CONSIDERAZIONI SULL'UTILIZZO DELL'OSSIGENO NELLA PRATICA ALPINISTICA
Contrariamente a quanto da molti sostenuto, ritengo che l’utilizzo dell’ossigeno nella pratica dell’alpinismo non possa definirsi “doping” per due ordini di motivi.
Primo, perché doping nel linguaggio comune fa riferimento ad una attività sportiva agonistica o comunque strettamente prestazionale che è (o dovrebbe essere) del tutto estranea al mondo dell’alpinismo. E se non lo fosse, a mio avviso saremmo in presenza di un’attività sportiva che comunque con l’alpinismo ha ben poco a che vedere.
Secondo, perché il doping agisce rafforzando e amplificando artificialmente le facoltà mentali e/o fisiche dell’atleta, in modo tale da consentirgli di esprimere risultati altrimenti impossibili, mentre l’utilizzo dell’ossigeno, al di là di perseguire lo stesso risultato finale, non opera un innalzamento artificioso delle facoltà dell’individuo ma opera uno scardinamento di alcune delle fondamentali regole naturali che governano il pianeta, abbassando artificiosamente la quota delle montagne.
Considerando che il fattore quota è sempre uno degli elementi che contribuiscono a definire i parametri di difficoltà ed impegno di una salita, e quindi dell’intima soddisfazione ed appagamento che ne derivano, è evidente che riducendo questa componente viene ad essere stravolto il senso complessivo ed unico dell’esperienza che si va a vivere.
Non si può parlare quindi di doping. Ma di truffa, sì.
Truffa nei confronti della storia dell’alpinismo, che si cerca di forzare nelle sue tappe evolutive naturali, e truffa anche nei confronti di sé stessi, originando un insanabile dissidio tra l’essere e il voler essere.
E ci limitiamo a quanto sopra, dando per scontato che tutti onestamente dichiarino le caratteristiche ed il perimetro sull’impresa effettuata, perché diversamente entreremmo nel campo del dolo.
E’ pur vero, si potrà obiettare, che l’utilizzo dell’ossigeno affonda le sue radici già nei primordi dell’esperienza alpinistica alle quote superiori. Nelle prime spedizioni strutturate e significative all’Everest, quasi un secolo fa, la pratica era accettata, ma, si badi bene, come una presunta necessità, ritenendosi, per mancanza di sperimentazione, che alle quote massime la sopravvivenza dell’uomo non fosse altrimenti possibile.
Già allora, tuttavia, nonostante questa convinzione, i protagonisti più sensibili intuivano che l’uomo poteva e doveva fare di più per rapportarsi anche all’alpinismo di quota “by fair means”, così come si era fatto, tranne qualche eccezione, nella conquista delle vette alpine.
Noel Odell, riferendosi al tentativo Mallory, che seguì dall’ultimo campo, a proposito dell’uso dell’ossigeno scriveva:” Credo che la sua importanza sia stata esagerata e un alpinista, purché sappia acclimatarsi (…) può benissimo farne a meno (...) anzi l’uso abbondante dell’ossigeno è fonte di pericolo, perché impedisce l’acclimatamento (…) ho la ferma convinzione che sia possibile scalare l’Everest e arrivare in vetta senza l’ausilio dell’ossigeno”. E siamo nel 1924.
Riconosciuta la storicità dell’utilizzo dell’ossigeno, potrebbe apparire contradditorio auspicarne finalmente l’abbandono totale e senza compromessi.
Ma così non è.
La storia dell’alpinismo, nelle sue varie epoche e nelle sue varie espressioni, ci insegna che gli elementi che più allontanano la pratica alpinistica da un rapporto diretto e naturale dell’uomo con la montagna sono destinati ad essere riassorbiti, anche se purtroppo l’andamento ciclico di queste situazioni crea inevitabili tensioni e contraddizioni.
La crescente sensibilizzazione sul fenomeno genera perlomeno interrogativi di massa e di conseguenza un minor apprezzamento generalizzato per il fenomeno, il che porterà con ogni probabilità ad un calo progressivo della domanda e quindi dell’offerta, soprattutto da parte degli organizzatori delle spedizioni commerciali.
Ad oggi comunque, al di là delle considerazioni già accennate in merito al rispetto per la naturale evoluzione della storia e per il significato etico del rapporto del singolo con la montagna, occorre anche prendere atto dell’aspetto legato all’inquinamento che la pratica produce, sia quanto a garbage sia quanto semplicemente a sovraccarico ambientale.
L’alpinismo “di massa”, al pari dell’arrampicata “di massa”, produce impatti significativi, spesso inopportuni e irreversibili, sull’ambiente naturale ed è evidente che in questo senso l’utilizzo dell’ossigeno incrementa una frequentazione abnorme, rispetto alle caratteristiche ambientali specifiche, e di conseguenza non di rado poco consapevole.
Ne derivano insistenza di sovraccarico in aree limitate e ben definite, con conseguente inquinamento ambientale in senso stretto.
Ma preoccupa anche il correlato inquinamento culturale, in grado di danneggiare l’immagine dell’alpinismo come vorremmo che fosse.
E questo vale non solo per l’ossigeno ma anche per i portatori. E i due discorsi si intrecciano.
Per me sono problemi innanzitutto di carattere etico e storico, per altri magari di valore prestazionale.
Detto questo, a condizione che venga rispettato l’ambiente e gli altri, ognuno è libero di concepire e praticare un alpinismo diverso.
Ma con onestà e consapevolezza del valore del proprio agire.
ALBERTO RAMPINI
Si riportano di seguito, per gentile concessione dal sito MW, i pareri di Carlo Alberto Pinelli, socio CAAI e Presidente di Mountain Wilderness Italia, di Renato Moro, già Presidente della Commissione per le spedizioni extaeuropee dell'UIAA, e delle guide alpine ed esperti himalaysti Maurizio Giordani e Paulo Grober.
Si tratta di un argomento di carattere apparentemente solo alpinistico, sia a motivo delle ricadute ambientali che i comportamenti di cui si discute hanno avuto e continuano ad avere sull’integrità degli ambienti himalayani, sia perché sin dall’inizio la nostra associazione ha compreso e interiorizzato i legami che uniscono in una complessa rete di rapporti espliciti o sotterranei la tutela “ecologica” e paesaggistica dell’ambiente montano alla qualità delle esperienze esistenziali che in quei luoghi “alti e incontaminati” possono essere sperimentate. Proprio da tali relazioni deriva il peculiare carattere “umanistico” che contraddistingue Mountain Wilderness. Gli interrogativi sulla liceità dell’uso delle bombole d’ossigeno in alta quota si sono riaffacciati alla ribalta e pretendono ormai spiegazioni non reticenti, sull’onda di quanto sta accadendo lungo la via normale alla vetta dell’Everest, degradata a penoso trampolino per l’affermazione di ambizioni personali che ben poco hanno in comune con i valori e le competenze del vero alpinismo. Personalmente sono convinto da sempre che l’utilizzazione dell’ossigeno equivalga a una droga dopante, anche se solo in senso lato. Con buona pace di Hillary e Tenzing (di fronte ai quali comunque mi levo il cappello) reputo che i primi autentici salitori dell’Everest siano stati coloro che ne hanno saputo raggiungere la vetta lottando lealmente contro l’ipossia. Il dibattito che Mountain Wilderness intende rilanciare non dovrebbe tuttavia restringersi entro confini accademici, ma sfociare in qualche proposta concreta, in grado di costringere i club alpini, l’UIAA che li riassume, i governi delle nazioni himalayane a prendere le distanze da una pratica così ambigua e sleale. Utopia? Chi può dirlo senza averci provato? Forse oggi i tempi sono maturi per proporre un simile salto di qualità. Il primo provvedimento che dovrebbe essere preso (e ne parla Renato Moro) in fondo non è troppo difficile: la compilazione di un elenco con due categorie di “vincitori”: quelli che sono saliti con le bombole e quelli che ci sono riusciti senza usarle. Basterebbe l’esistenza di un simile doppio binario e la sua capillare diffusione a far abbassare la cresta alle centinaia di vanitosi sprovveduti che si affannano a salire in fila indiana, come un esercito di processionarie, lungo il rosario di corde fisse piazzate dalla base della montagna alla vetta da legioni di sherpa.
Carlo Alberto Pinelli
- Parere di Renato Moro, già presidente della Commissione per le spedizioni extra-europee dell’Unione Internazionale delle Associazioni di Alpinismo (UIAA). In merito al problema dell’uso dell’ossigeno in alta quota riassumo quanto è stato fatto (o meglio, non fatto) dalla Commissione Spedizioni extra-europee dell’UIAA quando ne ero Presidente. Avevo proposto di formare un ristretto gruppo di esperti che dopo aver analizzato il problema nei suoi aspetti giuridici, etici, sportivi elaborasse un documento da sottoporre al consiglio centrale dell’UIAA. Contemporaneamente avevo analizzato il lato medico-sportivo con alcune federazioni e i giudizi in merito erano chiari. L'ossigeno è doping. Con mio disappunto la proposta venne bocciata con voto contrario anche della commissione medica dell’UIAA. In seguito proposi di istituire un elenco speciale di ascensioni agli ottomila realizzate con certezza senza l’utilizzazione delle bombole in qualsiasi fase della scalata. Mi sembrava logico fare due classifiche delle ascensioni “con e senza”, dando alle seconde il giusto valore. Tale metodo avrebbe dovuto essere adottato anche nel conferimento di contributi o onorificenze. Non ho vinto neanche su questo fronte. Da ciò è derivata la mia decisione di dimettermi dalla Commissione, la quale in seguito è stata soppressa. Come si vede una nuova iniziativa non riuscirebbe a cavare un ragno dal buco, perché troppo forti sono le pressioni sui decisori dell’UIAA della agenzie che organizzano spedizioni commerciali; dietro alle quali ci sono gli stessi governi delle nazioni himalayane, le lobbies dei portatori d’alta quota e la pressione di tanti alpinisti che desiderano aggiungere ai loro palmares anche l’Everest o il K2, ma non sarebbero in grado di scalare quelle vette prestigiose senza l’aiuto dopante dell’ossigeno. E' un mondo che non mi appartiene più. Forse sono vecchio. Di certo sono disilluso.
- Parere di Maurizio Giordani, guida alpina, alpinista himalayano, garante di Mountain Wilderness International. Per etica e coerenza sono stato sempre contrario all'uso dell'ossigeno in quota e mai l'ho portato nelle mie spedizioni (piuttosto non salgo e torno indietro) ma credo, dato che il 90% di chi sale in alto lo usa... sia abbastanza problematico il suo bando...
- Parere di Paulo Grobel, guida alpina francese, famoso organizzatore di spedizioni e trekking, garante internazionale di Mountain Wilderness. Aprire un dibattito sull'utilizzo dell'ossigeno in Himalaya? Semplicemente, a mio avviso, non c'è motivo di rivangare un simile argomento. La cosa infatti è assodata: le bombole d’ossigeno sono una droga dopante. Cioè un indebito elemento esterno che aumenta le prestazioni in quota. Punto e basta. Purtroppo la grande maggioranza degli alpinisti che affronta l'Everest continua a utilizzare l'ossigeno; e oggi questa pratica si sta diffondendo anche sui "piccoli" 8000. Per quale ragione un "desiderio di Everest" dovrebbe giustificare l'uso di qualsiasi mezzo per raggiungere la meta? Allora, a questo punto, paradossalmente, perché non utilizzare l’elicottero per evitare i rischi della prima seraccata, sopra il campo base del versante nepalese? Che cosa spinge gli alpinisti, desiderosi di confrontarsi con le più alte vette della terra, a rifiutare di vivere pienamente ciò che costituisce la specificità della grande altitudine e il suo principale interesse: l'ipossia e i suoi pericoli? Certamente è lecito porci delle domande sul significato reale e sulla reale nobiltà delle realizzazioni di questi veri o presunti alpinisti. Ma alla fine dei conti quelli sono fatti loro. Che facciano e dicano dunque quello che vogliono, da Mazeau a Jourjon. Del resto l'uso dell'ossigeno non è che la parte visibile dell'iceberg dell'eccesso dei mezzi utilizzati indebitamente. Penso che l’abuso sistematico delle corde fisse e la negazione della nozione della salita in cordata veicolino un messaggio ancora più deleterio. C'è un immenso rischio di vedere propagarsi e rendere sistematiche queste forme di ascensione devianti, da l'Island Peak all'Everest passando per l'Ama Dablam. Dunque porsi il problema della liceità dell’ossigeno equivale a mettere in discussione la quasi totalità dei mezzi utilizzati dagli alpinisti per realizzare un'ascensione “alla moda”. E stimola a riflettere sulla recente evoluzione (involuzione?) dell'alpinismo sulle più alte montagne della terra. Le previsioni non sono certo tranquillizzanti. Temo che l’avvenire non ci riservi sorprese positive, sull’Everest o altrove. Anche lasciando da parte le questioni etiche e filosofiche sono convinto che l'utilizzo dell'ossigeno sia oggettivamente pericoloso. Esso permette a chi se ne serve di ritrovarsi un bel momento in un luogo dove non potrebbe e non dovrebbe trovarsi. Se qualcosa nell’erogatore va storto o la bombola si svuota strada facendo, costui è perduto. Letteralmente perduto. In qualità di guida di alta montagna ritengo che sia una situazione molto complicata da gestire. Aiutare qualcuno ad andare più su di quanto sarebbe capace comporta l’accettazione di un rischio supplementare. La stessa guida potrebbe trovarsi in serie difficoltà nella gestione di un cliente sprovvisto di risorse psico-fisiche sufficienti (vedi gli incidenti al Manaslu con un cliente e al Makalu con un nepalese; le circostanze dei quali non sono state analizzate a dovere per trarne insegnamenti). Inoltre mi piace molto la nozione di condivisione e di apprendistato che esiste nell'alpinismo. Raggiungere una certa sobrietà nell'uso dei mezzi tecnici in Himalaya necessita un apprendistato che ha alla radice la reale volontà di mettere in gioco tutte le proprie risorse naturali, spesso al prezzo della riuscita. Senza aggiungere che questo approccio “by fair means” presuppone una catena organizzativa, relazionale e decisionale impeccabile. Per concludere non assumerò mai ossigeno e non lo faranno neppure i miei compagni di cordata. E non andrò mai sull'Everest... malgrado un forte "desiderio di Everest".