News

Club Alpino Accademico Italiano

L’innegabile realtà dei cambiamenti climatici è una sfida anche per noi

Mercoledì, 07 Luglio 2021 21:02

CONVEGNO del CAAI Gruppo Orientale:

“Montagne e boschi raccontano il cambiamento climatico: la tempesta Vaia e la tempesta perfetta”

Marano Vicentino 19 giugno 2021

Possono gli alpinisti disinteressarsi delle problematiche ambientali? La risposta ovviamente è scontata.

E le associazioni che li raggruppano? Anche qui la risposta è scontata. Ma non basta.

Le evidenze del cambiamento climatico e le prospettive di danni ambientali irreparabili devono spingere ognuno di noi e le nostre comunità ad assumere e promuovere comportamenti responsabili. Il tempo che rimane per poter limitare i danni è veramente poco. Questione di pochi anni. Ecco perché nessuno può più delegare ad altri, nessuna associazione alpinistica può delegare ad altre associazioni con il pretesto della propria specificità.

Il CAAI è nato per occuparsi di alpinismo e di alpinismo continua ad occuparsi, naturalmente, ma non può non impegnarsi direttamente e con convinzione anche della sensibilizzazione dei propri soci e degli alpinisti in generale su questo grande tema che interessa il futuro di tutti noi. Come abitanti della Terra in primis, ma anche come alpinisti siamo interessati direttamente a queste grandi questioni. Già da oggi perché l’ambiente alpino nel quale operiamo mostra segni evidenti di degrado dovuti ai cambiamenti climatici (riscaldamento globale) ma anche e soprattutto perché dati scientificamente certi ci pongono di fronte a prospettive allarmanti sulla nostra possibilità di sopravvivenza futura sul nostro pianeta.

Il CAAI Gruppo Orientale ha voluto dare un primo segnale con un Convegno specifico sull’argomento, invitando relatori di alto profilo per dibattere sul tema e sensibilizzare dall’interno i nostri soci.

a cura di Alberto Rampini

Ecco di seguito gli interventi (scaricabili anche in formato pdf) preceduti da un breve profilo dei relatori.

Maurizio Fermeglia

Maurizio Fermeglia

Accademico, ingegnere chimico, già ricercatore dal 1981 al 1983 presso la Denmark Technical University (DTH), è professore ordinario presso il dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Trieste, è stato direttore della scuola di dottorato in Nanotecnologie dell’Università di Trieste, della quale è stato anche Rettore dal 2013 al 2019.Innumerevoli i suoi interventi e scritti su ingegneria di processo, nanotecnologie, modellistica multiscala, ingegneria chimica e ìngegneria informatica.

 

 

 

 

Paola Favero

Paola Favero

alpinista appassionata, scrittrice e forestale, già comandante del distretto forestale di Agordo e del Reparto Carabinieri per la Biodiversità di Vittorio Veneto. Oltre a 18 libri legati alla montagna, tra cui racconti per ragazzi, libri naturalistici e di alpinismo, raccolte di antiche leggende cimbre e ladine, ed anche una pubblicazione sul paesaggio sonoro, ha pubblicato decine di articoli e tenuto convegni e conferenze sulle foreste e i cambiamenti climatici

 

 

 

 

 

 

 

 

20210619 152729

Silvia Stefanelli

Accademica, opera come Policy Officer presso la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, ha lavorato presso EU Commission, DG Climate Forestry and finance for innovation in Brussels, è stata Consultant on climate change/energy issues for the Horizon Platform presso la Commissione Europea oltre che Renewable energies and sustainability European projects manager. Numerose altre esperienze professionali in ambito europeo nel campo del clima e delle energie rinnovabili.

 

 

 

 

 

L’innegabile realtà dei cambiamenti climatici è una nostra responsabilità

Intervento del prof Maurizio Fermeglia al Convegno CAAI Orientale del 19 giugno 2021

 pdfLinnegabile_realtà_dei_cambiamenti_climatici_è_una_nostra_responsabilità_-_di_Maurizio_Fermeglia.pdf

Abstract

Sovrapolazione, consumo di energia, effetto serra e cambiamenti climatici causati dall’uomo mettono a rischio crescente le zone più sensibili del pianeta. Carenza di acqua potabile, cibo ed energia ne saranno conseguenze ovvie, quantificate fin da oggi in modo preciso. Non quantificate invece, ma sicure, le conseguenze in termini di disordini sociali e migrazioni epocali.

Politiche demografiche responsabili, massiccia espansione delle energie rinnovabili e una convinta azione educativa verso comportamenti sostenibili sono la chiave di volta per arrestare la corsa del pianeta verso il baratro. Ma il tempo per agire è adesso.

Introduzione

Il recente rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change - IPCC parla chiaro: l'uomo è responsabile dei cambiamenti climatici. Le ragioni principali del riscaldamento globale sono la deforestazione, l’uso del suolo e l’utilizzo di combustibili fossili tutte ragioni ascrivibili all'attività umana. Alla presentazione del rapporto, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, rilancia l'allarme globale sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, sottolinea l'attuale impreparazione a fronteggiare le minacce alla biosfera e alla nostra civiltà e raccomanda alle autorità politiche di tutto il mondo di intervenire per cercare di evitare che gli effetti del riscaldamento globale diventino più devastanti: "Dobbiamo agire subito per limitare i danni, abbiamo i mezzi per farlo". Uno degli ambienti più sensibili nel quale gli effetti dei cambiamenti climatici risultano più evidenti è proprio l’ambiente alpino.

L’elemento di partenza delle analisi che gli scienziati hanno fatto e stanno facendo è legato alle prospettive di crescita della popolazione mondiale e delle relative migliori condizioni di vita che si estenderanno plausibilmente a strati sempre più ampi di popolazione. La popolazione mondiale cresce, particolarmente nel sud del mondo nei paesi meno sviluppati industrialmente ed anche più poveri.

Le fonti di energia

IMMAGINE INTERVENTI 2Il consumo di energia in particolare è aumentato notevolmente negli ultimi decenni. Nel 1912 per accendere il pianeta era sufficiente 1 TW di potenza. Le previsioni, ottimistiche, per il 2030 sono di 23 TW e per il 2050 di 30 TW. Il quadro energetico a livello mondiale mostra chiaramente come la maggior parte delle fonti di energia siano fonti fossili, sia nei dati storici che nelle previsioni al 2025 ed al 2040. Da qui al 2040 il fabbisogno energetico mondiale aumenterà e tale incremento si registrerà principalmente nei paesi emergenti e nei paesi in via di sviluppo quale conseguenza dell’incremento demografico, dell’impulso economico, dell’aumento di industrializzazione, di urbanizzazione e quindi del benessere.

Purtroppo l’utilizzo dei combustibili fossili non sembra voler diminuire. Il petrolio ed il gas naturale continueranno, comunque, a essere la fonte energetica principale in tutto il mondo. Stime recenti, pur nella loro incertezza, indicano che l’impiego di petrolio, gas naturale tendenzialmente aumenteranno nel 2040, così come aumenteranno tutte le fonti ad eccezione del carbone. Sembra quindi che il mondo sia destinato ad utilizzare combustibili fossili nei prossimi anni e, anche se le energie alternative, escluse energia idroelettrica e biomassa, aumenteranno in maniera consistente, purtroppo nel 2040 rappresenteranno solo una modesta percentuale del quadro energetico mondiale.

Era il 2009 quando John Beddington, consulente scientifico del governo inglese, per primo parlò della ‘tempesta perfetta di eventi globali’ posizionando questo evento temporalmente nel 2030. Beddington disse che “Se non affrontiamo questo concatenarsi di cause ci possiamo aspettare grandi destabilizzazioni, con un aumento di disordini e potenziali notevoli ondate migratorie a livello internazionale, in fuga per evitare le carenze di cibo e di acqua”. Il punto di partenza del ragionamento di John Beddington è l’aumento della popolazione mondiale (previsti 8.3 miliardi nel 2030) che inevitabilmente si rifletterà in una maggiore richiesta di cibo (aumento del 50% rispetto all’attuale), ma non supportata da una adeguata produzione. Analogamente la richiesta di energia si prevede aumenterà, nel 2030, del 60% ancora con una produzione non adeguata, mentre la domanda globale di acqua potabile aumenterà del 30% (50% in paesi in via di sviluppo e 20% nei paesi sviluppati). A causa del cambiamento climatico, entro il 2030, quasi la metà della popolazione mondiale vivrà in aree ad alto stress idrico, tra cui l’Africa che conterà tra 75 e 250 milioni di persone sottoposte a tale pressione. Purtroppo negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno avuto un incredibile accelerazione e non reggono i ragionamenti dei negazionisti che ascrivono i cambiamenti climatici ad eventi naturali e ricorrenti negli anni.

Ma John Beddington non è stato l’unico a segnalarci il problema. Ben prima di lui il Nobel per la chimica, Richard Smalley disse che nel mondo abbiamo a che fare con 4 emergenze a livello globale; la scarsità di acqua, di cibo, di energia e la tutela dall’ambiente. Ci disse anche che è impensabile affrontare e risolvere uno di questi problemi indipendentemente dagli altri in quanto essi sono fortemente correlati.

L’effetto serra

Utilizzare fonti fossili per produrre energia significa emettere in atmosfera CO2, principale gas serra. Le emissioni di CO2 aumentano di circa il 4% all’anno ed i maggiori responsabili di tali emissioni sono le fonti fossili di energia: combustibili liquidi e solidi per il 76.7%, quelli gassosi per 19.2%. Al terzo posto la fabbricazione del cemento con il 3.8%. Questa è purtroppo l’impronta dell’era industriale, il cosiddetto Antropocene.

Le emissioni di CO2 ed altri gas producono il cosiddetto effetto serra. L’atmosfera si comporta come i vetri di una serra: come questi vetri, i gas lasciano passare le radiazioni luminose solari che vengono parzialmente assorbite e parzialmente riflesse dalla terra. Questo calore viene di nuovo riflesso, dal vetro nel caso della serra, dall’anidride carbonica nel caso dell’atmosfera. In sostanza l’effetto serra altro non è che una coperta che ci protegge e ci riscalda. Un aumento della concentrazione di CO2 ha l’effetto di rendere la coperta più spessa, quindi non ci sorprende che sotto alla coperta faccia più caldo. L’effetto serra, il suo funzionamento, ma anche la sua precarietà ed il suo equilibrio sono noti sin dal 1896, quando Arrhenius lo definì. Che cosa accade se questa coperta diventa più spessa? La risposta la troviamo ancora una volta nei report dell’IPCC. Al momento attuale si sta cercando disperatamente di contenere l’aumento della temperatura del pianeta a 1.5 anziché a 2° C: quel mezzo grado in meno, se raggiunto, potrebbe comportare notevoli differenze in positivo: sulla salute, sulla biodiversità delle piante e degli animali, sulle barriere coralline tropicali, sugli oceani e sulle possibilità di adattamento.

Scioglimento dei ghiacciai, intensificazione del ciclo idrologico e sconvolgimento delle precipitazioni, aumento del livello del mare, modifica della produttività delle piante, sconvolgimento della distribuzione delle specie vegetali ed animali sono tutti fenomeni ascrivibili all’aumento di temperatura dell’atmosfera e quindi all’utilizzo di fonti fossili per la produzione di energia. Stiamo parlando di aumenti di temperatura che a prima vista potrebbero sembrare irrilevanti: non lo sono purtroppo.

I cambiamenti climatici

IMMAGINE INTERVENTI 3Le prime osservazioni dell’aumento della concentrazione dei gas serra sono state fatte da Charles David Keeling all’arcipelago delle Hawaii, all’osservatorio di Mauna Loa nel 1958. Ma analisi delle carote estratte dai ghiacci dell'Artide e dell'Antartide mostrano chiaramente come le concentrazioni dei gas serra sono rimaste per centinaia di migliaia di anni costanti e solo nell'ultimo periodo sono crescite notevolmente. Come dettagliatamente documentato dall’IPCC nel suo rapporto sullo stato dell’ambiente, esiste una diretta correlazione tra l’aumento della temperatura media del pianeta con l’aumento della concentrazione dei gas serra e quindi con le attività umane.

La temperatura della terra è aumentata di circa 0.85° negli ultimi 100 anni. Questo significa che per rimanere all’interno dei 2° C rimane un margine molto ridotto. Per contenere l’aumento a soli 1.5° è necessario che le emissioni siano ridotte del 45% prima del 2030 e che le rinnovabili forniscano 70-80% dell’energia entro il 2050.

Anche la temperatura degli oceani sta crescendo e non deve trarre in inganno il fatto che l’aumento sia contenuto: la terra ha un equilibrio climatico molto delicato e garantito dalle enormi masse oceaniche, ma basta un piccolo cambiamento di temperatura di queste masse fluide per generare effetti devastanti. Le previsioni al 2100 che nello scenario peggiore prevede un aumento della temperatura degli oceani di 1 grado sarebbe devastante ed assolutamente irreversibile, a causa della capacità termica degli oceani nell’immagazzinare una quantità enorme di calore e della loro grande inerzia nel rilasciarlo.

L’intensificazione del ciclo idrologico è una delle conseguenze del riscaldamento globale. Sono sotto gli occhi di tutti alcuni effetti evidenti: piove meno frequentemente ma più intensamente ed aumentano i periodi di siccità e di ondate di calore.

Uno degli effetti più importanti e globalmente presenti sul pianeta sarà l'innalzamento del livello del mare, dovuto ai cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento globale. Intere isole spariranno e zone costiere subiranno allagamenti sempre più frequenti a causa dell’innalzamento del livello del mare combinato con il fenomeno delle maree. Nel 2100 saranno sott'acqua interi tratti di costa italiana. Secondo un recente studio dell'Enea, 5.500 km quadrati saranno sommersi a causa dell'innalzamento del livello del mare. A rischio il Nord Adriatico, il Golfo di Taranto, il Golfo di Oristano e quello di Cagliari.

A causa della siccità, desertificazione e inondazioni, le regioni ad alte latitudini necessariamente dovranno diventare centri chiave per la produzione alimentare. Altre nazioni più tradizionalmente legate all’allevamento dovranno spostare la propria produzione alimentare e sviluppare avanzati pesticidi o coltivare specie più ardite per incrementare le rese.

La situazione in montagna

La montagna è un ambiente debole, in cui il rispetto degli equilibri climatici è fondamentale. Le montagne sono tanto IMPORTANTI quanto VULNERABILI. Le regioni fredde sono le più sensibili perché rispondono in maniera amplificata all’aumento di temperatura: In montagna la temperatura è aumentata con un tasso circa doppio rispetto alla media su tutto il globo. Gli indicatori naturali dello stato di salute del pianeta sono evidenti: ritiro dei ghiacciai, degradazione del permafrost, diminuzione della durata, estensione e spessore della neve al suolo, biodiversità in declino, cambiamenti negli ecosistemi (spostamenti verso l’alto di flora e fauna, sfasamenti ecosistemi).

In montagna la situazione è più critica che in pianura. Il riscaldamento globale, oltre alla fusione dei ghiacci terrestri ha come conseguenza la diminuzione dell’albedo e l’aumento della radiazione solare assorbita (i ghiacci riflettono la radiazione solare, il terreno la assorbe). Come conseguenza il suolo si riscalda e questo amplifica ancora il riscaldamento. Ma ci sono anche altri fenomeni che amplificano il fenomeno in montagna quali la presenza di vapore acqueo, il ruolo delle nubi, la presenza di aerosol nella bassa troposfera montana e la sua deposizione sulle superfici innevate e ghiacciate.

I ghiacciai si riducono: la perdita di massa dei ghiacciai è un fenomeno generale nelle Alpi ma non solo: nella Ande, in Asia, in Alaska, in Patagonia avviene lo stesso ed il fenomeno è irreversibile. Sul ghiacciaio Athabasca, uno delle principali lingue di ghiaccio del ghiacciaio Columbia, delle montagne rocciose canadesi qualcuno ho già messo delle targhe ricordo. Il ghiacciaio si sta riducendo ad una velocità di circa 5 metri all’anno. E’ arretrato di oltre 1.5 chilometri ed ha perso oltre la metà del suo volume. La riduzione di massa dei ghiacciai avviene a tutte le latitudini e longitudini: avviene vicino all’equatore ed ai poli.

Un fenomeno collegato alla riduzione dei ghiacci in montagna, ma non per questo meno devastante è la fusione delle calotte ghiacciate in Artide ed Antartide. Fenomeno che porta ad un sensibile aumento del livello del mare, soprattutto per quel ghiaccio che giace su terreno come ad esempio in Groenlandia ed Alaska. Questo aggravamento è dovuto al fatto che lo scioglimento di una massa di ghiaccio galleggiante compensa l’innalzamento del livello del mare a causa dal maggiore afflusso di acqua con una riduzione del volume del ghiaccio immerso nel mare.

Ma lo scioglimento del ghiaccio che giace su terreno ha anche come effetto lo scongelamento del permafrost che ricopre una buona parte delle terre artiche. Il permafrost è ghiaccio intrappolato nel terreno che si è mantenuto tale a causa della rigida temperatura esterna. Questo ghiaccio, quando fonde, libera non solo CO2 ma anche metano, gas che, se liberato in atmosfera, contribuisce all'aumento dell'effetto serra 25 volte di più rispetto alla CO2, e materiale organico che è rimasto intrappolato in esso per migliaia di anni. Lo scongelamento del permafrost avviene anche in roccia ed è il maggiore responsabile di crolli, distacchi di roccia anche di dimensioni notevoli. In figura la distribuzione potenziale del permafrost sul Cervino.

A proposito di equilibri delicate in montagna un altro elemento fondamentale è la quantità di acqua presente in ambiente: se ce n’è troppo poca, per carenza di risorse idriche, gli effetti sono siccità, carestie, rischio incendi. Se ne arriva troppa in poco tempo a causa di precipitazioni intense porta ad alluvioni con rischi per instabilità dei versanti, frane, ed altri rischi geo-idrologici.

Un ulteriore effetto del riscaldamento globale è la perdita di biodiversità. La riduzione dei ghiacciai e dei periodi di innevamento sta minacciando molte specie alpine sulle montagne di tutto il mondo. Si tratta di popolazioni animali e vegetali spesso piccole e isolate, specie altamente specializzate a vivere in condizioni estreme di bassa temperatura, con limitata capacità di dispersione, poco adattate ai repentini cambiamenti che il clima sta subendo, e facilmente soggette ad estinzione.

IMMAGINE INTERVENTILa vita delle piante ad alta quota è limitata da vari fattori, ma due di questi sono i più importanti: la temperatura e la concentrazione di CO2. La temperatura limita molti processi fisiologici, primo fra tutti le divisioni cellulari necessarie per l’accrescimento, la riproduzione ecc… La CO2 è necessaria per la fotosintesi, e dal punto di vista delle piante i valori attuali in atmosfera sono relativamente bassi. In alta quota, la diminuzione della pressione parziale limita la disponibilità di CO2 per le piante (esattamente come limita per noi la disponibilità di O2). Quindi, l’attuale aumento di CO2 atmosferica e il progressivo aumento di temperatura stanno inevitabilmente producendo vari effetti sulla vegetazione delle ‘alte quote’.

Un primo effetto è messo in evidenza da un’analisi delle variazioni di copertura forestale e limite degli alberi dal 1909 al 2009 nell’area di Davos (Svizzera), periodo in cui la temperatura media regionale nell’area è aumentata di 1.4 °C. Oltre a questo dato climatico, è cambiato radicalmente l’uso dei territori di alta quota, con un progressivo abbandono dei pascoli. Come conseguenza la copertura forestale è aumentata di circa il 60%, e il limite degli alberi si è innalzato mediamente di 83 metri. Il massimo aumento del limite della vegetazione arborea è stato osservato su versanti esposti a NW (+151 m), N (+103 m) e W (+87 m), cioè proprio le zone dove le basse temperature limitano l’insediamento delle giovani piante arboree, e ne rallentano poi l’accrescimento. L’aumento di temperatura ha giocato un ruolo importante nel fenomeno di innalzamento della linea degli alberi.

A questo andamento di lungo termine si possono sovrapporre eventi anomali (es. tempesta Vaia, estati molto aride del 2003, 2012 ecc…) che hanno prodotto effetti immediati sulle foreste delle Alpi, con abbattimento delle monocolture di abete o disseccamento di molti individui di specie poco resistenti alla siccità.

Un secondo effetto si riferisce alla vegetazione alpino-nivale, quindi al di sopra del limite degli alberi. Tra il 1994 e il 2014 sono state eseguiti rilievi della vegetazione in oltre 1000 stazioni permanenti (ciascuna di 1x1 m2) a diverse quote (da 2911 m a 3497 m) ed esposizioni (da SW a SE) del Monte Schrankogel (3497 m, Stubaier Alps, Tyrol, Austria). Nel periodo il numero totale di specie è aumentato (da 51 a 61), come conseguenza della colonizzazione di specie in arrivo da quote più basse, e caratteristiche di habitat più caldi e tendenzialmente più aridi. A questa colonizzazione si è affiancata la progressiva scomparsa delle specie più tipicamente alpino-nivali, con una velocità di estinzione locale aumentata nel corso degli ultimi 10 anni. Ma a dispetto dell’aumento del numero di specie, la copertura della vegetazione è mediamente diminuita, indicando che le specie che stanno colonizzando le alte quote e sostituendo le specie alpinonivali non riescono a garantire la stessa copertura delle specie sostituite.

In parole semplici, anche se l’aumento di temperatura sta aumentando il numero di specie ad alta quota, a questo non corrisponde un ‘inverdimento’ della regione alpino-nivale, ma semmai una perdita di copertura vegetale.

Anche nelle regioni Himalaiana, in particolare nella regione del Monte Everest si possono notare gli stessi effetti. Misurazioni e confronti da dati satellitari ottenuti dagli archivi della NASA dimostrano un notevole aumento della vegetazione tra i 4150 ed i 6000 metri di quota, con un picco massimo tra i 5000 ed i 5500 metri. Considerata la notevole estensione di queste aree, sempre più scoperte dalla neve e dal ghiaccio, è prevedibile un forte impatto sul ciclo dell’acqua, che sarebbe devastante per l’approvvigionamento idrico di oltre 1.4 miliardi di persone.

Conclusioni

Negli anni il tema del riscaldamento globale è stato sistematicamente sottovalutato e mal gestito Inizialmente la posizione era ‘non è reale, non esiste un riscaldamento globale’. Più di recente la posizione è cambiata in ‘d’accordo è reale, ma non è causato dagli esseri umani, è un fenomeno naturale’. Adesso siamo purtroppo molto vicini alla catastrofe che sarà, tardivamente, preceduta da una presa di coscienza collettiva di consapevolezza del fenomeno. Speriamo che non sia troppo tardi.

Ernest Hemingway ci fornisce un grande insegnamento: “Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, … ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi. E’ stato così tante volte.”

Cosa fare? Alla luce del filo rosso che collega la più lunga recessione economica della storia contemporanea e la “tempesta perfetta” che ci attende nel 2030 è urgente investire oggi in infrastrutture e tecnologie che possano evitare domani danni incalcolabili. In pratica, occorre una massiccia espansione delle energie rinnovabili, e una convinta azione educativa verso comportamenti sostenibili. Il tempo per agire è adesso, ed il compito di tutti noi amanti della montagna è creare consapevolezza su questo tema: specie nelle giovani generazioni.

 

 

 

I BOSCHI FRAGILI

il messaggio degli alberi

di Paola Favero (articolo pubblicato sulla rivista SIMBIOSI)

pdfLa_tempesta_Vaia_e_il_messaggio_del_bosco_-_di_Paola_Favero.pdf

Abstract

la tempesta Vaia ci ha dimostrato che i mutamenti climatici che derivano innanzitutto dal riscaldamento globale danno luogo ad eventi estremi che superano la capacità di resistenza e resilienza delle nostre foreste. Favorire tipologie di bosco più resistenti è importante ma non basta: la vera sfida è diminuire le emissioni ed  i consumi e proteggere la biodiversità.

Mentre scendo in auto dal passo Falzarego verso i paesi dell'alto Agordino, nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, guardo ancora una volta i pendii coperti da migliaia di alberi spaccati, schiantati, divelti, tutti ammassati in modo caotico in un disordine totale, ancora più impressionanti ora che il colore verde delle chiome è stato sostituito da toni che vanno dal marron al grigio. Dopo due anni dalla tempesta Vaia solo alcune aree sono state ripulite: i tronchi ed i rami sono stati recuperati, spesso con operazioni che hanno comportato rischio e fatica, considerata la pendenza e l'orografia dei versanti, e sono rimaste solo delle distese di ceppaie, mute testimoni della distruzione.  E mi chiedo ancora una volta come possiamo restare indifferenti, inermi, rassegnati o, ancor peggio, assuefatti ai disturbi e non disposti a cambiare, incapaci di cogliere l'estremo e inderogabile messaggio degli alberi.

Le foreste sintesi del clima

20201105 132932Le foreste rappresentano l'ecosistema più evoluto, complesso, resiliente presente sulla Terra; in ogni angolo del pianeta si sono evoluti in milioni di anni ecosistemi forestali capaci di raggiungere il massimo equilibrio con l'ambiente fisico e climatico attorno in modo da ottenere la massima produttività, biodiversità e resilienza, cioè capacità di assorbire i disturbi. Ed è proprio da qui che voglio partire: le diverse fitocenosi forestali rappresentano la sintesi dei fattori stazionali, - dalle rocce al terreno al clima- di un dato luogo, così che molto spesso per individuare velocemente una certa area climatica delle nostre montagne parliamo di Castanetum,  Fagetum, Picetum, Laricetum, rifacendoci ancora alle fasce fitoclimatiche individuate dal Pavari, e poi differenziate in modo molto più specifico da monti altri studiosi tra cui Pignatti. Queste diverse fitocenosi forestali, che individuiamo qui riferendoci all'albero simbolo di ogni fascia, hanno impiegato centinaia di migliaia di anni per raggiungere l'optimum, realizzando boschi di composizione, dimensione, struttura, densità più idonee per sfruttare al massimo le potenzialità stazionali e per resistere alle perturbazioni esterne, comprese quelle del clima. Vedere improvvisamente milioni di alberi cadere come è accaduto il 29 ottobre 2018 con la tempesta Vaia, su estensioni mai viste prima, almeno per gli ultimi 2000 anni della nostra storia, ci fa comprendere come qualcuno dei fattori ambientali stia rapidamente cambiando, superando la capacità di resistenza e resilienza dell'ecosistema forestale. Venti di 150 km orari con raffiche di 217, provenienti da direzioni inconsuete per le nostre piante e riguardanti superfici così estese, non si erano mai verificati prima nelle nostre montagne, ed  anche se rilievi metereologici specifici sono disponibili solo per gli ultimi 50 anni, possiamo risalire indietro nei secoli attraverso  i nostri stessi boschi, che non portano il segno di eventi simili accaduti in passato, e ancor di più attraverso la documentazione storica, poiché nessuna mappa o resoconto antico- anche quando il bosco costituiva un patrimonio importante come nel caso della Repubblica di Venezia- ne porta testimonianza. Certo superfici interessate da schianti, provocati da violenti venti localizzati o da piccole trombe d'aria, ci sono sempre stati, come trovo conferma in una mappa veneziana della foresta del Cansiglio risalente al 1627, dove vengono accuratamente riportate due "fratte da vento" verificatesi nel 1623 ampie alcune decine di ettari. Ma superfici vaste come quella colpita da Vaia nel 2018 non sono mai state mappate, e nessun documento antico descrive un simile incredibile evento, in tempi in cui il bosco aveva un valore molto maggiore e tutto veniva accuratamente rendicontato. Così mi viene da pensare che alle precedenti fasce climatiche se ne debba oggi aggiungere un'altra: i boschi fragili, colpiti in modo massiccio da tempeste di vento, incendi di proporzione mai vista, infestazioni di insetti, conseguenze di rapidissimi cambiamenti climatici a cui i nostri popolamenti forestali non hanno tempo di adattarsi. Alla base di tutto il riscaldamento globale che oltre all'innalzamento della temperatura provoca un diverso regime delle piogge, con lunghi periodi di siccità alternati spesso a devastanti bombe d'acqua, ed eventi estremi come Vaia causati dall'enorme quantità di energia presente nell'atmosfera, e dal divario sempre più accentuato tra le masse di aria fredda che accompagnano le perturbazioni e le temperature sempre più calde dei mari e delle terre dove poi vanno a impattare.

La tempesta Vaia

Anche all'origine di Vaia c'è stata la discesa di una bassa pressione dalle aree del nord Europa verso il Mediterraneo, tipica dei mesi autunnali, depressione che anzichè allontanarsi poi verso est si è trovata bloccata sul Mar Mediterraneo, schiacciata tra due aree di alta pressione sui Balcani e sulla penisola Iberica. La depressione ha così iniziato a girare su se stessa, creando un vortice sopra il mare, che aveva però una temperatura di ben due gradi superiore alla media stagionale. Una vera bomba di energia! Mentre sulla terra, a fine ottobre, si registravano temperature di 28-29°. Questa situazione anomala ha provocato prima correnti umide da libeccio con precipitazioni intense dalla Liguria alla Carnia, e poi grazie al rinforzo di venti da sud est ha scatenato violentissimi venti di scirocco, che hanno risalito l'Adriatico colpendo Venezia e proseguendo quindi verso le montagne, dove si sono ulteriormente rafforzati infilandosi nelle strette vallate e subendo uno schiacciamento verso il basso a causa di masse di aria calda che li sovrastavano. Venti mai registrati prima hanno causato la distruzione di 15 milioni di mc di legname, ed almeno 30 milioni di alberi, su una superficie di circa 42.000 ettari, dalla Lombardia al Friuli Venezia Giulia, solo considerando i boschi completamente devastati. Ma eventi simili, fino a quel giorno sconosciuti all'Italia, si verificano già dal 1980 a nord delle Alpi, dove uragani extraoceanici di inusuale violenza hanno provocato la distruzione di estese superfici forestali in Francia, Germania, Svizzera e in tutti i paesi del centro e nord Europa. L'uragano Lothar, nel 1999, toccò Francia, Belgio, Germania, provocò 140 morti, e distrusse 246 milioni di mc di legname, molto più di Vaia, con venti fino a 250 km/h. Vivian nel 1990 interessò il centro Europa con venti da 200 a 280km/h e atterrò 120 milioni di mc. Gudrun nel 2005 passò per Irlanda Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia e Russia, distruggendo 75 miklioni di mc di legname mentre Klaus nel 2009 attraversò Francia e Spagna atterrando 45 milioni di mc....solo per citarne alcuni. Eppure in Italia non se ne parlava e non ci si preoccupava, convinti che le nostre foreste a nord fossero protette dalle Alpi e rassicurati dal fatto di trovarci sul Mar Mediterraneo, da sempre mite, e non su un grande irrequieto oceano capace di generare venti ben più forti. Nessuno si poteva aspettare che invece il nostro mare, più caldo di 2 gradi, potesse diventare addirittura un creatore di cicloni, chiamati Medicane. Oggi rischiamo però di compiere lo stesso errore quando pensiamo che Vaia sia un evento unico, con tempi di ritorno che vanno oltre il secolo, senza comprendere che si tratta invece solo del primo di una serie di episodi che potranno colpire in futuro i nostri territori e i nostri boschi.

                               Una comunicazione lontana dalla natura

Il giorno dopo la tempesta sentivo le affermazioni più assurde correre sui media: "I boschi sono caduti perché gli alberi sono tutti uguali" ,- peccato che oltre ai rimboschimenti artificiali di abete rosso dell'Altopiano di Asiago siano caduti splendidi larici-cembreti in val d'Ega o un bellissimo bosco misto in comune di Claut.                                                                                                                      "I boschi sono caduti perché non vengono gestiti e non vengono più tagliati", -di certo chi parlava non sapeva che tra i boschi caduti c'erano le famose peccete della Val di Fiemme o i grandi boschi della Val Visdende, da sempre gestiti, curati, tagliati con estrema attenzione-.                                                         Fino all'idiozia più grande" non preoccupatevi: ora ripuliamo, piantiamo nuovi alberi e tutto tornerà in pochi anni come prima!" senza rendersi conto che non stiamo parlando di edifici che  possono essere ricostruiti, ma di interi ecosistemi dove oltre agli alberi erano stati distrutti gli habitat di cespugli fiori insetti animali funghi...miliardi di organismi che all'ombra della foresta trovavano dimora, e che richiedono cicli di secoli per poter tornare, senza considerare che lo stesso cambiamento climatico in atto sta modificando radicalmente i caratteri stazionali dei luoghi.                                                                                                                                                        Affermazioni come queste ci fanno comprendere quanto siamo superficiali, ignoranti, lontani dalla estrema complessità che caratterizza le foreste e tutti gli ecosistemi, ma anche lontani dal comprendere come siano diversi i tempi della natura, a cui vogliamo imprimere una velocità che non le è propria. Il tempo degli alberi è un tempo di lentezza, ben diverso da quello frenetico dell'uomo, che è andato progressivamente staccandosi dal bosco e dai suoi ritmi, a cui per migliaia di anni era stato legato. Le foreste sono invece ecosistemi estremamente complessi, che noi tentiamo di semplificare per renderle più comprensibili e gestibili, per poterle classificare, organizzare, schematizzare al fine di conoscerle meglio ma anche di utilizzarle per le nostre necessità. Lo stesso temine foresta, che deriva dal latino fores stare, indicava un tempo tutto quello che stava fuori dalle mura delle città, che non si conosceva, che metteva paura, che poteva essere pericoloso. Oggi anche se non vi è un modo univoco di utilizzare il termine bosco e foresta risulta abbastanza immediato associare la parola foresta al concetto di foresta vergine o primaria, non alterata dall'azione dell'uomo, o di usare questo termine per indicare le grandi foreste rimaste, come la foresta di Somadida o la foresta del Cansiglio. Si parla invece di boschi quando i popolamenti sono stati utilizzati o comunque modificati dall'azione antropica, così che non sentiremo mai dire il bosco dell'Amazzonia, né la foresta cedua degli Appennini. Ma al di là del termine gli studi e le conoscenze che si sono approfondite negli anni ci hanno fatto sempre più comprendere l'estrema biodiversità, - peraltro in gran parte ancora sconosciuta-, complessità imprevedibilità degli ecosistemi forestali, che si scontra con un’informazione inadeguata e fuorviante, che tende a semplificare e omologare tutto.

Che bosco è? Quanto resiste?

Ma tornando ora alla tempesta Vaia, all'interno di questi boschi divenuti improvvisamente fragili dobbiamo però fare delle differenze, riconoscendo che esistono comunque delle specie arboree più o meno resistenti allo sradicamento e allo schiantamento, e delle comunità forestali più o meno resilienti ai nuovi eventi estremi che le colpiscono.

Tutti sappiamo che l'abete rosso è la specie meno resistente allo sradicamento per il suo apparato radicale estremamente superficiale, mentre il larice, il pino silvestre, il faggio ed in genere tutte le latifoglie sono molto più resistenti, così che dove il vento ha raggiunto velocità di 100-120 km orari queste ultime hanno resistito, mentre sopra i 150 km orari qualsiasi specie è caduta. Ma oltre alle singole specie è molto importante valutare gli effetti della tempesta Vaia sui diversi tipi di strutture forestali, per vedere quali siano più in grado di fronteggiare gli eventi estremi.                 Vedremo allora che i danni maggiori si sono avuti laddove avevamo popolamenti artificiali monospecifici, come sull'Altopiano di Asiago, dove dopo la Prima Guerra Mondiale sono stati  piantati milioni di abeti rossi, o dove si applica un tipo di gestione del bosco con tagli raso a strisce,  che hanno reso più debole il bosco attraverso l'apertura di corridoi che rinforzano l'azione del vento, come nella zona di Paneveggio.                                                                                                                           I popolamenti forestali che ci circondano sono stati tutti più o meno alterati dall'azione dell'uomo, che ha sviluppato nei secoli diversi modelli di assestamento e selvicoltura per la loro gestione, ed ha cercato di stabilire alcuni parametri che ci permettono di classificare le varie tipologie di bosco ai fini della sua utilizzazione, ma anche di interpretarlo riguardo la sua funzionalità, equilibrio, resistenza e resilienza. Riassumo in modo estremamente sintetico i principali:

20200712 141703l'origine del bosco: naturale o artificiale

le specie che lo compongono, e se un popolamento è monospecifico o polispecifico, ciò composto da una o più specie arboree. In natura le foreste sono sempre composte da più specie, e popolamenti monospecifici esistono solo in zone estreme, come ai limiti della vegetazione. E' intuitivo capire che la presenza di più specie permette alle piante di sfruttare meglio le risorse del terreno e lo spazio a disposizione e rende un bosco più resiliente e forte anche di fronte a infestazioni di parassiti o altre calamità.

la modalità riproduttiva del bosco: un bosco naturale si riproduce principalmente attraverso i semi, ma in seguito all'azione dell'uomo abbiamo oggi  sia boschi da seme o fustaie, sia boschi cedui (dal latino caedere = tagliare), dove in seguito al taglio periodico le ceppaie delle latifoglie ributtano dei fusti secondari chiamati polloni e il bosco si rinnova principalmente per via agamica.

la struttura del popolamento forestale: i boschi possono essere coetanei, cioè formati da piante che hanno per la maggior parte la stessa età, o disetanei, dove sono rappresentate le varie classi di età. Anche in questo caso appare evidente che in natura la maggior parte delle foreste sono disetanee e che questa situazione favorisce una miglior distribuzione dello spazio, presenza di luce e ossigeno, ricchezza di biodiversità, garanzia di una rinnovazione naturale, trasmissione di informazioni tra gli alberi, ecc... Le strutture coetaneiformi sono state create dall'uomo solo per maggior comodità di utilizzazione e di conseguenza maggior ritorno economico. Anche in questo caso di fronte all'evento Vaia questi popolamenti hanno dimostrato la loro maggior vulnerabilità.

il tipo di gestione che viene applicato: il tipo di taglio che viene effettuato all'interno di un bosco è fondamentale. Mentre il taglio raso, peraltro vietato in Italia, azzera completamente tutto e prevede spesso un successivo impianto artificiale, il taglio saltuario per piede d'albero, quello che si avvicina di più a quanto accadrebbe in natura, permette di asportare delle piante mature ma di lasciare nel contempo il bosco il più possibile integro, aprendo delle piccole buche solo in corrispondenza della pianta tagliata. In queste radure potranno poi insediarsi nuove piantine grazie ai semi caduti dalle piante attorno, ricreando il dinamismo che avrebbe generato una caduta naturale dell'albero asportato. Naturalmente tra questi due estremi -taglio raso o taglio saltuario- vi sono altre tipologie di interventi, come i tagli raso a strisce o a buche, e fondamentale è anche l'intensità dei diversi interventi e la scelta delle piante da tagliare, oltre che i tempi di ritorno in un dato popolamento. Tipica della nostra selvicoltura nelle fustaie era in estrema sintesi la successione: diradamenti, taglio di preparazione o sementazione, taglio di sgombro. In questa fase tutte le piante rimaste, mature o stramature, dovevano essere tolte per lasciare spazio alla rinnovazione. Una moderna selvicoltura attenta alla biodiversità non può più prevedere questo, ma deve considerare che è fondamentale lasciare alcune piante pur se molto vecchie, per il loro valore intrinseco nella comunità e per garantire la dimensione stessa dell'ecosistema e la biodiversità presente: se taglio tutti gli alberi superiori a 30 m di altezza e lascio le piantine pur rigogliose alte al massimo 10 m ho ridotto lo spazio di quell'ecosistema del settanta per cento e ho distrutto migliaia di habitat e di organismi prima presenti. (Facendo un paragone con la società umana è come se decidessimo di eliminare tutte le persone più anziane, che se da un lato producono meno dall'altro sono quelle che trasmettono conoscenza e saperi).

Le ricette fuorvianti

Tener conto di tutti questi aspetti può aiutarci a seguire in futuro una selvicoltura più idonea a fronteggiare questi nuovi assetti climatici, a cui le piante sembrano rispondere per esempio con una risalita delle specie verso l'alto ma anche con la sofferenza di piante che sono già nelle fasce altimetriche superiori, come ad esempio il larice, ma dobbiamo sempre tener presente che questo potrà servire solo a sopportare meglio i venti forti fino a 150 km orari mentre sopra questo limite qualsiasi bosco purtroppo cadrà. Per questo è indispensabile una nostra azione ben più radicale, indirizzata a contenere il cambiamento climatico e l'innalzamento della temperatura, o tutti i nostri sforzi saranno vani. Pensare che sia sufficiente non piantare più abete rosso per risolvere il problema, o immaginare interventi assistiti alla naturale rinnovazione delle piante può distogliere l'attenzione dal vero problema, mentre è addirittura fuorviante sostenere che bisogna ringiovanire i boschi perché così resistono di più, dimenticando che è proprio il bosco più maturo ed evoluto quello più resistente e resiliente, e scordando che la tutela della biodiversità è ormai una assoluta priorità e ringiovanendo i boschi si va invece a distruggerla. Come insistere sulla necessità di tagliare di più i boschi continuando a ripetere che la superficie forestale in Italia è molto aumentata, ma scordando di dire che i boschi si sono espansi soprattutto in aree abbandonate e poco accessibili, mentre quelli che si andrebbero a tagliare saranno purtroppo quelli più comodi, redditizi e serviti da strade, andando così a depauperare ancora una volta i popolamenti più importanti, in un momento in cui i boschi vanno soprattutto protetti per la serie di servizi ecosistemici che ci forniscono.

Crisi ecologica e crisi culturale

I ghiacciai ci danno una prova costante del cambiamento climatico, misurabile anno per anno, così come l'innalzamento dell'acqua degli oceani; i boschi e le foreste invece tracollano di colpo, e i fattori che le stanno decimando, oltre alla deforestazione che ancora continua, sono incendi, tempeste da vento ed infestazioni di insetti. In Italia nel 2017 sono bruciati 160.000 ha di boschi, mentre nel 2019 incendi mai visti hanno distrutto 4 milioni di ha di boschi in Siberia - pensiamo all'immensità di una tale devastazione confrontata con i 42.600 ha di Vaia - , senza poi parlare delle immense superfici che stanno bruciando in Amazzonia, Australia e  California. Le tempeste di vento hanno colpito il centro e nord Europa per una media di 38 milioni di mc di schianti all'anno, a cui sono seguite spesso infestazioni di scolitidi che hanno distrutto ancora ettari ed ettari di bosco. Ma alla crisi ecologica che accompagna il nostro tempo si affianca una profonda crisi culturale che ci vede sempre più lontani dalla natura e dal bosco, estranei ad un mondo con il quale siamo invece intimamente legati. Gli uomini hanno costruito sul legno degli alberi la loro civiltà: dall'uso del fuoco per cucinare e scaldarsi, al produrre energia ed estrarre medicine, al costruire le loro dimore, le armi per cacciare e gli attrezzi agricoli, i mezzi di trasporto, la carta su cui scrivere, le opere d'arte e gli strumenti musicali. Sono le foreste le responsabili di un'atmosfera più ricca di ossigeno e adatta alla nostra vita, e ancor oggi, seppur inconsapevolmente, il benessere di cui godiamo è legato ai molti servizi ecosistemici che ci fornisce il bosco. Ma mentre un tempo ogni singolo albero aveva un suo valore e una sua storia, e ogni bosco veniva seguito e attentamente gestito, oggi gli alberi sono spesso una massa indistinta di materia, diventati ormai solo un mero prodotto industriale. Dimenticando che intere civiltà sono scomparse dalla faccia della Terra perché hanno distrutto i boschi che circondavano i loro villaggi, causando il cambiamento del clima di quella zona e l'impossibilità di avere acqua e cibo. La storia ci racconta degli errori del passato, mentre la scienza ci fornisce tutti i dati e le conoscenze per comprendere la gravità della crisi ambientale che stiamo vivendo, ma con un estremo atto di resilienza a cambiare il nostro modello consumistico fingiamo ancora di non capire. Spero allora che la devastazione provocata da Vaia possa almeno servire a prendere coscienza di come sta accelerando la nostra corsa verso la distruzione, e di quanto sia urgente il nostro cambiamento: un estremo messaggio degli alberi che da sempre ci hanno accompagnato.

 

 

 

Estremeconseguenze

VAIA, messaggera del cambiamento climatico e acceleratore di nuove politiche forestali di rapina.

di Paola Favero

pdfEstremeconseguenze_di_Paola_Favero.pdf

Abstract

La crisi climatica ci ha portato VAIA. Nel cercare di rimediare a Vaia si pongono le premesse per ulteriori dissesti ambientali che porteranno danni nel medio-lungo periodo anche sotto il profilo del clima. Una spirale perversa che occorre disattivare.

La tempesta Vaia è stato un evento epocale, segnale estremo della crisi ambientale e climatica che ci sta travolgendo. I ghiacciai che si sciolgono possono essere monitorati misurando anno per anno il cambiamento, e così accade per l'innalzamento del livello dei mari, i boschi invece hanno assorbito per anni ed anni i disturbi esterni, ma di colpo sono crollati, schiantati da un vento prima sconosciuto, figlio del riscaldamento globale che provoca sempre più spesso eventi estremi. Poteva essere un’occasione importante per aprire gli occhi, prendere coscienza della rapidità con cui stiamo precipitando verso una situazione fuori controllo, dove il nostro benessere viene meno assieme a quello dell'ecosistema che ci circonda, anzi, di cui facciamo parte. Ma non è stato così. Ed oggi, a due anni da quel 29 ottobre, mentre scendo in auto da passo Falzarego e vedo i boschi distrutti che mi circondano, mi chiedo come possiamo attraversare questo paesaggio stravolto senza sentire un disagio profondo, indifferenti e sordi al messaggio degli alberi. I boschi si sono evoluti in milioni di anni per raggiungere un equilibrio ottimale con l'ambiente in cui vivono, in modo da avere la massima produttività e la massima resilienza, ma ora questo equilibrio si è rotto, e questo dovrebbe essere un segnale che ci fa riflettere spingendoci a cambiare prima che sia troppo tardi. Con l'unica imprescindibile necessità di consumare meno, ricordando che non è possibile uno sviluppo infinito su un pianeta finito, con risorse che sono limitate, come sosteneva Augusto Peccei ed il Club di Roma già nel 1970.

                               Vaia alberi a terra

Non l'abbiamo compreso, o facciamo finta di ignorarlo perché non vogliamo cambiare il nostro stile di vita se non di fronte a qualcosa che ci tocca da vicino e ci fa paura, come è ora con la pandemia. Così anche l'estremo segnale degli alberi sarà stato vano.

Ma c'è di peggio. Vaia da un lato ci ha dato la conferma del cambiamento climatico in atto e delle conseguenze che può avere, ma dall'altro ha aperto le porte ad una politica forestale nuova, ad una selvicoltura produttivistica moderna, ad una gestione del bosco dove l'albero diventa una merce come tante altre, e tutto deve essere funzionale ad ottenere il massimo profitto utilizzando tecnologie un tempo impensabili. Una simile trasformazione era già in atto in gran parte d'Europa ma faceva fatica ad entrare in Italia, sia per l'orografia dei versanti che non consentiva l'uso dei moderni macchinari, sia per la radicata tradizione di selvicoltura naturalistica che caratterizza la nostra storia. In molti paesi d'oltralpe già da decenni i boschi vengono tagliati con tecniche che poco tengono conto dell'ecosistema forestale mentre guardano di più a massimizzare la resa economica: tagli raso o tagli raso a strisce dove aree di bosco vengono completamente tagliate e poi eventualmente rimboschite, organizzazione regolare di strade e boschi per rendere più facile il lavoro, popolamenti forestali sempre più monotoni e artificiali...salvo poi mantenere delle are a parco o riserva dove invece i boschi sono protetti e lasciati ad uno sviluppo più possibile naturale. Simili indirizzi selvicolturali e l'arrivo dopo gli anni 80 di uragani e tempeste devastanti che hanno abbattuto ettari di bosco sia nel nord che centro Europa ha poi fatto sviluppare un tipo di macchinari adatti a lavorare in situazioni così difficili, come gli harvester . Questi macchinari sono in grado di tagliare un albero, sramarlo, scortecciarlo e dividerlo in tronchi in pochi minuti, e una sola macchina riesce a preparare circa 200 mc di legname al giorno, a fronte di 20 mc che potrebbe allestire un boscaiolo. I tronchi così preparati in mezzo al bosco vengono poi raccolti e portati in strada dal forworder, un altro mostro meccanico capace di salire pendenze e terreni dove nessun cingolato riuscirebbe. Tecnologia ed efficienza massime, ideali per operare in situazioni difficili come gli schianti di Vaia, ma terribili se poi applicate in boschi in piedi per effettuare i normali tagli, che in Italia venivano ancora programmati secondo i canoni della selvicoltura naturalistica. Lo scopo era quello di ricavare legname dal bosco cercando di avere un impatto minimo e imitando la natura, magari addirittura attraverso un taglio saltuario mirato, prelevando le piante più vecchie, aprendo il bosco troppo fitto, liberando la rinnovazione, con un’azione puntuale che ricavava legname garantendo nel contempo i servizi ecosistemici e la biodiversità, che nel caso di tagli raso o troppo intensi viene azzerata. Cosa chiaramente impossibile se fatta con un mezzo che solo per spostarsi richiede 4 metri di apertura e che ha bracci meccanici che lavorano solo se hanno spazio libero attorno, per almeno altri 8/10 m. Macchinari che solo poche ditte boschive italiane avevano, ed è per questo che su Vaia sono intervenuti subito Austriaci e Sloveni, ma che ora molti si sono affrettati a comperare, anche grazie alle sovvenzioni. Macchinari indispensabili per lavorare sugli schianti di Vaia, ma che poi, finito di recuperare il legno a terra, si dovranno utilizzare a pieno regime sui boschi in piedi per ammortizzarne il costo.

Harvester forestaleForwarder

Così girando per la Piana di Marcesina sull'Altopiano di Asiago si vedono macchinari e camion di diverse nazionalità, un immenso cantiere forestale come mai si era visto prima, e nei documentari girati per l'occasione si sente inneggiare al nuovo modello di gestione fino a dire che la motosega rappresenta la preistoria, mentre questi macchinari sono il futuro. La cosa peggiore è però la propaganda mediatica che sta a monte di tutto questo, con un martellante invito a tagliare i boschi perché si sono troppo espansi, e a ringiovanire i boschi perché resistono meglio alle tempeste, anche se tutti gli studi dimostrano che sono invece i boschi più maturi ed evoluti ad essere più resistenti e resilienti. Senza dire che se è vero che i boschi italiani sono aumentati di un milione di ettari, è altrettanto certo che non si andrà a tagliare di più nelle zone di recente colonizzazione, di solito impervie e poco accessibili, ma condizionati dall'uso dei macchinari si taglierà di più solo nei boschi comodi che sono spesso anche i più belli. E dimenticando che i boschi più vecchi ed evoluti sono anche quelli più resilienti e più ricchi di biodiversità, che viene distrutta quando vengono fatti tagli intensi o il bosco viene ringiovanito.

Dietro queste logiche così lontane dai proclami di impegno per le foreste, la biodiversità, l'ecosistema, si nascondono ancora una volta pressanti motivi economici, che oltre all'omologazione e banalizzazione del legno, un tempo prodotto pregiato ed oggi spesso utilizzato per imballaggi e cippato, spingono verso un’utilizzazione degli alberi per le centrali a biomassa legnosa, promosse ed incentivate come energia rinnovabile. Senza ricordare che le stesse erano nate per consumare in modo utile gli scarti delle segherie o delle utilizzazioni boschive, e non per destinare alberi interi per approvvigionarle, bruciando in pochi minuti anni di lenta crescita e rilasciando comunque nell'atmosfera la CO2 derivata dalla combustione. Così si spiega come sull'Altopiano sia proprio una multinazionale, Durfeco biomasse, ad avere aperto il più grande cantiere forestale d'Italia. E perché sia così assillante e puntigliosa l'attuale campagna mediatica a favore dei tagli, della gestione attiva del bosco, che arriva a denigrare i pareri di grandi studiosi forestali e perfino della stessa soprintendenza, come nel caso dei cedui di castagno del monte Amiata, pur di sostenere questa folle politica di rapina. Che diffonde sui media, tutti al servizio della lobby della nuova selvicoltura produttivistica, concetti come la necessità di tagliare di più perché i boschi si sono troppo espansi (ma rispetto a quando? E perché non dovrebbe essere positivo in questi tempi di cambiamento climatico avere più boschi?), e ribadisce la necessità di gestire il bosco, che sembra non essere in grado di sopravvivere da sé, e che non può essere abbandonato ad uno sviluppo naturale...Tanto che il nuovo Testo Unico Forestale arriva a prevedere anche la possibilità di obbligare un privato a tagliare il proprio bosco se lo stesso, non più utilizzato, viene classificato come abbandonato. Peccato che siano proprio i boschi abbandonati, dove l'uomo non arriva perché troppo scomodi, che ci regalano poi i boschi vetusti più ricchi di biodiversità e le più belle nicchie di naturalità senza che nessuno sia andato a gestirli. Peccato che in un conteggio di costi e benefici, distratti dalla logica del profitto immediato, ci si dimentichi di considerare gli innumerevoli servizi ecosistemici, fondamentali per la nostra vita ed il nostro benessere, che il bosco sa darci.

 

 

 

Convegno CAAI Marano Vicentino -19 giugno 2021

Le foreste e il cambiamento climatico a livello globale e possibili azioni

di Silvia Stefanelli

Abstract

Negli ultimi anni sono aumentati i disturbi alle foreste, come schianti da veneto, tempeste e attacchi parassitari su larga scala che insieme a pratiche di intensificazione dei prelievi hanno danneggiato la funzionalità e lo stato di salute di molte foreste europee, in molti casi esacerbati dal cambiamento climatico. Nel mondo 80% della deforestazione è causata da prodotti di uso agricolo, tra cui la carne e la creazione di pascoli per allevamento di bovini inclusa la soia per alimentarli, caffè e cacao, olio di palma, pelle e poche altri prodotti tra cui legname e estrazione mineraria e petrolifera. Il contributo maggiore che possiamo dare come cittadini e alpinisti è cambiare le nostre abitudini, anche in campo alimentare, agire nella sfera di influenza della nostra vita sociale e partecipare attivamente al dibattito pubblico chiedendo azioni concrete e immediate.

pdfLe_foreste_e_il_cambiamento_climatico_a_livello_globale_e_possibili_azioni_-_di_Silvia_Stefanelli.pdf

Uno sguardo sulle foreste nel mondo

Le foreste sono al centro dell’attenzione globale per il ruolo cruciale che svolgono nella crisi climatica e per l’ampio spettro di servizi che offrono all’umanità, alla cui esistenza sulla Terra sono indispensabili. La biosfera terrestre, grazie principalmente alla fotosintesi delle foreste, assorbe il 30% delle emissioni di gas serra causate da attività antropiche, per poi immagazzinare il carbonio negli alberi e nel suolo.

Le foreste, soprattutto quelle tropicali, ospitano l’80% della biodiversità globale con centinaia di migliaia di specie ancora da scoprire.

P1080599Il ruolo che le foreste svolgono per il sostentamento umano è altrettanto rilevante. Più del 25% della popolazione sulla Terra dipende dalle risorse forestali per vivere, di cui 240 milioni vivono in ecosistemi forestali con cui hanno sviluppato un sistema di conoscenza e tradizioni antichissime.

Nel mondo coprono poco più di 4 miliardi di ettari, il 31% delle terre emerse concentrate nelle zone equatoriali, tropicali, boreali, temperate – dove si collocano le foreste Italiane. Solo un quarto della superficie totale è composto da foreste primarie, ecosistemi che non sono stati ancora alterati dall’uomo.

Tuttavia ora come non mai le foreste subiscono pressioni e minacce che mettono a serio rischio, oltre che la capacità di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, anche la loro resilienza a disturbi esacerbati dai cambiamenti climatici e infine la loro stessa funzionalità. La perdita di superficie forestale è causa del 12-17 % delle emissioni di gas serra globali.

Benché il tasso di deforestazione sia diminuito, dai 16 milioni di ettari annui degli anni novanta ai 10 milioni annui nel 2020, perdite significative si concentrano in Africa, Sud America, in particolare in Brasile, Birmania, Malesia e Indonesia, hotspots di biodiversità. La deforestazione di foreste naturali, ecosistemi complessi evoluti in migliaia di anni, è solo in parte compensata da piantagioni forestali, foreste molto semplificate, in molti casi monocolture costituite da una o poche specie.

Mai come ora è necessario agire per ridurre le principali minacce: deforestazione, frammentazione degli habitat, degrado dell’ecosistema, cambiamento climatico, rischi sempre più gravi anche per le popolazioni che vi vivono.

                               Foto bosco 1

Eventi sempre più estremi

Eventi estremi come gli incendi colpiscono con sempre maggiore frequenza foreste tropicali e boreali.

La Siberia in particolare è diventata un hotspot climatico a causa di un surriscaldamento più accentuato che nelle zone temperate. Gli incendi nella foreste della taiga siberiana insieme allo scioglimento del permafrost stanno causando oltre che perdite di foreste, fuoriuscite di metano e dei veri e propri mini crateri.

Nel 2020 nella Siberia orientale sono bruciati circa 19 milioni di ettari di foreste boreali, innescati da temperature eccezionalmente alte di 38°C ma anche da inverni e primavere caldi, che hanno seccato i vasti terreni torbosi e li hanno reso molto suscettibile al fuoco.

Nel 2019 ugualmente i satelliti di Copernicus avevano monitorato incendi forestali in Alaska, Groenlandia, nel 2018 in Svezia e nel 2012 c’era già stata una vasta ondata di incendi nella Siberia. Se globalmente gli incendi forestali sono in diminuzione, quello che conta è dove sono ora localizzati, in aree dove non erano frequenti come le regioni artiche, boreali e l’Amazzonia. In quest’ultima vasta regione incendi causati da fattori multipli ascrivibili all’uomo, dalla deforestazione e alla frammentazione dell’habitat unitamente ad alte temperature che rendono la foresta e il materiale lasciato più infiammabile, hanno devastato ampie zone del Brasile negli stati del Parà e del Pantanal. Come spesso succede per il clima, tra riscaldamento dell’oceano e clima ci sono forti correlazioni. Temperature molto alte dell’oceano hanno spostato le precipitazioni lontano dal Sud-America, causando delle condizioni di siccità che hanno interessato le foreste tropicali.

Negli ultimi cinquanta anni è andato perso il 17% della foresta amazzonica. Una delle domande che gli scienziati del clima si stanno ponendo ora è quanta deforestazione e cambiamento climatico può questo vasto bioma tollerare, senza causare una modifica al clima e avviarsi verso un processo irreversibile di conversione in savana, un habitat più secco e impoverito di biodiversità, rilasciando vaste quantità di carbonio nell’atmosfera.

Il climatologo dell’Amazzonia Carlos Nobre e il biologo Thomas Lovejoy – il padrino del concetto di biodiversità -   hanno di recente aggiornato le stime allarmanti sulla vicinanza al punto di non ritorno, indicandolo vicino a 20-25% di deforestazione, a causa dell’aumento di incendi e siccità.

Oltre a questi punti di non ritorno o tipping points, che si stanno pericolosamente avvicinando, il bioma amazzonico non sarebbe più in grado di sostenersi e si innescherebbe un processo di conversione in savana con conseguenze sul clima in Sud-America e nel mondo.

Secondo studi recenti, il 40% della foresta amazzonica, a causa di incendi, cambiamento climatico e deforestazione, sarebbe già spacciata e prossima a convertirsi in savana.

          P1080640

Leve di azione contro la deforestazione

Nel mondo 80% della deforestazione è causata da prodotti di uso agricolo, tra cui la carne e la creazione di pascoli per allevamento di bovini inclusa la soia per alimentarli, caffè e cacao, olio di palma, pelle e poche altri prodotti tra cui legname e estrazione mineraria e petrolifera che creano degrado per la frammentazione dell’habitat. Per fermare questo processo ci sono molte leve di azione:

  • una nuova normativa europea che limiti l’importazione di prodotti che contribuiscono alla deforestazione e obblighi le aziende ad avere una migliore politica ambientale
  • trattati commerciali di libero scambio con clausole di salvaguardia su foreste e popolazioni
  • trasparenza da parte delle aziende nelle filiere di approvvigionamento
  • una maggiore consapevolezza e attenzione del consumatore nella scelta dei prodotti

Le foreste in Europa - segnali di crescente fragilità

          Nel complesso ci sono alcune buone notizie sul fronte delle foreste europee che sono aumentate di superficie del 9% negli ultimi trenta anni per arrivare a coprire il 38% della superficie europea. Mentre le foreste aumentavano di superficie, volume e la quantità di carbonio stoccato nelle foreste sono aumentati del 50%.

Le foreste europee sequestrano il 10% del totale delle emissioni di gas serra dell’Europa.

La superficie di foreste che godono di qualche forma di protezione in Europa - circa il 24% - è soddisfacente, mentre il 15% gode di forme di protezione speciale indirizzate alla tutela della biodiversità.

I volumi utilizzati sono ancora mediamente inferiori all’incremento – circa il 73% - pur con enormi variazioni tra i Paesi.

Negli ultimi anni c’è stato tuttavia un aumento diffuso nella maggior parte dei paesi europei   dei prelievi di legno. Dai dati satellitari in 26 paesi europei dal 2016 al 2018 c’è stato un aumento significativo della perdita di biomassa - del 69% -e un aumento del 34% dell’area media utilizzata. La perdita di biomassa riflette un aumento della domanda di legname e biomassa, cambiamenti nella gestione ma anche perdite per disturbi forestali quali schianti e incendi. Questo fenomeno avviene a scapito di biodiversità, funzionalità dei suoli e della capacità di regolazione dell’acqua. Ci sono paesi che utilizzano tutto l’incremento e anche di più, che praticano la deforestazione come la Finlandia e la Romania. In Francia c’è stata una ripresa della selvicoltura industriale mentre in Italia c’è stato un aumento del prelievo forestale che secondo le stime indicate dal Piano nazionale foreste e clima è destinato ad aumentare nei prossimi dieci anni passando da un utilizzo medio del 30-33 % dell’incremento per arrivare a un 45 %

Lo stesso concetto di gestione forestale sostenibile è applicato in modo molto diverso nei paesi europei, nonostante poi la certificazione e il marchio sui prodotti sia lo stesso.

In generale si rileva un aumento della pressione sulle foreste causato da un aumento della domanda di prodotti legnosi e di biomassa per scopi energetici ma anche da una sempre maggiore diversificazione di prodotti e sottoprodotti utilizzati per l’industria della bioeconomia.

In particolare gli obiettivi molto ambiziosi di traguardo sulle fonti rinnovabili hanno creato degli incentivi perversi di utilizzo massiccio di biomasse legnose, tra cui l’uso massiccio di legname per convertire le centrali a carbone in centrali di cogenerazione.

Se questo prelievo sostenuto continuasse, il ruolo stesso delle foreste europee   di mitigazione delle emissioni   potrebbe essere compromesso e le perdite di CO2 delle foreste potrebbero richieder degli sforzi ulteriori per raggiungere la neutralità climatica nel 2050.Dovremmo aumentare il già molto complesso percorso per arrivare all’obiettivo di emissioni nette di gas serra pari a zero nel 2050.

Nonostante i paesi europei dichiarino che applicano la gestione forestale sostenibile, tuttavia   forme poco sostenibili sono molto diffuse tra cui uso di specie non autoctone,   monocoltura, prelievi eccessivi, danno da meccanizzazione pesante. Queste forme di selvicoltura industriale sono aggravate dalla situazione di vulnerabilità in cui si trovano molte foreste.

Parallelamente negli ultimi anni tuttavia sono aumentato i disturbi come schianti da veneto, tempeste e attacchi parassitari su larga scala che insieme a pratiche di intensificazione dei prelievi hanno danneggiato la funzionalità e lo stato di salute di molte foreste europee, in molti casi esacerbati dal cambiamento climatico

È stata osservata una maggiore frequenza di disturbi su larga scala causati da siccità seguita da attacchi di un insetto – l’Ips typographus - che colpisce le foreste di abete rosso. Le foreste di abete rosso dell’Europa centro-orientale ed in particolare in Germania, Austria, Francia, Slovenia, Slovakia e Repubblica Ceca, sono state particolarmente colpite da danni da tempeste, siccità seguite da attacchi parassitari. Il mercato è inondato da milioni di metri cubi di prodotti legnosi di media bassa qualità.

In conclusione, l’utilizzo delle biomasse legnose per raggiungere gli obiettivi climatici non è sempre positivo e deve tener conto   di impatti diretti e indiretti sul suolo ed ecosistemi ma anche del tipo di gestione forestale attuata e in generale della funzionalità ecosistemica.

Verso un maggiore impegno collettivo

Gli attuali impegni dell’accordo di Parigi sono profondamente insufficienti per rispettare gli accordi presi, di contenimento dell’aumento della temperatura entro 1,5 C°. Secondo le stime delle Nazioni Unite è necessario quadruplicare gli impegni dei Piani clima presentati dai 190 paesi aderenti. Con gli sforzi attuali il trend di aumento della temperatura ci porterebbe a un aumento di almeno 3,2 C° entro fine secolo.

Nello stesso tempo i Piani di Ripresa post Covid-19 rappresentano una grossa opportunità ma solo meno di dieci paesi a livello globale hanno mostrato coerenza tra gli aiuti pubblici e gli obiettivi climatici. L’Italia ha una posizione non chiara: se da un lato prevede forti investimenti su fonti rinnovabili e idrogeno verde dall’altro lato non c’è un chiaro percorso di uscita della dipendenza dal gas e di eliminazione dei 18 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi.

Il dibattito pubblico non riflette l’urgenza di un cambiamento nei modelli produttivi, di consumo e negli stili di vita. Inoltre c’è un’attenzione molto focalizzata sulla tecnologia, tra cui la geoingegneria, la cattura del carbonio e l’idrogeno verde. L’idea che le tecnologie verdi, che pure sono molto importanti, risolveranno i problemi è altrettanto pericolosa.

Non c’è un vaccino per il clima e i movimenti giovanili ci ricordano che la crisi climatica non è solo economica, politica scientifica ma anche etica.

C’è una stretta finestra di opportunità per imboccare la strada giusta, in cui tutti, anche noi soci del CAAI possiamo fare la nostra parte, diventando degli ambasciatori del clima e del cambiamento. Il contributo maggiore che possiamo dare come cittadini e alpinisti è cambiare le nostre abitudini, agire nella sfera di influenza della nostra vita sociale e partecipare attivamente al dibattito pubblico chiedendo azioni concrete e immediate.

Foto 4 Faggeta Prescudin

 

 

 

 

 

 

 

3395

Contatti

Social

facebook

Sede

Club Alpino Accedemico Italiano
Via E. Petrella, 19 - 20124 Milano
P. Iva 09069800960
clubalpinoaccademicoitaliano@gmail.com