CAAI

Club Alpino Accademico Italiano

6 ott 2007 - Convegno Nazionale di BARD - Apritori a confronto

Giovedì, 22 Ottobre 2015 17:07

APRITORI A CONFRONTO

Nella foresteria del Forte incontro Roberto Serafin, coordinatore di redazione dello “Scarpone” cui mi sento legato da un lungo, reciproco rapporto di considerazione e di stima. Mi chiede se, secondo consuetudine, butto giù quattro righe a commento dell’evento. Confesso una certa stanchezza, soprattutto in relazione all’argomento in capitolo, che so essere delicato, oltre che interessante, ricco di opinioni contrastanti, difficile. Comunque adatto a dentature più giovani o più direttamente addentro nella pratica attiva. Accetto alla condizione che possa bastare un riassunto di massima, una interpretazione libera e personale, magari condita con un po’ di fantasia. Persuaso che tra i 120 circa accademici presenti, qualcuno potrebbe certamente fare meglio o dissentire.

Apritori a confronto” è stato il tema trattato nel corso del Convegno Nazionale CAAI 2007. Un convegno che si è svolto, ricco di partecipazione e di interventi, nella spettacolare sede del Forte di Bard, in Val d’Aosta. In quel preciso punto, le fiancate montagnose della valle sono particolarmente alte e strette tra di loro, ed un cospicuo rilevamento roccioso divide in due rami il già angusto passaggio. Dei due, quello di destra, è, era, interamente occupato dal corso della Dora Baltea, l’altro, quello di sinistra, rilevato in forma di colle, la Gola di Bard, ospita l’antico borgo ed una stretta strada: la Via delle Gallie. Costruita dai Romani, negli anni di Cristo, per collegare Eporedia (Ivrea) alla regione cisalpina attraverso i valichi dell’Alpis Graia (Piccolo San Bernardo) e dell’Alpis Poenina (Gran San Bernardo). Sulla sommità del rilevamento centrale, domina la mole imponente del forte e delle sue opere accessorie, che, dopo lunga dismissione, attraverso un attento e preziosissimo lavoro di restauro e di agevolazione di fruibilità, costituisce oggi un polo museale di importanza europea incentrato sulle Alpi, sui loro aspetti culturali e di millenaria civiltà, sulla tradizionalmente povera economia e sulla notevole storia alpinistica.

Guido Magnone newGuido Magnone mentre riceve il distintivo di Socio Onorario del C.A.A.I

Sono sicuramente da tributare elogio ed ammirazione a tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito a quella realizza-zione, gratitudine a chi ha permesso che tutto ciò venisse per un giorno messo a disposizione per il nostro convegno. Dopo i preamboli di rito si sono avvicen-dati al tavolo dei relatori otto grandi alpinisti/apritori di vie sulle montagne del mondo, la cui attività ha avuto luogo dal secondo dopoguerra fino ai giorni attuali.

Il primo di essi è Guido Magnone. Oggi novantenne, torinese di nascita, francese di adozione e nazionalità, grande sporti-vo nella prima gioventù, Magnone si è poi consacrato interamente all’alpinismo di qualità e di conquista. Fu lui a scalare per primo, nel 1951, in compagnia di Lionel Terray, il Fitz Roy, nelle Ande Patagoniche, e fu lui a risolvere per pri-mo il problema della parete ovest del Dru nel 1952, utilizzando strategie e mezzi allora impensati, che crearono, insieme all’ammirazione, anche un clamoroso strascico di critiche e discussioni. Magnone è stato presentato da Pietro Crivellaro, che con abile lavoro di inter-prete, moderatore e sollecitatore, lo ha condotto a far rivivere le fasi più critiche di quella storica impresa. A Guido Magnone, è stato nell’occasione conferito il titolo di socio onorario del club.

Secondo relatore, altro nome di grande notorietà e prestigio: Alessandro Gogna. Accademico dapprima, e poi guida per professione, Alessandro Gogna, ha rievocato lo spirito che lo animava al tempo delle sue grandi aperture, metten-do in evidenza la sua iniziale vocazione dilettantistica, e stigmatizzando poi la differenza tra la connotazione di “avven-tura” che caratterizzava le aperture di un tempo, e quella di “plaisir”, cioè di più gradevole fruibilità, che ai giorni nostri sembra avere non poco successo. Non ha trascurato di richiamare alla necessità che nelle scuole di alpinismo e/o di arrampicata si continui a dare il giusto maggior peso all’aspetto classico e storico della pratica della montagna.

Fabio Palma, terzo relatore, fa parte dei Ragni di Lecco ed è uno degli arrampica-tori moderni di punta che sta spingendo a limiti incredibilmente elevati il livello di difficoltà superabile in libera. Alcune vie aperte recentemente da lui e dai suoi compagni, uno tra l’altro giovanissimo, nei gruppi del Ratikon, del Wendenstock, e sulle montagne di Sardegna, stanno imponendosi all’attenzione, all’ammira-zione, al consenso della ristretta èlite dell’arrampicata di punta mondiale. Mostra documenti filmati di alcune realiz-zazioni, e insiste, a mio avviso un po’ troppo, sull’apologia della paura e del rischio, riportandomi alla memoria alcu-ne giovanili letture a firma di famosi, romantici, un po’ sfegatati arrampicatori germanici.

MOMENTI DEL CONVEGNO

Assai più “terrestri”, o per lo meno più confrontabili con il livello di una buona parte dei presenti, mi sono sembrate le esternazioni di Nando Nusdeo, Ugo Manera, Manrico Dell’Agnola, che si sono in seguito avvicendati. Il primo, un lombardo doc, “alpinista operaio” come si è definito, probabilmen-te autodidatta; di quella specie alla quale appartennero anche i Taldo, gli Oggioni, gli Aiazzi, i Bonatti prima maniera, incol-lati per lo più a sudatissimi finesettimana, a mobilità limitata, che ha espresso il proprio potenziale di orgoglio e di capaci-tà, prevalentemente nelle Alpi centrali, ed attenendosi ai più classici e puri canoni in vigore: dal basso, in soluzione continua-ta, chiodi, martello, staffe, tanto intuito e tanto coraggio.

Il secondo, occidentale della Scuola Gervasutti, ha molti punti in comune col primo, forse una durata nel tempo più lunga, ed un amore per il duro ancor più esasperato, e più raffinato nella tecnica.

Il terzo, dolomitista, orientale, specialista di rocce difficili e di tecniche più moder-ne, fotografo eccezionale, apritore in stile classico e puro. Ammiro la sua velocità eletta a fattore di sicurezza: ha percorso in concatenamento, in una sola giornata la via Solleder-Lettenbauer e la Philipp-Flamm sulla parete nord-ovest del Civetta! Che dire: se penso che ho salito la prima nel 1961, con un bivacco, ed ho dovuto aspettare fino al 1999 per conquistarmi la seconda!

Poi ci hanno intrattenuto due autentici assi moderni.

Il primo, Rolando Larcher, un orientale, apritore su tutto il circo delle Alpi e anche fuori di vie di lungo sviluppo e di altissima difficoltà. Egli ci propone una sorta di “decalogo dell’apritore”, che riassume i principi cui si attiene personalmente, ed ai quali, sommessamente gradirebbe si attenessero anche altri. Tre punti mi hanno in particolare colpito, che partendo sempre dal basso occorre aprire arrampicando in libera con ogni sforzo, ricorrendo al chiodo o al perforatore solo in casi estremi, che comunque occorre riferire con estrema precisione e sincerità le modalità con cui si è passati, e che una volta aperta una via, al meglio, l’apritore dovrebbe saperla ripetere in libera, completando così il circolo virtuoso della propria creazione. Molto severo, o “talebano” come lo ha scherzosamente definito il buon Andrea Giorda, presentandolo.

Ancor più rigoroso mi è però parso Erik Svab, altro fortissimo accademico occidentale, ripetitore e apritore di itinerari durissimi di roccia, ghiaccio, misto e in “free tooling”. Egli sostiene la necessità di un allenamento pesantissimo, anche in palestra, per poter sviluppare al massimo grado forza e tecnica, tanto da riuscire a superare assolutamente in libera, anche in apertura, ogni itinerario di montagna. Dice Svab, spero un po’ provocatoriamente, che la “Via attraverso il pesce” dovrebbe andare a farla solo chi è sicuro di superarla in libera.

Questo è quanto, e a me sembra, che le otto esposizioni, come la quasi totalità dei commenti in sede di dibattito, possano rappresentare, più che un confronto, lo stato dell’arte e del pensiero dell’odierno impegnato andar per monti. Esposizioni tutte gradevoli e precise, che più che in confronto tra di esse, sembrano aver tracciato in tacito concerto, la storia dell’evoluzione del pensiero e dell’azione nell’alpinismo degli ultimi sessant’anni. Dallo spregiudicato spirito di rivalsa, o di recupero del tempo perduto del primo dopoguerra, al nascere e svilupparsi dei germi dell’etica, dell’auto- limitazione, di rispetto per l’ambiente, per il destino e lo spazio da lasciare ai poste-ri, nostri figli e nipoti degli anni più recenti. Con garbo, professionalità, rigore; e nella convinzione comunque che la pratica dell’Alpinismo è pratica di libertà, e quindi che nessuna opinione personale può ambire a diventare una norma. Ancorché, detta opinione, lasci trasparire evidente l’impronta di una orgogliosa, individualistica convinzione di essere quella giusta e quella meglio. Mentre per un confronto vero, quello che forse i più anziani in sala si sarebbero aspettati, sarebbe stata utile la presenza, o la viva testimonianza di alpinisti apritori d’anteguerra, come sarebbero ad esem-pio Whymper, Preuss, Cassin, Comici. Un confronto, ovviamente impossibile, e forse anche inutile sul piano etico e concettuale. Come sarebbe far correre, oggi insieme, in un granpremio di formula1 il Barone VonTrips con la sua Mercedes, e la Ferrari di Raikkonen. Un non confronto, dunque, una ribalta, semmai, di punti di vista e di convinzioni prevalentemente orientate secondo uno spirito squisitamente accademico, cioè di dilettantismo e passione, pur nell’impegno e nella dedizione che gli altissimi livelli richiedono; di rispetto della tradi-zione e dello spirito dentro i quali si mossero i nostri più illuminati predecessori. Senza perder di vista, anzi, con occhio attento ed interessato all’inarrestabile cambiare dei tempi. Punto di vista che l’Accademico potrebbe e dovrebbe opportunamente condensare in una reiterata e formale presa di posizione nei confronti di tante odierne, degeneri divagazioni. E mentre a tarda sera scendo, contento e ben pasciuto, lungo quei trasparenti ascensori panoramici, osservo gli imponenti ordini delle strutture del forte, illuminati a giorno, le più timide luci dell’antico borgo e della valle sottostanti, e provo ad immaginare un ipotetico, assurdo confronto con quei Romani della storia che intorno all’anno zero aprirono con coraggio e maestria la Via delle Gallie.

GUIDO MAGNONE

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