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BHAGIRATHI 4 Matteo Della Bordella ci racconta il tentativo di salita all'inviolata Parete Ovest

Lunedì, 07 Marzo 2016 20:34

Questa nostra avventura inizia il 16 Agosto, quando arriviamo a Delhi e pochi giorni più tardi, il 21 Agosto, raggiungiamo il nostro campo base, chiamato Nandanban a circa 4400 metri, luogo idilliaco immerso nel verde dei prati, tra ruscelli di acqua chiarissima e con una stupenda visuale su Kedarnath, 6940m e Shivling, 6543m.

Ci avevano detto che quest’anno il monsone era debole, ed infatti il tempo è fin da subito abbastanza buono, e le montagne sono in condizioni piuttosto secche: i primi due giorni la coda del monsone ci porta ancora umidità, nebbia e pioggia pomeridiana, poi il tempo si fa man mano più bello e caldo.

Iniziamo fin da subito a trasportare il materiale al nostro campo base avanzato, posto ad una quota di circa 5000 metri, proprio nel mezzo di questa gigantesca “conca” formata dai Bhagirathi.
Il nostro obiettivo è quello di aprire una via nuova, in arrampicata libera, sulla ancora inviolata parete Ovest del Bhagirathi 4 (6193m).
Guardando il gruppo dei Bhagirathi, a mio parete la montagna più bella ed accattivante è il Bhagirathi 3, con il suo caratteristico, misterioso e tetro anfiteatro, sbarrato in cima dalla fascia nera di scisto.
Il Bhagirathi 4 si trova in secondo piano rispetto al 3 e a prima vista sembra più piccolo e più “addomesticabile”, anche se nonostante numerosi tentativi, nessuno è ancora riuscito a salirlo! (dalla parete Ovest)
Tuttavia, per qualche strano effetto ottico l’apparenza non rispecchia la realtà…

Bhagirathi 4 line

 

Il 26 di Agosto io e Luca ci avviciniamo alla nostra parete per la prima volta, con lo scopo di portare la portaledge e altro materiale fino alla base e studiare la linea che intenderemo attaccare; Giga soffre di forte mal di gola e febbre e ci attende al campo base.
Man mano che risaliamo faticosamente lo zoccolo che porta verso la parete, ci accorgiamo che questo muro è in realtà molto più ripido di quanto ci aspettassimo, pensiamo sarà molto molto dura salire dalla linea che avevamo immaginato a tavolino in centro alla parete. Dopo i primi 200 metri verticali o leggermente appoggiati, l’inclinazione della parete cambia drasticamente e tutto diventa strapiombante per circa 500 metri fino alla fascia finale di scisto al di sotto della cima.
Tra tutte le pareti che ho visto in vita mia, mi torna subito alla mente l’immagine della mitica parete di El Capitan. Queste due pareti sono così simili, forse la cosa che le rende più simili è lo spigolo, che sporge verso l’esterno proprio come il famigerato “nose” del Capitan e divide la parete in due lati.
Ma ci saranno anche qui le fessure che ci sono sul Capitan??
L’unico modo per saperlo è provare a salire.

Dopo essere ridiscesi al campo base ed aver riposato per bene, siamo pronti per il primo vero tentativo; nel frattempo anche Giga è guarito e sarà dei nostri.
Abbiamo raggiunto il campo base da meno di 10 giorni e il nostro stato di acclimatamento non è ancora ottimale; tuttavia siamo alla base della nostra linea dei sogni e proprio Giga apre le danze.
Dopo un primo tiro di riscaldamento, la fessura nel diedro scompare e subito le difficoltà si alzano.
Non senza fatica ci dirigiamo verso sinistra e nel primo pomeriggio riusciamo a vedere bene la parte centrale della via.
I presagi non sono per niente buoni: per accedere al grande diedro, c’è una sezione leggermente strapiombante di una cinquantina di metri, senza nessuna struttura evidente, solo qualche lama staccata qua e là in mezzo alla parete liscia. Ed inoltre con l’arrivo del sole la temperatura si sta alzando e diverse pietre stanno iniziando a cadere un po’ dappertutto, anche intorno a noi. Sapevamo che questa era una parete esposta alle scariche e che questo apparentemente è stato il motivo che ha fatto fallire molti dei tentativi precedenti, ed eravamo pronti ad accettare questo rischio, tuttavia quando ti trovi in mezzo, beh, non è mai proprio piacevole! Anche se i sassi cadevano solo sulla prima parte di parete perché più in alto, grazie alla sua natura strapiombante, il grande diedro restava riparato.

Tuttavia, capiamo che questa linea è troppo difficile per il nostro stile di salita. L’idea è sempre stata quella di scalare in libera e non siamo attrezzati (e nemmeno capaci) per fare artificiale difficile e scalare in libera su quel terreno è al di sopra delle nostre capacità. (Il nostro obiettivo era anche quello di non piazzare spit, sebbene ne avessimo con noi una decina in caso di emergenza)
La sera stessa attrezziamo le doppie e scendiamo, sotto una rada pioggia di sassi, per lo più di piccole dimensioni, che cadono dalla cima, terminiamo la discesa a notte fonda, stanchi, ma illesi e sempre più acclimatati.

Ed ora che si fa?!?

Chi mi conosce e ci conosce, sa che non siamo i tipi che abbandonano così facilmente…
Il nostro ragionamento è il seguente: “dato che la linea che avevamo pensato di salire, si è rivelata troppo strapiombante e liscia per essere scalata in libera, se proviamo a salire più a destra, dove la parete sembra più appoggiata, dovremmo trovare quello che stavamo cercando: un terreno sempre difficile, ma salibile”.

Una manciata di giorni dopo, siamo di nuovo pronti per un altro tentativo, partiamo 50 metri più in basso e più a destra della volta prima. Purtroppo per questo tentativo, su 3 settimane di tempo stabile e bello, riusciamo a beccare l’unico giorno di tempo pessimo. La temperatura fin dal mattino è particolarmente rigida, ma pensiamo che col tempo possa migliorare; dopo il primo tiro però inizia ad alzarsi un forte vento, dopo il secondo tiro il cielo si copre e alla fine del terzo tiro inizia a nevicare!
Non sapendo come potrebbe essere il tempo nei giorni successivi pensiamo che non ha molto senso mettersi a bivaccare in portaledge dopo nemmeno 100 metri e quindi decidiamo di scendere per ritentare in seguito.

Una volta tornati al campo base il tempo è perfetto e questa volta, nonostante ci fosse stato espressamente vietato, decidiamo di usare di nascosto il nostro telefono satellitare per chiedere al fido Deza le previsioni del tempo. Le notizie sono ottime: alta pressione con tempo bello, stabile e caldo (relativamente caldo…) per almeno 5 giorni.

Dopo solo un giorno di riposo partiamo ancora per quello che pensiamo possa essere l’assalto decisivo.

Il 12 Settembre iniziamo a scalare e questa volta i presagi sembrano essere ottimi. Luca scala da primo per tutta la prima giornata, fino al nevaio prima della seconda parte di parete. La sua progressione è liscia ed efficace, nonostante ancora una volta ci sembra di scalare in un freezer. Quando arriva il sole anche le difficoltà si alzano e un difficile tiro di placca, nel perfetto stile #lucaschiera ci porta all’inizio del nevaio.
Decidiamo di montare la portaledge al termine superiore del nevaio, contro la parete per evitare le scariche di sassi, che nel frattempo sono cominciate a cadere.

Ci svegliamo con le prime luci e dopo aver ri-impacchetato tutto è il mio turno ad andare da primo. La temperature è ben al di sotto dello zero e sono piuttosto intimorito all’idea di scalare con questo freddo. Infatti dopo circa un paio di metri, piedi e mani sono già insensibili, la circolazione dei piedi è completamente bloccata nonostante le scarpette relativamente larghe e i calzettoni.
Per lo meno la scalata è decisamente nel mio stile: un diedro fessurato, da salire per lo più con incastri e spaccate, è un tipo di arrampicata che so di poter fare anche con roccia bagnata o mani e piedi insensibili. Tuttavia quella che con temperature accettabili sarebbe stata una divertente scalata ora si trasforma in dolore e sofferenza, ma pian piano riesco a procedere in bello stile a un buon ritmo nonostante siamo ormai intorno ai 5700-5800 metri.

5 Matteo Della Bordella assicurato da Matteo De Zaiacomo in apertura foto L. Schiera

                                                                           Matteo della Bordella in apertura assicurato da Matteo De Zaiacomo

 

Il diedro si fa sempre più ripido e la scalata si mantiene su difficoltà costanti. A un certo punto abbiamo una grande decisione da prendere: possiamo scegliere di continuare a salire dritti nel diedro ed arrivare quindi nel punto in cui lo scisto è più lungo, ma apparentemente rotto e facile, oppure prendere un ripido sistema di fessure e diedri che taglia tutta la parete verso sinistra e che porta dove la sezione di scisto ci sembra molto breve, anche se ripida.
Pensando che se andassimo a sinistra una eventuale ritirata sarebbe molto difficile per via della portaldege e dei sacchi pesanti, decidiamo di proseguire dritti, come prevedeva il nostro piano originario.

Purtroppo nell’ultima parte del diedro, il ghiaccio e la fatica mi obbligano ad abbandonare il sogno di una completa salita in libera a vista ed a ricorrere all’artificiale.

Arriviamo prima del tramonto a montare la portaledge, prima della fascia nera di scisto.

Come il sole abbandona la parete la temperatura precipita ed è solo infilandoci nella portaldge coperta dal telo che riusciamo a riposare, certo non si sta proprio comodi quando si è in 3 in una portaldge da due persone, ma ci sia arrangia…
Dovremmo essere circa a 5900 metri, più o meno a 200-250 dalla cima. Tra noi e la vetta solo la fascia di scisto nera, la grande incognita di questa montagna.

La mattina successiva è ancora più fredda della precedente, siamo più in alto e più esposti al vento, in pochi secondi le mie mani sono completamente congelate e fatico a muovere e a fare forza per smontare i pali della portaledge ed impacchettare il resto del materiale; ci impiegheremo quasi 3 ore per sistemare tutto.
Luca prende il comando, ma questa volta è decisamente troppo freddo per provare ad arrampicare e dopo qualche tentativo decidiamo di aspettare il sole. Arriva il sole e proviamo a salire sullo scisto nero marcio, prima verso destra, poi a sinistra ed infine dritti.
Non c’è modo di andare avanti, la roccia è inconsistente e si sfoglia al tattoo e, sfortunatamente, come sempre su questa parete, tutto è molto più ripido di quello che pensavamo!
Proviamo e riproviamo e valutiamo ogni possibile maniera di salire: consideriamo l’opzione di calarci in diagonale nel couloir tra il Bhagirathi 4 e il 3, ma purtroppo quest’ultimo è troppo a destra perché possiamo raggiungerlo.
Dopo qualche ora arriviamo alla conclusione che provare a salire su quel marciume sarebbe davvero troppo rischioso, a 6000 metri su una parete del genere, in un posto del genere, non si può sbagliare.

La decisione questa volta è dura da prendere e da digerire. Arrivare così vicini alla fine, dopo aver aperto 700 metri di parete, in ottimo stile e scalando bene e ritirarsi perché la roccia marcia ci impedisce di passare è come una beffa, non è facile da accettare.
Solitamente non rinuncio senza prima giocarmi ogni disperata carta che ho in mano, e se c’è da rischiare non mi tiro indietro, ma questa volta purtroppo è diverso, è tutto più difficile: il freddo, la fatica e soprattutto la roccia marcia che rende impossibile proteggersi e si rompe in mano, purtroppo non me la sento di prendere in mano la situazione e provare a salire comunque e così dopo una lunga “lotta interiore” mando giù la decisione presa di scendere.

Una volta giunti al campo base e dopo aver analizzato a mente lucida la situazione penso che alla fine la decisione presa è stata saggia. Non ho nulla da rimproverare a me ed ai miei compagni: abbiamo scalato bene, in due giorni e mezzo abbiamo fatto molta strada.

E’ un po’ come una partita di calcio in cui giochi bene, tieni in mano la partita, segni un goal e cerchi di amministrare fino alla fine, e poi all’ottantacinquesimo, con un contropiede gli avversari pareggiano e subito dopo, nei minuti di recupero, ti segnano il gol del 2-1. Un po’ tipo quell’Italia- Francia, finale degli Europei del 2000, vi ricordate?

Il bello dell’alpinismo e del nostro modo di fare alpinismo è che c’è sempre la possibilità di fallire.

Nei giorni successivi abbiamo intenzione di fare un altro tentativo su questa parete, seguendo un’altra possibile linea. Purtroppo non ne avremo l’occasione.
I giorni successive le temperature si abbassano e si mette e a nevicare, inoltre anche il mio fisico dopo 4 settimane di sforzi con carichi pesanti, mi chiede di fermarmi, facendomi uscire un fastidioso dolore all’inguine che non mi permette di camminare in salita.
Il bello di tentare obiettivo difficili è anche che spesso le chance che hai sono davvero contate.

Non so ancora se questo per noi sarà un addio o un arrivederci, sicuramente questa parete un po’ di amaro in bocca ce l’ha lasciato e la voglia di riuscire per primi a salirla con una bella via in bello stile è molto alta…Senza dubbio ancora una volta è stata una sconfitta della quale conservo un ricordo più bello rispetto a tanti altri successi.

Matteo Della Bordella – Ragni di Lecco, C.A.A.I.

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