi è stato operativamente realizzato interponendo tra l’occhiello della cella di carico di sinistra ed il relativo moschettone un singolo trefolo di corda dinamica. Questo accorgimento ci permette di avere la perfetta ripetibilità dell’evento per tutte le prove.
Come nel caso precedente, questa configurazione è stata adottata per tutti i tipi di fettuccia presi in considerazione e per tutti e tre i tipi di sosta analizzati.
3.2.1 Sosta mobile con cedimento.
Nel caso di SOSTA MOBILE, emerge in maniera netta la criticità dell’uso della fettuccia nella sua costruzione. In caso di cedimento di uno dei due ancoraggi, infatti, succede che il moschettone che sta sul vertice della sosta, trascinato verso il basso dalla massa, va ad impattare contro il moschettone dell’ancoraggio che è saltato.
Questo impatto fra i due moschettoni può avvenire con due modalità diverse; in particolare può verificarsi che la fettuccia si trovi pizzicata tra i due moschettoni oppure no e queste due eventualità possono generarsi in maniera del tutto casuale (immagine 11 e 12).
Il risultato macroscopico di questi due tipi di comportamento è che se nel momento dell’impatto ci troviamo nella situazione peggiore delle due, ovvero nel caso in cui la fettuccia viene pizzicata tra i due moschettoni, il sistema:
In questo secondo caso, comunque, pur resistendo, le fettucce si lesionano in modo importante (vedi immagini 13, 14, 15 e 16)
3.2.2 Sosta semimobile con cedimento.
Il secondo caso che prendiamo in esame è quello della SOSTA SEMIMOBILE.
A differenza del caso precedente, ora il moschettone del vertice della sosta non va ad impattare direttamente sul moschettone dell’ancoraggio che salta, perché vi trova interposto il nodo che si fa per rendere la sosta più o meno mobile (immagine 17).
In tutte le nostre prove, questo nodo è stato fatto a circa 10 cm da moschettone dell’ancoraggio.
Abbiamo detto che il moschettone del vertice non va a cozzare contro quello dell’ancoraggio che salta, ma anche in questa situazione succede qualcosa che tanto bene alle fettucce non fa…
Per spiegare il meccanismo che si innesca, immaginiamo di guardare al rallentatore la scena; una volta che la massa si trova nel punto più basso, comincia a sollecitare la sosta; il ramo vincolato dalla parte del fusibile entra in tensione e quest’ultimo, avendo una bassissima resistenza salta.
A quel punto il moschettone del vertice scorre ad arrivare in battuta del nodo costruito vicino all’ancoraggio.
Dovrebbe essere tutto finito ma invece inizia un altro fenomeno. Il moschettone del vertice che è arrivato in battuta del nodo, continua a trazionarlo e questo inizia a scorrere, generando calore e dissipando una parte di energia. Questo scorrimento continuerà fino a quando il sistema non raggiungerà un nuovo stato di equilibrio se i nodi che rendono la sosta più o meno mobile sono fatti vicino al vertice.
Se, invece, i nodi sono fatti vicino ai moschettoni degli ancoraggi (come nel nostro caso), essendoci poca possibilità di scorrimento, il nodo scivolerà fino ad arrivare in battuta del moschettone (vedi immagine 18)
Rimane da fare un’ultima considerazione in relazione a quanto appena spiegato, sulla natura del materiale della fettuccia. La fibra polietilenica essendo molto scivolosa tende ad accentuare molto il fenomeno di scorrimento sopra esposto; inoltre avendo anche un basso punto di fusione (≈ 150°C), la cosa risulta ancor più preoccupante.
Non a caso in tutte le prove con questo tipo di sosta, le fettucce in Dyneema, siano esse da 8 o 12 mm, hanno ceduto. Il calore generato nello scorrimento ha indebolito la fettuccia al punto di fonderla.
Anche il Nylon non è uscito molto bene da queste prove (si vede bene nell’immagine 18), e non sempre ha resistito.
3.2.3 Sosta fissa-bilanciata con cedimento.
L’ultimo caso considerato nell’utilizzo delle fettucce in sosta è quello della sosta FISSA-BILANCIATA la cui configurazione è quella rappresentata nell’immagine 19.
Si tratta di fatto di una sosta fissa e quindi gode di due grandi vantaggi:
In tutte le prove eseguite con gli anelli di fettuccia in Dyneema, sia nella versione da 8 mm che in quella da 12 mm, il risultato è stato sempre il cedimento dell’intera sosta.
Quando salta uno dei due ancoraggi, il moschettone al vertice inizia a trazionare il ramo dell’ancoraggio rimasto e a schiacciare il nodo al vertice. Con materiali molto scivolosi, come il Dyneema, il nodo inizia a scorrere generando calore e raggiungendo, così, molto velocemente la temperatura di fusione e, di conseguenza, arrivando a rottura.
Guardando attentamente nel punto di rottura si possono riconoscere due interfacce: una di fusione e una di strappo.
Questo si verifica perché il processo di rottura avviene in due fasi:
una prima fase in cui si innesca un processo di fusione sulle fibre esterne che, sfregando le une sule altre durante lo scorrimento del nodo, portano a generare una quantità di calore sufficiente a raggiungere il punto di fusione;
vi è poi, una seconda fase, in cui le fibre più interne non interessate dal processo di fusione (ma che comunque si sono riscaldate e che quindi perdono parte della loro resistenza meccanica), danno luogo ad una sezione resistente che è insufficiente per resistere alle forze esterne applicate e perciò cedono di schianto.
Ricordiamo che il Dyneema ha una temperatura di fusione molto bassa: circa 150°C; ecco perché, in genere, se ne sconsiglia (caldamente!) l’utilizzo in tutte quelle manovre dove vi sia un possibile scorrimento e quindi attrito e di conseguenza generazione di calore.
Nelle prove in cui si è utilizzata la fettuccia di Nylon le cose sono andate decisamente meglio, e nonostante vi siano segni di fusione della parte esterna della fettuccia ed una forte strizione al nodo, il sistema ha sempre tenuto.
La temperatura di fusione del Nylon è di circa 220°C, quindi, se si notano segni di fusione anche in questo caso, significa che la temperatura generata durante lo scorrimento è arrivata a questo valore. Capiamo bene, dunque, come il Dyneema si trovi in difficoltà visto che la sua temperatura di fusione è più bassa !!!
Nelle immagini qui sotto (immagine 21, 22, e 23), si può verificare a livello macroscopico lo stato finale delle varie fettucce alla fine dei test.
Alla fine di tutte queste numerose prove cerchiamo di sintetizzare i risultati arrivando ad alcune conclusioni, distinguendo in base ai vari tipi di utilizzo che decidiamo di fare delle fettucce.
Per quel che riguarda l’accoppiare assieme due fettucce per prolungare una protezione, perlomeno nelle modalità qui testate, non sembra essere una gran bella soluzione.
L’uso di materiali diversi, di larghezze diverse e il nodo di accoppiamento generano un mix di fattori che portano a ridurre di molto il carico di rottura rispetto all’impiego di una singola fettuccia, anche se si tratta di materiali ad elevate prestazioni; fa eccezione il caso “Nylon/Nylon” che garantisce ancora una certa riserva di resistenza, ma anche in questo caso la resistenza meccanica risulta essere inferiore a quella dei 22 kN prescritti dalla norma EN-566.
Ci sentiamo di affermare quindi che se abbiamo la necessità (per i più svariati motivi), di prolungare una protezione, la cosa migliore sia quella di impiegare un unico anello precucito di lunghezza maggiore e non unirne due assieme, oppure di interporre tra i due anelli un moschettone. Possiamo altresì affermare che, per questo tipo d’impiego, l’uso degli anelli precuciti in Dyneema di basso spessore (8 mm), non trova nessuna controindicazione!
Per quanto concerne l’uso degli anelli precuciti in Dyneema nella costruzione di una sosta, ci sentiamo di sconsigliarne l’impiego.
Non perché l’anello precucito di basso spessore porti in sé una più limitata resistenza meccanica (abbiamo visto che non è così), ma perché in questo specifico impiego e nell’ipotesi di cedimento di un ancoraggio, si crea una particolare condizione per cui questo tipo di dispositivi (che in altre situazioni, lo ripetiamo, si dimostrano estremamente resistenti), non sono assolutamente indicati.
Nella costruzione di soste si consiglia l’uso di fettucce di buon spessore in Nylon, o meglio, l’impiego di cordini in kevlar o spezzoni di mezza corda dinamica.
Un particolare ringraziamento, infine, va all’amico e tecnico del laboratorio del CSMT Sandro Bavaresco la cui presenza e competenza si rivela sempre fondamentale nello svolgimento di tutte le attività effettuate presso la “torre” ed il laboratorio.
Bibliografia
[1] CNSASA, “Tecnica di Roccia”, CAI, 2008
[2] CIMT VFG, Sicurezza in pillole “Autoassicurazione in sosta con fettuccia pre-cucita”, Le Alpi Venete, 1-2010
[3] Zoppello C. “La longe in speleologia”, Le Alpi Venete, 1-2011
[4] Antonini G., Piazza O., “Test sui materiali: Le longes”, Il Soccorso Alpino, aprile 2012
[5] Bressan G., Polato M., “Longe e Daisy Chain: impieghi”, Annuario Accademico 2012-2013