Il primo aprile 1991 perdeva la vita Gian Carlo Grassi in un banale incidente al Monte Bove nei Monti Sibillini. Sono perciò trascorsi ormai trenta anni dalla sua scomparsa. Grassi è stato uno dei grandi scalatori della seconda metà del secolo scorso. E’ stato accademico del CAI e poi guida alpina. Ho scritto varie volte di lui ed ancora una volta voglio riproporre il suo personaggio per il Club Alpino Accademico. Sono passati trenta anni ma il suo ricordo è sempre vivo nel mondo degli scalatori. Dovrebbe essere prossima la pubblicazione di un libro a lui dedicato. Spero vivamente di riuscire a leggerlo ancora nel trentesimo anno dalla sua morte.
Ugo Manera
Tra gli alpinisti le morti accidentali non sono rare e la tradizione vuole che il ricordo di chi è caduto sul campo venga tramandato dalla penna di amici e compagni di cordata. Ricordare un personaggio scomparso non è semplice, vari sentimenti si incrociano e spesso si scivola, magari involontariamente, nella celebrazione elencando enfaticamente meriti e qualità di chi non c’è più. Trovo poi irreale e pesantemente retorico il modo, abbastanza in uso, di rivolgersi in prima persona, con un discorso diretto, all’amico scomparso.
Considero doveroso ed utile ricordare e diffondere la conoscenza delle persone che hanno fatto la storia delle attività che ci interessano ma credo lo si debba fare ricostruendo e raccontando i fatti nel modo più veritiero possibile evidenziando in modo non celebrativo qualità e successi e senza tacere gli insuccessi. Accingendomi a scrivere di Gian Carlo Grassi cercherò di non scivolare nella trappola della retorica e di ricercare il personaggio nella sua dimensione reale, con i suoi entusiasmi e le sue contradizioni.
Sono stato in stretto contatto con la vita alpinistica di Grassi soprattutto nella sua prima parte, prima che divenisse guida alpina affermata a livello internazionale. Poi le nostre strade si scostarono, avevamo interessi ed obiettivi diversi anche se spesso ci siamo ancora trovati, in amichevole competizione, alla ricerca di pareti non ancora scalate.
Gian Carlo è stato un grande personaggio dell’alpinismo della seconda metà del ‘900 e non solo a livello regionale o nazionale ma in senso assoluto, molto più grande ed importante di come emerge dai documenti storici dell’alpinismo di quegli anni. Il nome di Grassi ci fa venire in mente l’inventore dei più fantasiosi itinerari su cascate di ghiaccio e coloirs fantasmi nei luoghi più remoti, il salitore delle paurose seraccate di ghiaccio, l’instancabile ricercatore di nuovi problemi ovunque esisteva un pezzo di roccia inesplorato, scopritore tra i primi della pari dignità tra tutte le avventure di scalata, dai massi della valle di Susa, alle rocce della Valle dell’Orco fino sulle più lontane pareti del Monte Bianco.
Io, più che il personaggio noto, voglio raccontare, attraverso i miei ricordi, il Grassi più lontano, quello degli inizi ed il suo passaggio dal timido Calimero al Maestro, apprezzato e seguito dai giovani suoi discepoli del dopo 1972.
Prima di immergermi nei ricordi voglio evidenziare un aspetto del personaggio Grassi: ho conosciuto innumerevoli scalatori, celebri e meno celebri, di varie generazioni, ma non ricordo di aver rilevato in nessuno una passione così grande ed incondizionata per l’alpinismo e la montagna come in Gian Carlo. Un amore totale e sereno, sempre positivo, in lui non traspare mai una visione drammatica anche nelle situazioni più estreme, egli vive l’avventura alpina alla Rebuffat, sempre positiva, lontana dagli aspetti a volte tragici che traspaiono dai racconti di Bonatti ed a volte anche di Messner.
Era l’autunno del 1963 e mi trovavo al rifugio Bozzano per salire il Corno Stella, arrivò un amico: Ezio Comba, in compagnia di un ragazzo molto giovane, sembrava un bambino .Quel ragazzo attirò la mia attenzione, mi colpì la sua aria stupita e quasi spaventata ma nello stesso tempo illuminata da un immenso entusiasmo per il severo ambiente alpino circostante, Ezio ce lo presentò come: Gian Carlo, parlò pochissimo e nelle sue azioni traspariva una grande timidezza, mi è rimasto impresso un particolare: non aveva con sé null’altro da mangiare che una scatola di latta di minestrone pronto. Lo rividi poco tempo dopo, sempre con la sua aria tra il timido e lo spaventato, nel negozio dei fratelli Ravelli in corso Ferrucci a Torino, allora luogo di ritrovo abituale per gli scalatori torinesi. Così conobbi Gian Carlo Grassi.
Quale era l’ambiente alpinistico Torinese di quegli anni?
Stava esaurendosi la spinta del gruppo che aveva caratterizzato il dopo Gervasutti. A differenza dei protagonisti dell’alpinismo di punta dell’ante guerra, espressi in massima parte dalla borghesia illuminata e colta, i giovani del dopo guerra provenivano prevalentemente dal mondo proletario dell’officina ed erano disinibiti e determinati. Tra di essi emersero: Piero Fornelli, Corradino Rabbi, Guido Rossa, Andrea Mellano, Franco Ribetti. Un giovanissimo nuovo protagonista stava emergendo con una bella serie di imprese: Gianni Ribaldone, ma cadde con due allievi della scuola di alpinismo Giusto Gervasutti sul Mont Blanc du Tacul nel 1966
Attraverso la scuola “Gervasutti.” arrivarono i protagonisti degli anni a seguire: nel 1965 venni invitato come istruttore nella scuola, contemporaneamente entrò nell’organico istruttori Gian Piero Motti, proveniente dai corsi di alpinismo, superati in modo brillante. Motti era molto determinato e subito affrontò, in modo che ad alcuni parve spavaldo, scalate di grande difficoltà. Egli proveniva da una famiglia benestante, aveva tempo per allenarsi, il suo materiale di scalata era sempre della migliore qualità e tra i giovanissimi fu il primo ad avere un’auto propria. Allora era ancora in uso il coniare dei soprannomi che derivavano dal modo di presentarsi o da impressioni caratteriali, così Gian Piero, per qualcheduno del nostro ambiente, divenne: “il Principe”.
Grassi entrò nella scuola come allievo e nel 1968 ne divenne istruttore. Non vi rimase per molto, il clima di ordine e disciplina voluto da Giuseppe Dionisi si scontrava con il suo desiderio di sfuggire proprio a quei vincoli. Allora era molto timido e non si imponeva all’attenzione, era chiara ed evidente in lui una enorme passione per l’alpinismo, avrebbe voluto dedicare tutto il suo tempo alla scalata invece era costretto ad un lavoro che odiava e di questo si lamentava spesso, non partecipava molto alle animate discussioni sull’etica e sugli orizzonti dell’alpinismo allora in voga tra di noi, animate spesso dai temi suggeriti da Motti. Questo suo atteggiamento da pulcino un po’ sfigato gli valse da parte di qualcheduno (non ricordo più chi) l’appellativo di Calimero: personaggio perseguitato dalla sfortuna, reso celebre della pubblicità di un detersivo.
Motti aveva necessità di compagni che lo seguissero nella rincorsa delle tante idee che aveva in testa, così presto coinvolse e trascinò Gian Carlo nella realizzazione dei suoi progetti; si formò la cordata Principe – Calimero e per un po’ la collaborazione prese l’aspetto che si evince dai soprannomi: Gian Piero era esuberante nell’arrampicata, amava guidare la danza e poco spazio lasciava al compagno per esprimersi da capo cordata.
Malgrado qualche episodio sfortunato, come la frattura di una gamba nel tentativo di applicare il metodo De Francesch nella chiodatura a “pressione”, l’attività di Gian Carlo decollò e divenne cospicua, nell’inverno ’68-‘69 effettuammo insieme un paio di prime invernali con qualche incidente che non aiutava a scollargli di dosso l’appellativo di Calimero: una notte partimmo da Crissolo, egli aveva degli sci di fortuna e non era assolutamente capace a sciare, dopo meno di un’ora i suoi attacchi si sfasciarono ed io dovetti ricorrere a tutta la mia abilità di meccanico per una riparazione di fortuna che gli consentì di arrivare al rifugio sotto la Punta Udine, ma alle 2 di notte.
Debbo dire che il nomignolo “Calimero” non infastidiva più di tanto Gian Carlo, lo portava scritto a grandi lettere sul casco bianco
Nell’estate successiva salimmo insieme il Pilier Gervasutti al Tacul, al ritorno era stremato ma due giorni dopo, attingendo energie non so da dove, partiva per lo sperone Walker alle Grandes Jorasses.
Proprio la sera dopo il Pilier Gervasutti ci trovammo in buona compagnia in una tenda al campeggio Grandes Jorasses; oltre a noi due vi erano: Guido Machetto, Gianni Calcagno, Paolo Armando. Guido, che doveva avere poi un ruolo importante nel futuro di Gian Carlo, voleva convincere il nostro a seguirlo in una spedizione al K6 in Karacoram organizzata da una sezione CAI dell’Italia Centrale, per vincere le sue titubanze gli diceva: << Tu vieni con me a conoscere gli organizzatori, non devi però presentarti come Calimero, nascondendoti sotto il tavolo per la timidezza, devi dire con il petto in fuori, e in modo aggressivo, io sono Gian Carlo Grassi, campione dell’alpinismo torinese ed ho scalato questo, questo e quest’altro.>>. Il progetto, almeno per Gian Carlo, non ebbe poi seguito.
All’inizio del 1972 gli fu diagnosticata una malattia polmonare, venne ricoverato in sanatorio e vi rimase per oltre due mesi, andavamo spesso a trovarlo, preoccupati molto per lui. Non si perse però d’animo e continuò a fare progetti di scalate, quando uscì aveva maturato il diritto ad un sussidio di 60000 lire al mese per 6 mesi, fu la svolta della sua vita, smise di lavorare e si dedicò alla montagna a tempo pieno. Guido Machetto, guida e maestro di sci, gli procurò un lavoro stagionale agli impianti da sci a Limone Piemonte, si iscrisse al corso guide ed avuto il brevetto cominciò a cercare clienti da portare in montagna. Per facilitarsi il compito si stabilì a Courmayeur nella stagione estiva. Abitava in un buco che aveva trovato a poco prezzo. Una notte qualcuno male intenzionato, in sua assenza, gli rubò tutto il materiale alpinistico; non aveva soldi per rifarsi l’attrezzatura e noi amici raccogliemmo tutto quello che gli serviva per non perdere la sua ancora incerta stagione di lavoro.
E' di quegli anni una sua avventura “sentimentale” che ci sorprese tutti. Una sera di agosto mirovavo con Gian Carlo ed altri nella sala soggiorno del campeggio UGET in Val Veni. I discorsi erano sempre gli stessi: progetti, salite, successi, rinunce. Ad ascoltare i nostri discorsi c’era anche una giovane donna alloggiata nel campeggio: sola con la sua bambina di quattro anni. Ascoltava attenta i nostri discorsi ed ogni tanto interveniva. Non ricordo più il suo nome ma mi ricordo bene la sua bellezza, tale da catturare spesso i nostri sguardi. Veniva da Genova e ci disse che viveva separata dal padre della bambina. Dimostrava interesse per il nostro mondo della montagna ed era molto simpatica, insomma uno di quei personaggi femminili che fanno sognare gli uomini. La sera stessa lasciammo il campeggio ad eccezione di Gian Carlo, non condizionato da impegni di lavoro cittadino.
Qualche tempo dopo mi telefona Gian Piero Motti e mi dice: <<Sai che la ragazza genovese che avete conosciuto in Val Veni è andata a vivere con Gian Carlo a Condove?>>. Rimasi molto sorpreso e non solo io. Eravamo ancora troppo abituati a identificare il nostro amico con lo sfigato Calimero e nessuno si aspettava una così romantica evoluzione. Al di là della sorpresa mi felicitai in cuor mio per la fortuna del nostro amico.
La bella storia però non durò molto: come era arrivata, dopo un po’ di tempo, la ragazza se ne andò. La solitudine di Gian Carlo, come sto per raccontare, non durò però molto.
Tra i primi clienti da guida alpina di Gian Carlo vi fu un bel gruppo di francesi desiderosi di conoscere il Gruppo del Gran Paradiso; Grassi li portò a scoprire la Valle dell’Orco, le pareti Caporal e Sergent nei Dirupi di Balma Fiorant ed altre montagne del Canavese. Con questi francesi si istaurò uno stretto rapporto di amicizia. Erano dei viticoltori e siccome Gian Carlo aveva necessità di integrare gli ancora magri introiti da guida, in autunno li raggiungeva in Francia a lavorare per loro nella vendemmia. In una di queste visite conobbe una ragazza che divenne la compagna della sua vita.
La vita del nostro amico lentamente ebbe una svolta: allo scalatore un po’ naif si stava sostituendo un professionista serio e preparato. La trasformazione però non intaccava minimamente la sconfinata amatoriale passione di Gian Carlo per ogni forma di scalata.
Quando Gian Carlo uscì dal Sanatorio qualche cosa era cambiato, anche nei rapporti con gli amici di antica data, era probabilmente maturata in lui la necessità di una maggiore indipendenza decisionale e di sentirsi di più protagonista in prima persona. Pur mantenendo i legami che aveva con me, Gian Piero ed altri del vecchio gruppo, si creò una nuova cerchia di amici, in prevalenza giovani emergenti, che presto individuarono in lui il loro punto di riferimento. Tra questi ragazzi, portati ad andare contro corrente e con qualche tendenza trasgressiva, Grassi divenne “il Maestro”. Tramontava così definitivamente l’era Calimero.
Il più rappresentativo dei “discepoli” del “Maestro” fu Danilo Galante, anche lui allievo della Gervasutti, scalatore forte e determinato, uno dei trascinatori del nuovo gruppo entro al quale divenne: “il Mago”. Gian Carlo era portato a legarsi di amicizia profonda con i compagni di scalata con i quali entrava in sintonia, l’amicizia con Danilo fu molto forte ma venne stroncata presto, nel 1975 quando, in cima alla Chartreuse, dopo una scalata, sorpresi dalla notte e da una bufera di neve, Galante morì di sfinimento malgrado l’assistenza prodigatagli da Gian Carlo.
Eravamo tutti amici e scalavamo insieme ma tra il nuovo gruppo di Gian Carlo e noi più antichi sorse una forma di benevola competizione così quando Gian Piero ed io scoprimmo una parete che rappresentava un nuovo orizzonte e che io battezzai Caporal, Gian Carlo, subito ne trovò un’altra poco discosta e, quasi a rivendicare un titolo di supremazia, la chiamo: Sergent.
L’affermazione di Grassi come professionista dell’alpinismo proseguì tra molte difficoltà ma sorretta sempre da grande volontà ed infinita passione, il suo nome era ormai noto e la sua immagine venne usata come veicolo pubblicitario di prodotti per alpinismo e qualche volta la sua buona fede venne tradita da operatori senza scrupoli che non gli pagarono quanto dovuto.
L’attività professionistica, necessaria per vivere, non limitò mai la sua spinta amatoriale verso la scoperta e l’invenzione del nuovo. Note a tutti sono le sue campagne di ricerca, prima dei massi erratici della bassa valle di Susa, poi, capitolo infinito, delle cascate di ghiaccio nei luoghi più remoti, infine, spesso in competizione con me, la caccia alle pareti dimenticate nelle valli torinesi, nel Gran Paradiso e nel Bianco.
Negli anni ’70 a Torino esisteva ancora il Gruppo Alta Montagna dell’UGET (GAM). Più o meno tutti ne facevamo parte, forniva tra l’altro una occasione di incontro e di conoscenza tra scalatori attivi. Una volta (forse nel 1976) Grassi venne ad una riunione in compagnia di un suo amico che presentò per l’ammissione al Gruppo: era Gianni Comino. Gianni, guida alpina come Gian Carlo, era un tipo silenzioso, ascoltava attentamente i dibattiti ma interveniva raramente. Osservandolo potevi scorgere nel suo sguardo una fredda e lucida determinazione.
L’incontro tra Comino e Grassi portò la scalata su ghiaccio a livelli che non erano mai stati raggiunti prima. Oltre ad aprire vie su ghiaccio di estrema difficoltà portarono la scalata anche sulle seraccate glaciali estremamente pericolose. Solo la determinazione di Comino unita all’atmosfera irreale e visionaria che Grassi riusciva a vivere, poteva dare origine all’ardire necessario per affrontare imprese di quel genere.
Mentre la cordata Comino-Grassi si affermava ai vertici della scalata su ghiaccio a Torino emergeva un giovane eccezionalmente dotato nell’arrampicata su roccia: Marco Bernardi. Nell’ambito del Gruppo Alta Montagna si legò a Gianni e Gian Carlo quasi in veste di allievo per raggiungere i massimi livelli nella scalata su ghiaccio.
Quando Comino cadde alla seraccata della Poire sulla parete della Brenva, il legame tra Bernardi e Grassi sembrò rafforzarsi ancora, aprirono nuove vie ove comparvero, grazie a Marco Bernardi, i primi passaggi di settimo grado. Insieme effettuarono anche una campagna nella Yosemite Valley. In quell’occasione però capitò qualcosa che mise fine alla loro amicizia e collaborazione alpinistica.
Ripensando oggi a Gian Carlo mi torna alla mente un periodo della nostra storia alpinistica quando si sviluppò il dibattito su una visione intellettual - filosofica dell’alpinismo: venne di moda leggere “Il Monte Analogo” di René Daumal, la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra. Si affermarono gli scritti di Bernard Amy come il celebre: “Il più Grande Scalatore del Mondo Tronc Feuillu”. In Francia comparve la rivista “Passage” con titoli del tipo:” Dal Settimo Grado al Settimo Cielo”. Si ragionava e disquisiva su una visione esoterica dell’alpinismo, proiettato a volte in una dimensione trascendente.
Io ero totalmente fuori da questi problemi, un amico aveva scritto che il mio motto era:<< ‘n tuca fe ‘d salite>>, Gian Piero mi prendeva in giro chiamandomi Manera “Pan e Pera”, ed io, in modo pragmatico, restavo fedele a questi stereotipi, definivo “seghe mentali” quelle elucubrazioni filosofiche.
Gian Carlo invece, tra tutti, fu l’unico che effettivamente scalando entrò in una dimensione trascendente, viveva l’ascensione come un sogno visionario nel suo “Giardino di Cristallo”. Un giorno mi confidò che non usava più il casco per scalare perché si sentiva talmente integrato nell’ambiente di ghiaccio e roccia che nulla poteva succedergli.
Qualche traccia dell’antico Calimero rimase in lui anche nella maturità: temeva ciò che gli appariva come atteggiamento critico nei suoi confronti, il dubbio lo rendeva permaloso e causò la rottura di importanti amicizie. Così se nella sua attività agì come ricercatore instancabile ed innovatore, rimase conservatore il suo atteggiamento nei confronti di alcuni nuovi fenomeni come le gare di arrampicata ed il nascere di vie attrezzate con ancoraggi fissi, salvo poi adeguarsi e fare propria quest’ultima realtà.
Ugo Manera
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